DUE VESPUCCI FAMOSI
- ARTE-MARE -
DUE VESPUCCI FAMOSI
PARTE PRIMA
Statua di Amerigo Vespucci – Uffizi - Firenze
AMERIGO VESPUCCI
Firenze 9 marzo 1454 – Siviglia 22 febbraio 1512
Un personaggio che fa ancora discutere …
Perché l’America si chiama così? Si dice che deve il suo nome ad Amerigo Vespucci... ma non la scoprì Colombo?
Risponde Alessandro Barbero – docente universitario di Storia Medievale
“…non voglio fare l'accademico pedante, ma debbo intervenire per amore di verità sulla risposta data dal collega Barbero al lettore che chiedeva perché l'America si chiama così ("Specchio" N. 230, 24.6.2000, pp. 45-46). In effetti, l'opinione secondo la quale: "Colombo rimase sempre convinto che le isole da lui scoperte fossero parte del continente asiatico ... non riuscì a persuadersi che quella [Venezuela] fosse davvero la terraferma d'un nuovo continente", è solo uno dei tanti gravi errori d'interpretazione della vicenda colombiana (che presenta molti più lati "oscuri", ancora oggi, di quanto non si pensi), ampiamente diffusi purtroppo anche presso gli "specialisti".
A prescindere dal fatto se Martin Waldseemüller - il geografo di Saint-Dié-des-Vosges che ai primi del '500 battezzò il Nuovo Mondo in onore del Vespucci - ritenesse sinceramente valida o no detta motivazione (sembrerebbe che fosse caduto in un involontario equivoco, dal momento che in una successiva carta del 1516 rinnegò la sua stessa proposta, eliminando ogni riferimento al nome America), e se parimenti di essa fossero in buona fede persuasi i successivi fautori di quella controversa denominazione (che ha sicuramente a che fare anche con contrapposizioni politico-religiose: i cattolici spagnoli ad esempio non la accettarono per qualche secolo, mentre la sua diffusione fu immediata nei paesi protestanti), è abbastanza facile dimostrare che siamo di fronte a una spiegazione errata, ancorchè "comoda", appunto perché dà una facile risposta a un quesito al quale non sarebbe altrimenti così agevole rispondere (le risparmio le mie personali congetture, una cui traccia si potrebbe trovare nel sito web segnalato in calce).
Cito allo scopo alcune affermazioni che la dicono lunga sulla questione, tratte da lettere di Pietro Martire d'Anghiera, un "amico personale dello scopritore", che al tempo viveva presso la corte dei re di Spagna, o meglio di Aragona e di Castiglia ("La scoperta del Nuovo Mondo negli scritti di P. M. D'A.", Nuova Raccolta Colombiana, Comitato Nazionale per le Celebrazioni del V Centenario della Scoperta dell'America, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Vol. VI, Libreria dello Stato, Roma, 1988, p. 6):
1 - lettera del novembre 1493 ad Ascanio Sforza: "Quel Colombo, scopritore di un NUOVO MONDO, nominato dai miei Re capo del mare Indiano" (loc. cit., p. 47);
2 - lettera del 20 ottobre 1494 a Giovanni Borromeo: "Di giorno in giorno, notizie sempre più straordinarie sono riportate dal NUOVO MONDO, grazie a quel ligure Colombo, nominato Ammiraglio dai miei Re per le sue imprese portate a buon fine" (loc. cit., p. 49).
3 - lettera scritta il 9 agosto del 1495 al Cardinale spagnolo Bernardino de Carvajal: "[Colombo] venne a sapere attraverso i suoi interpreti indigeni ... che in nessun luogo si interrompeva la terra: sa dunque per certo che si tratta di un continente" (loc. cit., p. 73).
Parole che non lasciano adito a dubbi. Come vede, si parla sin da subito di un NUOVO Mondo (novembre 1493; Colombo aveva fatto ritorno dal suo primo viaggio nel mese di marzo), e sin da subito fu altresì chiaro che questo Nuovo Mondo era un intero continente. È vero infatti che l'ultimo brano citato è del 1495, ma bisogna tenere conto del fatto che Colombo fece rientro a Cadice, al termine del suo secondo viaggio (iniziato nel settembre 1493), soltanto nel giugno del 1496!
Il continente asiatico, si potrebbe in effetti replicare, ma allora perchè chiamarlo "Nuovo Mondo"? E comunque, accettata pure questa ipotesi, risulterebbe di conseguenza alquanto improbabile che Colombo potesse escludere in modo assoluto che quella da lui toccata nel corso delle esplorazioni successive "fosse davvero la terraferma" di un tale, più "vecchio" che non "nuovo", continente.
A complicare le cose, c'è da aggiungere un'informazione assai poco nota, che dà spazio a nuove congetture sul quadro concettuale in cui le terre scoperte venivano collocate, almeno da parte di persone appartenenti a certi particolari "ambienti". L'esistenza di un "continente sconosciuto" dislocato di fronte alle coste occidentali europee ed africane era stata infatti prevista circa due secoli prima dal famoso Raimondo Lullo ("Quodlibeta", Questione 154, Tomo IV), un autore che Colombo conosceva bene:
"La principale causa del flusso e del riflusso del Mar Grande o del Mar d'Inghilterra è l'arco dell'acqua del mare che a ponente appoggia o confina in una terra opposta alle coste dell'Inghilterra, Francia, Spagna e di tutta la confinante Africa, nella quale gli occhi nostri vedono il flusso e riflusso delle acque perché l'arco che forma l'acqua come corpo sferico è naturale che abbia appoggi (confini) opposti su cui posare, poiché altrimenti non potrebbe sostenersi. Per conseguenza, così come in questa parte appoggia sul nostro continente, che vediamo e conosciamo, nella parte opposta di ponente appoggia sull'altro continente che non vediamo e non conosciamo fino ad oggi; però per mezzo della vera filosofia, che riconosce ed osserva mediante i sensi la sfericità dell'acqua ed il conseguente flusso e riflusso, il quale necessariamente esige due sponde opposte che contengano l'acqua tanto movimentata e siano i piedistalli del suo arco, si inferisce logicamente che nella parte occidentale esiste un continente nel quale l'acqua mossa va ad urtare così come rispettivamente urta nella nostra parte orientale".
Questa speculazione, che fu a lungo oggetto di meditazione, anche se "riservata", da parte di tutti gli "addetti ai lavori" (e certo non minore fonte di ispirazione per la stessa impresa di Colombo, il quale andava a cercare tutt'altro che una nuova rotta per la Cina, portandosi dietro specchietti e perline non certo per i civilissimi cinesi descritti nel "Milione" di Marco Polo!), mostra che gli autentici retroscena di una così importante vicenda, giustamente prescelta a segnare il confine tra Medioevo ed Età Moderna, sono completamente ignorati dalla superficiale "vulgata" corrente, e che invece di accontentarsi di sbrigative spiegazioni come quella precedentemente discussa, molto più bisognerebbe ancora riflettere ed approfondire...
UN PO’ DI STORIA:
AMERICA, STORIA DI UNA PAROLA.
Come abbiamo appena letto, fu il cartografo tedesco Martin Walseemüller a battezzare (con qualche dubbio sollevato dal prof.Barbero) AMERICA l’intero continente in onore di Amerigo Vespucci. In un volume del 1507, Cosmographiae introductio, che riportava in 12 fogli una mappa del mondo allora conosciuto (o immaginato), Waldseemüller scrisse “America” sulle terre che s’erano appena cominciate a scoprire. Merito del Vespucci era d’aver capito la “nuova geografia” novità alla quale aveva dato nome MONDUS NOVUS. Nel 1650 i coloni usavano America per indicare soltanto le colonie britanniche del Nord. E risale al 1781 l’uso d’indicare con America soltanto gli Stati Uniti.
Ma poiché America designava un continente, il termine Americani fu (anche) riferito ai suoi abitanti originari, quelli che Colombo aveva chiamato INDIANI. A metà del Settecento, Americani erano gli Indiani per il saggista inglese Joseph Addison, che chiamava invece “Inglesi trapiantati” i coloni. Ma già nel 1697 Cotton Mather, grande esponente degli ambienti puritani della Nuova Inghilterra, si era servito della forma “americano” per indicare se stesso e i suoi concittadini.
La definizione “Stati Uniti d’America” appartiene infine a Tom Paine, uno dei padri dell’Indipendenza. “Siamo sovrani in quanto Stati – aveva scritto - il nostro grande titolo è di essere AMERICANI”.
Nel 1791 George Washington inserì l’abbreviazione U.S. E compare nel 1795 la sigla (odiata o amata che sia) ormai a tutti: U.S.A.
LA CARACCA DEL NAVIGATORE AMERIGO VESPUCCI
La caracca: Si tratta di un bastimento di alto bordo e di gran portata a quattro o cinque coperte, con due castelli uno a poppa e l'altro a prua, tre alberi, vele quadre, gabbie, parrocchetti, la mezzana latina. La sua portata è di 2.000 tonnellate. Veniva usata da tutte le nazioni, ma particolarmente da Genovesi e Portoghesi, per il traffico e qualche volta anche in guerra.
Il castello, sia a prua che a poppa, è una sovrastruttura leggera, praticamente una piattaforma, circondata da una balaustra o da un grigliato per non pesare sulle estremità della nave.
Inizialmente era fornita di due soli alberi, quello di maestra e quello di mezzana. La spinta maggiore viene naturalmente dalla vela più grande, una sola vela quadra sull'albero di maestra.
Con il tempo le viene apportata una modifica e viene aggiunto un terzo albero. E' da tener presente che ogni albero ha una sola vela ed è quadra. Le manovre dipendono dalle due vele più piccole, quella dell'albero di mezzana e quella dell'albero di trinchetto.
Successivamente anche le vele vengono modificate. Viene aggiunto un pennone al bompresso sul quale viene issata una vela quadra e sopra la maestra viene innalzato un alberetto sul quale è infierita una vela di gabbia, sempre quadra.
I viaggi in America
(Riassunto breve da Wikipedia)
Primo viaggio (1497-1498)
Vespucci partecipò al viaggio di esplorazione con Juan de la Cosa. Il probabile comandante di questa spedizione fu Juan Diaz de Solis. Probabilmente fu il re Ferdinando II d’Aragona a volere questa spedizione, per rendersi conto se la terraferma fosse realmente distante dall'isola di Hispaniola e avere così una visione più ampia e precisa delle nuove terre.
Secondo viaggio (1499-1500)
Vespucci partecipò a una spedizione guidata da Alonso de Ojeda. Nella spedizione vi era anche il cantabrico Juan de la Cosa, famoso pilota e cartografo. Dopo aver toccato terra in corrispondenza dell'odierna Guyana, i due si separarono. Amerigo continuò verso sud fino a toccare la foce del Rio delle Amazzoni, all'incirca a 6° S. Successivamente Vespucci proseguì verso sud fino al Cabo de São Roque, circa 30 km a nord dell'odierna città di Natal. Quindi la spedizione rientrò verso nord riconoscendo l’isola di Trinidad e il fiume Orinoco prima di fare ritorno in Spagna.
Terzo viaggio (1501-1502)
In questo periodo, Amerigo viaggiò al servizio del Portogallo. Nel 1501 prese parte a una spedizione comandata da Goncalo Coelho. Prima di giungere nelle Americhe, la spedizione si era fermata alcuni giorni nelle isole di Capo Verde ed aveva incrociato le navi di Pedro Alvares Cabral, esploratore portoghese di ritorno dal suo viaggio in India. A Capo Verde Vespucci conobbe l'ebreo Gaspar da Gama che gli descrisse i popoli, la fauna e la vegetazione dell’India. Comparando questo racconto con quello che poi osservò, giunse nel 1501 alla conclusione che le terre che stava visitando non potevano fare parte dell’Asia ma costituivano quello che lui definì il NUOVO MONDO.
Quarto viaggio (1503-1504)
Nel suo quarto viaggio, sempre comandato dai portoghesi, Vespucci individuò un'isola situata nel bel mezzo dell'oceano che fu successivamente battezzata Fernando de Noronha, in onore di uno dei componenti dell'equipaggio. Quindi la spedizione continuò verso le coste dell'attuale Brasile, ma non ci furono importanti scoperte.
da Wikipedia:
Amerigo Vespucci osservava attentamente il cielo, e la notte del 23 agosto del 1499, durante il suo secondo viaggio scrisse:
«In quanto alla longitudine dico che per conoscerla incontrai moltissima difficoltà che ebbi grandissimo studio in incontrare con sicurezza il cammino che intraprendemmo. Tanto vi studiai che alla fine non incontrai miglior cosa che vedere e osservare di notte la opposizione di un pianeta con un altro, e il movimento della luna con gli altri pianeti, perché la Luna è il più rapido tra i pianeti come anche fu comprovato dall'almanacco di Giovanni da Monteregio, che fu composto secondo il meridiano della città di Ferrara concordandolo con i calcoli del Re Alfonso: e dopo molte notti passate ad osservare, una notte tra le altre, quella del 23 agosto 1499, nella quale vi fu una congiunzione tra la Luna e Marte, la quale congiunzione secondo l'almanacco doveva prodursi a mezzanotte o mezz'ora prima, trovai che all'uscire la Luna dal nostro orizzonte, che fu un'ora e mezza dopo il tramonto del Sole, il pianeta era passato per la parte di oriente, dico, ovvero che la luna si trovava più a oriente di Marte, circa un grado e qualche minuto, e alla mezzanotte si trovava più all'oriente quindici gradi e mezzo, dimodoché fatta la proporzione, se le ventiquattrore mi valgono 360 gradi, che mi valgono 5 ore e mezza? Trovai che mi valevano 82 gradi e mezzo, e tanto distante mi trovavo dal meridiano della cidade de Cadice, dimodoché assignando cada grado 16 e 2/3 leghe, mi trovavo 1374 leghe e 2/3 più ad occidente della cidade de Cadice.» |
«La ragione per la quale assegno ad ogni grado 16 leghe e 2/3 è perché secondo Tolomeo e Alfagrano, la Terra ha una circonferenza di 6.000 leghe, che ripetendosi in 360 gradi, corrisponde ad ogni grado a 16 leghe e 2/3 e questa proporzione la provai varie volte con il Punto Nave di altri piloti cosicché la incontrai vera e buona.» |
In seguito a questi ragionamenti vari astronomi e cosmografi dell'epoca e delle epoche successive riconobbero che Vespucci aveva inventato come verificare una longitudine con il metodo della distanza lunare. Ad esempio nel 1950, l'astronomo del Vaticano, il professor Stein, disse: «Mi meraviglia che fino ad oggi nessuno abbia verificato le osservazioni fatte da Vespucci nella notte del 23 agosto 1499, dove calcolava la posizione relativa di Marte e della Luna in quell'epoca». Da tutto ciò si evince che Vespucci sapeva benissimo dove si trovasse, ed era in grado più di ogni altro di fare il punto nave con precisione.
FONTI DELL’AUTORE:
IL TRATTATO DI TORDESILLAS di Carlo GATTI
https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=397;tordesillas&catid=36;storia&Itemid=163
STRETTO DI MAGELLANO di Carlo GATTI
https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=403;mag&catid=36;storia&Itemid=163
COCCA, CARAVELLA E CARACCA di Carlo GATTI
https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=669;crisco&catid=36;storia&Itemid=163
Tutto in – La risposta a ciò che cerchi.
Wikipedia – Amerigo Vespucci
Treccani – Vespucci Amerigo
Tuscanypeople-Amerigo Vespucci, il grande controverso Navigatore Fiorentino
I Percorsi della Storia-Atlante - I Percorsi della Storia-Manuale (2 volumi)
Istituto Geografico De Agostini – Corriere della Sera
PARTE SECONDA
SIMONETTA VESPUCCI
della dinastia Cattaneo – Genova, fu una gentildonna tra le più note del Rinascimento
Genova 28.1.1453 - Piombino 26 aprile 14756
Fu la modella di Botticelli per la Nascita di Venere
Nascita di Venere di Botticelli, Galleria degli Uffizi (1482–1485 ca.).
Primavera di Botticelli, Galleria degli Uffizi, (1482 ca.).
Flora, l'allegoria della primavera stessa. Essa, vestita di fiori e cinta con girlande fiorite, annuncia l'arrivo della nuova stagione. Qualcuno ha supposto, senza base documentaria, che possa essere il volto di Simonetta
UN PO’ DI STORIA:
Della bella Simonetta Vespucci s’innamorò perdutamente Giuliano de’ Medici, fratello di Lorenzo il Magnifico. Ricordiamo, per la cronaca che Giuliano fu pugnalato a morte nella famosa Congiura dei Pazzi, il 26 aprile 1478 alle 13.30, nella chiesa di Santa Maria del Fiore – Firenze.
La bella Simonetta convolò a nozze nell’aprile del 1469, appena sedicenne, con il giovane sposo Marco VESPUCCI, cugino del famoso navigatore Amerigo Vespucci, nella chiesa gentilizia genovese di San Torpete (foto sopra), alla presenza del Doge di Genova e di tutta l’aristocrazia cittadina.
“Il giovane sposo era da poco stato inviato dal padre Piero a Genova per studiare i sapienti ordinamenti del Banco di San Giorgio, con cui aveva stretti rapporti lo stesso Jacopo III e di cui era procuratore appunto Gaspare Cattaneo, che nel 1464 era stato testimonio della dedizione di Genova a Francesco Sforza, duca di Milano. Marco Vespucci, accolto dai Cattaneo, si era innamorato perdutamente della bella Simonetta e il matrimonio era stato una logica conseguenza, visto l'interesse dei Cattaneo a legarsi con una potente famiglia di banchieri fiorentini, intimi dei Medici. La recente caduta di Costantinopoli e la perdita delle colonie orientali aveva infatti particolarmente colpito economicamente e moralmente la famiglia Cattaneo”.
L’arrivo della coppia a FIRENZE (città di VESPUCCI), coincise con la nomina di Lorenzo il Magnifico a capo della Repubblica. Gli sposi furono accolti nel Palazzo Medici di via Larga e seguirono festeggiamenti sontuosi nella Villa di Careggi.
“L'apice si raggiunse con il "Torneo di Giuliano", un torneo cavalleresco svoltosi in Piazza Santa Croce nel 1475. Qui Giuliano de' Medici, secondo quanto immortalato dal poemetto Stanze per la giostra di Giuliano de’ Medici di Angelo Poliziano, promise e dedicò la vittoria a Simonetta, presente tra il pubblico. Portò uno stendardo, che si ipotizza dipinto dal Botticelli e che raffigurava Simonetta nei panni allegorici di Venere-Minerva con ai piedi Cupido incatenato ed il motto “La sans” par scelto personalmente da Lorenzo. Simonetta fu la trionfatrice e venne proclamata "regina del torneo", offrendo personalmente a Giuliano il premio della giostra, un elmo di squisita fattura realizzato nella bottega del Verrocchio. La sua grazia aveva ormai conquistato tutti a Firenze, in primis Giuliano diventato suo amante. Dopo la morte di Simonetta, Giuliano ebbe una sola relazione con una dama fiorentina: Fioretta Gorini della famiglia dei Pazzi, che gli darà anche un figlio, Giulio il futuro pontefice Clemente VII. Il Pulci le dedicò alcuni sonetti e anche il Magnifico la celebrò nelle sue “SELVE D’AMORE”.
LA MORTE colse Simonetta Vespucci il 26 aprile 1476, a l’età di soli ventitré anni, a causa di tisi o polmonite. Indagini successive conclusero che Simonetta fosse in realtà affetta da adenoma ipofisario con secrezione di prolattina ed ormone della crescita, era sicuramente sterile e che l'aumento di volume del tumore la condusse alla morte.
Nella letteratura
Simonetta fu ricordata e celebrata da Giosuè Carducci nella prefazione: Stanze per la giostra del Poliziano.
Anche Gabriele D’Annunzio l’ha immortalata nel suo Alcyone.
«O Toscana, o Toscana,
|
Aprile infatti è il mese in cui Simonetta morì.
FONTI:
Il Primo Quattrocento n.5 - Il Rinascimento n.6 - Enciclopedia dell’Arte Universale-36 Volumi-Corriere della Sera
Conoscere i Grandi Musei-Ist.Geografico De Agostini-Novara/Uffizi-Firenze - 6 Volumi
Carlo GATTI
Rapallo, 13 Aprile 2022
RAPALLO NELLA STORIA NAVALE
RAPALLO NELLA STORIA NAVALE
Fonte: Il Mare
Rapallo - Sullo sfondo la nave ORONTES che il 22 maggio 1933 diede fondo l’ancora nel nostro golfo. La nave ospitava 400 passeggeri inglesi che alle ore 8 sbarcarono a Rapallo, ripartendo lo stesso giorno alle ore 16. Molti di questi facoltosi passeggeri fecero visita e giocarono al campo Golf di Rapallo.
La ORONTES nel Tigullio
Le foto della ORONTES ancorata nel golfo di Rapallo appartengono alla collezione Sergio Schiaffino che ringrazio
STORIA DI UNA NAVE
“ORONTES”
Questa nave fu l’ultima di una serie di cinque navi da 20.000 tonnellate che furono costruite negli Anni ’20 per la celebre Compagnia Marittima inglese ORIENT LINE in servizio sulla linea dell’Australia. Le altre erano: ORAMA (1924), ORONSAY e OTRANTO (1925), la ORFORD (1928).
La Peninsular and Oriental Steam Navigation Company , meglio conosciuta con le lettere P&O, fu fondata a Londrannel 1837 da due uomini d'affari e politici britannici Brodie McGhie Willcox e Arthur Anderson e dal capitano Richard Bourne. Era la più antica società di crociere e le principali compagnie di navigazione sin dalla sua fondazione nel xix ° secolo, che opera in particolare nel Mediterraneo, sulla rotta per l’India, l’Estremo Oriente e l’Australia. A dominare la spedizione sulla strada est, ha giocato un ruolo importante nella emigrazione europea in Australia nel xix ° secolo e xx ° secolo. È stata anche pioniera nel mercato crocieristico in cui ha continuato ad operare sin dal suo assorbimento nel GRUPPO CARNIVAL, leader mondiale nel settore.
La ORONTES fu costruita Barrow nel Cantiere Vickers-Armostrong. Fu varata il 26 febbraio 1929 e fu completata a luglio. Partì da Londra per il suo viaggio inaugurale diretta a Brisbane il 26 ottobre di quell’anno.
Barrow-in-Furness o, più semplicemente Barrow (ca. 60 000 ab.) è un borgo nella contea inglese della Cumbria, sulla penisola di Furness, della quale è il centro abitato più popoloso. Affacciata sul Mar d’Irlanda, è situata circa 50 km a nord di Blackpool. La città appartenne, fino al 1974, alla contea storica del Lancashire.
La ORONTES era un’elegante e molto attraente nave passeggeri come le sue gemelle (near-sisters). Lo scafo aveva la poppa ad “incrociatore” e la prua elegante e affilata per la sua epoca al contrario delle altre sue gemelle che avevano una prua più verticale. Ben disegnate e proporzionate erano le sovrastrutture con due ciminiere molto slanciate. Indovinate per capacità di trasporto delle sei stive destinate su distanze notevoli.
La ORONTES realizzò con successo le prove per il rodaggio di tutti i suoi macchinari, dopo il suo arrivo a Southampton partì per un particolare charter. Insieme alla Orford diventarono ufficialmente le due navi OSPITI del Trofeo Schneider “air race” tenutosi a Calshot nel 1929 dove le fu concesso un eccellente punto di osservazione.
Trascorse un periodo crocieristico di rodaggio “Shakedown”, nel 1934 venne in Mediterraneo con un nutrito programma di visite promozionali per il turismo inglese e fu in questa occasione che visitò il GOLFO TIGULLIO del quale sono rimaste alcune fotografie che pubblichiamo a breve. Possiamo anche aggiungere che sul finire della crociera la nave incaglio, senza gravi danni a Gallipoli.
Nei primi mesi della guerra continuò i viaggi per l’Australia sfruttando la sua buona capacità di trasporto passeggeri, ma soprattutto di carico nelle sue stive per cui divenne molto popolare e richiesta da quelle parti.
Nell’aprile del 1940 fu requisita dalla U.K. per il “trasporto Truppe”. Il suo primo viaggio in questo suo nuovo ruolo bellico, strano a dirsi, fu il trasporto truppe dall’Australia a Singapore.
Quando la nave ritornò in U.K. ebbe una frenetica attività di “trasporto militari” verso il Medio Oriente, spesso accoppiata con altre navi passeggeri.
Verso la fine del 1942 la ORONTES fu fortemente impegnata nella Campagna del Nord Africa nello sbarco a Orano delle truppe alleate.
In qualche occasione trasportò anche mezzi da sbarco anfibi per cui gli sbarchi dei militari venivano effettuati con molta rapidità.
Nel luglio del 1943 la nave ebbe una parte molto attiva nello sbarco degli Alleati in Sicilia, presso la spiaggia di Avola. Durante queste operazioni militari si trovò spesso sotto attacco di aerei nemici. Ma riuscì sempre a cavarsela.
Si distinse anche negli sbarchi degli Alleati a Salerno.
Più tardi fu impiegata nuovamente per il trasporto truppe su lunghe distanze: Bombay in particolare.
Nel 1945 ritornò in Estremo Oriente, sia in Australia sia per trasporto truppe francesi a Saigon.
Infine fu impiegata per il rimpatrio dei prigionieri di guerra in U.K.
Nell’aprile del 1947 la ORONTES concluse il suo periodo come “nave militarizzata”. Durante i suoi sette anni sotto il controllo governativo, ha percorso 370.000 miglia e trasportato circa 125.000 soldati.
Nel periodo 1947-48 la nave fu sottoposta ad importanti lavori di “reconditioning” e ammodernamento degli interni presso il Cantiere Thornycroft di Southampton.
Nel giugno 1948 riprese stabilmente i suoi viaggi per l’Australia e nel 1953 fu convertita esclusivamente in nave passeggeri – classe unica – destinata al trasporto di allevatori per l’Australia e Nuova Zelanda.
La ORONTES partì per il suo ultimo viaggio da Tillbury per l’Australia il 25 novembre 1961 ed al ritorno fu tolta dal servizio.
Fu infine venduta ad una ditta spagnola di demolizione. Il 5 marzo 1962 arrivo a Valencia e lì terminò la sua FORTUNATA vita di mare.
Tre delle quattro navi gemelle: ORAMA, ORONSAY e ORFORD furono dichiarate:
“perdite di guerra”.
Fonte:
BEKEN OF COWES (fotograph) – OCEAN LINERS - By Philip J. Fricker
Libera traduzione di Carlo Gatti
Rapallo, 6 Aprile 2022
LA TRAGEDIA DEL "MONTELLO" DISSOLTO IN UNA PALLA DI FUOCO
LA TRAGEDIA DEL "MONTELLO" DISSOLTO IN UNA PALLA DI FUOCO
Introduzione di Carlo GATTI
Ogni tanto mi capita di ritagliare articoli di Storia marinara che conservo in un cassetto per poi approfondire, arricchire, ricostruire e pubblicarne la rivisitazione sul nostro sito. Della tragedia del MONTELLO presi coscienza ai tempi del Nautico di Camogli quando me ne parlò un mio compagno di scuola che in quella tragedia perse un parente a lui molto caro.
Di quel tragico capitolo di storia nostrana: nave costruita a Riva Trigoso, Armatore Genovese, Equipaggio rivierasco, non ne sentii più parlare per molti decenni. A risvegliare in me quel ricordo fu una pagina ormai ingiallita del Secolo XIX, che in data 3 giugno 2011, in occasione del 70° anno della tragedia del MONTELLO, pubblicò con la firma del giornalista Roberto Pettinaroli e che conservai come una reliquia nell’attesa di recuperare i nomi dello sfortunato equipaggio.
Purtroppo, quasi subito, mi resi conto che esistevano solo notizie frammentarie sul tragico evento bellico nel quale fu colpita la nave genovese. L'articolo di Pettinaroli è quindi l'unica fonte a me nota, ed oggi ve la propongo in versione integrale perchè merita di essere letta e meditata non solo per la precisa e puntuale narrazione storica, ma anche e soprattutto per il linguaggio “marinaro” usato che solo un rivierasco di razza può permettersi. Aggiungo infine che l’atmosfera, purtroppo tragica che lo impregna, è figlia del coinvolgimento emotivo e nostalgico dell’autore di cui soltanto sul finire del racconto si può oggettivamente comprenderne tutte le motivazioni che vi lascio intuire.
Confido nei nostri Amici “conservatori” dei Musei Marinari della Riviera che forse potranno recuperare i nomi e cognomi dello SFORTUNATO EQUIPAGGIO del MONTELLO affinché possa rimanere viva la memoria dei loro nomi e cognomi non solo presso i loro discendenti, ma anche nelle pagine della storia locale della nostra Riviera.
7 dicembre 1926 - VARO DEL PIROSCAFO MONTELLO al Cantiere navale di Riva Trigoso
di Alberto PETTINAROLI
E’ UNA MATTINA già calda davanti alle coste dell’Africa settentrionale. Il sole è quasi all’orizzonte e l’aria è tiepida, come dev’essere all’inizio di giugno. Il convoglio AQUITANIA, con il suo incedere lento e sicuro, è arrivato quasi a destinazione e procede compatto, in parallelo rispetto al litorale tunisino.
E’ partito nel pomeriggio di due giorni fa da Napoli e oggi – 3 giugno – sta solcando, via canale di Sicilia, le acque del Mediterraneo meridionale, diretto a Tripoli. Come sempre in queste missioni, la formazione è stata a lungo studiata dallo stato maggiore della Marina. Il convoglio è composto dai piroscafi Aquitania, Caffaro, Nirvo, Beatrice Costa, Montello e dalla cisterna Poza Rica. A scortarli, quattro cacciatorpediniere (Aviere, Camicia Nera, Geniere, Dardo) e la torpediniera Missori. La protezione a distanza è fornita dalla VIII Divisione Navale, rappresentata dagli incrociatori ABRUZZI E GARIBALDI. Un apparato di sicurezza imponente, con un compito preciso: scortare la spedizione e tenere alla larga possibili pericoli. Il carico più vulnerabile e prezioso procede in mezzo: tra questi c’è il “MONTELLO”, stipato all’inverosimile, nelle sue stive, di benzina, munizioni ed esplosivi. Carburante e proiettili ed esplosivi. Carburante e proiettili – in tutto, 4.500 tonnellate – sono destinati alle nostre truppe impegnate nel teatro d’operazioni libico. E’ la primavera del 1941 e l’Italia intera è mobilitata nel tentativo di assecondare le ambizioni imperialiste del suo duce. In questo periodo, le sempre più pressanti richieste di rifornimento di combustibili e munizioni per il fronte libico si intensificano, se possibile, ancor più. E a giugno il valore dei materiali trasportati raggiunge una delle cifre più alte di tutta la guerra, 100 mila tonnellate, con perdite nell’ordine del 6 per cento dei quantitativi partiti.
Accade, così, che non solo i soldati abili e arruolati, ma anche i civili in grado di servire alla bisogna vengano militarizzati e spediti a far la loro parte per assicurare alla patria un posto al sole e – soprattutto – un invito al banchetto dei grandi d’Europa che si preparano a spartirsi il mondo. Anche le navi, come gli uomini, subiscono la stessa sorte. E’ un regio decreto del 13 luglio 1939 a permetterlo e in base a questa legge cambia lo status giuridico delle unità navali, che da navigli mercantili si trasformano in unità belliche. Il “Montello” non costituisce un’eccezione. Viene requisito dal ministero della Marina e militarizzato con tutto il suo equipaggio. Il piroscafo è stato costruito a Riva Trigoso e varato il 17 dicembre 1926 su ordine della compagnia di navigazione “Alta Italia” di Genova (poi diventerà Nai) la società armatrice. Il Montello non è una nave attrezzata per operazioni belliche: è solo un mercantile. Lungo 116 metri, largo 16,6 nel punto massimo, alto al ponte di coperta 8,26, ha una stazza di 6.117. Prima dell’entrata in guerra dell’Italia è sempre stato utilizzato per movimentare merci da e per il porto di Genova, sulle rotte del Mediterraneo.
E anche in seguito, dopo la sua militarizzazione, ha fatto la spola tra le sponde del grande mare per trasferire derrate alimentari e apparecchiature a chi combatteva sul “bel suol” africano. Ma questa volta è diverso. Stavolta non si tratta di un viaggio come gli altri: la plancia della nave è satura di liquido altamente infiammabile ed esplosivi e tutti e 33 gli uomini che il piroscafo ha imbarcato per questa missione sono perfettamente consapevoli che la spedizione è ad altissimo rischio. Per questo il piroscafo ha una scorta così robusta, anche se le misure di sicurezza rischiano di attirare il nemico. Non si è faticato, comunque, a mettere insieme l’equipaggio da imbarcare: c’è la guerra e ci sono madri, mogli e figli, a casa, che aspettano lo stipendio per tirare avanti. Quando si ha chiara la percezione del pericolo che si corre, ogni minuto “pesa” come un’ora e ogni ora come un giorno. Ma adesso, a bordo, la tensione inizia a stemperarsi. La costa tunisina è in vista già da tempo e il secondo di coperta ha appena dato l’ordine all’equipaggio di sfilare i giubbotti di salvataggio.
“Nostromo, dove ci troviamo esattamente?”. “Secche di Kerkennah”. Tripoli, il porto, la salvezza ormai sono lì, a portata di mano. Un gabbiano in volo radente va a posarsi sul castello di prua. Un marinaio lo osserva e scruta l’orizzonte. Sta pensando a casa. Grazie Signore, forse è davvero finita, forse l’abbiamo fatta. Intanto il suo sguardo abbraccia Kerkennah (Cercara, in italiano), un gruppo di isole pianeggianti – l’altitudine massima è 12 metri – fra le Pelagie e la costa orientale tunisina, davanti a Sfax, abitate in origine da popolazioni libico-berbere. Proprio un bel posto per vivere. Quel marinaio non sa, non può sapere che un ricognitore inglese ha avvistato il convoglio nelle ore antimeridiane a sud di Pantelleria e ha allertato una squadriglia di cinque bombardieri che, nel frattempo, si è già alzata in volo da Malta. La squadriglia avvista il convoglio intorno alle 14 grazie anche alla bassa velocità (8 nodi) dei piroscafi. In un primo momento gli aerei alleati si tengono a distanza, perché sopra il convoglio incrociano due Cr-42. Alle 14.30 gli apparecchi da caccia si allontanano lasciando nel cielo solo un Cant Z501 che segue a prora le navi in ricognizione antisommergibile. Alle 14.54 gli aerei inglesi entrano in azione. Vengono avvistati a una distanza di circa 4 mila metri, a dritta, poco lontani dalla direzione del sole. Sono cinque, in formazione a triangolo e volano bassissimi, a una quota di circa 50 metri sul mare. Il comandante della flottiglia di scorta al convoglio - che si trova in latitudine 35° 25’ 30” Nord, longitudine 11° 57’ 30” Est – dà l’allarme e chiede l’intervento degli aerei da caccia, mentre tutte le unità e i piroscafi aprono il fuoco con le mitragliere. Ma il loro tiro è difficoltoso perché gli apparecchi arrivano controsole e volando a una quota così bassa, sono seminascosti dagli scafi delle unità navali. Un rombo di motori e gli aerei piombano sulla verticale dei piroscafi. Sganciano il loro carico di morte e un attimo si scatena l’inferno. Il “MONTELLO” è centrato in pieno da una bomba. Terrificante la testimonianza di un guardiamarina imbarcato sulla Missori, una delle cinque torpediniere di scorta:
“Uno scoppio terribile, un’enorme fiammata e il “MONTELLO” è scomparso in una palla di fuoco. Una visione che rivedremo poi nel fungo dell’atomica a Hiroshima e Nagasaki. L’esplosione improvvisa delle munizioni di cui era carica la nave è stata così violenta da causare la caduta di uno degli aerei inglesi, risucchiato dal vortice di calore, e di una miriade di schegge di ogni forma e dimensione che hanno seppellite – colpendole – le navi del convoglio. Tutti siamo rimasti attoniti e sconvolti: la nave è sparita in meno di dieci secondi, letteralmente dissolta in aria. E con la nave tutto il povero equipaggio”.
Storditi da quanto è appena avvenuto, i marinai della torpediniera trovano comunque il modo di ripescare e portare in salvo i due aviatori inglesi dell’apparecchio abbattuto.
Per i 33 marinai del “MONTELLO” (marittimi e militari addetti alla mitragliera) non c’è scampo. Alcuni abitano nel Tigullio. Uno di loro si è trasferito qualche anno prima con la moglie e i tre figli a Lavagna da Marciana Marina (Isola d’Elba) per essere più vicina a Genova e agli imbarchi. Al lavoro, al pane. Si chiama Guido Casabruna, ha 37 anni, è fuochista addetto alla caldaia a carbone del “Montello”.
Guido Casabruna era mio nonno: il nonno che non ho mai conosciuto, il nonno che si è dissolto in una palla di fuoco, il nonno che si è fatto sole sopra le secche di Kerkennah. Oggi, settant’anni dopo quel giorno, il fiore che idealmente le famiglie dei 33 uomini del “Montello” affideranno al mare, perché le onde lo cullino dolcemente fino a Kerkennah, è il fiore del ricordo, che è più forte del tempo e dello spazio. Della guerra, della morte. Il ricordo è il messaggio in bottiglia destinato ai 33 uomini del “Montello”, mandati a morire in acque lontane per un assurdo sogno di conquista. Dice semplicemente no, nessuno di voi è stato dimenticato.
pettinaroli@il secoloXIX.it
IL SECOLO XIX
Venerdì 3 giugno 2011
Roberto Pettinaroli è nato a Lavagna (Genova) il 16 luglio 1962. Sposato, una figlia, è giornalista professionista dal 1988. A 16 anni ha iniziato a collaborare con il quotidiano genovese “Il Lavoro”. Nel 1982 è passato al “Secolo XIX” di Genova, della cui redazione di Chiavari è stato per 13 anni (dal 1992 al 2005) vice responsabile. Attualmente lavora nella redazione genovese come caposervizio dello staff di Cronaca.
ALBUM FOTOGRAFICO
A cura di Carlo Gatti
IL “MONTELLO” sullo scalo del cantiere di Riva Trigoso.
(Archivio Carlo Gatti)
La cartina mostra una rotta tipica dei convogli italiani destinati in Tunisia. In essa viene mostrata la posizione di KERKENNAH
Incrociatore RN GARIBALDI
FIAT C.R.42 Falco
CANT Z 501
Cacciatorpediniere AVIERE – CAMICIA NERA – GENIERE
Classe Soldati 1° serie
Cacciatorpediniere DARDO
ROBERTO PETTINAROLI è nato a Lavagna (Genova) il 16 luglio 1962. Sposato, una figlia, è giornalista professionista dal 1988. A 16 anni ha iniziato a collaborare con il quotidiano genovese “Il Lavoro”. Nel 1982 è passato al “Secolo XIX” di Genova, della cui redazione di Chiavari è stato per 13 anni (dal 1992 al 2005) vice responsabile. Attualmente lavora nella redazione genovese come caposervizio dello staff di Cronaca.
A cura di Carlo GATTI
Rapallo, martedì 5 Aprile 2022
LA LEGGENDARIA STORIA DEL GENERALE UMBERTO NOBILE
PARTE PRIMA
La leggendaria storia del generale UMBERTO NOBILE
UMBERTO NOBILE
Da HISTORIA REGNI riportiamo:
Umberto Nobile è il protagonista di una delle più grandi imprese del Novecento: la prima trasvolata del Polo Nord.
Generale del Genio aeronautico, ideatore, progettista e pilota di dirigibili semirigidi, esploratore polare, docente di Costruzioni Aeronautiche dell’Università di Napoli, scrittore, Umberto Nobile nacque a Lauro, provincia di Avellino, da Vincenzo e Maria La Torraca. Suo padre discendeva da un ramo cadetto della nobile famiglia delle Piane, che, avendo rifiutato l’omaggio ai Savoia in segno di fedeltà ai Borbone, era stata privata del titolo nobiliare e aveva assunto il cognome di Nobile a memoria dell’antica condizione sociale.
La sua storia si illumina il 10 aprile del 1926, il dirigibile Norge della missione decollò da Ciampino per arrivare alla base artica della Baia del Re, sulle isole norvegesi Svalbard, il 7 maggio e puntare poi al Polo Nord.
Dopo un volo di circa 5.300 km, durato tre giorni, il 12 maggio del 1926 “si prende l’altezza del sole. Siamo al Polo; rallento i motori. Si piantano le bandiere (la norvegese, l’americana e quella italiana)…”. Così Umberto Nobile annotava, sul Brogliaccio del Norge, il successo della prima spedizione aerea transpolare della storia, l’obbiettivo era stato raggiunto, fu toccato quel punto singolare della superficie terrestre dove i quattro punti cardinali si confondono in uno solo, il Polo Nord. Con l’allora colonnello Nobile c’erano Roald Amundsen e Lincoln Ellswotrh. In “In volo alla conquista del segreto polare”, così Umberto Nobile ricordò quei momenti:
“La nebbia, che era durata fittissima per un’ora e dieci minuti, verso le 22,30 cominciò a diradare, lasciando intravedere il ghiaccio. Poco più tardi dileguò del tutto.
Intanto il cielo si era andato annuvolando. Il paesaggio aveva assunto di colpo un aspetto triste e solenne. Non c’è di meglio del sole per vivificare anche le cose morte, ma ora il sole erasi nascosto dietro le nuvole alte, e la sua assenza faceva sentire il silenzio mortale che avvolgeva tutto. L’immenso piano ghiacciato cessava di essere monotono: qua e là fiocchi di nebbia radi vi producevano delle macchie bigiastre.
Tutto l’ambiente aveva assunto una tonalità di color grigio perla.
La quota era di 780 metri. Ci andavamo gradualmente abbassando, quasi senza accorgercene, come per un’attrazione lenta verso il suolo. All’una eravamo a 350 metri e, pochi minuti dopo, a 250. Oramai eravamo a poca distanza dal Polo. Larsen era curvo ad un finestrino col sestante fra le mani, pronto a cogliere l’istante in cui il sole avesse fatto capolino tra le nubi.
Man mano che ci andavamo avvicinando, l’eccitazione a bordo cresceva. Nessuno parlava, ma si leggeva nei volti la contentezza. Io ero un po’ nervoso; mi riempiva il cuore una grande gioia che a stento riuscivo a contenere. Pensavo alla nostra bandiera che finalmente avrei fatta sventolare ancora una volta. Avevo solennemente promesso di farla sventolare su ghiacci del Polo, e detto a me stesso che ciò sarebbe stato fatto a qualunque costo: finalmente l’attimo sospirato, in cui si sarebbe adempiuta la promessa, stava per giungere. Non era che un gesto assai semplice da compiere, ma rappresentava come un rito sacro; non vi era che buttare giù un pezzo di stoffa, ma quel pezzo di stoffa era l’Italia lontana.
Una grande gioia che a stento riuscivo a contenere mi riempiva il cuore.
Chiamai impaziente Alessandrini:
– Prepara la banidera.
La norvegese e l’americana erano piccole e fissate a delle aste come stendardi: avevano perciò potuto – senza ingombrare – tenersi sempre pronte nella carena. La nostra no, era grande; bisognava estrarla dal cofano, spiegarla e fissarla all’asta che i miei ufficiali avevano preparato allo Spitzberg.
Alessandrini andò, e com’egli si attardava a compiere accuratamente, amorosamente, l’operazione, io lo sollecitai impaziente. Stavamo per giungere.
– Fa’ presto. Vieni. Portala.
Finalmente era lì, accanto a me.
Alle 1,30 l’altezza del sole – che di tanto in tanto traluce fra le nubi – ci avverte che siamo al Polo. Discendiamo ancora di più, forse fino a 200 metri, perchè voglio accostarmi alla superfice dello sterminato mare di ghiaccio più vicino che sia possibile. Ora rallento i motori. Il loro ritmo si attenua, sicché il silenzio del deserto si sente più profondamente. In questo silenzio, religiosamente, si compie il rito.
Primo Amundsen lascia cadere la bandiera norvegese, poi Ellsworth l’americana. Sono di seta, piccole, graziose, fatte a posta per la circostanza. Ora viene la mia volta. Prendo la bandiera fra le mani. Essa contrasta con le altre due, è grande, vecchia, logora, una bandiera di combattimento: quella medesima che per due anni ha volato Italia sulla poppa dell’aeronave ITALIA: ha l’orlo sfilacciato dal vento, un po’ lacera, assai bella.
La prendo fra le mani e la sporgo fuori dalla cabina. Il vento l’investe gonfiandola: essa mi palpita fra le mani come un’ala viva. La lascio andare. La vedo scorrere lungo la parete della cabina ed impigliarsi nel derivometro. Corro a liberarla. Ecco ora che cade tutta aggrovigliata come una massa informe, poi si distende, si spiega tutta, discende solennemente. La vedo fluttuare: i bei colori attraverso l’aria fredda e trasparente vibrano contro il biancore immacolato dei ghiacci; il margine del drappo freme nell’immenso deserto come se partecipasse alla nostra emozione; il mio sguardo la segue come affascinato, né vale a distrarmi nemmeno la preoccupazione della condotta della nave. La bandiera raggiunge il ghiaccio, vi si abbatte, scompare. E’ realmente l’ala d’Italia che si posa sul Polo”.
IL COMUNE DI ROMA
L'AERONAUTICA MILITARE
NEL CENTENARIO DELLA NASCITA 1885-1985
UMBERTO NOBILE - Ingegnere aeronautico ed alto ufficiale dell'aeronautica militare, effettuò con i dirigibili spedizioni sopra il Polo nord. L'ultima ebbe esito tragico: la navicella si schiantò al suolo mentre il dirigibile riprendeva quota perdendo poi fra i ghiacci parte dell'equipaggio. I superstiti della navicella dovettero attendere 42 giorni (riparati alla meno peggio in una tenda, che dipinsero di rosso) prima di essere scoperti e salvati. Una commissione d'inchiesta esautorò Nobile dal suo grado. Dopo la guerra una seconda commissione lo riabilitò.
BREVE STORIA DELLA DRAMMATICA
"SECONDA SPEDIZIONE ARTICA"
DEL GENERALE UMBERTO NOBILE AL COMANDO
DEL DIRIGIBILE ITALIA
IN MEMORIA DEL
GENERALE PROF. ING.
UMBERTO NOBILE
ESPLORATORE-SCIENZIATO
PIONIERE DELL'AERONAUTICA ITALIANA
DUE VOLTE
CONQUISTATORE DEL POLO NORD
CON LE AERONAVI
"NORGE" (1926) E "ITALIA" (1928)
DA LUI PROGETTATE
COSTRUITE E COMANDATE
QUI VISSUTO
FINO ALLA SUA SCOMPARSA
IL 30 LUGLIO 1978
Il 15 aprile 1928 il dirigibile ITALIA partì da Milano (Aerodromo di Baggio), fece tappa a Stolp (Pomerania), a Vadsö (Norvegia) ed infine giunse alla Baia del Re il 6 maggio compiendo un volo di circa 6.000 km.
Il primo volo esplorativo a Nord Est delle isole Svalbard si concluse con il rientro alla base a causa di venti forti e guasti tecnici;
Il secondo volo durò tre giorni e diede alcuni risultati positivi: furono definiti gli estremi confini occidentali della Terra del Nord, fu dimostrata l'inesistenza della Terra di Gillis e vennero effettuati diversi rilevamenti sulla Terra di Nord-Est.
Il terzo volo fu disastroso: doveva esplorare la parte settentrionale della Groenlandia, alla ricerca di terre emerse, per dirigersi quindi sul Polo, dove erano previste misurazioni scientifiche sul pack.
Alle 4.28 del 23 maggio 1928 l'ITALIA si alzò in volo con sedici persone a bordo e, nonostante una violenta perturbazione, raggiunse il Polo Nord alla mezzanotte fra il 23 e il 24 maggio. Fu impossibile attuare la discesa sui ghiacci, a causa del forte vento. Alle 2.20 Nobile ordinò quindi che si prendesse la via del ritorno ma alle 10.30 il capo motorista Cecioni diede l'allarme: l'ITALIA stava perdendo rapidamente quota. Tre minuti più tardi, per cause che restano tuttora sconosciute, il dirigibile si schiantava sul pack, a quasi 100 km dalle isole Svalbard. Dieci uomini caddero dalla navicella di comando sui ghiacci. Il meccanico Pomella fu trovato morto dai superstiti subito dopo la caduta; Nobile e Cecioni subirono fratture agli arti. Sull'involucro privo di comandi restarono invece Alessandrini, Caratti, Ciocca, Arduino, Pontremoli e Lago, il giornalista.
Quando giunse la tragica notizia della perdita del dirigibile “ITALIA”, tutte le nazioni artiche offrirono il loro aiuto nella ricerca dei superstiti. L'Italia inviò due aerei, tra cui un Savoia 55, pilotato dall'italiano Umberto Maddalena.
Dal Sito della Marina Militare riportiamo:
“L'aeronave si risollevò lentamente scomparendo nella fitta nebbia: della sua sorte e di quella dei sei uomini rimasti a bordo non si ebbero più notizie. Fu rinvenuta una parte dei viveri e delle attrezzature, che l’impatto aveva disperso sui ghiacci ma soprattutto la tenda preparata per la discesa sul Polo e la radio di soccorso Ondina 33. La tenda, colorata di rosso con l'anilina per rilevazioni altimetriche, diventò un indispensabile rifugio per i naufraghi e un punto di riferimento per i soccorsi. Il radiotelegrafista Biagi montò subito l'antenna della radio e attivò l'apparecchio. Il 30 maggio, dopo cinque giorni di infruttuose trasmissioni Mariano, Zappi (da Mercato Saraceno, Forlì)) e Malmgren lasciarono la tenda per una marcia disperata verso la terraferma. Quattro giorni dopo, il 3 giugno, un radioamatore russo di nome Schmidt intercettò l'SOS dei naufraghi. Iniziarono cosi le operazioni di salvataggio che porteranno al recupero di Nobile. In Italia il governo fascista si limitò ad autorizzare la partenza di un idrovolante Siai S-55 pilotato dal maggiore Umberto Maddalena ma finanziato da privati.
La spedizione di soccorso che giunse a salvare gli uomini fu quella sovietica che impiegò due rompighiaccio, il Malyghin e il Krassin. La prima nave, partita da Arcangelo il 12 giugno, doveva raggiungere la parte orientale delle Svalbard e di qui dirigere verso nord. Il Krassin, comandato da Karl Eggi e con a bordo il professor Samoilovich, salpò da Leningrado il 16 giugno. Doveva raggiungere le Svalbard da ovest e perlustrare tutta la parte settentrionale dell'arcipelago verso l'isola di Foyn. La sera del 23 giugno due aerei svedesi raggiunsero nuovamente la Tenda Rossa: uno era il Fokker-31 di Lundborg, che riuscì ad atterrare sulla pista di neve e ghiaccio e a trarre in salvo il "solo" Nobile, che avrebbe dovuto dirigere dalla base svedese le successive operazioni di soccorso. Il comandante di un veliero è l'ultimo ad abbandonare la nave in procinto d'affondare e per questo fu anche lungamente criticato. Lundborg tornò poco dopo in aiuto degli altri naufraghi, ma in fase di atterraggio il suo Fokker si ribaltò e il pilota rimase a sua volta prigioniero dei ghiacci. Il 3 luglio, a nord delle Svalbard, il Krassin subì danni a un'elica; ulteriori avarie convinsero Samoilovich a ritornare per le riparazioni e per rifornirsi di carbone. Ma Nobile telegrafò al comandante della spedizione sovietica, pregandolo di non rinunciare alle ricerche, e riuscì a ottenere che dal rompighiaccio fosse calato il trimotore Junkers pilotato da Boris Ciuknowski. L'aereo decollò alle 16 del 10 luglio e riuscì ad avvistare il gruppo Mariano ma non a rientrare al Krassin. La nebbia lo costrinse infatti a un atterraggio di fortuna presso le Sette Isole, dove il velivolo restò bloccato dai danni subìti. Samoilovich, sostenuto da un equipaggio noncurante delle avarie e della scarsità di carbone, decise di proseguire. All'alba del 12 luglio vennero avvistati e tratti in salvo Mariano, che aveva un piede congelato, e Zappi. Malmgren, purtroppo, non aveva retto alla tremenda marcia sui ghiacci. Alle 20 dello stesso giorno fu avvistata la Tenda Rossa: mezz'ora dopo il rompighiaccio iniziava il salvataggio dei cinque naufraghi rimasti. La tenda fu smontata e trasferita sulla nave insieme all'Ondina 33. Erano trascorsi 48 giorni dal tragico impatto dell'ITALIA. La Tenda Rossa, riportata in Italia, è oggi al Museo Nazionale della Scienza e della Tecnica. La radio Ondina 33 è conservata dal Museo della Marina militare italiana di La Spezia.”
PARTE SECONDA
CITTA’ DI MILANO
Una Nave una Storia
Missione Artica di supporto al Dirigibile ITALIA
La nave posacavi CITTA’ DI MILANO aveva un dislocamento di 5.380 tonnellate. Lunghezza f.t. 97,72 mt. Varata il 21 ottobre 1905 nei Cantieri tedeschi Schichau di Danzica con il nome “Grossherzog Von Oldemburg” fu consegnata al governo italiano nel 1919 per “risarcimento danni di guerra”. Il 1° agosto 1921 entrò in servizio nella Regia Marina.
MISSIONE ARTICA: Scopo della missione era dare il necessario apporto logistico e organizzativo all'impresa pianificata e fortemente voluta dal generale Umberto Nobile. Fu rinforzato lo scafo mediante la ricopertura di lastre d’acciaio come protezione contro la morsa dei ghiacci polari.
Nel 1927 fu equipaggiata con le ultime novità scientifiche in materia di Radio e apparati meteorologici. Al normale equipaggio si aggiunsero alpini, studenti universitari e naturalmente scienziati.
20 marzo 1928 la "Città di Milano", al comando di Giuseppe Manoja, partì dal porto di La Spezia con la funzione di nave appoggio alla spedizione artica del dirigibile "Italia". Prima meta erano le Isole Svalbard.
Rompighiaccio KRASSIN
Si attivarono soccorsi d’imbarcazioni e aeroplani provenienti dalla Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia che inviò anche il rompighiaccio militare "Krassin" appartenente all'armata sovietica. Altre unità ebbero un ruolo fondamentale nel recupero dei superstiti come la Hobby, baleniera norvegese, e la Braganza.
La Città di Milano bloccata dai ghiacci
Dalla nave “Città di Milano” si attivarono le procedure di coordinamento, ricerca e soccorso che permisero il salvataggio dei superstiti, passati alla storia delle esplorazioni polari come i “naufraghi della Tenda Rossa”.
Le operazioni di ricerca andarono avanti per giorni, fino a quando, avvistati dal pilota italiano Umberto Maddalena vennero recuperati e messi in salvo Cecioni Natale, Felice Troiani, Giuseppe Biagi, Viglieri Alfredo, Mariano Adalberto, Zappi Filippo e lo stesso Umberto Nobile a bordo della nave "Città di Milano".
Intrapreso il lungo viaggio di ritorno, il "Città di Milano" attraccò nel porto di La Spezia il 20 ottobre 1928 concludendo così la spedizione.
Il 10 giugno 1940 la “Citta’ di Milano” interruppe i cavi telefonici di collegamento tra Gibilterra e Malta. Era la nostra prima missione nel primo giorno dell’entrata in guerra dell’Italia nella Seconda guerra mondiale.
Piano di costruzione
CARTOLINA COMMEMORATIVA DEL 90° ANNIVERSARIO DELLA SPEDIZIONE AL POLO NORD - 1928 - 2018
TELEGRAPH SUPPORT SHIP "CITTA DI MILANO"
Sulla fine della CITTA’ DI MILANO riportiamo una preziosa TESTIMONIANZA di Giorgio Andreino Mancini, che si rivolge a suo zio Pancrazio Ezio (storico)
in merito all’auto affondamento della regia nave Città di Milano, dicendo che ha avuto una confessione dal Marinaio genovese Di Maria imbarcato su quella nave, e adesso proverò a dirti cosa è successo tra l’8 e il 9 settembre del 1943 nel Porto di Savona da quello che mi ha raccontato Di Maria iscritto all’A.N.M.I.-di-Genova.
“Come tu saprai dall’8 settembre del 1943 è successo di tutto e non solo a Savona, c’era molta confusione, per farla breve nel porto, oltre ai Marinai della Regia Marina, c’erano quelli tedeschi della Kriegsmarine, si conoscevano e c’era anche un sano cameratismo tra loro ed è per questo che non c’è stato nessun atto di forza da parte della Kriegsmarine per impossessarsi della nave (questo naturalmente l’8 settembre). Sempre dal racconto del Di Maria pare che gli stessi marinai della Kriegsmarine avevano avvisato che il giorno 9 reparti della Wermacht avrebbero fatto un colpo di mano per impossessarsi della nave, cosa che poi avvenne il giorno successivo. Mi raccontava che quel giorno successe di tutto nel Porto di Savona, fischiavano pallottole da tutte le parti, l’equipaggio della Città di Milano ha risposto al fuoco con le armi che aveva, ma la superiorità tedesca era nettamente superiore. E’ stato allora che il Di Maria insieme ad un altro Marinaio (che non ricordo il nome) sono scesi in sala macchine per aprire le valvole per l’auto affondamento, operazione avvenuta con successo.
I tedeschi della Wermacht erano molto arrabbiati, fortunatamente per i marinai della Città di Milano, quelli rimasti (parecchi avevano disertato, non so se tu voglia scriverlo), sono stati fatti prigionieri da quelli della Kriegsmarine che li hanno trattati bene, prima di internarli nei campi di prigionia.
Spero di essere stato d’aiuto nell’aggiungere un’altra pagina della storia dei Marinai di una volta, sicuramente il Marinaio Di Maria è stato l’artefice dell’auto affondamento della regia nave Città di Milano!
Vedi se riesci a correggere qualcosa, come ti ho già scritto non sono bravo a scrivere, ma ci ho messo tutte le emozioni che il Di Maria mi ha trasmesso raccontandomi questa storia!
Ti auguro una serena serata e come dici sempre Tu:
Un abbraccio grande come il mare della Misericordia”
Giorgio Andreino Mancini
PARTE TERZA
Intervista del giornalista Gianni Bisiach al generale Umberto Nobile
DIRIGIBILE ITALIA di UMBERTO NOBILE AL POLO NORD
https://www.youtube.com/watch?v=HaVlSI_2D1Q
Ernani Andreatta
LA CONQUISTA DELL'ARTICO E DELL'ANTARTICO
https://www.youtube.com/watch?v=vlUOKAv3LFc
IQ3VE – Sezione ARI di Venezia
GIUSEPPE BIAGI – LA TENDA ROSSA
http://www.arivenezia.it/giuseppe-biagi-la-tenda-rossa/
mmta517 - Convegno sul dirigibile Italia - Versione ridotta
https://youtu.be/tWxPbc8BpfY
Venerdì 19 Ottobre 2018 si è tenuto il Convegno sul Dirigibile Italia a 90 anni dalla Tenda Rossa. I relatori hanno ricordato la tragedia che sconvolse la vita del Generale Umberto Nobile. di membri del suo equipaggio che vi persero la vita con implicazioni politiche, sociali e umane nello stesso tempo. Ma il convegno, che si è rivelato di grande successo, ha coinvolto personalità della scienza, della tecnica e della navigazione registrando così un evento inaspettato con la presenza dell'Ammiraglio di Divisione Alberto Bianchi Comandante delle Scuole Militari Italiane. La manifestazione è stata organizzata e condotta dal Tenente Colonnello Guido Casano con la regia del Comandante della Scuola TLC di Chiavari C.V. Nicola Chiacchietta.
mmta503 – Massimo Minella racconta il Campo 52
https://youtu.be/Ecfkiq99B60
mmta504 – 1928 Dalla Spezia al Polo Nord
https://youtu.be/-Jm4-aHYWZ0
Museo della Memoria - Museo Marinaro Chiavari - Edizioni Giacche'
Michele Coviello Allievo nocchiere di La Spezia nel 1928 faceva parte dell'equipaggio della nave appoggio Città di Milano. Durante la permanenza alle isole Svalbard scatto’ una serie di fotografie che lasciò in eredità alla nipote Annalisa Coviello, giornalista e scrittrice. Attraverso l'editore "Giacchè" ne usci un interessante libro dal titolo "1928 da la Spezia al Polo Nord"
mmta505 – Spedizione Nobile - Collegamento telefonico eredi Mariano
https://youtu.be/djzUF2cc1ro
mmta506 - 1928 DA LA SPEZIA AL POLO NORD
https://youtu.be/ffqx6X-VyuM
Carlo GATTI
Rapallo, 30 Marzo
LE NAVI DEI FILOSOFI
LE NAVI DEI FILOSOFI
In questo periodo caratterizzato da devastanti venti di guerra che ci travolgono ormai dal 24 febbraio 2022, è difficile indirizzare altrove i nostri pensieri, così com’è difficile esprimere opinioni politiche che in questa sede, per abitudine ormai consolidata, non riveliamo per non aprire dibattiti che esulerebbero dagli scopi istituzionali della nostra Associazione.
Tuttavia ci sono altri modi per rimanere sia nel campo navale che in quello della tragica attualità, specialmente quando essa c’impone la riflessione sul tempo che passa… che migliora gli standard di vita di tutti i popoli del mondo, anche di quelli che non intendono mutare il proprio pensiero di fondo che rimane antidemocratico! Uno snodo etico-morale sul quale non ci sarà mai un incontro ma piuttosto uno scontro…
Questo almeno è il messaggio che il sottoscritto ha percepito ascoltando la trasmissione PASSATO E PRESENTE mandata in onda alcuni giorni fa da Paolo Mieli (nella foto) in cui il bravo storico ha voluto dedicare al suo pubblico una pagina dimenticata ma sempre attuale, intitolata: Le Navi dei Filosofi.
Della trasmissione ho colto soprattutto il desiderio dell’autore di ricordare, con l’aiuto di altri esperti e giovani storici, almeno uno dei metodi di deportazione forzata di liberi pensatori, scrittori, dissidenti politici che erano già stati vittime dello “zarismo”. Stiamo parlando della Russia di ieri che “appare”, per molti aspetti, speculare a quella di oggi.
La nave dei Filosofi: Si tratta di uno sguardo sul destino di molti intellettuali filosofi, teologi, sociologi e scienziati, che dopo la rivoluzione bolscevica sono stati costretti a lasciare il Paese, insieme ad oltre un milione di russi dissidenti.
A tanto si può arrivare per impedire la libera circolazione delle idee!
LE NAVI DEI FILOSOFI FURONO DUE:
- Oberbürgermeister Haken
- Preussen
Un po’ di Storia
Il 6 febbraio 1922 la Čeka diventava Direzione Politica di Stato: GPU, una sezione dell'NKVD della RSSF Russa. Fu quindi il GPU che ricevette l’incarico di arrestare gli intellettuali.
Era il maggio del 1922 quando LENIN ordinò di studiare un piano per esiliare l’élite degli intellettuali russi che si opponevano con i loro scritti ai bolscevichi, una fazione marxista rivoluzionaria di estrema sinistra fondata da Vladimir Lenin.
Nella notte tra il 16 e il 17 agosto 1922 gli intellettuali furono sommariamente processati, condannati e costretti a scegliere tra l'esecuzione e l'espulsione. Chi sceglieva l’esilio doveva pagarsi il viaggio e lasciare in patria gli oggetti di valore e persino i libri.
Le cronache riportano che: “Le due navi che trasportarono gli intellettuali da Pietrogrado a Stettino erano due, la prima partì il 29 settembre 1922 e giunse a destinazione il 1º ottobre 1922 con 35 intellettuali russi e le loro famiglie. La seconda si chiamava Preussen e partì a novembre.”
La data di partenza della nave l'Oberbürgermeister Haken entrò nella storia rappresentando il momento simbolico che fece da spartiacque tra la cultura sovietica e la cultura emigrata.
La Oberbürgermeister Haken, una delle due navi che trasportò gli intellettuali dal porto sovietico da Pietrogrado a Stettino verso la Germania
Monumento dedicato all'espulsione dei "filosofi" a San Pietroburgo
Intellettuali espulsi
su RUSSIA BEYOND leggiamo:
Titolo:
Nel 1922, a bordo di due piroscafi tedeschi, il capo del nuovo Stato sovietico (Lenin) costrinse all’esilio filosofi, teologi, sociologi e molti scienziati non allineati.
“L’espulsione degli elementi controrivoluzionari e dell’intellighenzia borghese è il primo avvertimento del potere sovietico a questi elementi sociali”, scriveva la Pravda verso la fine di agosto del 1922.
Un paio di mesi più tardi, due navi tedesche, la “Oberbürgermeister Haken” e la “Preussen” salpavano dalle coste sovietiche carichi di influenti pensatori russi.
In tutto oltre 160 persone (contando anche i familiari) furono forzati a lasciare il Paese. Tra questi, professori, medici, insegnanti, economisti, scrittori e figure politiche e religiose. Tutti avevano una cosa in comune: si opponevano fieramente al regime sovietico.
Non fu loro permesso di portare molto con sé: due ricambi di biancheria, calzini e scarpe, una giacca, un paio di pantaloni, una giacca e un cappello. E questo era tutto. Soldi e gioielli non erano permessi, e tutti i beni di valore, comprese le obbligazioni, furono loro confiscati.
Scienziati prolifici
Tra gli espulsi c’era la crema degli intellettuali e degli accademici. Il più famoso di loro era Pitirim Sorokin (1889-1968), uno dei padri fondatori della moderna sociologia. All’epoca della rivoluzione aveva supportato i rivali dei bolscevichi ed era stato arrestato, ma poi si era allontanato dalla vita politica, scrivendo una lettera a Lenin. Dopo qualche tempo a Praga, passò gran parte della sua vita negli Stati Uniti, diventando persino presidente dell’American Sociological Association”.
Poi c’erano famosi scrittori, teologi e filosofi non marxisti, come Sergej Bulgakov, Nikolaj Berdjaev, Nikolaj Losskij, Ivan Ilijn e Semen Frank, che avevano profondamente segnato il pensiero russo prima del 1917. Ma allo stesso tempo, la maggioranza degli emigrati forzati non era composta da nomi famosi. Erano spesso ricercatori o scienziati, e si considera che tra il momento in cui furono esiliati e il 1939 abbiano pubblicato all’estero qualcosa come 13 mila lavori in vari settori scientifici”.
Tra la Rivoluzione russa del 1917 e la successiva formazione del nuovo Stato sovietico fino al crollo dell’URSS, avvenuto nel 1991, si contano cinque diverse ondate di migrazione di massa.
Con la nascita del nuovo Stato sovietico, formatosi ufficialmente nel 1922, si registrò una massiccia emigrazione di coloro che si erano opposti alla salita al potere del nuovo governo bolscevico, i cosiddetti Emigrati Bianchi.
LA STORIA SI RIPETE…
Un solo esempio: il primo esodo nella storia della Russia fu il più massiccio e devastante. Il numero di persone che fuggirono dal Paese fu di circa 2 milioni di persone.
Fin qui abbiamo parlato di “esodi forzati”, ma ci furono anche tentativi di fuga e ammutinamenti, il più celebre dei quali ispirò il film: “CACCIA A OTTOBRE ROSSO”. Lo scrissi dieci anni fa per “riportare alla luce” il vero retroscena storico che ispirò il film del regista John McTiernan e magistralmente interpretata dal com.te Ramius (Sean Connery).
Quella tragica storia VERA venne alla luce molti anni dopo …
L’ammutinamento della fregata
STOROZHEVOY
Ispirò il film ‘Caccia a Ottobre Rosso’
https://www.marenostrumrapallo.it/storozhevoy/
di Carlo GATTI
Rapallo, 14 maggio 2012
MARCO VIPSANIO AGRIPPA - IL PANTHEON E LA BATTAGLIA DI AZIO
RITRATTO DI MARCO VIPSANIO AGRIPPA
UN GRANDISSIMO AMMIRAGLIO CHE, GRAZIE ALLE SUE INNATE CAPACITA’, ENTRO’ DI DIRITTO ANCHE NEL MONDO DELL’ARTE UNIVERSALE
Se dovessi cercare un simbolo per rappresentare il connubio: ARTE – MARE, non avrei il minimo dubbio: sceglierei il busto marmoreo di Marco Vipsanio AGRIPPA, brillante politico, grande militare e architetto romano. Questo eclettico personaggio nacque ad Arpino nel 63 a.C. - morì in Campania nel 12 a.C.
IL PANTHEON E LA BATTAGLIA DI AZIO
DUE TRA I SUOI TANTI CAPOLAVORI….
GALLERIA DEGLI UFFIZI
FIRENZE
Seconda metà del I secolo a.C.
68 x 42 cm
Questo ritratto è noto in numerose raffigurazioni: dalle gemme ai cammei, e dalle statue ai rilievi. La testa è posta su un busto moderno, e presenta una marcata accentuazione dello sguardo che conferisce forza, decisione e carisma al personaggio.
L’opera conservata nella Galleria è entrata nelle collezioni medicee attraverso una donazione di Papa Pio IV a Lorenzo de’ Medici, giunto a Roma nel 1471 ed è da annoverare fra i pochissimi marmi antichi sicuramente riconducibili al nucleo originario della collezione di antichità della famiglia Medici.
UN PO’ DI STORIA
Legato da amicizia con il giovane Ottavio (Gaio Giulio Cesare Ottaviano), nacquero lo stesso anno, gli fu sempre a fianco dalla prima spedizione in Macedonia contro i Parti fino alla sua ascesa all’'Impero di Roma.
Agrippa e Augusto avevano servito come ufficiali di cavalleria sotto Cesare durante la battaglia di Munda nel 45 a.C., al termine della quale Ottaviano venne adottato dal grande condottiero romano e mandato a studiare ad Apollonia presso le legioni macedoni, sempre insieme ad Agrippa.
In Macedonia Agrippa si guadagnò ben presto i favori delle legioni, dimostrando grande dimestichezza con il comando, inoltre in quei luoghi approfondì le sue conoscenze dell’architettura che mise a frutto nel corso degli anni. Ad Apollonia in quel periodo giunse la notizia dell’assassinio di Giulio Cesare, così Ottaviano fece immediatamente ritorno a Roma.
Agrippa assunse il comando delle legioni lì stanziate, con le quali corse in aiuto dell’amico, permettendogli così di dare il via al secondo triumvirato, insieme a Marco Antonio e ad Emilio Lepido, lo scopo era di contrastare e combattere gli assassini di Giulio Cesare.
Agrippa combatté al fianco di Ottaviano e di Marco Antonio nella decisiva battaglia di Filippi, nel 42 a.C.
Dopo il ritorno a Roma, nel 41 a.C., Ottaviano Augusto inviò Agrippa a dirigere la guerra contro Lucio Antonio e Fulvia Antonia, rispettivamente fratello e moglie di Marco Antonio, guerra che si concluse con la loro cattura a Perusia (Perugia) nel 40 a.C. Due anni dopo, represse una rivolta degli Aquitani in Gallia e attraversò il fiume Reno per punire le aggressioni delle tribù germaniche.
Prima di aver compiuto i 43 anni richiesti dalla carica, Marco Vipsanio Agrippa viene richiamato a Roma da Ottaviano per il Consolato nel 37 a.C. Ottaviano subisce alcune sconfitte navali umilianti contro Sesto Pompeo e ha bisogno del suo fidato amico per elaborare la strategia da seguire in guerra. Al suo comando sconfigge Sesto Pompeo prima e annienta Antonio ad Azio.
Marco Vipsanio Agrippa, oltre ad essere stato il braccio destro del I° Imperatore di Roma, in seguito divenne suo genero avendo sposato la figlia Giulia.
Ma le sue doti militari si rivelarono magnificamente quando, con energia e rapidità, seppe dare a Roma una base navale con la costruzione del Portus Julius (riunì i laghi di Averno e Lucrino) e una poderosa flotta.
PORTUS JULIUS (37 a.C.)
Mentre Sesto Pompeo controlla le coste italiche, il primo obiettivo di Agrippa è di trovare un porto sicuro per la flotta. Durante la sua precedente campagna, Agrippa non aveva trovato basi navali in Italia vicino alla Sicilia. Agrippa mostra però un "grande talento di organizzatore e di costruttore" intraprendendo "lavori giganteschi" edificando in Campania una base navale partendo da zero, facendo scavare un canale fra il mare ed il LAGO DI LUCRINO per formare un porto esterno e un altro fra il Lucrino ed il lago d'Averno per avere un porto interno. Il nuovo complesso portuale viene chiamato Portus JULIUS in onore di Ottaviano.
Il suo cursus honorum iniziò con la pretura, poi fu per tre volte console:
37 a.C., 28 a.C., 27 a.C.
L'Orbis pictus era una grande carta geografica del mondo conosciuto, fatta redigere da Ottaviano su indicazioni di Agrippa, che le inserì nel suo testamento, poi esposta nel Porticus Vipsania a Roma e oggi perduta.
Le mappe nel mondo antico. La Tabula Peutingeriana – parte I –
Questo segmento rappresenta una sezione dell’Italia centro-meridionale, del Nord Africa e dell’Europa centrale. Sono visibili in particolare gli Appennini, la città di Napoli e la Campania, compresa la Crypta Neapolitana, parte della Sicilia occidentale fino ad Agrigento, Spalato in Croazia e i Balcani, Macomades e altre città dell’odierna Algeria.
L’eclettico Ammiraglio, come abbiamo accennato, seppe anche rivelare le sue doti di grande costruttore quando accettò nel 33 a.C. la carica di EDILE. Sue opere furono il Porticus Vipsaniae contenente la prima carta geografica mondiale (l’Orbis pictus) di cui aveva preparato i materiali, il pons Agrippae, la Basilica Neptuni e, infine, opera magistrale, il Pantheon.
L'iscrizione originale di dedica dell'edificio, fu ricollocata sulla successiva ricostruzione di epoca adrianea, recita: M·AGRIPPA·L·F·COS·TERTIVM·FECIT, ossia:
«Marco Agrippa, figlio di Lucio, console per la terza volta, edificò»
Al suo ritorno rifiutò di celebrare il trionfo offertogli, ma accettò il suo primo consolato, era il 37 a.C.
Un anno più tardi, nel 36 a.C., Agrippa fu nominato Comandante in capo della flotta romana, fatto che gli permise di sottoporre gli equipaggi ad un addestramento intensivo e molto duro, dopo di che sconfisse Sesto Pompeo a Mylae e a Nauloco e in un mese distrusse completamente la forza navale di Sesto, ricevendo la corona navale per le sue vittorie in Sicilia.
In quanto EDILE e curator aquarum, iniziò la costruzione del monumentale acquedotto del Serino, una delle più grandi opere architettoniche dell'intero Impero Romano, destinato a rifornire la flotta imperiale ancorata a Miseno.
Agrippa restaurò anche gli acquedotti più antichi e ne costruì due nuovi (l’Aqua Iulia e, più tardi, nel 19 a.C., l’Aqua Virgo*), inoltre restaurò e ripulì la Cloaca massima e attuò la politica edilizia di Augusto nel Campo Marzio, costruendo terme, portici e giardini.
*L'Aqua Virgo fu il sesto degli undici acquedotti romani antichi. Restaurato nel Rinascimento e ribattezzato Acqua Vergine, è tuttora funzionante.
Nel 31 a.C., Agrippa fu richiamato alle armi come Comandante della flotta, durante la decisiva e vittoriosa battaglia di Azio, contro le navi di Antonio e Cleopatra, e se Ottaviano si ritrovava ora a capo di un Impero, lo doveva in buona parte alle competenze dell’amico Marco Vipsanio Agrippa. Augusto per facilitare l’ascesa al potere dell’amico, lo associò alla famiglia imperiale, costringendolo a separarsi dalla moglie Claudia Marcella Maggiore, sposata nel 28 a.C., per sposarsi invece con Giulia, la figlia di Augusto, rimasta vedova.
Inoltre ottenne un secondo consolato con Ottaviano lo stesso anno.
Nel 27 a.C., anno in cui Ottaviano ottenne il titolo di Augusto, Agrippa rivestì per la terza volta il consolato insieme all’amico.
Nel 19 a.C., lo stesso anno Agrippa fu impiegato per sedare alcune rivolte in Gallia e a difendere il confine dai Germani, ed infine venne incaricato di spegnere una rivolta dei Cantabrici in Spagna. Fu poi nominato governatore della Siria una seconda volta nel 17 a.C., e lì la sua amministrazione giusta e prudente gli fece guadagnare rispetto e benevolenza, in particolare della popolazione ebraica. Agrippa inoltre ristabilì un efficace controllo romano sul Chersoneso Cimmerico (l’attuale Crimea) durante il suo governatorato.
Il sostegno di Agrippa per il suo amico Ottaviano non venne mai meno.
L’ultimo servizio pubblico reso da Agrippa fu l’avvio della conquista della regione superiore del Danubio, regione che si sarebbe poi trasformata nella provincia romana della Pannonia nel 13 a.C.
Agrippa morì in Campania nel marzo del 12 a.C. all’età di 51 anni a causa di una malattia. Dopo la sua morte nacque - da Giulia - l’ultimo dei suoi figli Marco Vipsanio Agrippa Postumo. Augusto onorò la sua memoria con un funerale magnifico ed egli stesso passò più di un mese in lutto per l’amico scomparso a cui lui e Roma dovevano parte della loro grandezza.
Successivamente Augusto adottò i figli di Agrippa e di sua figlia Giulia, Gaio Cesare e Lucio Cesare, come suoi successori designati.
Il PANTHEON DI AGRIPPA
Il nome Pantheon in greco, significa “di tutti gli Dèi”.
Ricostruzione particolare del PANTHEON DI AGRIPPA
Marco Vipsanio Agrippa (Louvre)
Il primo Pantheon fu fatto costruire nel 27-25 a.C. da Marco Vipsanio Agrippa nel quadro della monumentalizzazione del CAMPO MARZIO, affidandone la realizzazione a Lucio Cocceio Aucto. Esso sorgeva infatti fra i Saepta Iulia e la Basilica di Nettuno, fatti erigere a spese dello stesso Agrippa su un’area di sua proprietà, in cui si allineavano da sud a nord le Terme di Agrippa, la basilica di Nettuno e il Pantheon stesso.
IL CELEBRE CAMPO MARZIO
In Età Romana
Dai resti rinvenuti a circa 2,50 metri sotto l'edificio, alla fine del XIX secolo, si sa che questo primo tempio era di pianta rettangolare (metri 43,76×19,82) con cella disposta trasversalmente, più larga che lunga costruito in blocchi di travertino rivestiti da lastre di marmo. L'edificio di Agrippa aveva comunque l'asse centrale che coincideva con quello dell'edificio più recente e la larghezza della cella era uguale al diametro interno della rotonda. L'intera profondità dell'edificio augusteo coincide inoltre con la profondità del pronao adrianeo.
La sola fonte che descrive quali fossero le decorazioni del Pantheon di Agrippa è Plinio il Vecchio, che lo vide di persona. Nella sua Naturalis Historia riporta, infatti, che i capitelli erano realizzati in bronzo siracusano e che la decorazione comprendeva delle cariatidi e statue frontali. Le cariatidi, collocate sulle colonne del tempio, furono scolpite dall'artista neoattico Diogenes di Atene. Il tempio si affacciava su una piazza (ora occupata dalla rotonda adrianea) limitata sul lato opposto dalla basilica di Nettuno.
Cassio Dione Cocceiano afferma che il "Pantheon" aveva questo nome perché accoglieva le statue di molte divinità o più probabilmente perché la cupola della costruzione richiamava la volta celeste (e quindi le sette divinità planetarie), e che l'intenzione di Agrippa era stata quella di creare un luogo di culto dinastico, dedicato agli dei protettori della Gens Iulia (Marte e Venere) e dove fosse collocata una statua di Ottaviano Augusto, da cui l'edificio avrebbe derivato il nome.
Essendosi l'imperatore opposto ad entrambe le cose, Agrippa fece porre all'interno una statua del Divo Giulio, (ossia di Cesare divinizzato) e, all'esterno, nel pronao, una di Ottaviano e una di sé stesso, a celebrazione della loro amicizia e del proprio zelo per il bene pubblico.
Distrutto dal fuoco nell'80, venne restaurato sotto Domiziano, ma subì una seconda distruzione nel 110 d.C. sotto Traiano a causa di un fulmine.
IL PANTHEON DI ADRIANO
ESPRIME ANCORA
LA GRANDEZZA DI ROMA
Il Pantheon di Adriano, riporta tuttora sulla trabeazione l’iscrizione del precedente tempio costruito da Agrippa M·AGRIPPA·L·F·COS·TERTIVM·FECIT (“Marco Agrippa, figlio di Lucio, console per la terza volta, fece”).
Nel 125 d.C. fu l’Imperatore ADRIANO a volerne fortemente la ricostruzione. Così come le strade aiutarono a tenere collegato l’impero, il PANTHEON diede al mondo l’immagine della reale grandezza di Roma e tra tutti i resti dell’Impero Romano è quello che meglio si è conservato ai giorni nostri.
Il Pantheon viene considerato uno tra i monumenti più belli e particolari del mondo antico. La sua caratteristica principale è il foro circolare, posto in alto e al centro chiamato oculo, che ha un diametro addirittura di nove metri e che spicca dunque all’interno della cupola.
Curiosità: Quell’oculo comunque ha la sua importanza perché si possono osservare dei fenomeni astronomici, cioè si osservano le stelle dall’interno dell’edificio e infatti il Pantheon è stato anche chiamato “tempio solare”.
Ad esempio, il giorno 21 del mese di aprile di ogni anno, 21 aprile che è il giorno in cui è stata fondata la città di Roma (il 21 aprile si chiama per questo motivo il “Natale di Roma”), a mezzogiorno esatto, un raggio di sole penetra dall’oculo all’interno nel Pantheon e colpisce il portale d’accesso, colpisce esattamente la porta di ingresso.
Dal sito: Le meraviglie di Roma
La Cupola stessa, comunque, che ha dimensioni esagerate se consideriamo il diametro lungo ben quarantaquattro metri che la rendono, tuttora, la più grande mai costruita al mondo senza l’ausilio del cemento armato.
Lo stesso imperatore Adriano lo utilizzava per riunire la corte oltre che per rendere omaggio agli dei (nonostante questa fosse una pratica tipica della cultura greca).
La struttura architettonica
La facciata del Pantheon fu idealizzata con l’intento di esprimere la netta supremazia nonché egemonia culturale dell’impero romano: a sorreggere il portico greco, antistante l’ingresso principale, troviamo ben sedici colonne costruite in Egitto e che quindi dovettero fare un viaggio lunghissimo prima di sbarcare nella Capitale. Nonostante ciò, però, arrivarono in condizioni eccelse e la loro struttura di granito le rendono ancora oggi indistruttibili.
Più precisamente: Il pronao è formato da 16 colonne, 8 colonne di granito grigio in facciata e 8 colonne di granito rosa provenienti dalle cave di Mons Claudianus e di Assuan (Egitto), distribuite nelle due file retrostanti.
Curiosità: Le cave più preziose erano gestite da fiduciari dell’imperatore; vere e proprie cave imperiali mentre le altre erano gestite da appaltatori. L’organizzazione era gerarchica: da un procuratore o centurione, fino ai cavatori che erano schiavi o condannati per reati (damnati ad metalla). Ad esempio il porfido rosso, bellissimo marmo color porpora proveniente dall'Egitto, era ritenuto il marmo dell'imperatore, tanto che ognuno di essi tenne a farsene fare una statua.
I marmi erano trasportati via mare dalle naves lapidariae, in grado di portare ciascuna da 100 a 300 tonnellate di marmo. Il luogo principale di destinazione era Roma e l’attracco avveniva alla statio marmorum di Ostia, un porto presso la foce del Tevere. Da qui i marmi affluivano, risalendo il fiume, nei magazzini di stoccaggio, in particolare nella zona sotto l’Aventino chiamata appunto Marmorata e poi, per la vendita e la lavorazione, nelle officine dei marmorari, ad esempio a Campo Marzio o nella zona tra le chiese di Santa Maria in Vallicella e di Sant’Apollinare.
I relitti di navi naufragate, rinvenuti nel Mediterraneo in epoca anche recente, permettono di ricostruire le rotte principali. Le navi trasportavano non solo blocchi di marmo ma anche elementi architettonici e altri tipi di manufatti scultorei in vario stadio di lavorazione, quali fusti, basi, capitelli, statue, sarcofagi ed elementi di arredo.
A partire dalla fine del II sec. d.c. il marmo lunense venne progressivamente soppiantato dal marmo proconnesio (utilizzato per la costruzione di Costantinopoli), un marmo bianco proveniente dalla piccola isola di Proconneso, nel mar di Marmara, favorita dalla vicinanza delle cave al mare, per cui i blocchi estratti potevano essere direttamente caricati sulle navi per il trasporto. L'abbondanza di vene sfruttabili anche per grandi blocchi e la produzione in loco di manufatti semirifiniti o finiti, dai capitelli, ai fusti di colonna, ai sarcofagi, permetteva di contenere ulteriormente i costi favorendo la diffusione di questo marmo nei secoli successivi.
Tratto dal sito: ROMANO IMPERO
All’inizio del VII-secolo il Pantheon fu convertito in basilica cristiana chiamata Santa Maria della Rotonda o Santa Maria ad Martyres: il fatto gli consentì di sopravvivere quasi integro alle spoliazioni inflitte dai papi agli edifici della Roma classica. Gli abitanti di Roma lo chiamavano popolarmente la Rotonna (“la Rotonda”).
La trave che passa sopra le colonne era completamente rivestita di bronzo così come lo erano le due porte gigantesche (alte sette metri) che anticipavano l’ingresso alla struttura e quindi alla sala circolare.
Una maestosità riconosciuta dai numeri
Ad oggi la struttura fa parte del demanio Italiano e conta migliaia di visitatori mensilmente tanto da superare nel 2017 le soglie degli otto milioni di visitatori annuali.
Calco-Gesso - Dimensioni: altezza: 46 cm -Provenienza: (originale) Museo del Louvre – Parigi
Gaio Giulio Cesare Ottaviano
(Roma, 23 settembre 63 a.C. – Nola, 19 agosto 14 a.C.) meglio conosciuto come Ottaviano o Augusto, è stato il primo imperatore romano dal 27 a.C. al 14 d.C., una persona che volle trasmettere l’immagine di sé come imperatore pacifico di quella Roma trionfatrice su tutto il mondo conosciuto. Egli lo fece attraverso un uso abile delle immagini e con l’abbellimento della città di Roma. Tutelò gli intellettuali che celebravano il principato, riqualificò il Senato e l’Ordine degli Equites. Fece molte importanti e durature riforme. Ma dal punto di vista militare di certo non eccelleva, cosa non da poco in quella Roma.
“Non era uno stratega né un cuor di leone in battaglia”
Ma Ottaviano aveva un asso nella manica in tal senso e rispondeva al nome di Marco Vipsanio Agrippa.
MARCO VIPSANIO AGRIPPA
AMMIRAGLIO
Come abbiamo già visto, Agrippa si dovette occupare di Sesto Pompeo che tentava di indebolire la posizione di Ottaviano agli occhi del Senato, si dedicarono alla pirateria e bloccarono i rifornimenti di grano provenienti dall’Africa per l’Impero, arrivando a conquistare anche la Sicilia.
In terra sicula, proprio in quell’occasione, conquistò gloria eterna quando nel 36 a.C., nella località di Nauloco, quando annientò completamente la flotta di Sesto Pompeo e grazie alle sue straordinarie capacità strategiche e militari, perse solo 3 navi, mentre Sesto Pompeo si ritirò con sole 17 navi sulle 350 che inizialmente aveva!
Proprio durante questo conflitto si cominciò a pensare che senza Agrippa, Ottaviano non sarebbe mai riuscito a compiere la sua straordinaria ascesa al titolo imperiale.
Ottaviano fece dichiarare Antonio nemico pubblico e il senato romano dichiarò guerra all’Egitto.
Ancora una volta toccò ad Agrippa prendere il comando della flotta quando scoppiò la guerra contro Antonio e Cleopatra. Sul finire del 32 a.C. I due sposi furono sconfitti nella battaglia di Azio, del 2 settembre 31 a.C., e si suicidarono entrambi l’anno successivo in Egitto. La vittoria di Ottaviano ad Azio, che gli diede il controllo di Roma, fu principalmente dovuta ad Agrippa.
Lo hai reso così grande che deve divenire tuo genero o essere ucciso
BATTAGLIA DI AZIO
IL SUO SECONDO CAPOLAVORO
LA NAVE DI AGRIPPA
Marco Vipsanio Agrippa, braccio destro di Ottaviano Augusto, fu un grande comandante e ammiraglio. Osservando le navi dei pirati illirici, concepisce un nuovo tipo di imbarcazione particolarmente adatto all’incontro ravvicinato. Saranno queste nuove costruzioni determinanti per la vittoria di Azio del 31 d.C.
Sulla Battaglia di AZIO getto la spugna… e vi affido ad un eccellente “PASSATO E PRESENTE” (Paolo Mieli), in cui è ospite il prof. Alessandro Barbero.
(Torino, 30 aprile 1959) – Storico, Accademico e scrittore, specializzato in Storia del Medioevo e in Storia Militare.
LA BATTAGLIA AZIO
https://www.raicultura.it/storia/articoli/2019/02/La-battaglia-di-Azio-87574d9f-728b-4cd4-a402-5ddc56fb360e.html
GENOVA – LA CASA DEL BOIA di Carlo Gatti
https://www.marenostrumrapallo.it/boia/
Agrippa da magistrato fece restaurare e costruire molte opere pubbliche (acquedotti, terme, templi, impianti fognari...). A Genova esisteva forse un recinto sacro in onore della famiglia imperiale, a lui dedicato.
Consiglio la lettura del saggio di cui riporto il titolo e LINK. Il bravissimo Ufficiale della M.M. Domenico CARRO vi convincerà che AGRIPPA è stato il più grande Ammiraglio che la “storia navale” ricordi. Un personaggio che più lo si conosce, più ci sorprende la sua enorme capacità d’esprimersi ai più alti livelli in molteplici campi dello scibile umano che, con grande spirito di servizio, affetto e amor di patria, mise a disposizione dell’Imperatore OTTAVIANO AUGUSTO del quale divenne anche genero, come abbiamo imparato da questa modestissima ricerca.
Di singolare e versatile ingegno Agrippa, va ricordato anche come autore di orazioni e memorie.
VESSILLO AZZURRO
LA STRATEGIA NAVALE DI AGRIPPA
Di Domenico CARRO
http://www.societaitalianastoriamilitare.org/COLLANA%20SISM/2014%20CARRO%20Vessillo%20Azzurro.pdf
Chi è Domenico CARRO
http://www.romaeterna.org/vitae.htm
Ricerca a cura di
Carlo GATTI
Rapallo, 7 Marzo 2022
NAUTUCKET - LIGHT VESSEL - UNA STORIA DURATA 165 ANNI
NANTUCKET - LIGHT VESSEL - UNA STORIA DURATA 165 ANNI
Il 27 novembre 2018, sul sito di Mare Nostrum Rapallo, pubblicammo un articolo intitolato:
IL MUSEO MARINARO TOMMASINO-ANDREATTA IN VISITA
ALLA CITTADELLA DI ALESSANDRIA
AL MUSEO DEL MARE DI TORTONA
https://www.marenostrumrapallo.it/nannin/
Tra poco scopriremo insieme che il MUSEO DEL MARE DI TORTONA ha dedicato un corposo saggio ai BATTELLI FANALE/LIGHT VESSEL–USA che oggi riporteremo “integralmente” con lo scopo di completare questo TEMA del quale, già dieci anni fa, nel gennaio del 2012, ci eravamo occupati. I BATTELLI FANALE nacquero nel Nord Europa inaugurando una pagina di Storia Navale, poco conosciuta al pubblico, ad esclusione dei NAVIGANTI.
Chi di questi si trovò a navigare e a “soffrire” nelle acque dell’ “English Channel” (LA MANICA), ed anche più a Nord, in Canali stretti e molto trafficati, tra le nebbie, i ghiacci e i bassi fondali, senza radar negli Anni ’40 e ’50, e spesso con questo strumento in avaria ancora negli Anni ’60, ed abbia usufruito del servizio di questi Battelli-Faro, ha sicuramente conservato una speciale gratitudine verso quella minoranza di “marinai” che scelse di dedicarsi ad una “strana” attività, votata esclusivamente alla SICUREZZA della navigazione.
Un sacrificio che, come vedremo in seguito, spesso costò loro la vita a causa di tempeste, speronamenti o collisioni con navi in transito.
QUANDO I FARI GALLEGGIAVANO...
LIGHT VESSEL
https://www.marenostrumrapallo.it/battelli-fanale/
Purtroppo, di questa “minoranza speciale” di marinai si sa veramente poco. Nel mondo del mare i MARINAI sono considerati soggetti “comprimari”, angeli senza nome in transito… al servizio esclusivo dei bordi navali i quali, al contrario, sono “creature tecnologiche” che, per quanto piccole o grandi esse siano conservano, nel bene e nel male, la loro storia, che viene tramandata sulle onde ricorrenti dell’oceano, per diventare oggetto di tanti appetibili mercati: libri di storia, romanzi, films, quadri, ricercatissimi cimeli che passano da una famiglia all’altra e sono destinati a vivere ab aeternum.
Fateci caso, siano esse famose navi passeggeri, mercantili/militari o piccoli Light-Vessel, se ne citano i CELEBRI nomi esaltandone l’importanza, la bellezza, la grandezza, la potenza e quasi mai vengono resi noti i nomi dei loro Comandanti, Ufficiali ed Equipaggi.
Ovviamente, la situazione si ribalta nel caso di naufragi, tragedie e collisioni quando, in questi casi, le colpe sono “quasi” sempre umane e, solo allora, dei protagonisti imbarcati si vengono a conoscere vita e miracoli…
In MARE non ci sono TAVERNE e neppure i MEDIA …!
Le NAVI-FARO oggi si trovano nei musei a cielo aperto, tranquillamente ormeggiate in decine di porti-canale dove hanno operato e lasciato tracce storiche. Sono manutenute, fotografate e visitate, ma dubito fortemente che i visitatori di terra, non per colpa loro, possano coglierne il vero spirito di sacrificio dei loro equipaggi!
NAVE FARO
Una LIGHT-VESSEL è una imbarcazione che ha la funzione di faro che viene utilizzata in acque troppo profonde per la costruzione di un faro in muratura. La storia antica ci riporta di fuochi di segnalazione accesi sulle navi già dall'epoca romana.
La prima nave-faro moderna fu posta presso il “banco di sabbia NORE” alla foce del Tamigi in Inghilterra, dall'inventore Robert Hamblin nel 1732.
Questo tipo di nave riconoscibile dal colore rosso dello scafo è oggi considerato obsoleto, molte vecchie imbarcazioni sono state sostituite, con l'avanzare della tecnica, da veri fari o grandi boe automatiche.
È possibile distinguere tra;
-
i battelli-faro: sono costituiti da uno scafo sul quale è montato un apparato luminoso di grande potenza. Sono in genere forniti di un minimo di equipaggio e sono ancorati in acque relativamente basse in punti particolari per la navigazione, ma dove è impossibile costruire un faro;
-
i battelli-fanale: simili al battello-faro, ma con un apparato luminoso di portata più limitata, in genere sono senza equipaggio e segnalano pericoli al largo della costa.
Perché ce ne occupiamo di nuovo?
La “pista” battuta a suo tempo dal Com.te Ernani Andreatta, autorevole esperto di Musei Marinari, mi ha incuriosito fino ad introdurmi nei meandri delle ricerche effettuate dai curatori del MUSEO DEL MARE DI TORTONA, veri uomini di mare “piemontesi”, veri appassionati di storia militare e mercantile.
Mi sono così imbattuto nell’argomento, che riguarda proprio i BATTELLI FANALE, ma questa volta, e devo dire con molta ammirazione, d’aver apprezzato la serietà delle loro ricerche storiche, la completezza della descrizione dei mezzi per ogni fase della loro evoluzione tecnica, nonché il recupero davvero prezioso delle immagini.
Il nostro articolo accennato all’inizio, aveva trattato in forma riduttiva l’argomento, ben sapendo che avrebbe interessato pochi “marittimi” che ancora hanno nelle orecchie i caratteristici rintocchi della campana anti-nebbia del Nord Europa e dell’altra sponda dell’Atlantico.
Qui a Tortona, al contrario, siamo in presenza di un lavoro “SUPERBO e COMPLETO” che ho sentito il dovere di riportare integralmente a beneficio non solo degli appassionati, ma soprattutto per chi ha navigato e sente tuttora un affetto speciale per chi rischiava di essere travolto dalle tempeste e condannati a vagare nell’oceano per settimane prima di essere recuperati, oppure speronati e affondati dalle navi in transito come tra breve leggerete…
MUSEO DEL MARE
TORTONA
“Gli uomini di mare vivono tutta la loro vita con la passione nel cuore e hanno l’anima inesorabilmente immersa nei silenzi, nel mistero, nella libertà, nel pericolo del mare.
Il museo è dedicato alla MARINERIA e conserva molti reperti, anche rarità, trasudati dalla passione dei gestori che costantemente si dedicano, promuovendo e valorizzando la storia, la cultura marittima e navale, e non dimenticando i ricordi dei tanti marinai tortonesi e dei dintorni.
Il museo del mare di Tortona nasce per volontà, tenacia e collaborazione del gruppo Marinai d’Italia “Lorenzo Bezzi” nel 2008 e il 10 giugno 2010, viene inaugurato ufficialmente alla presenza di autorità civili e militari
Attualmente il museo si estende su una superficie di 300 mq e conta circa 1500 reperti.Si segnalano per il notevole valore storico i cimeli della spedizione al Polo Nord del Duca degli Abruzzi Luigi Amedeo di Savoia, avvenuta nel 1900, appartenenti al concittadino Generale medico Pietro Achille Cavalli Molinelli. Ricco di reperti e modellini di navi, manichini con uniformi originali che lasciano a bocca aperta per la loro impeccabile eleganza e l’accurata conservazione. Visitando le ampie stanze tra l’elmo del palombaro, nasse e reti da pesca, sembra di essere immersi e catapultati nel romanzo “Ventimila leghe sotto i mari “di Jules Verne.
Interessante è la ricostruzione del siluro a lenta corsa, comunemente chiamato “maiale” e utilizzato dagli uomini rana, i sommozzatori incursori d’assalto. Non manca la macchina crittografica simile alla Enigma di produzione italiana in uso dagli anni 50, legata a una storia molto suggestiva, raccontata dai marinai che vi guideranno in questa splendida avventura sotto i mari. Sarà un tuffo nel passato con memorie incancellabili come quelle accadute al porto di Alessandria d’Egitto, con la rocambolesca vita dei sopravvissuti che fecero l’incursione alle navi ancorate in porto. Il museo d’inestimabile valore e fornito di reperti originali e introvabili di vita degli uomini del mare, è veramente bello; andate a vederlo, ne vale la pena! Offerta libera, non si paga nessun biglietto e sarete guidati da ex marinai!
STORIA DEL LIGHT VESSEL – NANTUCKET
Nella carta geografica si vede la posizione di NANTUCKET, punto di atterraggio delle navi provenienti dall’Europa e dirette a NEW YORK e BOSTON.
1) Cosa è una nave FARO?
Una NAVE FARO (LIGHT SHIP o LIGHT VESSEL) è una nave che svolge la funzione di un faro in località ove era impossibile costruirne uno.
Sebbene si abbia notizia di fuochi di segnalazione accesi su navi già in epoca romana, la prima nave faro moderna fu posta presso il banco di sabbia Nore alla foce del Tamigi, in Inghilterra, dall'inventore Robert Hamblin, nel 1732.
Tradizionalmente hanno lo scafo dipinto in rosso, allo scopo di migliorarne la-visibilità.
Le navi faro in America vennero utilizzate per 165 anni, dal 1820 al 1985.
Il loro scopo era di segnalare pericolosi banchi di sabbia in movimento, secche, acqua bassa, ingressi portuali, foci di fiumi, in punti in cui non era stato possibile costruire fari veri e propri.
2) – LA PRIMA NAVE FARO - USA
La prima nave faro degli Stati Uniti fu posta in servizio a Chesapeake Bay nel 1820 e il loro numero totale lungo la costa raggiunse il picco nel 1909 con il presidio di 56 località.
Nel 1915, il periodo d'oro delle navi faro statunitensi, c'erano 54 stazioni negli Stati Uniti; 36 al largo della costa orientale, 2 nel Golfo, 5 sulla costa occidentale e 11 nei Grandi Laghi.
Di queste navi, 168 furono costruite dallo United States Lighthouse Service* e 6 dalla United States Coast Guard, che la assorbì nel 1939.
Negli USA, fra coste e Grandi Laghi, si arrivò ad un totale di 120 stazioni.
Col trascorrere del tempo e con l'evolversi della tecnologia, anche il numero delle stazioni di navi faro è mutato, fino a quando nel 1985 l'ultima nave faro è stata sostituita.
Dal 1820 al 1952 (quando fu costruita l'ultima nave faro), furono costruite 179 navi, fra quelle a vela, con scafo in legno, in ferro, a vapore e con motori diesel.
*Lo United States Lighthouse Service, noto anche come Bureau of Lighthouses (Ufficio dei fari), è stata l'agenzia del Governo federale degli Stati Uniti d'America che, sotto il controllo del Dipartimento del Commercio, era responsabile del rifornimento e della manutenzione di tutti i fari e i battelli-faro negli Stati Uniti, dall'epoca della sua istituzione nel 1910 fino al 1939, quando fu assorbita dalla United States Coast Guard.
3) Schoals: carta dei banchi
*Schoals: banchi
In particolare ci occuperemo delle navi faro che furono utilizzate in un'area a sud e ad est dell'isola di Nantucket, chiamata Nantucket Shoals*, estremamente pericolosa per la navigazione.
*La zona dei suoi banchi misura 23 miglia per 40 miglia e si trova appena fuori dalle rotte marittime transatlantiche. In alcuni punti, la profondità dell'acqua si riduce fino a tre piedi e le forti correnti mantengono i banchi in un costante movimento, rendendoli difficili da evitare.
Nel 1843, il numero dei naufragi avvenuti nell'area era nell'ordine di un centinaio, per cui il problema fu portato al Congresso, che, dopo 10 anni, approvò la costruzione di una nave faro per contrassegnare l'area in questione. con uno stanziamento di 15.000 dollari.
Nel 1853, i cantieri Tardy & Auld di Baltimora, nel Maryland, si aggiudicarono il contratto per la costruzione del Light Vessel 11 (LV-11) al prezzo contrattuale di 13,462 dollari. Una volta completata nel 1854, sarebbe stata conosciuta come la nave faro Nantucket New South Shoal.
La stazione che segnava i limiti delle pericolose Nantucket Shoals era l'ultima nave faro vista dalle navi in partenza dagli Stati Uniti, nonché il primo faro visto in avvicinamento.
La posizione della stazione era a 40 miglia (64 km) a sud-est dell'isola di Nantucket.
Sii trattava della nave faro più lontana del Nord America, esposta a forti correnti di marea e alle burrasche dell'Atlantico.
4) LIGHTSHIP - 11
La prima delle navi incaricata di presidiare la stazione dei Nantucket South Shoals, la LV-11, era basata su un robusto scafo in stile "goletta" comunemente usato in queste acque.
La nave svolgeva la sua funzione in una posizione molto esposta alle correnti e alle aggressioni dell'Oceano Atlantico.
L' LV-11 espletò il suo servizio per soli 18 mesi, fino a quando nel 1855, quando fu strappata dal suo ormeggio e trascinata per 50 miglia verso ovest, finendo per incagliarsi a Montauk Point.
Recuperata e rimorchiata ad un cantiere navale di New York, fu riparata con una spesa di 11.000 dollari e poi destinata ad una stazione meno esposta, per segnalare il Brenton Reef, nel Rhode Island.
Il disegno rappresenta una nave faro, simile al LV-11.
5) LIGHTSHIP – 1
Nel periodo in cui la LV-11 era in cantiere per le opportune riparazioni, fu sostituita dalla LV-1, nave molto simile, costruita nel 1855 presso il cantiere navale di Portsmouth per 48.000 dollari.
La Light Vessel n°1 era costruita in legno di quercia bianca e ed era dotata di due lanterne più un campanello di segnalazione da nebbia azionato manualmente.
La seconda nave faro di Nantucket si è comportò meglio in termini di longevità, ma non nel rimanere immobile.
Sebbene abbia servito fedelmente per quasi 37 anni, dai registri, peraltro incompleti, risulta che abbia perso il suo ormeggio almeno 23 volte.
Nel 1878 un fortunale la trascinò alle Bermuda, a circa 800 miglia a sud di Nantucket!
La fine del suo servizio agli Shoals arrivò quando
una bufera di neve nel marzo del 1892, strappò le ancore e la nave scomparve per settimane.
Fu avvistata incagliata su una scogliera a Norman's Land vicino a Martha's Vineyard. L'equipaggio era fortunatamente sopravvissuto e la nave, una volta recuperata e riparata fu destinata in acque più calme.
6) LIGHTSHIP – 1
La LV-1 aveva due alberi su cui, di notte, venivano issate grandi lanterne.
Le lampade a olio di balena all'interno di queste lanterne fornivano la luce, che nella migliore delle ipotesi, nebbia permettendo, poteva essere vista solo per poche miglia (al contrario delle lampade dell'ultima Lightship in servizio, che avevano un'intensità di 400.000 candele e potevano essere viste per 23 miglia)
7) VITA DI BORDO
In alto un equipaggio di una nave faro e sotto uno dei costruttori di cestini di Nantucket.
La vita a bordo delle navi faro era noiosa per i lunghi periodi di isolamento e durissima a causa del continuo beccheggio e rollio capace di causar malessere persino a vecchi lupi di mare.
Un vecchio capitano di baleniere disse: “La cosa più solitaria che avesse mai visto in mare era un orso polare che galleggiava su un pezzo di ghiaccio nell'Oceano Artico; l'altra cosa più solitaria era la South Shoal Lightship".
Fu per questo che a bordo di quelle prime navi faro di stanza presso gli South Shoals gli uomini degli equipaggi iniziarono la tradizione della "fabbricazione di cesti". Questa divenne col tempo una vera e propria industria artigianale per i membri degli equipaggi di Nantucket. Il loro secondo mestiere era al tempo stesso un mezzo di diversione dalla reclusione a bordo, quanto una fonte di reddito extra.
8) LIGHTSHIP - 54
Nel 1891, il Lighthouse Board richiese una nave faro a vapore dotata di un segnale di nebbia a vapore per la stazione di Nantucket New South Shoal e ne ottenne l'approvazione nel 1892.
La Light Vessel 54 (LV-54) era una nave a vapore con scafo di ferro e sostituì la vetusta LV-1 il 13 novembre 1892, diventando la Nantucket New South Shoal Lightship.
Questa nave rimase in servizio fino al 10 aprile 1893 quando fu ritirata per riparazioni e per fornirla di 25 tonnellate di ghisa come la zavorra.
In questo periodo fu sostituita dalla LV-9.
Al rientro in servizio venne però ritenuta inadatta per un'area così esposta e il 26 luglio 1894 fu rimpiazzata dalla LV-58, andando a svolgere servizio a Boston.
9) LIGHTSHIP - 58
La LV-58 fu costruita nel 1894 dai cantieri Craig Shipbuilding di Toledo, Ohio al costo di 50.870 dollari.
Era costruita con un telaio in acciaio rivestito di ferro, dotata di due lanterne, un fischio a vapore da 12 pollici e un segnale da nebbia a campana azionato a mano. Ciascuna delle lanterne conteneva otto lampade a olio, con riflettori.
La Light Vessel 58 (LV-58) servì come nave faro Nantucket New South Shoal fino al luglio 1896, quando su richiesta di un gruppo di armatori di navi a vapore, il Lighthouse Board stabilì una presenza di navi faro a Fire Island per fornire un passaggio più sicuro al porto di New York. La LV- 58 fu quindi trasferita a Fire Island*.
*Fire Island è l'isola più grande e centrale della barriera esterna di isole parallela alla riva sud di Long Island, nello stato di New York.
10) LIGHTSHIP - 66
La LV-66 venne varata nel 1896 nei cantieri Bath Iron Works di Bath, nel Maine, al costo di 69.282 dollari.
Fu costruita su un telaio in acciaio rivestito di legno e dotata di una sirena a vapore da 12 pollici e un gruppo di quattro lanterne con lenti e luci elettriche montate in un alloggiamento a galleria su ciascuna testa d'albero. La nave faro 66 trasportava un evaporatore Baird e un apparato di distillazione utilizzati per produrre acqua potabile fresca dall'acqua di mare.
Il 6 luglio 1896, il Light Vessel-66 prese la posizione e assunse il ruolo di Nantucket New South Shoal Lightship. Tuttavia il Il 17 ottobre dello stesso anno, alla nave fu ordinato di spostarsi di 17 miglia e un quarto verso sud-est e il nome le fu mutato in Nantucket Shoals.
Nel periodo tra il 1896 e il 1900 fu trascinata varie volte alla aderiva, richiedendo la sostituzione di sette ancore a fungo e 565 braccia (1.033 m) di catena.
Necessitando di riparazioni, il il 5 dicembre 1905, fu sostituita dalla Relief Light Vessel 58, nella quale però, a seguito di una burrasca si infiltrò acqua nella sala macchine che ne spense le caldaie e, dopo una vana lotta con le pompe attivate a mano, dovette essere abbandonata dall'equipaggio e lasciata affondare.
Alla notizia dell'affondamento, la LV-66 tornò immediatamente alla stazione, arrivando il 18 dicembre 1905.
11) LV-66
Sulla LV-66, nel 1901 era stata installata, in via sperimentale, l'apparecchiatura telegrafica senza fili Marconi.
Nel 1904 la Lightship 66 divenne poi la prima nave faro degli Stati Uniti con apparecchiature radio permanenti.
Nel 1907 passò al servizio di soccorso, venendo sostituita dalla Lightship 87
12)- LIGHTSHIP - 85
La Lightship 85, era una nave in legno, costruita nel 1907 a Camden, nel New Jersey, per 99.000 dollari. La LV-85 fu trasferita alla Marina degli Stati Uniti per ordine esecutivo l'11 aprile 1917, insieme all'intero servizio dei fari.
Durante il servizio per la Marina, durante la prima guerra mondiale, proseguì la sua precedente routine di avvertimento del tempo di pace, allontanandosi da Nantucket Shoals e vigilando le acque vicine per presenza di U-Boot tedeschi.
I marinai della nave faro intervennero nel salvataggio delle vittime del "disastro della melassa" di Boston*, perché la LV-85 era in quel momento attraccata nelle vicinanze.
Dopo che la pace fu ripristinata nel 1919, la nave faro 85 fu restituita al Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti.
La LV- 85 fu poi trasferita al servizio di soccorso nel 1923, dopo essere stata sostituita nella stazione dei Nantucket Shoals, dalla LV-106.
* Disastro della melassa: il 15 gennaio 1919, un enorme serbatoio, di 15 metri d'altezza e 27 metri di diametro, contenente più di 8.700.000 litri di melassa (il dolcificante allora più usato in America) collassò su sé stesso. Tale cedimento provocò un'immensa ondata di melassa, alta tra i 2,5 e i 4,5 metri, che inondò una parte della città, a una velocità di 56 km/h.
L'onda di melassa sviluppò una forza sufficiente a sbriciolare le strutture della vicina stazione di Atlantic Avenue della ferrovia sopraelevata di Boston e fece deragliare un treno dai binari.
L'inondazione di melassa uccise 21 persone e ne ferì 150.
13) LIGHTSHIP-106
La foto superiore mostra una nave faro durante una tempesta, quella inferiore, una delle esercitazioni settimanali antiincendio e con la lancia di salvataggio, divenute una routine a bordo della LV-106, dopo l'incidente occorso alla LV-117.
La Lightship-106 venne costruita nel 1923 dai cantieri Bath Iron Works di Bath, nel Maine, per 200.000 dollari.
Aveva lo scafo in acciaio, era dotata di una sirena a vapore da 12 pollici, una campana azionata manualmente, una campana sottomarina, un oscillatore sottomarino, un radiofaro e una lanterna
elettrica con una lente di 375 mm (14,8 pollici) su ciascuna testa d'albero.
Sostituita dalla Lightship 117 nel 1931, passò al servizio di soccorso.
Tornò a Nantucket dopo l'incidente occorso alla Lightship 117 nel 1934 fino a quando fu nuovamente sostituita con la Lightship 112 nel 1936.
14)- CAMPANE SOTTOMARINE
Quello delle "campane sottomarine", era un sistema di segnalazione che vediamo applicato alla nave faro (del tipo della LV.106) sulla destra del disegno.
L'apparato fu brevettato e prodotto dalla Submarine Signal Company di Boston.
L'azienda produceva segnali acustici sottomarini, prima campane e ricevitori poi trasduttori, come ausilio alla navigazione.
I segnali erano associati a luci e altri apparati fissi o installati a bordo delle navi e consentivano di avvisare le navi di pericoli per la navigazione o la segnalazione tra le navi stesse.
Le campane originali furono rapidamente sostituite dall'oscillatore Fessenden, un trasduttore, sviluppato a partire dal 1912 presso la Submarine Signal Company. Quel trasduttore permetteva sia l'invio che la ricezione, portando a importanti progressi sia nei segnali sottomarini che nell'estensione nella telegrafia sottomarina e negli esperimenti con la comunicazione telefonica subacquea e infine il al sonar.
15) LIGHTSHIP - 106
La Lightship - 106 fu poi danneggiata da una collisione alle 12,30 del 13 novembre 1949 nella nuova stazione alla quale era stata destinata.
La fotografia dimostra quanto, il servizio di nave faro fosse intrinsecamente pericoloso, sebbene in questo caso non ci fossero state vittime.
16) LIGHTSHIP - 117
Varata nel 1931 dai cantieri Charleston Drydock & Machine Co, per 274.434 dollari, era una nave con scafo in acciaio e tughe in acciaio a prua e a poppa.
La propulsione era diesel-elettrica: quattro motori diesel da 101 cavalli (75 kW) azionavano i generatori, fornendo energia sia per l'apparato di segnalazione che per un motore di propulsione elettrico da 350 cavalli (260 kW).
Aveva in dotazione una lanterna con luci elettriche con lente da 375 mm (14,8 pollici) su ciascuna testa d'albero, una sirena da nebbia elettrica sull'albero maestro e campanello d'allarme antinebbia manuale.
Era ormeggiata con catene d'acciaio di 30 braccia (180 piedi) per 2 pollici (5,1 cm) di diametro attaccati a una coppia di ancore da 7.000 libbre (3.200 kg).
Ciò nonostante, la tempesta del 27 giugno 1933, ne ruppe le catene di ormeggio, allontanandola dalla sua posizione per diversi giorni.
Oltre ai rischi creati dalle condizioni meteorologiche, le navi faro erano esposte anche al pericolo del traffico navale che, con la loro presenza contribuivano a proteggere.
Il 6 gennaio 1934, la LV-117 subì una collisione dalla SS Washington (all'epoca il più grande transatlantico mai costruito negli Stati Uniti), riportando danni alle antenne radio e allo scafo.
17) – LIGHT VESSEL - 117
Tuttavia una volta riparati i danni e tornata in servizio, pochi mesi dopo, nella notte del 14 maggio 1934 la sorte le fu meno benigna.
L'Olympic (nave gemella del perduto Titanic) avvolta nella nebbia si stava dirigendo verso il radiofaro della LV-117 dopo aver ridotto la propria velocità a 12 nodi.
Il segnale radio e i segnali da nebbia della nave faro furono captati dall'Olympic verso le 10,55 e sembravano provenire da dritta della prua.
Il capitano dell'Olympic ordinò di accostare di dieci gradi a sinistra e di ridurre la velocità a dieci nodi.
Il suo operatore radio tentò senza successo di entrare in contatto con LV-117 per determinare la sua posizione esatta.
I segnali acustici per la nebbia erano apparentemente provenienti da una distanza maggiore, sempre a dritta.
Sembrava che l'Olympic fosse ben lontano dalla nave faro, ma pochi minuti dopo la vedetta individuò la LV-117 esattamente di prua.
Una improvvisa virata e la riduzione della velocità a 3 nodi non bastarono a salvare la Lightschip 117.
Speronata da una nave di 52.000 tonnellate (75 volte più grande della nave faro, che era di sole 630 tonnellate), la LV-117 affondò rapidamente.
Le lance messe in mare dall'Olimpyc recuperarono solo sette degli undici membri dell'equipaggio, e di questi, tre morirono a bordo per le ferite riportate.
La nave faro 117 giace ora a circa 61 m di profondità, coricata sul suo lato sinistro, in un'area con correnti imprevedibili fino a 3 nodi, che rendono una immersione difficile e pericolosa, anche per le molte reti da pesca impigliate nel relitto.
18- LIGHTSHIP - 112
Nel 1936, i cantieri Pusey & Jones di Wilmington, Delaware costruirono la Lightship 112 la più grande nave faro di sempre, al costo di 300.956 dollari. Questa nave fu pagata dal governo britannico come riparazione per la mortale collisione tra Olympic e Lightship 117.
Durante la seconda guerra mondiale, la Lightship 112 fu ritirata dalla stazione di Nantucket Shoals e utilizzata come nave d'avvistamento a Portland, nel Maine.
Il 5 gennaio 1959, fu trascinata a 80 miglia (130 km) dalla sua stazione da un uragano.
Questo evento fece si interrompessero le comunicazioni radio per diversi giorni, a causa di alcuni componenti elettronici danneggiati dall'acqua.
La nave faro 112 sopravvisse a tutte le altre navi faro assegnate a quella stazione.
Dopo averla contrassegnata per 39 anni, il 10 maggio 2010, la Lightship LV-112, tornò a Boston per lavori di ristrutturazione e conservazione.
19)- Lightship - 112
Nella fotografia, la Lightship 112 nel porto di Boston nel 2018
La Lightship 112 è stata dichiarata National Historic Landmark nel 1989, quando si trovava presso il molo del Southern Maine Vocational Technical Institute a South Portland, nel Maine.
Avrebbe dovuto tessere trasferita permanentemente a Staten Island, New York, ma rimase per diversi anni a Oyster Bay, New York.
Acquistata nell'ottobre 2009 dallo United States Lightship Museum (USLM) sotto la guida di Robert Mannino Jr. per la simbolica cifra di 1 dollaro, è arrivata nel porto di Boston l'11 maggio 2010, dove è in fase di ristrutturazione come museo galleggiante, ma aperta al pubblico presso il Boston Harbor Shipyard.
20) - LIGHTSHIP WLV-612 (Nantucket I)
Costruita nel 1950 a Curtis Bay, nel Maryland dalla Guardia Costiera degli Stati Uniti Yard al costo di 500.000 dollari, la Lightship 612 è stata l'ultima nave a servire un intero turno di servizio alla stazione di Nantucket Shoals ed è stata anche l'ultima nave faro degli Stati Uniti in servizio.
21- LIGHTSHIP WLV-613 (Nantucket II)
Costruita presso lo United States Coast Guard Yard a Curtis Bay, Baltimora, Maryland nel 1952, fu l'ultima nave faro mai costruita e varata negli Stati Uniti e anche l'ultima nave faro messa in servizio.
Commissionata nel settembre 1952 come WAL-613 con un albero convenzionale, le fu montata, nel 1953, una grande lanterna cilindrica installata su un treppiede, con una luce rotante dell'intensità 5,5 milioni di candele.
Presidiò, col nome di Ambrose , l'Ambrose Channel a New York dal 1952 al 1967, quando fu sostituita dalla stazione-faro Texas Tower.
Divenne nave soccorso per la costa del Massachusetts fino al 1975, con il nome di Relief.
Nel 1980 infine fu ribattezzata Lightship Nantucket II e assegnata alla stazione dei Nantucket Shoals, dove si alternò con la sua nave gemella, la Lightship Nantucket (WLV-612), con turni di 21 giorni.
Alle 2:30 del mattino del 20 dicembre 1983 la Lightship 613 sostituì per l'ultima volta la Lightship 612 fino alle 8:00 quando entrò in funzione una Large Navigational Buoy, rendendo la Lightship 613 l'ultima nave faro in servizio degli Stati Uniti e alla stazione di Nantucket.
22)–APPARATO OTTICO PER LA LIGHTSHIP-613
Nel dicembre 1983 la Lightship 613 fu venduta al New England Historic Seaport per diventare una nave museo a Boston.
La Lightship 612 fu riassegnata al servizio di cutter della Guardia Costiera.
Dopo essere stato dismessa il 29 marzo 1985 e terminata l'era di 165 anni di servizio delle navi faro degli Stati Uniti, la Lightship 612 fu venduta al Boston Educational Marine Exchange e poco dopo fu rilevata dal Commonwealth del Massachusetts.
Nel marzo 2000, è stata acquistata da William e Kristen Golden, restaurata come unica nave faro pienamente operativa negli Stati Uniti e convertita in uno yacht di lusso che è stato ormeggiato a Rowes Wharf a Boston.
Nell'estate del 2007 era disponibile per charter* nel porto di Nantucket e Newport.
La Nantucket Lightship WLV612 è stata noleggiata per un anno dal Delamar Hotel un hotel a 5 stelle a Greenwich nel Connecticut mentre nel 2008, è stata utilizzata per la crociera estiva del New York Yacht Club.
Successivamente è stata noleggiata dal novembre 2008 al 31 maggio 2009 presso The North Cove Marina al World Financial Center di Manhattan, New York.
Durante le estati del 2009 e del 2010, la Lightship WLV-612 è stata attraccata a Martha's Vineyard on Charter a Martha's Vineyard, Nantucket, Newport e Long Island Sound, tornando nell'autunno del 2010 per i charter a Newport.
*charter: noleggio di una nave armata e completa di capitano ed equipaggio che sono tenuti ad eseguire i viaggi ordinati dal noleggiatore, il quale, a sua volta, deve corrispondere loro salari e panatica (indennità nel caso l'armatore non sia in grado di fornire il servizio di mensa a bordo della nave)
Dalle ancore di epoca romana alle più recenti opere si percorre tutta la storia della Marineria Italiana, un emozionante viaggio della vita e degli uomini di mare e di tanti cittadini tortonesi che con onore e merito hanno, in alcuni casi, sacrificato la loro vita per la patria. Tra il materiale esposto l'onore del primo posto spetta al Tricolore Sabaudo, seguito dalla strumentazione per comunicare, per le incursioni subacquee, per navigare. Non mancano modelli di navi tra cui l'ammiraglia della Marina nella 2ª guerra mondiale "Corazzata Roma", la nave scuola "Amerigo Vespucci" e la più recente "Portaerei Cavour".
La realizzazione del museo è dovuta ad un superbo e caparbio lavoro dei soci del gruppo A.N.M.I. Medaglia d'Oro al valore militare "Lorenzo Bezzi" che hanno provveduto alla sistemazione dei locali, il reperimento e l'allestimento dei cimeli e delle opere.
Carlo GATTI
Rapallo, 18 febbraio 2022
MUSEO DEL MARE
Musei, biblioteche e gallerie
via Pietro Pernigotti, 12
15057-Tortona
Tel:+39335.6715822/348.1498791
http://www.facebook.com/MuseoDelMareTortona/
orario: sabato:09-12//16-19
IL SUPERBACINO LASCIA GENOVA SENZA RIMPIANTI
Il SUPERBACINO lascia Genova senza rimpianti
Quattro rapallesi parteciparono a quella difficile manovra
Il porto di Genova era già stato in passato teatro d’innumerevoli manovre “rognose” di superpetroliere, porta-contenitori di ultima generazione, le famose navi passeggeri QE/2 e Norway, portaerei, piattaforme, navi speciali ecc… ma il solo pensiero di spostare e mettere in uscita un manufatto costruito in cemento armato, lungo 370 mt., largo 80 e alto una ventina di metri, faceva tremare i polsi, non solo alle alte cariche cittadine che avevano deciso di liberarsene, ma soprattutto al Corpo Piloti che ricevette l’ordine di studiare la manovra e realizzarla nella massima sicurezza.
Questa megastruttura, nata e cresciuta in porto, era destinata al raddobbo delle supetroliere di 350.000 tonnellate di portata, che furono costruite dopo il blocco del Canale di Suez alla fine della Guerra dei Sei Giorni (6.6.67). La sua tormentata e penosa vicenda fu il risultato di errori di progettazione, di valutazione e programmazione che qui, per amor di patria, non intendiamo indagare, ma consentiteci tuttavia d’esprimere la nostra “non” isolata opinione, che il Superbacino fu ideato con lungimiranza e che rappresentò l’intelligente tentativo di dare al porto di Genova uno strumento tanto importante quanto necessario per lo sviluppo del ramo industriale, oltre che per restare al passo con i tempi.
La comica risoluzione del problema esplose come un fuoco d’artificio quando ormai il manufatto era in via d’ultimazione. I lavori furono interrotti all'improvviso e la struttura assunse la veste di un ingombro enorme, un intralcio, un gigantesco mostro da eliminare, dopo venti anni d’assoluta inoperosità. La perentoria decisione politica sentenziò che il Superbacino era messo in vendita al miglior offerente, previa la rimozione ed il trasporto dell’impianto fuori del porto. Il manufatto, ovviamente, non era stato certamente concepito per essere spostato dal suo sito originale, né tanto meno per affrontare il mare aperto. Da questa “pratica” considerazione, detonarono le paure e le perplessità tecniche legate alla sua partenza.
Il Superbacino era, di fatto, un enorme galleggiante senza forme nautiche e nessuno osava immaginare quali sarebbero state le sue reazioni al vento e alla corrente, e non dava inoltre alcuna garanzia di governabilità e di obbedienza ai richiami dei rimorchiatori.
La sua forma, simile ad un enorme parallelepipedo vuoto e senza copertura, era il risultato dell’assemblaggio di otto elementi che era iniziato con il varo, tutt’altro che facile, del primo pezzo nel lontano 28 aprile 1975.
Lo spazio disponibile, ossia l’acqua di manovra per sfilarlo dalla sua posizione d’ormeggio verso il centro del canale, era così limitato da non consentire il benché minimo errore. Il punto debole della manovra era l’altezza della struttura che, moltiplicata per la sua lunghezza, esponeva al traverso della tramontana una superficie velica capace di farla scarrocciare di pancia, ad una velocità difficilmente contrastabile, qualora dalla bonaccia si fosse passati a rinforzi anche deboli del vento.
La minaccia d’urto contro le opere portuali era reale, e tale da far temere eventuali aperture di falle nella sua parte immersa, con il conseguente allagamento e appesantimento dell’impianto sino a toccare il fondale. A questo punto, l’incaglio del Superbacino nel centro dell’imboccatura avrebbe chiuso il traffico portuale per molto tempo, causando ripercussioni economiche e commerciali di difficile valutazione.
Il Superbacino, ormeggiato di punta al lato occidentale della Nuova Banchina Industriale, è libero da terra ed inizia a muovere verso la sua definitiva destinazione: la Turchia
Alle 04.00 del 26 luglio del 1997, quattro piloti: il CP Aldo Baffo, Giuseppe Fioretti, Carlo Gatti e Ottavio Lanzola presero posizione su ogni lato del Superbacino, quattro squadre di ormeggiatori si divisero i cavi da mollare e otto potentissimi rimorchiatori si disposero per sfilare il manufatto, sostenendolo da ogni lato per evitare collisioni contro le opere portuali. La rotta tracciata rappresentava il binario sul quale doveva procedere il convoglio, nel più scrupoloso silenzio radio e con la massima concentrazione da parte di tutti gli addetti alla manovra.
Verso le 05, alle prime luci dell’alba ed in completa assenza di vento, si udì in VHF il “molla tutto da terra” e dopo circa mezz’ora, il “libero da terra”. Il Superbacino iniziò a scivolare con sorprendente leggerezza e la sua velocità fu volutamente frenata per consentire ai due rimorchiatori “leaders di prora” di prenderlo a rimorchio nello stretto spazio della calata. Il loro compito era molto delicato e consisteva:
- nel “fargli da timone” durante lo sfilamento.
- Fermarlo in avamporto.
- Trainarlo verso l’uscita.
- Consegnarlo infine al rimorchiatore russo stazionato fuori del porto.
Il compito d’eseguire quest’articolata manovra, fu assegnato a due comandanti rapallesi Giorgio Merello e Giuseppe Percivale. Il terzo rapallese era Andrea Fioravanti, direttore di macchina, imbarcato con Giorgio Merello.
Giunti in avamporto, nel punto di massima larghezza, accadde quanto era - in effetti - temuto dagli esperti. Al levarsi del sole sul Monte Fasce, improvvisamente soffiò una fresca tramontana che scaricò la sua pressione sul fianco sinistro del Superbacino, nel momento della sua massima vulnerabilità, mentre era fermo e senza abbrivo. In un attimo l’imponente struttura iniziò a scarrocciare verso la diga. Un rapidissimo consulto tra i Piloti fece scattare un ordine d’assoluta emergenza e tutti i rimorchiatori furono inviati immediatamente a spingere sottovento, eccetto quelli che erano già in tiro verso nord.
Quando i sei “mastini” iniziarono a spingere a tutta forza nella pancia del manufatto, si trovarono così vicini alla diga del porto che sembrava ormai inevitabile il loro intrappolamento. Gli fu chiesta l’extra potenza disponibile ed anche qualcosa di più…..
Il Superbacino, che non provò mai la gioia di accogliere una nave nel suo seno, ebbe un’impennata d’orgoglio marinaro e si ribellò all’ennesima brutta figura. Presto riguadagnò la sua posizione nel centro del canale e s’avviò rassegnato, ma non sconfitto verso il mare aperto.
Il Superbacino è in mezzo al canale. Il due rapallesi, Merello e Percivale sono al comando dei due rimorchiatori trainanti che lo consegneranno in rada al rimorchiatore oceanico russo
La partenza del Superbacino galleggiante fu un avvenimento davvero singolare. Per la città se ne andava una delle tante e inutili “cattedrali nel deserto”, un mostro che offendeva il suo panorama. Per il popolo portuale, al contrario, fu vissuto come uno spettacolo deprimente, con profondo senso di tristezza e di sconfitta per l’assurda vendita di una fonte di reddito per tanti lavoratori e operatori del settore marittimo-industriale.
Carlo GATTI
Rapallo, luglio 1997
IL VIAGGIO DELLA R.M.S. LACONIA VERSO L'INFERNO
IL VIAGGIO DELLA R.M.S. LACONIA VERSO L’INFERNO
UN PO’ DI STORIA
IL 1942 – L’ANNO DELLA SVOLTA
Sul fronte russo - Il quarto anno di guerra fu quello decisivo; le potenze dell’Asse erano come un proiettile lanciato che compie la sua parabola ascendente, rallenta e inizia la parabola discendente, deflagra e finisce la sua corsa.
L’offensiva tedesca arrestata dall’inverno riprese l’8 maggio con una serie di poderosi colpi: furono occupate Sebastopoli, Voronesc, Rostov e fu raggiunta (ma non conquistata) Stalingrado. Ma erano gli ultimi sforzi: l’esercito sovietico, riavutosi dai tremendi colpi iniziali, preparava la sua riscossa.
Sul fronte africano
Gli Italo-Tedeschi il 27 maggio partirono all’attacco e dopo tre mesi raggiunsero El Alamein, a 100 chilometri da Alessandria d’Egitto. Questo fu il punto massimo raggiunto dall’avanzata delle forze dell’Asse.
Il 23 ottobre l’ottava armata inglese scatenò la controffensiva: superiore per uomini e armi, essa riuscì a sfondare dopo dieci giorni il fronte italo-tedesco. Entro l’anno, tutta la Libia era in mano degli Inglesi.
El Alamein, un nome che riporta la mente a due importanti battaglie.
La prima è datata:
1 luglio–27 luglio 1942
la seconda:
23 ottobre–4 novembre 1942.
Nella prima battaglia di El Alamein. Gli alleati fanno molti prigionieri dell’ASSE che vanno portati altrove.
Da questa situazione nasce la tragica storia della LACONIA.
1800 prigionieri italiani pagarono il prezzo più alto
QUEL DISASTRO NAVALE FU NASCOSTO PER MOLTISSIMI ANNI
Per ragioni di opportunità? Non è stato mai chiarito! Ma sappiamo che a guerra finita cambiarono i rapporti geo-politici internazionali: chi era nemico diventò amico e viceversa, per cui certi “massacri” terrestri e navali furono chiusi a lungo negli armadi della vergogna …
Armadio della vergogna è un’espressione del giornalismo italiano usata per la prima volta dal cronista Franco Giustolisi in alcune inchieste per il settimanale l’ESPRESSO.
Essa fa riferimento a un armadio rinvenuto nel 1994 in un locale di Palazzo Cesi-Gaddi in via degli Acquasparta nella città di Roma, nel quale erano contenuti fascicoli d’inchiesta riguardanti il periodo della Seconda Guerra mondiale. Si trattava di 695 dossier e un Registro Generale riportante 2.274 notizie di reato, raccolte dalla Procura generale del Tribunale supremo militare, relative a CRIMINI DI GUERRA commessi sul territorio italiano durante la Campagna d’Italia (1943-1945) dalle truppe nazifasciste – MA NON SOLO!
Bur Tewfik adiacente al porto di Suez-In basso nella cartina
Nel luglio 1942 la nave LACONIA, salpando da Port Tewfik, adiacente al porto di Suez, iniziò un viaggio per rimpatriare in Inghilterra: 463 ufficiali e uomini dell’equipaggio, 268 soldati britannici in qualità di passeggeri, 103 soldati polacchi destinati al servizio di guardia e 80 tra donne e bambini.
Nel frattempo, mediante zattere erano stati fatti convergere a Port Tewfik 1.800 prigionieri italiani, reduci dalla battaglia di El-Alamein, che furono imbarcati sulla LACONIA e stipati nelle stive, di dimensioni insufficienti in quanto potevano contenere solamente la metà dei prigionieri bloccati da sbarre stile prigione all’interno del ventre della nave, con razioni minime di cibo e acqua e sorvegliati dai carcerieri polacchi.
La cartina mostra la posizione del siluramento della LACONIA
La nave fece tappa nei porti di Aden, Mombasa, Durban e Città del Capo, da dove, invece che proseguire per l’Inghilterra fece rotta per l’Atlantico, allontanandosi dalle coste africane dove erano presenti numerosi sommergibili nemici in servizio di pattugliamento.
Nella notte del 12 settembre 1942 la Laconia navigava a luci spente nell’oscurità seguendo una rotta a zig-zag per evitare attacchi di sommergibili.
Alle ore 20,10 – 130 miglia a nord-nord est dall’Isola di Ascensione, la nave venne colpita a dritta da un siluro lanciato dal sottomarino tedesco U-BOOTE 156. L’esplosione interessò la stiva dove erano presenti molti prigionieri italiani.
Dobbiamo subito dire che durante le fasi dell’affondamento, le guardie polacche chiusero tutti i boccaporti delle stive dove erano tenuti prigionieri gli Italiani: molti di loro morirono affogati nel ventre d’acciaio della nave. Alcuni dei sopravvissuti, inoltre, affermeranno che i Polacchi di guardia, pur di non fare fuggire i prigionieri, fecero uso delle loro armi in dotazione e aprirono il fuoco.
Per la verità sono parecchi i siti trovati sul web che riportano queste orribili testimonianze e ne segnaleremo alcuni.
La Laconia affondò di poppa innalzando la prua quasi in verticale, come mostra l’impressione pittorica riportata sotto. I naufraghi in acqua e sulle scialuppe si trovarono a dover fronteggiare gli squali, in mare aperto in pieno Atlantico, con poche probabilità di sopravvivenza.
L’affondamento del Laconia. Ecco dunque la ricostruzione sommaria della triste vicenda.
La notte del 12 settembre del 1942, nei pressi dell’isola di Ascensione un sottomarino tedesco, l’U-156 al comando del tenente di vascello Werner Hartenstein, inquadrò e colpì la Laconia, un transatlantico varato nel 1922 da circa 20.000 tonnellate convertito dagli inglesi in mercantile armato per il trasporto delle truppe (v. disegno più sotto).
Il sommergibile tedesco emerse ed il suo comandante si accorse che tra i naufraghi c’erano numerosi soldati alleati italiani. Appresa la composizione dei passeggeri informò immediatamente il Comando navale tedesco. Il viceammiraglio Dönitz acconsentì al salvataggio dei naufraghi, ordinando allo stesso tempo ad altre unità navali, tedesche ed italiane, di far rotta verso il luogo del disastro.
Dai primi racconti dei naufraghi italiani risultò subito una realtà inquietante, che fu annotata nel giornale di bordo del comandante Hartenstein: «00 h 7722 – SO. 3. 4. Visibilità media. Mare calmo. Cielo molto nuvoloso. Secondo le informazioni degli italiani, gli inglesi, dopo esser stati silurati, hanno chiuso le stive dove si trovavano i prigionieri. Hanno respinto con armi coloro che tentavano di raggiungere le lance di salvataggio…».
In sostanza le guardie polacche avevano ricevuto l’ordine di lasciare i 1800 prigionieri di guerra italiani chiusi nelle stive, condannati di fatto ad una morte orribile per affogamento. Le testimonianze su quei tragici momenti apparivano agghiaccianti, qualcuno dei prigionieri pare avesse tentato addirittura di suicidarsi battendo la testa contro le pareti del lo scafo. Con la forza della disperazione i reduci del deserto si erano scagliati contro i cancelli sbarrati, davanti alle guardie che non esitavano a respingerli a colpi di baionetta o a sparare a bruciapelo. L’orrore era poi proseguito sul ponte della nave, dove si era sparato sugli italiani che cercavano posto nelle scialuppe e ad alcuni erano anche stati recisi i polsi affinché non potessero più arrampicarsi.
L’emersione del sommergibile aveva posto fine alla barbarie, ma si è potuto calcolare che ben oltre un migliaio di italiani fossero già morti direttamente nelle stive e in quelle prime ore disperate.
Capitano di Vascello Werner Hartenstein era al comando dell’U-Boote 156
Le operazioni di salvataggio, che durarono alcuni giorni, consentirono al comandante Hartenstein di salvare sul suo, e sugli altri U-Boote, centinaia di naufraghi, in attesa dell’arrivo di una nave francese di soccorso, un incrociatore della classe Gloire partito da Dakar.
Il comandante dell’U-156
FAMIGLIA CRISTIANA ha pubblicato:
“L’affondamento del Laconia”, film Tv in onda domenica 2 ottobre alle 21.30 su Canale 5, racconta un evento realmente accaduto ma mai approfondito, perché il Governo italiano del dopoguerra non chiese spiegazioni. Dodici settembre 1942, Oceano Atlantico. Il transatlantico Laconia naviga tranquillo al largo delle coste della Sierra Leone: trasporta principalmente civili britannici e militari inglesi e polacchi, ma nella stiva ci sono oltre 1.800 prigionieri italiani. Sopravvivere in circa mezzo metro quadrato di spazio è dura: la situazione precipita quando l’imbarcazione viene colpita da tre siluri. A lanciarli, per errore, un sottomarino tedesco: la Laconia era stato scambiato per una nave da guerra. Le falle che si aprono nella chiglia trasformano la stiva in una trappola mortale, mentre la spinta disperata degli italiani nella stiva serve ad abbattere le sbarre di una sola delle tre gabbie in cui sono rinchiusi.
Mentre in superficie i tedeschi si adoperano in un’operazione di salvataggio dell’equipaggio, circa seicento prigionieri superstiti, guidati dal tenente Vincenzo Di Giovanni (Ludovico Fremont), provano a risalire: ma ad attenderli trovano i fucili dei soldati polacchi rimasti a bordo. Nonostante le avversità, gli italiani riescono a raggiungere il ponte prima che la Laconia affondi, ma non trovano più scialuppe disponibili. Il film, grazie alle testimonianze dei sopravvissuti e di alcuni militari inglesi e tedeschi, racconta una tragedia che poteva, se non altro, essere contenuta nelle proporzioni. I primi naufraghi italiani furono portati in salvo il 16 settembre: sopravvissero solo 400 uomini, molti morirono sbranati dagli squali”.
B TERRITORI 8 febbraio 2017 – ha pubblicato:
Si è spento il reduce Nino - Era l’ultimo della Laconia
Nino era l’ultimo superstite dell’affondamento del transatlantico «Laconia», un tragico fatto che racchiude in sé tutte le contraddizioni, il dolore e l’orrore della guerra.
Da quel naufragio sopravvissero solo 380 dei 1840 italiani imbarcati come prigionieri sulla nave inglese, silurata il 12 settembre 1942 da un sommergibile tedesco.
Il figlio Gianfranco 68enne ex vigile in pensione, abita invece a Gardone Riviera ed è l’unico ad aver raccolto nel corso degli anni qualche scarna testimonianza.
Per un racconto completo, anche il figlio dovette attendere l’ottobre del 2011, quando Canale 5 trasmise in un’unica serata la miniserie cinematografica ispirata da dall’evento storico: «Rimase a guardare in silenzio – ricorda Gianfranco – ma non fu soddisfatto perché secondo lui il racconto era troppo romanzato. Poi raccontò».
Giovanni Bigoloni apparteneva al 7° reggimento bersaglieri e dopo la prima battaglia di El Alamein venne fatto prigioniero dagli inglesi. Condotto al campo di prigionia di Suez, vi rimase fino al 29 luglio e poi fu imbarcato sulla Laconia, insieme a 463 marinai dell’equipaggio, 286 militari inglesi, 1840 prigionieri di guerra italiani, 103 guardie polacche». Dopo 45 giorni di navigazione, nella notte del 12 settembre, due siluri lanciati dal sommergibile tedesco U-156 affondarono la nave, in pieno oceano atlantico, al largo dell’Africa occidentale.
«IL PAPÀ si legò a un salvagente e rimase in acqua due giorni e mezzo. Fu poi raccolto con altri pochi naufraghi sul sommergibile Cappellini, della Regia Marina italiana. Sbarcato dopo un mese a Dakar, venne in seguito smistato a combattere in Jugoslavia e dopo l’armistizio tornò a casa con mezzi di fortuna».
Giovanni Bigoloni trovò poi lavoro a Roè facendo come macellaio allo spaccio del cotonificio «De Angeli Frua» e poi, fino alla pensione, intraprese con un piccolo autocarro l’attività di trasportatore. Adesso, Giovanni riposa accanto alla moglie Angela nel cimitero di Salò. L.SCA.
Scialuppa di salvataggio affiancata all’U-156
Werner Hartenstein
La tragedia sembrava giunta alla fine, ma in realtà le sorprese non erano finite.
In quelle difficili condizioni, il 16 settembre, alle ore 11,25, fu avvistato un bombardiere americano del modello B-24 Liberator, comandato dal tenente pilota James D. Harden. Dall’aereo si potevano osservare i sommergibili e vedere sopra coperta, come da convenzione internazionale, i teli bianchi con la croce rossa, indicanti prigionieri a bordo. Di più: Hartenstein chiese ad uno degli ufficiali inglesi che si trovavano sul suo U-Boot di trasmettere – in inglese – all’aereo il seguente messaggio: «Qui ufficiale Raf a bordo del sommergibile tedesco. Ci sono i naufraghi della Laconia, soldati, civili, donne e bambini».
Il Liberator non rispose e si allontanò. Il tenente pilota Harden telegrafò però al suo punto di appoggio che si trovava sull’isola di Asuncion, da dove il comandante in capo, il colonnello Robert C. Richardson III, impartì l’ordine chiaro «Sink sub».
Il Liberator tornò alle 12h e 32m per bombardare i sommergibili. Caddero cinque bombe, di cui una centrò una scialuppa ed una colpì l’U-Boot causando avarie agli accumulatori ed al periscopio. Hartenstein a quel punto fece tagliare le cime con le scialuppe e si immerse.
I superstiti (700 inglesi, 373 italiani e 72 polacchi) furono poi presi a bordo dalla nave francese di soccorso e giunsero a Dakar il 27 settembre.
Dönitz diventò ammiraglio alla fine di quell’estate e dispose che i sommergibili non avrebbero più raccolto naufraghi delle navi affondate e questo fu uno dei capi di imputazione sulla sua testa al processo di Norimberga, il 9 maggio 1946. Dönitz, che fu poi condannato a 10 anni di prigione, si difese proprio citando il bombardamento dei sommergibili dopo l’affondamento del Laconia.
Dei 1800 italiani, circa 1400 morirono annegati, in gran parte intrappolati nella stiva della nave. Fra essi anche il nostro compaesano, il filese ventinovenne Felloni Selvino.
Una tragedia di guerra, la guerra come tragedia. Di questa vicenda si è parlato con parsimonia nel dopoguerra e ben pochi si sono occupati di quei poveri morti. Per gli annegati della Laconia, dunque, c’è sempre stato solo il dolore privato delle famiglie e qualche sommesso quanto rispettoso ricordo, come questo modesto scritto, a tanti anni da quei fatti. Poche, e poco autorevoli le ammissioni di colpa da parte degli anglo americani che, a quanto si legge, hanno sempre per lo più ignorato, nel dopoguerra, l’avvenimento.
E’, quella della Laconia, comunque la si interpreti, una pagina ben poco onorevole, ma è anche uno dei tanti misfatti di una guerra insensata, in cui ci portò colpevolmente un regime autoritario e liberticida, responsabile di aver arrecato all’Italia, oltre ai tanti lutti famigliari, una rovina morale e materiale dalla quale ci si è potuti sollevare soltanto con grande sacrificio ed unità di popolo.
Sia allora questo piccolo ricordo del filese Selvino, disperso coi suoi tanti compagni all’altra parte del mondo, ingoiato dall’Oceano al largo dell’Africa nella più sconvolgente delle tragedie, un monito e una preghiera contro la pazzia della guerra, contro l’odio insensato ed il disprezzo per la vita, quasi sempre fomentato dal nazionalismo più becero, e sia un accorato appello contro quella violenza, prepotenza e sopraffazione che possono fare dell’uomo, ancora
SEGUONO I LINK DI ALTRE TESTATE E SITI STORICI
MADRE RUSSIA – Luca D’Agostini 28 febbraio 2020
MILES FORUM
https://miles.forumcommunity.net/?t=58503500&st=15
http://wernerhartenstein.tripod.com/italiano01.htm
Centro Studi La Runa – MOZZARE LE MANI AI NAUFRAGHI Da leggere
https://www.centrostudilaruna.it/mozzare-le-mani-ai-naufraghi.html
NOTE TECNICHE E STORICHE DELLA NAVE RMS LACONIA
Il transatlantico inglese RMS Laconia fu varato nel 1921 ed acquistato dalla Cunard Line. Fu la seconda nave di questa famosa Compagnia Line con questo nome: la precedente fu un altro transatlantico varato nel 1911 ed affondato durante la Prima guerra mondiale, nel 1917. Analogamente al suo predecessore, il Laconia fu affondato nella notte del 12 settembre 1942 da un siluro lanciato dall’U-Boot U-156, che diede poi luogo al salvataggio dei passeggeri e dell’equipaggio con un’eroica azione condotta dal Capitano di vascello Warner Hartenstein. Per dare supporto nel salvataggio venne fatto intervenire anche un altro U-Boot.
Caratteristiche tecniche La Laconia fu costruito dai cantieri Swan, Hunter & Wigham Richardson a Tyne and Wear. Varato il 9 aprile 1921, il transatlantico venne completato nel gennaio 1922. L’apparato propulsivo consisteva in sei turbine a vapore con doppio riduttore costruite dalla Wallsend Slipway Co Ltd di Newcastle upon Tyne, che muovevano due eliche. Oltre ai locali per i passeggeri, la nave era dotata di sei celle frigorifere per una capienza totale di 15.307.
Codice: KLWT
Primi anni di servizio - Immatricolata nella Marina Mercantile inglese con il numero 145925 ed il Laconia fece servizio anche per la Royal Mail, come testimonia la corona dorata presente nel Crest della nave. Fu stabilito come porto di residenza Liverpool.
Il Laconia salpò per la crociera inaugurale il 22 maggio 1922 sulla rotta Southampton-New York. Nel gennaio 1923 ebbe inizio la sua prima crociera internazionale che durò 130 giorni con 22 porti di attracco. Nel 1934 il suo codice in lettere venne cambiato in GJCD. Il 24 settembre dello stesso anno, a causa della fitta nebbia, la nave ebbe una collisione con la nave cargo americana Pan Royal al largo delle coste degli Stati Uniti, mentre era in navigazione da Boston per New York. Entrambe le navi furono gravemente danneggiate ma riuscirono entrambe a salvarsi. Il Laconia proseguì per New York dove venne riparata. In seguito riprese la navigazione nel 1935.
Trasformazione in cargo incrociatore Nel 1939 la nave venne requisita dalla Royal Navy e obici da 762 mm. Dopo le prove in mare eseguite nelle acque dell’Isola di Wight, la Laconia imbarcò un carico di lingotti d’oro e salpò, il 23 gennaio dello stesso anno, con destinazione Portland, Maine e Halifax, in Nuova Scozia. I mesi seguenti la nave fu impegnata in servizi di scorta ai convogli diretti alle Bermuda. Il 9 giugno la nave fu vittima di un incagliamento nel bacino del Bedford, ad Halifax, che causò gravi danni. Mandata in riparazione, tornò in navigazione a fine luglio. Nell’ottobre 1940 la nave fu sottoposta ad altri lavori con lo smantellamento delle zone destinate ai passeggeri; alcuni locali, svuotati dal mobilio, vennero riempiti di fusti di olio per aiutare la spinta di galleggiamento in caso di siluramento. Nel giugno 1941 la Laconia venne ricoverato a Saint John nel New Brunswick, in Canada, per lavori di ripristino. Tornato a Liverpool, venne da quel momento utilizzato come nave trasporto truppe, sino al suo affondamento. Il 12 settembre 1941 la nave attraccò a Bidston Dock, nel Birkenhead, e fu presa in consegna dalla società Cammell Laird and Company per essere convertita in mercantile armato. Nei primi giorni del 1942 fu completata a conversione e per i successivi sei mesi la nave fece numerose traversate per il Medio Oriente.
Tiriamo le somme con:
SOCRATE
“Tutte le guerre sono combattute per denaro.”
JEAN-PAUL SARTRE
“Quando i ricchi si fanno la guerra tra loro, sono i poveri a morire.”
EZRA POUND
“Il vero guaio della guerra moderna è che non dà a nessuno l’opportunità di uccidere la gente giusta.”
Carlo GATTI
Rapallo, giovedì 3 Febbraio 2022
LANTERNA
LANTERNA
Faro di Genova dal 1128
Genova, Italia
Lat. 44° 25' N Long. 8° 56' Est
Altezza 77 metri, Portata 26 miglia, costruzione 1543
Come “Simbolo di Genova” ha sette secoli di storia alle spalle. Nel 1316, grazie alle donazioni delle congregazioni: i Conservatori del mare, i consoli del mare divenne ufficialmente un faro...
Descrizione luce: Due lampi bianchi, periodo 20 secondi
PREMESSA
Quella dei Fari è una storia affascinante che si perde nella notte dei tempi e va di pari passo con la storia della navigazione.
Per la gente di mare di queste parti che approda a Genova dopo un viaggio più o meno lungo, LA LANTERNA dà il suo primo saluto dal cielo con quella luce proiettata sulle nuvole notturne che i marittimi vedono un po’ in alto di prora, e che li fa vociare sommessamente con una certa emozione: “si vede la scopa della Lanterna!”.
A questo punto molti di voi si chiederanno:
Ma cos’è la scopa di un FARO?
Quando un faro è molto potente, il suo fascio luminoso rotante non segue la curvatura terrestre per cui, dopo un certo percorso rettilineo, viene proiettato in alto così che, una nave che si trovi ancora sotto l’orizzonte, non vede la luce del faro direttamente, ma solo la sua scopa che disegna in cielo le sue “caratteristiche” fatte di lampi ed eclissi.
Scendiamo brevemente nel “tecnico” …
PORTATA GEOGRAFICA
è la massima distanza dalla quale può essere avvistata una luce, esclusivamente in funzione della curvatura terrestre. La portata geografica dipende quindi dall’altezza della luce e dall’elevazione dell’occhio dell’osservatore.
PORTATA LUMINOSA
è la massima distanza dalla quale può essere avvistata una luce in un dato istante, in funzione dell’intensità luminosa (o portata nominale) e della visibilità meteorologica (o trasparenza atmosferica) in atto.
Per definizione quindi la portata luminosa è variabile in funzione
della trasparenza atmosferica.
Nei Fari più importanti, generalmente la portata luminosa è sempre maggiore della portata geografica, così che lo "scintillio della "scopa" del faro sul riverbero dell'acqua si manifesta a notevole distanza.
Dipende dalla velocità della nave e dalle condizioni meteo, ma si può dire che la scopa, anche in epoca moderna, anticipa di ore il segnale luminoso vero e proprio del faro, ed anche la gioia “irrefrenabile che il “marinaio” prova nel sentirsi “quasi” a casa.
Tutti i naviganti, in tutte le lingue e dialetti, lo chiamano: porto cosce! E ciò accadeva già molto tempo prima che Fabrizio De André immortalasse quel “desiderio” con la meravigliosa canzone JAMIN-A.
Quanti marittimi sono transitati davanti alla LANTERNA felici all’arrivo e tristi alle partenze sulle loro navi in rotta verso i sevenseas?
Solo LEI, la LANTERNA potrebbe dirlo dall’alto della sua maestà laica ed anche religiosa con il suo stemma crociato rivolto verso la città portuale.
Ecco che la LANTERNA, con i suoi antichi simboli, rappresenta il calore della mamma accogliente per i marinai di tutte le razze, religioni e provenienze che si sentono guidati dal suo sguardo luminoso e protettivo mentre si avvicinano e poi, con nostalgia e tristezza quando, allontanandosi, tramontano lentamente sotto l’orizzonte.
Prima del 6 ottobre 2017, Genova non aveva mai dedicato una mostra alla Lanterna, al suo faro medievale che, sin dalle prime rappresentazioni pittoriche della città ne era, comunque, diventato il simbolo più amato dai genovesi i quali, com’è noto, sono estremamente gelosi dei propri sentimenti e non amano parlare dei propri “gioielli” in pubblico! Una storia che conosciamo da sempre!
La sua struttura eccezionale - fino al 1902 è stato il faro più alto del mondo - con la posizione di guardia sul colle di San Benigno, la vedono, fin dai suoi albori, come uno dei simboli più amati della SUPERBA.
Solo da pochi anni è visitabile (con alcuni limiti), proprio come certe Icone di cui si deve rispettare innanzitutto la sacralità.
Così ci viene ufficialmente descritta sui dotti manuali:
Eppure la Lanterna, monumento unico anche nel panorama dei porti del mediterraneo, è sempre riaffiorata prepotente quale elemento distintivo, vera e propria Mirabilia Urbis, tanto nelle carte nautiche quanto nei documenti ufficiali, sui frontespizi dei libri e nelle immagini pubbliche, a suggello dell’efficienza e della stabilità del porto, elemento cardine dell’iconografia della città intera. E che il simbolo di Genova fosse un faro, ovvero una svettante torre antica con precisa funzione pratica e intimamente legata alla navigazione, monumento che rimanda alle imprese che resero la Repubblica ricca, temuta e rispettata, rientra nello spirito più autentico della città.
Guardate attentamente le tre fotografie a seguire e vi accorgerete che:
I nostri AVI medievali avevano visto giusto
LA LANTERNA si trova ancora oggi nel CUORE del suo porto, dove navi, marinai e merci entrano in contatto tra loro per scambiare ricchezza e cultura, relazioni e pagine di storia.
La Storia della LANTERNA
Leggiamo qua e là….
Nel 1128 venne edificata la prima torre. Secondo alcune fonti non ufficiali, era alta poco meno dell’esistente e con una struttura architettonica simile all’attuale, ma con tre tronchi merlati sovrapposti. Alla sua sommità venivano accesi, allo scopo di segnalare le navi in avvicinamento, fasci di steli secchi di erica (“brugo”) o di ginestra (“brusca”).
Nel secolo XI, le prime cronache e gli atti ufficiali del nascente Comune genovese forniscono dati sicuri sulla torre di segnalazione, ma non la sua data esatta di costruzione.
Nel 1318, durante la guerra tra Guelfi e Ghibellini la torre subì rilevanti danni alle fondamenta ad opera della fazione ghibellina.
Nel 1321 vennero effettuati lavori di consolidamento e venne scavato un fossato allo scopo di renderla meglio difendibile.
Nel 1326 venne installata la prima LANTERNA; la lucerna era alimentata ad olio di oliva ed in merito l’annalista Giorgio Stella scriveva:
“In quest’anno fu fatta una grande lanterna sulla Torre di Capo Faro affinché con le lampade in essa accese, nelle notti oscure, i naviganti conoscessero l’adito alla nostra città”.
Nel 1340, per meglio identificare la lanterna con la città, venne dipinto alla sommità della torre inferiore: lo stemma del comune di Genova, opera del pittore Evangelista di Milano.
Al 1371 risale la rappresentazione più antica di questa prima Lanterna che appare in un disegno a penna sopra una copertina pergamenacea di un manuale dei “Salvatori del Porto”, Autorità marittima del tempo conservata all’Archivio di Stato di Genova e restaurata nel 2017 grazie al contributo del Lions Club di Sampierdarena per il progetto Insieme per la Lanterna e Adotta un Documento.
La Lanterna di Genova che vediamo oggi
Ci affidiamo ancora alla storiografia ufficiale
Al 1543 risale l’attuale costruzione che, con i suoi 77 metri di altezza, è il faro più alto del Mediterraneo, secondo in Europa. In quell’anno vennero anche sostituite le antiche merlature e fu posta in opera alla sua sommità una nuova LANTERNA costruita con doghe di legno di rovere e ricoperta con fogli di rame e di piombo fermati con ben seicento chiodi di rame.
Fu in quella occasione che la TORRE assunse il suo aspetto definitivo che ancora oggi vediamo.
Nel 1565 si ritornò a lavorare sulla cupola per renderla stagna.
Nel 1681 si ricostruì la cupola con legno di castagno selvatico calafatando il tutto con pesce e stoppa e ricoprendola con fogli di piombo stagnati ai bordi sovrapposti.
Nel 1684 durante i bombardamenti di Genova ordinato dall’Ammiraglio francese Jean-Baptiste Colbert de Seignelay, per ordine di re Luigi XIV, un colpo centrò la cupola distruggendone l’intera vetrata, che venne provvisoriamente ricostruita.
Nel 1692, la vetrata venne modifica aggiungendovi un nuovo ordine di vetri. Nel Portolano manoscritto del XVI secolo di autore anonimo si legge: “a miglia 14 da Peggi (Genova Pegli) città con buonissimo porto e alla parte di ponente, vi è una lanterna altissima e dà segni alli vascelli che vengono a piè di detta lanterna”.
Nel 1771, a seguito dei ripetuti danni causati dai fulmini e dagli avvenimenti bellici la torre venne incatenata a mezzo di chiavarde e di tiranti che ancora oggi sono visibili all’interno.
Nel 1778, fu dotata di impianto parafulmine che fu realizzato dal fisico P.G.Sanxais.
Nel 1791 vennero effettuati alla base della prima torre, lavori di consolidamento per renderla più stabile.
Nel 1840, in tempi più recenti, la potenza del faro aumentò notevolmente, sia per l’introduzione di più moderni sistemi ottici, sia per il sistema rotante con lenti di Fresnel, sia per l’introduzione di nuovi combustibili:
Nel 1898 si passò all’impianto del gas acetilene.
Nel 1905 al petrolio pressurizzato.
Nel 1936 all’elettrificazione.
Da allora la Lanterna superò senza gravi conseguenze i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, nonché innumerevoli momenti di intemperie naturali.
CURIOSITA’
Tutti sono d’accordo sull’anno 1128 quale data dell’erezione di una TORRE sul Capo di Faro, in passato detto anche CODEFA’.
Tutto invece s’ignora del costruttore della LANTERNA il quale, secondo una leggenda, ad opera ultimata sarebbe stato gettato nel vuoto dal suo culmine, per impedire che realizzasse altrove qualcosa di simile, oppure – ed è questa la versione più maligna – per evitare di corrispondergli il compenso pattuito. A parte la mancanza del minimo fondamento storico, v’è da considerare che ciò è narrato, negli stessi termini, per molte altre eminenti costruzioni d’Italia.
Vi segnalo il LINK di un articolo interessante. Si tratta dell’intervista fatta al Guardiano del FARO Angelo De Caro.
IL SECOLO XIX - Quella piccola lampadina, cuore della Lanterna di Genova. Firmato Licia Casali
https://www.ilsecoloxix.it/genova/2014/09/12/news/quella-piccola-lampadina-cuore-della-lanterna-di-genova-1.32072595
Angelo De Caro - Il guardiano del faro.
L'accensione non è l'unica tradizione a essere stata modificata dall'avvento della tecnologia. De Caro ama mostrare ai pochi che si spingono sino alla sommità, una piccola lampadina, consapevole della reazione di stupore che susciterà: «Sembra impossibile viste le dimensioni ridotte – racconta divertito – ma è quella che dà luce alla Lanterna, amplificata dai cristalli dell'enorme ottica. Sono appena mille watt, 220 volt».
Ed è proprio questa lampadina che quando cala il sole, azionata dalla fotocellula, dà vita al simbolo di Genova: un giro completo del faro dura 40 secondi con una pausa di venti: «Le sue caratteristiche sono: due lampi e 20 secondi – spiega De Caro – Pensi che illumina sino a 27 miglia marine, le navi la scorgono a quasi 50 chilometri».
Le sale dei Fari e dei Fanali
Ubicato ai piedi del FARO, esiste ed è visitabile il Museo della Lanterna. Nelle Sale “dei fucilieri” e in quelle “dei cannoni”, si trova un’interessante collezione di strumentazioni: qui il visitatore può comprendere il funzionamento di questi importanti riferimenti per la navigazione e non solo (la Lanterna infatti funziona anche da aerofaro per il vicino Aeroporto Cristoforo Colombo).
Gli oggetti esposti illustrano la storia dell’ingegno dell’uomo nel raffinare la tecnica di segnalamento marittimo, con video illustrativi sul loro funzionamento e testimonianze.
È possibile osservare da vicino l’affascinante funzionamento di un Sistema Orologeria Peso Motore con lenti di Fresnel, posizionate su ottiche rotanti tarate con estrema precisione, affinché i lampi di luce ed eclissi potessero mantenere la caratterista identificativa dei fari sulle carte nautiche.
Il sistema meccanico, una volta caricato manualmente, garantiva la rotazione dell’ottica per circa sette ore: la moderna tecnologia utilizza oggi invece un motore elettrico.
Ancora, è possibile studiare l’evoluzione della tecnologia dei Lampeggiatori: dal Lampeggiatore AD, a propano GG166, a propano RG 7273BBT, per proseguire con lo Scambiatore a quattro lampade ISEA, evoluzione degli strumenti precedenti nato con la luce elettrica, poi lo Scambiatore a quattro lampade Pintsch Bamag e a sei lampade Automatico Power, fino ad arrivare allo Scambiatore a sei lampade Automatico Power e allo Scambiatore 6 AGA IE/AD che, grazie alla sua efficienza ibrida, unita alla possibilità di utilizzare le lampade da 1000 watt e 120 volt, è stato utilizzato anche nelle ottiche rotanti dei fari.
INFORMAZIONI UTILI
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Gli accessi alla struttura sono contingentati, invitiamo pertanto all’acquisto del biglietto online secondo i posti disponibili nelle differenti fasce orarie.
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Su indicazioni del recente Decreto per il contrasto e il contenimento del diffondersi del virus COVID 19 è possibile accedere al complesso monumentale (anche negli spazi esterni dell’Open Air Museum) solo ai possessori di SUPER GREEN PASS (o esentati con certificato medico), da esibire al personale del ticket office sito in passeggiata, per tutti gli utenti con età a partire dai 12 anni.
Indirizzo: Rampa della Lanterna, 16126 Genova GE
Orari: Chiuso ⋅ Apre ven. alle ore 10
Telefono: 010 893 8088
Altezza: 76 m
Visitabile: sì
Funzione: Faro
Data di apertura: 1128
Provincia: Città Metropolitana di Genova
Automatizzazione: 1936
Elenco fari: nazionale: 1569; ALL: E1206; NGA: 7568
Anno 1126