LA NASCITA DI UN...ORMEGGIATORE PORTUALE
LA NASCITA DI UN…. ORMEGGIATORE PORTUALE
di Alessandro Serra
Premessa
LA MANOVRA PORTUALE POGGIA SU TRE ORGANIZZAZIONI:
Piloti-Rimorchiatori-Ormeggiatori
Alessandro Serra, Presidente Europeo degli Ormeggiatori, schiude la porta sul loro mondo. |
Non c'è politica, né retorica né, tanto meno, burocrazia nel caloroso articolo scritto da Alessandro Serra. Piuttosto uno spaccato di vita raccontato con il cuore, per presentare una categoria che ha una storia ricca di avventura, di professionalità e di aneddoti che diventano una vera e propria scuola di vita.
Vorrei provare a rendervi partecipi di come nasce un ormeggiatore del porto, o più semplicemente di come io ritenga di essere diventato ormeggiatore.
Giova probabilmente, per il proseguo della lettura, descrivere per sommi capi cosa è e cosa fa un ormeggiatore. Figura antica quanto la navigazione, l’ormeggiatore, lo dice la parola stessa, ormeggia e disormeggia, da sempre, le navi nei porti di tutto il mondo. Un tempo collocando e trasportando le ancore dei bastimenti chiamati “legni” nella posizione opportuna all’interno della rada portuale, oggi connettendo e disconnettendo i cavi delle navi alle bitte delle banchine portuali, dei pontili in/off shore, dei campi boe, garantendo la sicurezza dell’ormeggio per tutta la durata dello stazionamento nell’ambito portuale.
Oggi gli ormeggiatori utilizzano potenti motobarche e verricelli, addirittura innovazioni tecnologiche di tensionamento e monitoraggio dei cavi delle meganavi che solcano i mari e che devono trovare approdi sicuri.
Il mio intento però è provare a tratteggiare più la componente umana che quella professionale, più quella intima e pittoresca che quella tecnica e di moderna innovazione – che comunque l’ormeggiatore ha dovuto ovviamente mettere nel proprio bagaglio di lavoratore – più la nascita (l’essere) dell’ormeggiatore che quello che fa.
In Italia, il primo obbligatorio passaggio per la nascita di un ormeggiatore, e’ quello di partecipare a un bando di concorso tenuto dalla Capitaneria di porto, che seleziona i marittimi che si candidano sulla base di prove pratiche di “arte marinaresca” e di prove teoriche sulle materie tecnico-nautiche e marittime.
Coloro che risultano vincitori devono entrare nella locale organizzazione di ormeggiatori, nel mio caso il Gruppo Antichi Ormeggiatori del porto di Genova. Il giovane vincitore di concorso si presenta presso gli uffici del Gruppo, dove, insieme agli altri vincitori, è accolto dal Capogruppo con un rapido discorso di benvenuto, di presentazione della cooperativa, modalità di assunzione e formazione e soprattutto di avviamento al lavoro, in quanto “meno male che siete arrivati ci sono turni in banchina da coprire e i soci non vedono l’ora di conoscervi”. Il presagio che ci sia un forte bisogno di forza lavoro c’è, e per circa un mese tutto fila via paludato, teorico e formativo per quel che prevede la norma, a volte asettico e a volte si prova la sensazione quasi di essere coccolati: poi arriva il primo turno, la prima giornata. Si monta alle 5.30 am, ma si sa che è bene, soprattutto per i neoassunti, presentarsi un po’ prima. Sveglia alle 4.30 e via per la sede del gruppo, felici perché inizia la nuova avventura, consapevoli della propria preparazione, ma con una ragionevole dose di ansia per tutto quello che si è sentito raccontare…… E dunque……… Si entra in “sala“ dove si incontrano alcuni neo colleghi, uomini di tutte le età….. è l’ora del cambio quindi non si capisce chi monta e chi smonta…… le navi che stanno entrando in porto una dopo l’altra chiamano ai VHF…… e chiamano i piloti…… e chiamano le squadre di ormeggiatori già operative in banchina….. si ascoltano i movimenti dei rimorchiatori…….. e alcuni dei presenti nemmeno ti salutano (anche se sanno benissimo chi sei), altri ti dicono “fai veloce, cambiati che c’è da andare”….. (ma come, sono montato mezz’ora prima per fare con calma?!)…….. e alle 5.20, dopo una bella corsa in macchina per le strade di un porto ancora sonnacchioso, ti ritrovi nell’oscurità di una banchina che non sai se sia l’Etiopia o l’Eritrea, levante o ponente, radice, prolungamento o testata, (eppure avevo studiato tutto)…. cammini verso il ciglio della banchina, verso il mare e improvvisamente appare come un’astronave la nave che devi ormeggiare, che con il suo bagliore illumina tutto. Si segue come un’ombra il collega più anziano…. ci si rende conto che a prora c’è un’altra squadra di ormeggiatori…. ne arriva un’altra con il gozzo…… tutto diviene più frenetico e tu hai il cuore in gola….. la nave e’ in prossimità della postazione di ormeggio…. si comunica a voce (urla belluine) con gli uomini dell’equipaggio della nave (con un gergo marittimo portuale che sembra inglese ma che, capisci dopo, in realtà è un mix di linguaggi delle marinerie più numerose in giro per il mondo, compreso un po’ di dialetto genovese) per concordare come e quali cavi dare, si comunica con piloti e rimorchiatori via VHF per la posizione finale della nave…… ti lanciano da bordo l’heaving-line (sagola da lancio o appesantita), in genovese si traduce “u livellaine”, cui uno dopo l’altro sono voltati i cavi da ormeggio…. il gozzo con i tuoi colleghi te ne porta altri in prossimità della bitta e quasi magicamente la nave è ormeggiata!
A quel punto capisci di non aver colto quasi nulla di quello che si è fatto, di essere lì per fare l’ormeggiatore ma di non essere ancora un ormeggiatore, e un po’ di timore si insinua dentro di te e ti domandi quando sarai in grado di gestire tutto quello che hai visto solo nella tua prima ora e mezza di lavoro.
Passano i giorni, passano i mesi, a volte gli anni e il quadro a tinte fosche inizia a divenir nitido: si matura la conoscenza dei colleghi che lavorano insieme a te per turni di dodici ore, degli uomini del Corpo Piloti, dei pilotini e degli equipaggi dei rimorchiatori, si impara ad ascoltare la radio VHF quarzata sui canali marittimi dedicati ai servizi portuali e alle emergenze; si inizia ad usare la gestualità marinaresca per salutare e comunicare con gli equipaggi di tutto il mondo. Le navi chiamano, i piloti rispondono e tu riesci a calcolarne i tempi di evoluzione e manovra a seconda della postazione di ormeggio, dell’utilizzo dei rimorchiatori e della presenza di altre navi: il porto da teorica mappa diventa il tuo habitat naturale e materiale, lo tocchi, lo vivi, ne conosci ogni angolo, ogni insidia, ogni bitta e ogni parabordo e il tuo sapere diviene “saper fare”!
Quando sali sul tuo gozzo e riconosci se il suono del motore sia o meno la musica giusta, controlli le bozze di banco per voltare anche i cavi più “maleducati”, verifichi che il tuo coltello sia alla via, quando ti muovi con destrezza tra i bulbi delle navi che vanno all’ormeggio e i remoni (scie) dei rimorchiatori che le aiutano ad arrivare in banchina, quando capisci anche dal tono di voce del pilota se e quando devi parlare al VHF e quando non devi occupare il canale, allora vuol dire che hai la consapevolezza di riuscire a lavorare riducendo al minimo le insidie che si presenteranno.
E quando poi realizzi che chi non ti aveva dato nemmeno il buongiorno il tuo primo giorno di lavoro e’ proprio colui che più di tutti è stato attento alla tua incolumità fino a quel momento, allora torna tutto, il primo vagito, ci siamo: è nato un ormeggiatore ……e si deve solo iniziare a crescere!
Rapallo, 6 Giugno 2018
UNA GIORNATA DA COMANDANTE di Rossella Balaskas
UNA GIORNATA DA COMANDANTE
di
Rossella Balaskas
Immaginiamo una giornata di navigazione tipica, con tempo buono: sveglia tra le 7 e le 7:30, un’occhiata fuori, un’altra al GPS e al ripetitore ECDIS sopra la scrivania; bevo il caffè davanti al computer, mentre invio i messaggi di ETA (estimated time of arrival) al prossimo porto e agli eventuali porti successivi.
Poi salgo sul ponte.
Dalle 8 alle 12 è di guardia il 3°Ufficiale, solitamente una persona di giovane età e con poca esperienza di mare, quindi da seguire attentamente: rispondo alle sue domande, lo incoraggio, gli lascio qualche lavoro da fare nel pomeriggio…
Alle 9 aprono gli uffici a terra e, puntualmente, arrivano copiose le e-mail: documenti da preparare per i prossimi porti; ispezioni da organizzare; chiarimenti su materiale da ordinare; controlli da fare sulla base di osservazioni fatte ad altre navi, per essere sicuri di non avere gli stessi problemi…
Personalmente preferisco rispondere subito, in modo che il lavoro non si accumuli; così, con l’aiuto del 1°Ufficiale, controlliamo ciò che ci viene richiesto, approfittando dell’occasione per fare un giro in coperta e controllare i lavori di manutenzione.
Il Direttore di Macchina ci aiuta per la parte tecnica. La vecchia rivalità tra macchina e coperta viene superata quando le persone si conoscono e si stimano!
A mezzogiorno si pranza ed è subito il momento di mandare il Noon Report: un messaggio alla compagnia in cui sono indicate condimeteo, miglia percorse, consumi ecc.
Nel pomeriggio ci prepariamo all’arrivo.
Poiché si tratta di una nave che fa principalmente cabotaggio, tutti noi conosciamo i porti, ma un piccolo ripasso non fa mai male: dò un’occhiata alla carta accertandomi che il 2°Ufficiale abbia riportato correttamente le chiamate da effettuare a Piloti, Capitanerie ed eventuali VTS e lascio detto quando chiamarmi per la manovra (ma tanto li frego, salgo sempre prima di essere chiamata!).
La speranza che l’ormeggio non sia disponibile e che si sia “costretti” ad andare alla fonda per un giorno o due c’è sempre. Purtroppo, spesso è una speranza vana! Così anche oggi, dopo aver consultato i Piloti un’ora prima dell’arrivo, abbiamo ricevuto conferma che andremo all’ormeggio.
Telefono al Direttore, anche lui già al suo posto in Centrale Controllo Propulsione, per informarlo.
Prima dell’arrivo faremo alcune prove e controlli, di cui il più importante è il test del timone e, inoltre, qualche miglio prima di arrivare alla Stazione Piloti, ci fermeremo brevemente per testare la macchina indietro.
Il bello della nave piccola è che si ferma tranquillamente in un paio di miglia! Anche se per sicurezza e quieto vivere, quando non ci sono particolari esigenze, me la prendo più comoda.
Più tardi, richiamo quindi il Direttore per dargli l’orario ufficiale del PIM – pronti in macchina (SBE -standby engine in inglese ndr), chiedergli di mettere in moto i generatori e informarlo che inizierò a ridurre la velocità.
Una piccola curiosità, gli orari sono sempre divisibili per 6, retaggio di quando non esistevano i computer e i conti si facevano a mano, per semplificare!
A questo punto mandiamo via e-mail la Lettera di Prontezza, comunicazione ufficiale che la nave è pronta a caricare o scaricare (in alcuni porti italiani, la prontezza si notifica anche via VHF al terminale o all’Avvisatore Marittimo).
Dopo avere diminuito la velocità e provato la macchina indietro, approcciamo la Stazione Piloti dove imbarca il Pilota.
Un altro vantaggio di stare su una nave che fa sempre gli stessi porti è che conosciamo bene i Piloti, e loro conoscono bene la nave, quindi lo scambio di informazioni è abbastanza conciso: Pescaggi, una ripassata alle caratteristiche di manovra, qualche convenevole; poi si entra nel vivo! La manovra, se il tempo è buono, dura da mezz’ora a un’ora; di norma sono presenti (obbligatoriamente, per via del carico pericoloso che trasportiamo) uno o anche due rimorchiatori.
Una volta ormeggiati, sale a bordo l’Agente Raccomandatario per ritirare i necessari documenti; in alcuni Paesi è accompagnato dalle Autorità locali (in tal caso i documenti si moltiplicano!).
Una volta sbrigate le formalità di arrivo e mandata l’ennesima e-mail, con gli orari fino all’ormeggio, scendo a fare un po’ di pubbliche relazioni con il Loading Master (rappresentante del terminale) e Cargo Surveyor (ispettore del carico); della parte tecnica si occupa il 1°Ufficiale, ma qualche firma da mettere c’è sempre e, quindi, non manco di farmi vedere.
È tardi e la cena è saltata, ma due chiacchiere in buona compagnia possono risollevare il morale! Infatti anche Loading Master e Cargo Surveyor sono, in larga parte, volti noti e amichevoli.
Ormai manca solo di vedere l’inizio delle operazioni commerciali per mandare l’ultima e-mail della giornata poi, con la nave al sicuro in banchina, potrò andare a dormire il sonno dei giusti!
In tutto questo, il mio gatto mi guarda sonnacchioso dal divano, come a dire “perché mai affannarsi?”
P.s.: Ovvio che le giornate non sono tutte identiche ne sempre idilliache: maltempo, malumore e maleducazione a volte la fanno da padroni e allora bisogna consolare, incoraggiare, a volte rimproverare… in questo aiutano molto ironia e soprattutto autoironia.
Spesso una battuta ben azzeccata scioglie le tensioni e vale più di mille discorsi!
ROSSELLA BALASKAS
Rapallo, 22 Maggio 2018
QUALCHE PAROLA SUI RIMORCHIATORI-PORTO DI GENOVA
Qualche parola sui rimorchiatori
John Gatti
l rapporto tra il Pilota e il Comandante dei rimorchiatori va costruito e curato nei dettagli.
Il filo che li lega deve essere il risultato di una profonda conoscenza reciproca basata sul senso marinaresco, sulla fiducia, sulla complicità, sull’abilità, sul rispetto e sulla stima.
E’ importante conoscere le differenze tra i vari rimorchiatori per apprezzarne i pregi e capirne i difetti, come lo è capire quando e come conviene usarne uno piuttosto che un altro o sapere cosa si può pretendere da loro e a cosa si deve rinunciare per non correre inutili rischi.
Tuttavia non è sufficiente.
Per entrare in sintonia con il Comandante del rimorchiatore è fondamentale vivere alcune esperienze dal Ponte di Comando di quei mezzi: solo così è possibile dare il giusto peso alle difficoltà che si hanno a voltare i cavi(assicurare i cavi alle bitte) dovendo rimanere quasi a contatto con la prora della nave in movimento, o per realizzare cosa significhi l’impatto della corrente di scarico di un’elica potente che parte all’improvviso; per non commettere imprudenze, inoltre, occorre sapere come cambia la prospettiva per chi si trova in posizione pericolosa tra la nave e un ostacolo, mentre il rapporto spazio/tempo diminuisce velocemente.
E’ di grande aiuto riuscire a “riconoscere” i Comandanti dalla voce al VHF (ricetrasmettitore, fisso o portatile, per le comunicazioni marine) perché con alcuni si lavora meglio che con altri e, in certe situazioni, la sintonia potrebbe essere il valore aggiunto determinante sull’ultima carta da giocare. Anche per questo è importante essere psicologicamente pronti a raccogliere i consigli giusti: l’umiltà di accettarli può aiutare a non commettere errori e un rapporto costruito su solidi basi fa in modo che, comunque, non vengano compromessi l’autorità e il controllo della manovra.
In tutto questo è ovviamente necessario considerare la figura e le competenze del Comandante della nave: un uomo di mare che potrebbe anche non parlare la nostra lingua, ma che capisce esattamente le difficoltà di una manovra impegnativa. Per questo e per molti altri motivi lo si deve informare sulla manovra che si intende fare e sui rimorchiatori che verranno impiegati.
Tramite il Tavolo Tecnico, condotto dall’apposita sezione della Capitaneria, i rappresentanti dei Servizi Tecnico Nautici, riunendosi giornalmente, hanno l’opportunità di discutere di procedure, limare incomprensioni, smussare problemi, valutare rischi e trovare soluzioni a manovre complicate, ma anche comprendere e ribadire il fatto che ogni operazione coinvolge altri soggetti e che non si può non tenerne conto.
Detto questo, e solo a scopo discorsivo, elenco alcuni punti delicati da tenere sempre a mente quando si utilizzano dei rimorchiatori in manovra:
- – Se i rimorchiatori vengono voltati (assicurati con il cavo alla bitta) fuori dalle acque ridossate (riparate) dalla diga del porto, non bisogna dimenticare che le onde li fanno rollare (movimento oscillatorio di un nave provocato dai marosi che la colpiscono trasversalmente) e che ci sono dei marinai a lavorare sul Ponte di Coperta bagnato e spazzato dal mare. E’ imperativo regolare la velocità e la rotta per rendere l’operazione più agevole e sicura.
- – La fase in cui si voltano i rimorchiatori è molto delicata: per dare o ricevere il cavo si devono avvicinare fin quasi a toccare la nave e più è alta la velocità più l’operazione diventa pericolosa. Sei o sette nodi, compatibilmente con le caratteristiche dei propulsori, è di solito il giusto compromesso, soprattutto per il rimorchiatore di prora che, nell’avvicinarsi alle grosse petroliere e alle portacontenitori di ultima generazione, sparisce completamente alla vista di chi dirige le operazioni dal Ponte di Comando.
- – Se la nave in manovra utilizza due rimorchiatori è buona norma, quando possibile, voltare prima quello di poppa e poi quello di prora; per mollarli vale il contrario: prima quello di prora e poi quello di poppa. Questo perché, nella malaugurata ipotesi di un problema al rimorchiatore di prora, si ha sempre la possibilità di utilizzare quello di poppa per frenare la velocità o per aiutare l’accostata.
- – L’effetto giratorio che agisce sul rimorchiatore, dovuto alla massa d’acqua spostata dalle grandi petroliere, è da valutare con molta attenzione: mentre lo stesso è quasi assente nella manovra di navi dalla stellatura prodiera molto accentuata (affinamento delle forme della carena, riferita soprattutto alla sezione prodiera e poppiera; in pratica: più queste forme sono tonde, meno sono stellate, portacontainer, navi passeggeri, ecc.). Pertanto, in queste condizioni e anche se non si sviluppano grandi velocità, bisogna considerare che durante le operazioni di passaggio del cavo parte del moto avanti del rimorchiatore è annullato per mantenere la direzione; effetto che sparisce allontanandosi di una decina di metri circa.
- – Avvisare sempre i rimorchiatori di qualsiasi variazione di rotta e velocità, informarli non appena sono stati voltati, se si intende modificare la manovra concordata e prima di usare la macchina o di dare fondo alle ancore.
- – Precisare al Comandante della nave dove si intendono voltare i rimorchiatori spiegandogli l’importanza di usare un heaving line (lanciasagole appesantito ad una estremità con lo scopo di facilitarne il lancio) con un peso adeguato: troppo spesso il vento porta via la messaggera (cima maneggevole di piccola sezione, usata per virare a bordo il cavo del rimorchiatore), con conseguente perdita di tempo… e più è lungo l’intervallo in cui il rimorchiatore rimane sotto la prua della nave in movimento, più alto è il rischio d’incidenti, senza considerare che nel frattempo la nave avanza con scarsa capacità di governo.
- – Prima di liberare il rimorchiatore di poppa, è necessario creare le condizioni affinché il cavo non finisca nell’elica in movimento e, anche in questa fase, gli ordini all’equipaggio devono essere chiari e tempestivi.
- – Accertarsi che il personale al posto di manovra sia a distanza di sicurezza dal cavo in lavoro del rimorchiatore.
- – Avere sempre un margine di sicurezza. Quando si parla di manovra, il senso di questo concetto è spesso legato al bollard pull (misura convenzionale riferita alla potenza di tiro) necessario a contrastare le condizioni del vento, della corrente e del moto ondoso: non bisogna dimenticare che la potenza sviluppata dai rimorchiatori dipende dalla lunghezza del cavo e dalla direzione del tiro, oppure, usandolo alla spinta, dalla direzione che avrà quest’ultima.
Ogni elemento che contribuisce alla buona riuscita della manovra ha un peso specifico relativo molto grande: le condizioni meteo-marine, la nave e la sua efficienza, il Comandante e il suo equipaggio, il Pilota, gli ormeggiatori e, ovviamente, i Rimorchiatori e chi vi è imbarcato. Armonia nel lavoro di gruppo e fiducia reciproca:
– La chiamata del rimorchiatore viene fatta dopo che il Pilota è imbarcato ed è successiva al confronto con il Comandante. Al momento della richiesta, quindi, la nave probabilmente si trova già a meno di un miglio dall’imboccatura. Dato il poco preavviso, per il rimorchiatore arrivare puntuale non è sempre né facile né possibile, ma l’impostazione della manovra dipende spesso dal momento in cui si è certi di avere il rimorchiatore voltato (legato).
- La manovra viene vista e vissuta in modo differente a seconda della posizione da cui la si guarda: gli ormeggiatori dalla barca o da terra, gli ufficiali da prora o da poppa, i Comandanti dei rimorchiatori dai punti in cui operano. Da ognuno di questi posti si vede solo una porzione di manovra. Gli unici ad avere il privilegio di una visione d’insieme (pur considerando diversi angoli ciechi), che sanno esattamente cosa stanno facendo la macchina e il timone e che hanno un programma ben preciso della manovra, sono il Comandante e il Pilota. Per questo motivo è importante che venga dato il “ricevuto” a qualsiasi comunicazione radio d’interesse: spesso è impossibile vedere direttamente cosa sta facendo il destinatario del messaggio e il dubbio che sia stato ricevuto e capito resta attivo fino a quando non viene confermato.
- Essere precisi nelle comunicazioni. “Tra qualche minuto sono sotto bordo…”, “Lo sto già facendo…” (come risposta a un comando), “Sto tirando/spingendo a tutta…”, ecc. A queste risposte segue un’azione. Va da sé che a risposta imprecisa seguirà un’azione errata.
- La potenza dei rimorchiatori spesso permette di risolvere situazioni complicate ma, proprio perché può incidere così tanto sullo scenario generale, il Comandante deve stare sempre concentrato sulla manovra e prevedere le conseguenze delle sue azioni; mi viene in mente la possibilità di rompere il cavo; quella di far perdere il controllo della nave tirando o spingendo troppo; oppure quella di creare difficoltà alla barca degli ormeggiatori con le scie dei suoi propulsori; o, ancora, sottovalutando l’effetto del rimorchiatore sulla manovra non mettendo il cavo perfettamente in bando quando richiesto oppure appoggiandosi allo scafo della nave.
Per affrontare almeno parte del mondo del “rimorchio” in modo approfondito, occorrerebbe molto spazio e sarebbe necessario entrare nei tecnicismi della professione che lo circonda. Non si può non tenere conto, ad esempio, dei diversi tipi di rimorchiatori (ASD, ATD, RSD, ecc.) perché ognuno di questi ha pregi e difetti, punti deboli e punti forti da poter sfruttare; occorrerebbe parlare dei pericoli insiti nel rapporto rimorchio/nave; dei sistemi di valutazione per determinare il numero di rimorchiatori da utilizzare; della lunghezza del cavo di rimorchio, quando è meglio utilizzarlo alla spinta piuttosto che voltato; quando usare il cavo nave e quando quello del rimorchiatore; ecc…, ma andare così in profondità non è l’intento di questo articolo.
Voglio però entrare in punta di piedi nella pratica raccontando un episodio di tanti anni fa che ha contribuito efficacemente ad accrescere la mia esperienza e che fa capire l’essenzialità del lavoro di squadra.
L’importanza dell’esperienza.
Ero passato Pilota effettivo da poco e le cose stavano andando bene: mi sentivo sereno e sicuro di me. Probabilmente troppo.
Al termine di una giornata tranquilla, proprio nell’ora del cambio turno tra Piloti diurni e notturni, il caso volle che fossi io il primo di “spia” (registro che riporta i nomi dei piloti in servizio e le manovre eseguite) all’arrivo di una nave di discrete dimensioni e con un pescaggio importante. Doveva andare “prua a terra”, il che significa “senza evoluzione”. In pratica si sarebbe dovuto procedere lungo il canale per poi accostare a dritta una volta raggiunta la banchina di destinazione: niente di particolarmente difficile… per chi ha l’esperienza necessaria a valutare e svolgere bene ogni passaggio.
Erano tutti contrari a mandarmi a bordo, soprattutto il Capo Pilota di allora. Ricordo infatti di aver insistito parecchio per conquistarmi la sua fiducia. Alla fine cedette, alla condizione che avrei usato due rimorchiatori; se il Comandante avesse voluto procedere con uno soltanto, allora sarei dovuto sbarcare per far salire al mio posto un Pilota più esperto.
Arrivato in plancia mi trovai di fronte un uomo di nazionalità tedesca, gentile, ma piuttosto “quadrato” e non fu facile convincerlo a prendere il secondo rimorchiatore, anche perché la nave era fornita di un bow thruster (elica di manovra prodiera, azionabile dal Ponte di Comando, che genera una forza laterale utile in manovra) discretamente potente.
Assenza di vento, niente corrente, due rimorchiatori, elica di prua, Comandante tranquillo: nulla che facesse prevedere che quella sarebbe stata una delle manovre che mi sarei ricordato meglio negli anni a venire.
In realtà l’errore che feci non fu di proporzioni enormi, semplicemente ritenni non fosse il caso di applicare una semplice regola che i Piloti più esperti mi avevano ripetuto più volte: “quando vai prua a terra con una nave di pescaggio, prima fermala e poi inizia l’accostata!”
Ricordo che durante i tre quarti d’ora necessari a raggiungere la banchina pensai più volte a come la nave rispondeva bene al timone e di come il Molto Adagio Avanti producesse una velocità perfettamente adeguata alla stazza della nave.
Fermai la macchina per tempo lasciando che l’abbrivo (impulso con cui inizia o aumenta gradualmente la velocità della nave; indica anche la quantità di moto che conserva quando cessa l’azione dei mezzi propulsivi) diminuisse piano piano, con l’intenzione di fare una manovra prudente. In effetti arrivammo tra le testate delle due banchine con una velocità di poco superiore al nodo: praticamente quasi fermi. Era quel “quasi” che non andava bene…
A quel punto avrei dovuto dare macchina indietro o, quanto meno, mettere il rimorchiatore di poppa in bozza a fermare…
La verità è che mi sembrava di andare talmente piano e che il timone rispondesse in modo così preciso che, invece di fermare la nave, feci mettere il timone a dritta per infilarmi sfruttando la poca velocità residua.
All’inizio andò bene, ma poi, all’improvviso, la nave smise di venire a dritta: sentiva maledettamente il fondale e la prua si fermò puntando direttamente il prolungamento della banchina di fronte.
Non eravamo vicinissimi e per questo motivo non mi preoccupai più di tanto. Feci mettere la macchina Indietro Adagio e il rimorchiatore di prora a piegare piano.
Risultato: la nave non rallentò neanche un po’ e la direzione restava la stessa, solo che nel frattempo lo spazio a disposizione diminuiva.
Cominciai a preoccuparmi. Indietro Tutta, rimorchiatore di poppa in bozza a fermare e quello di prora a piegare a tutta forza!
Risultato: la nave continuava ad andare avanti e la rotazione riprese in modo quasi impercettibile.
Nel giro di qualche minuto la situazione precipitò: il Comandante saltava da un’aletta all’altra come un grillo imprecando senza sapere cosa fare, mentre io cominciavo a sudare freddo realizzando di essermi giocato tutte le carte che avevo a disposizione.
Fu a quel punto che il rimorchiatore di prora, continuando a vogare a tutta forza, si girò quasi a spring (cavo d’ormeggio che da prua guarda verso poppa o da poppa verso prora ostacolando o impedendo alla nave di avanzare o retrocedere) e quello di poppa si sguardò quel tanto che bastava per rendere il massimo nella frenata aiutando anche l’accostata.
Sfiorammo il cemento… ma passammo indenni!
I due Comandanti dei rimorchiatori sono ormai in pensione da diversi anni, ma quando mi capita di incontrarli li ringrazio ancora per l’abilità e l’occhio dimostrati quel giorno.
Sono tante le storie che potrei raccontare dove il binomio Comandante del rimorchiatore e il suo Direttore hanno dimostrato una preparazione e una padronanza che è possibile acquisire solo dopo un percorso lavorativo molto specifico. Sono professioni che lasciano ancora spazio all’abilità personale, dove si creano equilibri che rendono difficile sostituire un uomo con un altro.
JOHN GATTI
Rapallo, Mercoledì 9 Maggio 2018
I PESCATORI DI MERLUZZI A TERRANOVA
I PESCATORI DI MERLUZZI
TERRANOVA
Charly aveva toccato almeno quindici volte Lisbona e Punta Delgado (Azzorre) con gli “evergreen” Saturnia e Vulcania.
Merluzzi al vento…
Da questi due siti portoghesi, le due navi trasportavano alcune migliaia d’isolani ogni anno; erano pescatori destinati alle campagne del merluzzo sui banchi di Terranova. Lo scambio degli equipaggi avveniva nel porto di Halifax (Nuova Scotia-Canada), scalo preferenziale della Soc. Italia.
Museo Navale di Lisbona – Un gozzo dei pescatori di merluzzo
“Era il 1962” - racconta Charly – “… ricordo con nostalgia i racconti del mio capo guardia e carissimo amico, Baj Schiaffino di Camogli; quando mi anticipava che i nostri amici portoghesi pescavano ancora su piccoli gozzi con i classici bolentini. La fittissima nebbia, che per lunghi mesi gravava sui banchi di Terranova, era il loro vero pericolo, ma non l’unico; le zone di pesca, infatti, si trovavano proprio sulle rotte dei famosi liners europei e americani che sfilavano a tutta velocità, preoccupati soltanto dei loro ETA (estimate time arrival).
Il corno da nebbia era l’unico strumento a disposizione dei pescatori di merluzzo per tenersi in contatto tra loro ed anche l’estrema difesa per urlare la loro presenza. Molti di loro, purtroppo, sparivano travolti nelle acque gelide dalle navi in transito, del tutto ignare dei loro drammi. Un brigantino ancorato solitamente a ridosso di qualche ansa tra i banchi, era la loro base. Quante disperate ricerche, vane attese e veglie in preghiera ogni anno!
Quante tragedie colpirono nei secoli i pescatori di tutto il mondo e le loro famiglie lontane! Grandi uomini ed eroi del Mare, cancellati sull’altare dell’oblio e della modernità, sepolti troppo in fretta dalla memoria di chi oggi neppure riconosce la loro lunga scia di sangue versata sugli oceani ...
Il brigantino a palo portoghese Sagres in navigazione sul fiume Tejo a Lisbona.
TORRE DI BELEM – LISBONA
Già! Avete capito bene, si trattava proprio di un brigantino che Charly e Baj, in una splendida giornata di Giugno, videro scivolare a Lisbona con le vele gonfie di vento in processione sul fiume Tejo. A bordo c’era il Cardinale che inaugurava, con la benedizione della statua della Madonna di Fatima, la stagione della pesca”.
Carlo GATTI
Rapallo, 1 febbraio 2018
UN PO’ DI STORIA
Dal blog si ASPO-Italia, sezione italiana dell'associazione internazionale per lo studio del picco del petrolio e del gas (ASPO) riassumiamo:
Una delle storie più emblematiche é quella dei merluzzi di Newfoundland.
Cinque anni dopo la scoperta dell'America da parte di Cristoforo Colombo, dunque nel 1497, un altro italiano, Giovanni Caboto, navigatore al soldo degli inglesi, raggiunse le coste americane. Sbarcò molto più a nord, probabilmente nell'attuale Newfoundland (Terranova), in territorio canadese. Al suo ritorno in Gran Bretagna raccontò, fra le altre cose, che "lassù il mare è coperto di pesci".
Qualche decina di anni dopo, chi sfruttò al meglio quello che Caboto aveva scoperto riguardo alla pescosità dell'Atlantico nord occidentale furono però i francesi. A metà del sedicesimo secolo, 150 imbarcazioni francesi attraversavano ogni anno l'Atlantico per raggiungere quel paradiso della pesca. Gli inglesi seguirono a ruota, espandendo quei territori di pesca più a sud, al largo di quelle che oggi sono le coste del Massachusetts. Pescavano moltissimo, e soprattutto merluzzi. Al punto che chiamarono una di quelle località, un promontorio, Cape Cod: cod è il nome inglese del merluzzo, appunto.
Nei successivi 3-400 anni la pesca continuava a prosperare, sebbene le tecniche di pesca, in qualche modo ancora artigianali, restassero più o meno immutate. Pescavano praticamente con la lenza; molte lenze per ogni barca, ma pur sempre lenza, cioè filo da pesca con in fondo un amo e un'esca. I pesci pescati venivano puliti e messi sotto sale.
Nel diciannovesimo secolo si erano ormai uniti al banchetto anche americani e portoghesi, e fu in questo periodo che le semplici lenze lasciarono il passo alle longline (in italiano sono i palamiti). Lenze lunghe anche chilometri, ognuna delle quali attrezzata con migliaia di ami. Una tecnica molto efficace che permette bottini spaventosi. Nel solo New England, nel 1895 furono pescate 60.000 tonnellate di merluzzi. Che sembravano non finire mai. Addirittura un grande biologo e ricercatore come Huxley affermava: credo che la pesca dei merluzzi, così come le altre risorse del grande mare, siano inesauribili...
Nel 1905, una nave da pesca, guardata con sospetto, se non peggio, dagli altri pescatori, salpò dal porto di Boston. Era la prima nave americana equipaggiata con uno strumento che già si usava in Inghilterra, e che per la prima volta arrivava in quelle acque: una rete a strascico. I merluzzi sono pesci che amano mangiare sul fondale, e dunque la rete a strascico, che sul fondale corre e raccoglie tutto quello che trova, serviva benissimo a pescare merluzzi. Talmente bene che nel 1914 la Commissione della Pesca degli Stati Uniti formò un comitato per indagare quali danni potesse fare agli stock ittici. La risposta fu che, almeno nel Mare del Nord, le nuove tecnologie stavano già causando un declino del pescato, anche se ancora non dei prolifici merluzzi. Non furono prese contromisure.
In quegli anni, il principale obiettivo divenne un altro pesce, l'eglefino, parente stretto del merluzzo e dal sapore simile. Negli anni '20 poi furono introdotti sul mercato i filetti surgelati (come li mangiamo ancora oggi). Era un bel salto dal classico merluzzo sotto sale, e soprattutto i pescatori del New England corsero a riempire la nuova nicchia di mercato: nel 1929 si pescarono 120.000 tonnellate di eglefino, in quella zona. Cinque anni dopo le catture saranno già crollate a 28.000 tonnellate.
I merluzzi intanto continuavano a essere regolarmente pescati, a cifre attorno alle 8.000 tonnellate all'anno. Questo fino al 1954, l'anno in cui tutto accelerò verso il baratro. Fu quando arrivò in quelle acque la Fairtry. Era una nave enorme fatta costruire da un'industria baleniera scozzese, la quale vedendo diminuire sempre più le catture dei grandi cetacei, decise di buttarsi in altri mercati. La Fairtry era una nave industria che permetteva di pulire e congelare i merluzzi già a bordo, stoccandone in grandi quantità. E le sue reti erano enormi. Talmente ampie che, in un mare ancora così pescoso, a volte si rompevano sotto al peso delle tonnellate di pesce pescato. Quella nave, e quelle che seguirono poi, poteva pescare in un'ora quanto una tipica imbarcazione del sedicesimo secolo faceva in una stagione. La Fairtry venne presto raggiunta da altre navi industria, provenienti dalla Germania, dall'Unione Sovietica e da altri paesi stranieri. Nel 1968 i merluzzi pescati raggiunsero la cifra impressionante di 810.000 tonnellate! La fine era scritta, bastava sapere leggere i segnali.
A metà degli anni '70 gli eglefini erano ormai scomparsi, e la "produzione" di merluzzi era scesa a meno di 250.000 tonnellate. I pescatori locali, impotenti e in ginocchio, implorarono l'aiuto dei loro governi, canadese e statunitense. Questi risposero estendendo il limite delle acque territoriali a 200 miglia. In pratica, il dominio delle navi straniere sui grandi banchi dell'Atlantico nord-occidentale era finito. Adesso USA e Canada avevano l'occasione per salvaguardare le loro risorse ittiche, instaurando finalmente una pesca sostenibile. Ma non lo fecero.
L'euforia dell'allontanamento degli stranieri colpì soprattutto la gente del Newfoundland, che viveva solo e soltanto di pesca. Il futuro ora sembrava roseo e il DFO (Department of Fisheries and Oceans), cioè il Dipartimento della Pesca e degli Oceani canadese, in qualche modo cavalcò l'onda e sbagliò le previsioni, calcolando che le catture di merluzzi, scese a 139.000 tonnellate nel 1978, sarebbe risalite a 350.000 nel 1985. Ma adesso, a posteriori, sappiamo che nel 1977 il numero di merluzzi in fase riproduttiva, al largo di Newfoundland, era diminuito del 94% rispetto ai valori del 1962. La catastrofe era ormai pronta.
I pescatori canadesi, nei primi anni ottanta non riuscirono mai a raggiungere la quota di pescato permessa dal governo, ma stavano comunque pescando molto più di quanto la popolazione residua di merluzzi potesse sostenere. Con la cacciata degli stranieri, la pesca aveva ripreso vigore e gli strumenti migliorarono ancora, con l'introduzione dei sonar che permettono di localizzare i grossi banchi di pesce. A metà anni '80 la DFO continuò a sostenere che gli stock sarebbero cresciuti, e il 1986 fu un anno eccezionalmente produttivo, e quindi alimentò le certezze di alcuni e le speranze di altri. Che vennero però duramente colpite dalle previsioni per gli anni successivi: i ricercatori erano certi, ci sarebbe stato un crollo. Nel 1989 biologi e studiosi cercano di convincere la DFO a dimezzare la quota di merluzzi, abbattendola a 125.000 tonnellate. Ma l'industria della pesca era all'apice dell'espansione e il Dipartimento canadese non se la sentì di infierire il colpo. La quota venne ridotta solo di un decimo.
Ma di merluzzi ne erano rimasti pochi, e per mantenere i loro guadagni i pescatori li cercavano molto più duramente, avventurandosi sempre più al largo e anche in condizioni di mare spaventose. Nel 1991 vennero pescati 180.000 tonnellate di merluzzi: erano, oggi lo sappiamo, più della metà di tutti quelli rimasti là fuori.
Il DFO stabilì questa quota anche per il 1992. Ma ogni quota era ormai inutile, la festa era finita. Non c'era più niente da pescare, e a luglio del 1992 il ministro fu costretto a chiudere completamente la pesca al merluzzo.
Dall'oggi al domani 30.000 persone persero il lavoro. Il disastro si era compiuto.
A tutt'oggi la pesca al merluzzo a Newfoundland non si è più ripresa, oggi l'economia di quel paese è basata sulla pesca alle aragoste e soprattutto sullo sfruttamento delle risorse boschive e minerarie. I merluzzi non sono più tornati. Pesci come i capelin, un tempo prede dei merluzzi, oggi sono divenuti molto comuni, e mangiano i merluzzi appena nati. Quell'ecosistema oggi è dominato da granchi e gamberi.
FINE
UNA GIORNATA DA PILOTA
UNA GIORNATA DA PILOTA
Il racconto della prima manovra della giornata
Viviamo qualche ora, tra routine e imprevisti, insieme al Pilota.
La sveglia suona alle tre e un quarto.
Alzarmi presto dal letto non è mai stato un problema.
Mi muovo al buio, in silenzio. Dormono tutti.
Il primo caffè ha il compito di aprire la connessione con il mondo: un rito da vivere senza fretta. Un’occhiata on-line alla scheda delle prime navi che devono muovere, stabilisce il tempo che ho a disposizione per raggiungere la base operativa dei piloti. A quest’ora la strada è sempre libera e in venti minuti supero il varco di controllo per entrare in porto.
Fino a pochi anni fa la sala operativa era posta al quinto piano della Torre Piloti e, da quell’altezza, ruotare lo sguardo da Punta Vagno verso il taglio della Canzio e poi ancora fino al Porto Vecchio, permetteva di inanellare le informazioni necessarie a impostare il lavoro. I fanali di via fornivano i dati sul traffico in arrivo, la disposizione delle navi alla fonda suggeriva la direzione e l’intensità della corrente, i fumi dell’Italsider e della centrale dell’Enel parlavano del vento, e poi le “pecorelle” sull’acqua in avamporto, le bettoline e i pescherecci in movimento e molti altri dettagli “aggiornavano”, a colpo d’occhio, le numerose variabili così importanti per la sicurezza del nostro lavoro.
Dopo il crollo della Torre ci siamo trasferiti a Ponte Colombo. Sono passati quasi cinque anni. In questo periodo abbiamo lavorato per migliorare la logistica e per supplire ai punti deboli dovuti all’infelice posizione.
Quando esco dalla macchina una brezzolina fredda mi porta a chiudere gli ultimi bottoni del piumino intorno al collo.
La sera prima soffiava un vento teso da scirocco che, nella notte, ha lasciato il posto alla tramontana, ma non è ancora sufficientemente forte da spianare le onde. Questo lascia supporre la presenza di una discreta corrente in canale.
Qualche minuto più tardi entro nella sala operativa.
Le luci sono spente. Un retaggio della vecchia Torre, dove aveva un senso restare al buio per poter vedere cosa succedeva all’esterno.
Le lavagne luminose mostrano i dettagli aggiornati delle navi prossime ai movimenti. Ci si consulta con i colleghi, si assegnano i lavori, si controllano eventuali nuove ordinanze della Capitaneria e si leggono le note lasciate dai piloti smontanti. Resta giusto il tempo per il secondo caffè, poi si scende in pilotina. A seconda delle condizioni meteomarine in cui si opera, si decide se usarne una leggera e veloce che consuma poco, fa meno onda ed è più agile nel traffico intenso, oppure una più dislocante, meno reattiva ma precisa ed efficace nel mare mosso.
Oggi é una di quelle giornate in cui imbarcare potrebbe essere un problema e, proprio per questo, ad attenderci troviamo il pilotino Paolo con la Gemini, un’imbarcazione originale Nelson costruita in nord europa su misura per il tempo cattivo.
Tramontana, onde residue da scirocco e corrente in canale: resta solo da scoprirne l’intensità.
Passato l’avamporto accostiamo per levante offrendo la prora al mare che entra. La tramontana fa il suo lavoro e gli spruzzi lavano la fiancata sinistra per poi sfumare verso la diga, dove si mescolano alle onde che passano le ostruzioni.
Avvisiamo le navi di mantenere un miglio e mezzo di distanza l’una dall’altra e di restare almeno a due miglia dall’imboccatura; questo per permettere tutte le accostate necessarie a creare un buon ridosso per imbarcare.
Riduciamo la velocità per due buone ragioni: evitare colpi troppo forti contro i muri d’acqua che ci troviamo davanti, e per limitare i danni nel caso dovessimo urtare uno dei numerosi tronchi semi-sommersi portati in mare dal torrente Bisagno.
A me tocca la prima nave, pertanto comincio a dare istruzioni al Comandante sulla velocità e sulle accostate da effettuare. Quindici minuti più tardi ci troviamo cinque o sei metri distanti e paralleli alla nave. Se voglio ottenere un ridosso dal vento per non bagnarmi devo farla accostare a dritta, esponendo la pilotina alle onde dello scirocco; se invece voglio evitare di rischiare le gambe a causa delle rollate, devo farla accostare a sinistra… Opto per la prima soluzione, confidando sulla mia agilità per bagnarmi il meno possibile.
È una nave da carico di 180 metri con una biscaglina di circa sei metri che, nella rollata svantaggiosa, finisce alcuni metri sott’acqua. Raggiungo le griselle e salgo alcuni gradini allontanandomi dalla coperta e dalle secchiate d’acqua che arrivano ogni volta che la prua infilza un’onda.
È una questione di tempismo: il beccheggio e il rollio asincroni della nave e della pilotina, l’alzarsi e l’abbassarsi dell’una e dell’altra sull’onda, devono coordinarsi fino ad avere il motoscafo nel punto più alto, altrimenti le gambe rischiano di restare schiacciate tra i due scafi.
E arriva il momento giusto: nave sulla rollata interna e pilotina sulla cresta dell’onda. Uno slancio veloce e passo dalla grisella alla scala di legno e corda. Un istante dopo la pilotina cade sul cavo dell’onda e la nave sale sulla rollata esterna, mentre le gambe pestano veloci sui tarozzi per allontanarsi dal pericolo.
Raggiungo la coperta e con la radiolina portatile dico al Comandante di tornare in rotta; nel frattempo il cervello registra in automatico alcuni particolari: equipaggio filippino, in ordine e ben organizzato; ufficiale con il vhf e salvagente vicino alla biscaglina; illuminazione ok; la nave sembra vecchiotta ma tenuta bene. Non c’è l’ascensore, ma le scale sono pulite e il marinaio che mi accompagna ha un passo decisamente veloce.
Quando apre la porta, scatta lo spegnimento automatico della luce sulle scale ed entriamo nel Ponte di Comando.
Il Comandante croato parla un "italiano" impreciso ma comprensibile e, non essendo la prima volta che viene a Genova, lo scambio d’informazioni viene formalizzato in modo chiaro e veloce.
La nave non è dotata di elica di manovra prodiera, per cui decidiamo di comune accordo di utilizzare due rimorchiatori, che verranno voltati a prora e a poppa una volta raggiunto il ridosso della diga. Ci allineiamo all’imboccatura mettendoci il mare in poppa, riduciamo la velocità per mantenere la riserva di macchina necessaria a riprendere il governo quando rischieremo di perderlo una volta che lo scafo sarà metà dentro e metà fuori della diga.
La velocità diminuisce di poco… vuol dire che la corrente è più forte di quanto pensavo. Non appena la prua prende il ridosso, la nave accosta decisa a sinistra ed è necessaria l’Avanti Tutta per riprenderne il controllo. Non appena il timone sente la macchina, riduciamo l’andatura per poi fermare del tutto i motori e procedere a voltare i due rimorchiatori in sicurezza. Raggiungiamo l’avamporto con una velocità residua di otto nodi e proseguiamo con un bell’inchino a nord per contrastare la tramontana che nel frattempo sta rinforzando. Attraversiamo il taglio della Canzio bene al vento, ma ancora troppo veloci. Appena passata la Bettolo prendiamo il ridosso di Ponte San Giorgio e dell’Idroscalo che ci permette di diminuire di nuovo la macchina. Davanti a noi si vedono chiaramente le “pecorelle” provocate dal vento sull’acqua tra le testate dei pontili. Tra i venticinque e i trenta nodi. Dobbiamo ormeggiare al levante Somalia. Punto al ponente, fermo la macchina, andiamo di bolina lasciando cadere la poppa. Una volta passato il levante Etiopia ridò macchina avanti, timone tutto a sinistra, rimorchiatore di prora a sostenere al vento. Ci riportiamo in vantaggio e, non appena la poppa si libera dall’Etiopia, ordino al rimorchiatore di tirarmela su. Fermo la macchina per farla ripartire indietro appena possibile. Sull’aletta il vento forte e gelido rende difficile comunicare via radio, ma la poppa prende vantaggio. È il momento di aumentare la macchina e di fermare il rimorchiatore di prua. La nave pesante arranca avanti verso la diga, ma ben presto il motore fa sentire la sua potenza tra scossoni e vibrazioni, il vento passa in filo e la gestione della manovra torna a essere meno “muscolare”.
È arrivato il momento di lavorare di fino: bisogna stare attenti nell’utilizzo della propulsione, perché adesso c’è in giro la barca degli ormeggiatori. Basta un ordine sbagliato per mettere a rischio le loro vite. E poi bisogna affiancare la nave alla banchina parallela e dolcemente, stare attenti alle gru, ai cavi, alla posizione…
Il “good job pilot” pronunciato dal Comandante al termine della manovra non è per niente scontato e soddisfa sempre la parte romantica del nostro lavoro.
John GATTI
Rapallo, 31 Gennaio 2018
L'EPOPEA DEI "MACCHI"...
L’EPOPEA DEI "MACCHI"
GENOVA
Le moderne dighe foranee dei porti principali sono costruite con moduli in calcestruzzo che in gergo marinaro vengono chiamati MACCHI oppure CASSONI. In questa foto se ne vedono DUE che sono pronti per essere rimorchiati verso la loro destinazione. Questi manufatti sono di varie misure: peso, lunghezza, larghezza e pescaggio a seconda del fondale su cui dovranno poggiare. Chi scrive ne rimorchiò 21 a Monaco per la costruzione della diga del porto di Fontvieille. Il dislocamento dei macchi varia da 2.000 tonn. a 4.000, pescano da 9 a 12,5 mt. La velocità di navigazione varia da 1 a 3 nodi, con tempo buono assicurato. La ridotta velocità non dipende dalla scarsa potenza del rimorchiatore, ma dalla assenza di linee idrodinamiche del manufatto che, in pratica, é senza prua e poppa.
Nel macco più basso della foto, si può osservare la suddivisione interna in celle che hanno una precisa funzione: per essere posizionato, allineato e affondato secondo il progetto ingegneristico, le celle del manufatto vengono riempite d'acqua, per cui il macco può essere appesantito o alleggerito fino a raggiungere la perfetta posizione. Appoggiato definitivamente sul fondale, la fase finale consiste nel sostituire l'acqua di zavorra con colate di cemento, sabbia o altro materiale edilizio.
27.15.4.16.4000…i macchi
I numeri qui riportati non sono quelli del lotto ma sono le caratteristiche che contraddistinguono alcuni tipi di cassoni della Fincosit (da noi confidenzialmente chiamati macchi) e che dai Cantieri venivano rimorchiati ai luoghi di affondamento per la costruzione delle infrastrutture portuali: Porto Torres, Marsha el Brega, Monaco furono le nostre destinazioni.
27 metri la lunghezza, 15 metri la larghezza, 5 metri la parte emersa, 11 metri la parte immersa, per un peso di 4000 tonnellate di cemento.
Fiuto, naso, sensibilità tutte doti indispensabili che facevano e fanno la dotazione del Barcacciante nel prevedere il tempo (vedi i Siparietti dedicati al “naso” nel libro "Con le Barcacce nel cuore" di C.Gatti-S.Masini) e prendere le decisioni del caso, ma c’è una condizione di rimorchio dove solo una dose di fortuna gioca un ruolo predominante: quando si rimorchia il “macco”, questa specie di iceberg in cemento.
I “macchi” in attesa di essere rimorchiati sul luogo di affondamento.
Qui non si scappa, anche con tanta potenza la velocità è di 3-3½ nodi (4 un record con corrente a favore...) e con un pescaggio di 11 mt. che non dava scampo per eventuali ridossi. Partenza da Genova con tempo dichiarato ma la lunghezza del viaggio non assicurava niente, anche l’avviso di perturbazione non dava possibilità di cercare ridosso.
Un pugile alle corde che poteva solo difendersi come poteva.
La velocità alla partenza era ancora inferiore dovuta alla vegetazione che aveva fiorito nella parte immersa durante la sosta in Cantiere e che lentamente in parte si rilasciava nelle prime 48 ore di navigazione.
Tanto eravamo lenti che ancora il giorno successivo alla partenza si metteva il gommone a mare per andare a comprare pane fresco e giornali.
Che dire ancora su questo tipo di rimorchio.
Intanto che anche con potenze di molto maggiori la velocità non incrementava significativamente. Ci provammo anche col Vortice (6.500 CV) ma con risultati modesti, c’era comunque da considerare lo sforzo maggiore delle attrezzature e la sollecitazione alla struttura del cassone che suggeriva una certa cautela.
Per i meno iniziati ricordiamo come le resistenze al moto in mare incrementano col cubo della potenza raggiungendo rapidamente valori astronomici.
Movimento in porto di un "macco".
Il Rimorchiatore della Fincosit movimenta il cassone e lo consegna al Rimorchiatore di altura.
Rimorchio di un cassone di cemento di medio tonnellaggio. Rapportino del viaggio del cassone da Genova a Monaco: Miglia 75 in 22h – Velocità 3.41 nodi.
Alcune fasi nella costruzione dei Cassoni (Fincosit)
L’epopea di un cassone Fincosit.
Nelle rievocazione dell’Ing. Pasquale Buongiorno:
A tutti i marittimi che hanno contribuito a far grande
la Fincosit ......
"Sono le tre del mattino del primo febbraio 2007. Marco esce di casa cercando di non svegliare la famiglia. E parte, direzione Marghera. Lì in banchina lo aspettano Fabrizio, Paolo, Giovanni e Pietro per andare fuori dalla Bocca di Lido incontro al cassone.
I cognomi non sono importanti, di solito ci si dà del tu, del vaffa... se occorre.
Se il tempo lo permetterà, oggi il cassone NS42, il 2271-esimo cassone della FINCOSIT (e questo vuol dire più di 50 km di dighe e banchine costruite...), il primo del progetto Mo.S.E. entrerà a Venezia.
Mi hanno chiesto di scrivere qualcosa sul rimorchio dei cassoni.
Ma io mi intendo più di numeri che di lettere e poi il rimorchio è meccanica, movimento e noi ingegneri civili preferiamo la statica. Allora mi sono detto “Perché non parlare dei nostri marittimi e del loro lavoro....?”
Ho appena abbozzato la dedica e la premessa e so già che prenderò una bella strigliata dal mio Presidente. Lo so, ora il nome della società è GLF ma per me che sono in ditta da più di 20 anni ma anche per tutti i colleghi, le Autorità Portuali e i giornali, la branca marittima della società è e rimarrà sempre “la FINCOSIT”.
Se dici a un genovese “rimorchio di un cassone”, ti parlerà della partenza del superbacino, bianco lui, nero il rimorchiatore, salutati dal fischio delle sirene e dalle colonne d'acqua degli idranti, come una coppia di sposi in partenza per la luna di miele.
Ricorderà solo il viaggio.
Ma il rimorchio è come la grappa, c'è una testa e una coda.
C'è la testa, i preparativi per il viaggio, la posa in opera delle bitte di manovra, dei cavi di rimorchio e di emergenza, della biscaggina, delle luci per la navigazione notturna fino a presentare il cassone al rimorchiatore. E' un lavoro di routine, tutto si svolge in banchina, con la gru, i pontoni di servizio, i giusti tempi.
C'è la coda, il cassone che arriva a destinazione e viene preso e affondato. E' il duro lavoro dei marittimi, la fatica in mare, con tutte le difficoltà ed i problemi che si possono presentare. Ed è di questo che voglio parlare.
Solitamente i cassoni terminano il loro viaggio all'interno dei porti o in corrispondenza delle dighe foranee e in attesa di una giornata con mare piatto, adatta per la posa, vengono ormeggiati in banchina.
Qui è diverso, all'interno delle bocche c'è la corrente che va e che viene, che spinge il cassone prima verso il mare e poi verso la laguna, senza interruzioni, più di due metri al secondo e i cassoni devono essere tenuti fermi in qualche modo.
Nei giorni precedenti i marittimi hanno quindi posto in opera i corpi morti a cui ormeggiare i cassoni, per poi tonneggiare con gli argani e posizionarli con la dovuta precisione.
I cassoni sono stati arredati con bitte da 30 tonnellate, bitte da piccola banchina portuale e i corpi morti sono da 100 tonnellate.
Hanno messo le boe, le catene, gli spezzoni di cavo in polipropilene ad alta resistenza.
Tutto è pronto per ricevere il cassone. E il cassone è arrivato in rada il giorno prima.
Il S. Cataldo lo ha rimorchiato dal centro di prefabbricazione di Taranto (credo che Leonardo avrà salutato il suo “primo nato” con trepidazione) e con un viaggio di 11 giorni lo ha trasportato fino a Venezia, burdesandu-burdesandu, girando intorno al Gargano, su su fino al delta del Po e poi alla Bocca di Lido
E i ragazzi gli sono andati incontro. I marinai ma anche Davide, il direttore di cantiere, che è cresciuto a pane e Fincosit, con il padre a fargli da maestro.
Un piccolo viaggio, da Marghera fino fuori alle bocche di porto, 12 miglia a bassa velocità per non danneggiare, con le onde generate dalle eliche, con lo sciabordio, le fondamenta degli storici palazzi veneziani.
E hanno raggiunto il cassone.
Ricordo ancora la prima volta che, studente del biennio, vidi un cassone a rimorchio uscire dal porto, alla Foce. Spuntò d'improvviso e nel silenzio da dietro il padiglione B. Una visione onirica, il passaggio del Rex nel film Amarcord. Qualcosa che solo Archimede era in grado di spiegare.
E ora lo spettacolo è simile.
E' là, alto, maestoso contro l'orizzonte, quasi cinque metri di franco bordo".
Macco in navigazione
Un bestione di 21,88 x 12,24 x 13,80 m che immerge 9 metri e spiccioli (ecco che ricompare l'ingegnere.....) che però ha seguito il rimorchiatore ad una distanza di circa 400 m docile come un cagnolino, incurante delle onde, del vento di maestrale, del mare che è montato fino a forza 5, 6....
Il comandante del S. Cataldo è soddisfatto: un rimorchio di tutta tranquillità.
Per l'occasione è venuto a Venezia anche Dino, un nostro “vecchio” capo cantiere.
Ha quasi 70 anni ma con un "mascone" ti farebbe ancora fare tre giri su te stesso. E' lì nella foto con il suo cappellaccio calato sulla testa che osserva e commenta a mezza voce.
Lui conosce bene tutti i ragazzi, pregi e difetti, li ha visti crescere, li ha fatti crescere....
Era un po' di tempo che non si vedevano: si sono avvicinati, guardati, annusati quasi, per vedere se qualcosa era cambiato.
Un colpo sulla spalla, un ciao con voce sommessa, un tocco sul braccio, un abbraccio, una grossa risata e una bella presa in giro: tutto come prima...
Non è retorica: la vita di cantiere è diversa dalla vita di ufficio, si crea un altro spirito, i rapporti sono diversi. Anche con Enrico, il project manager, solitamente così riservato, anche con me che sono un progettista.....
I ragazzi sono saliti sulla cima del cassone per passare la patta d'oca al rimorchiatore del porto che dovrà fungere da batticulo durante il viaggio fino all'interno della bocca.
Mi piacerebbe dire che sono andati all'arrembaggio, su per la biscaggina. Sarà che la nostra bandiera è per metà nera...."
Uno guarda le foto e dice: “Una bella giornata di sole” e feroce come una mannaia cala la nebbia. La natura è imprevedibile e per questo deve essere rispettata, sembra che si diverta a canzonare l'incauto che cerca di piegarla ai propri voleri.
E i nostri sono rimasti lì, vicini al S. Cataldo, sul loro mezzo, giastemandu perché erano quasi alla fine....
Bastava che il rimorchiatore fosse arrivato qualche ora prima, che non fosse stato rallentato dalle correnti, che ...., che ..... ma non conta: ora si sta fermi.
Il porto è chiuso e i ragazzi dopo essersi azzuppati nell'umidità tornano alla banchina, nervosi per la giornata in parte persa, per il tempo che dovranno perdere domani e poi dopodomani e.... lo sa il Signore.
Il lavoro in mare è così, imprevedibile; si rimane magari in attesa del bel tempo per tutta la settimana e non si può uscire per la burrasca .. e poi il bel tempo arriva la domenica e devi lasciare tutto e andare a lavorare .. ma tant'è....
E siamo al mattino dopo, alle cinque, a Marghera; si parte, presagendo già che sarà una giornata persa. In Canal Grande la nebbia va e viene; alle bocche è un velo lattigginoso che tutto nasconde.
Intanto il S. Cataldo è lì che gira, fa la ruota davanti alle bocche, come i gabbiani intorno alla fontana illuminata di De Ferrari, in certe fredde sere d'inverno.
E Dino, da buon genovese, lui che è della Versilia, non ha dimenticato il mestiere, fa i conti. E misura le controstallie, le ore di straordinario, ma si preoccupa anche dei “suoi”: “Domani dovranno di nuovo uscire: speriamo bene; con queste distanze e questi tempi (....quasi una quinta dimensione a Venezia....ndr) bisogna sempre partire all'alba per essere pronti quando serve”. La giornata passa così in attesa. E si torna indietro aspettando il bel tempo.
E finalmente il giorno dopo non c'è nebbia e il porto viene riaperto.
Il convoglio parte e raggiunge la spalla sud.
Qui il cassone viene posto in corrispondenza dell'imbasamento provvisorio dove potrà riposare in attesa della sua sistemazione finale.
Viene affiancato dal pontone, i nostri salgono a bordo, agganciano le cime alle bitte, iniziano a smontare la cinta di rimorchio, danno il liberi tutti ai rimorchiatori.
Gli argani sono al loro posto, i tappi delle coperture aperti, le pompe installate. Ora il cassone è domato.
Il macco entra in porto. Un rimorchiatore lo traina ed un altro lo frena
Personale FINCOSIT in azione
Navigazione portuale
E lentamente scende, controllato, per evitare che vada fuori posizione, si posa, viene immobilizzato con la zavorra.
Un altro giorno è andato direbbe Guccini.....
Ora il rimorchio si è concluso.
Fra 15 giorni si replica, speriamo senza nebbia; il S. Cataldo ha già ripreso la sua corsa verso Taranto".
TESTIMONIANZA del Comandante Luciano Ravettino
Era il 1974, forse aprile, ed io ero appena entrato negli RR di Genova (venivo dalla SIDERMAR). Partiamo da Genova con il M/r Torregrande per rimorchiare un macco a Palermo; comandante Nicola Marongiu. Il macco, per quanti non addetti ai lavori, è un manufatto in cemento armato galleggiante che quando viene allagato si deposita sul fondo, fungendo da basamento per la costruzione di dighe foranee. Il nostro misurava 12x16x32 metri...praticamente una palazzina. Per la sua forma a parallelepipedo, raggiungeva, trainato, una velocità massima di due nodi e mezzo, grosso modo otto giorni di traversata, tempo e mare permettendo. Siamo abbastanza fortunati e viaggiamo abbastanza spediti fin quasi alle Bocche di Bonifacio: sono le 5 del mattino e sento Nicola salire sul ponte. Precisazione e premessa indispensabili: chiunque abbia fatto un rimorchio d'alto mare sa con quanta assoluta scrupolosità si ascoltino i bollettini meteo e il Com.te Marongiu non era da meno, anzi, non solo non se ne perdeva uno, ma per ognuno aveva una sua personale classifica di attendibilità.
Dicevo, sono le 5, i bollettini sono tutti favorevoli, mare calmo, solo una leggera brezza, le condizioni ideali per navigare. Sono le 5 e Nicola passeggia sul ponte, respira profondo, guarda il cielo quasi a scorgere le prime luci dell'alba. Di punto in bianco mi ordina "Rallenta, avvisa in macchina, accorcia il cavo, andiamo a ridosso a Porto Vecchio (una sorta di fiordo nella costa sud della Corsica). Per i non addetti: un rimorchio del genere implica l'utilizzo di 800-1000 metri di cavo di acciaio del diametro di 70 m/m, entrare a Porto Vecchio significava 3...4 ore di avvicinamento e manovra per portare la lunghezza del cavo a 200 mt.
Rimasi sbalordito da simile decisione ma, chi va per mare sa che deve obbedire e non indugiai un attimo, anche se in cuor mio pensai a qualche losco intrallazzo...ero nuovo dell'ambiente, non conoscevo l'Uomo.
Verso le 8 i bollettini cominciano a cambiare, il vento rinforza, il mare si increspa. Via via che ci avviciniamo al ridosso i bollettini sono sempre più allarmati e, quel che più conta, le condimeteo sempre peggiori. Alle 11 fuori è buriana, ma noi siamo al riparo!
Per 5 giorni facciamo avanti e indietro a lento moto nel golfo di Porto Vecchio, continuando a sentire bollettini, che tutti unanimemente sono di burrasca.
Il sesto giorno, all'alba, siamo in prossimità dell'uscita del fiordo e io mi preparo all'accostata per tornare dentro. E' l'alba, c'è vento, in lontananza vedo il mare agitato, i bollettini continuano ad essere estremamente brutti: sento Nicola sul ponte, incredulo lo sento dire: "Fila cavo...usciamo...andiamo". Incredulo obbedisco.
Alle 11 siamo fuori...alla via...Non dico fosse bonaccia, ma le condizioni andavano velocemente migliorando e pure i bollettini davano il miglioramento.
A quel punto non ho resistito, mi sono rivolto al Comandante e gli ho chiesto: "Come ha fatto?" E Lui, con quella parlata che hanno solo la gente di Carloforte, mi dice:
"Ghea l'aia strassaa" (L'aria era strappata). Parliamo di mare, di Uomo di mare.
Testi e foto di:
Carlo Gatti e Silvano Masini
Rapallo, 28 dicembre 2017
MSC ISTANBUL - LA PRIMA NAVE DA 400 MT. A GENOVA
MSC ISTANBUL
LA PRIMA NAVE DA 400 metri a Genova
Tra qualche istante la MSC ISTANBUL imbarcherà il Pilota
“Questi vapurassi sono sempre più grandi!” diceva vent’anni fa un pilota genovese riferendosi alla “Empress Dragon“, una portacontenitori lunga 270 metri.
Oggi ne abbiamo portata all’ormeggio una di 399.
Si sente spesso parlare della necessità di intervenire sulle infrastrutture ormai inadeguate e, a chi non è del mestiere, può sembrare un azzardo manovrare scafi così grandi in spazi così ristretti.
Ma è proprio così, oppure qualcosa è cambiato da allora?
Direi che anche se il porto è lo stesso, tutto quello che si muove al suo interno appartiene a un’altra epoca.
A quei tempi il traffico era più intenso, le navi mediamente molto più piccole, le eliche di manovra trasversali rarissime, così come i passi variabili dei propulsori principali. I rimorchiatori offrivano metà della potenza rispetto a quella su cui si può contare oggi, e convincere i Comandanti/Armatori a utilizzarli era spesso frutto di guerre psicologiche snervanti. Si manovrava spesso sull’ancora, gli avviamenti erano sempre contati e l’affidabilità delle navi un punto di domanda.
La variabile principale era il vento: le navi si portavano sempre dentro e, a seconda dell’intensità della Tramontana, si utilizzavano i rimorchiatori o meno. Il problema nasceva quando il vento aumentava durante la manovra, trovandoci impreparati. Evenienza, date le caratteristiche orografiche di Genova, tutt’altro che rara.
Oggi il numero di rimorchiatori da utilizzare su ogni singola nave è quasi standard, perché il limite su cui impostare i parametri di sicurezza è passato dal vento allo spazio disponibile che, ovviamente, rimane costante. Va da sé che continua a esistere una certa discrezionalità legata alle condizioni meteorologiche, ma non è più quella principale. Oggigiorno, oltre una certa intensità di vento la nave rimane fuori, anche perché a volte è più difficile tenerla in banchina che portarcela.
Una manovra a lieto fine
Torniamo alla domanda principale: che cosa è cambiato?
- I rimorchiatori sono più potenti. Senza entrare nei tecnicismi, penso sia facile intuire come, operando in poco spazio, concentrare la potenza su un solo rimorchiatore sia più efficace che dividerla su due.
- Le navi sono più manovriere. Quasi tutte, infatti, sono dotate di eliche di manovra e motori mediamente più potenti e affidabili rispetto al passato.
- La tecnologia è diventata un ausilio importante. Gli angoli ciechi, presenti intorno a questi giganti del mare, impediscono di vedere direttamente gli ostacoli rendendo più delicate le necessarie valutazioni. Oggi possiamo contare sui PPU, su apparecchi laser per la misura delle distanze (telemetri), sulle telecamere per gli angoli ciechi, ecc.
- I cavi di rimorchio e di ormeggio hanno beneficiato di un’evoluzione incredibile e oggi sono presenti sul mercato prodotti più resistenti, leggeri e maneggevoli rispetto al passato.
Ma, oltre a tutti questi importanti fattori, sono cambiate la mentalità e le procedure.
È un argomento che ho già affrontato in più di un articolo, proprio perché lo ritengo di rilevante importanza (link 1 link 2 e link 3). È cresciuta la sinergia e la collaborazione tra professionalità diverse. Rappresentanti di settori con specificità così particolari da risultare spesso ermetiche anche a chi ci lavora a fianco, contribuiscono, per la parte che li riguarda strettamente, ad aggiungere il tassello che manca al completamento del quadro generale.
Procedure
Percorsi che nascono dalla conoscenza individuale, cui segue la stima e il rispetto, che portano ad ascoltare il contributo altrui, a sviscerare problemi e soluzioni, a condividere esperienze positive ed errori.
Non basta un giorno, e neppure un mese. Ci vogliono anni di confronti e di studio, di valutazioni e prese di posizione.
Ognuno parla di quello che sa.
È così che diventa possibile superare le sfide proposte di volta in volta.
Veduta aerea del Bacino di VOLTRI-PRA
La valutazione della possibilità di portare navi di 400 metri al VTE è iniziata con uno studio sull’adeguamento degli arredi portuali necessari ad accoglierle. La seconda fase ha visto un esame congiunto delle difficoltà di gestione legata alle dimensioni, al tonnellaggio, alla superficie velica e alle caratteristiche proprie di quel tipo di navi. Terminata la parte prettamente teorica si è proseguito utilizzando dei simulatori di manovra per capire i limiti e provare le procedure d’emergenza.
Una volta raccolti tutti i dati, e sviscerate le possibili manovre, siamo rimasti in attesa della prima nave per procedere con le sperimentazioni pratiche.
Oggi quel giorno è arrivato!
La manovra era stata studiata e pianificata a tavolino durante la consueta riunione del Tavolo Tecnico dove, con la sezione Tecnica della Capitaneria e i Servizi Tecnico Nautici, abbiamo valutato tutte le possibilità e concordato la manovra da effettuare.
Le condizioni meteomarine erano quasi ottimali: mare calmo e 15 nodi di vento da levante.
La “MSC ISTANBUL” è una nave che presenta caratteristiche manovriere di tutto rispetto: un’ottima marcia avanti e una pronta risposta indietro, bow-thruster adeguato e un timone ben dimensionato.
La scelta di girarla fuori dal porto e di procedere in retromarcia è nata dalla valutazione delle condizioni generali. Con venti e mare da levante, scirocco, libeccio e ponente, ritengo sia questa la manovra più idonea. L’evoluzione, effettuata alla via dell’elica, viene fatta senza l’ausilio dei rimorchiatori che intervengono in un secondo tempo disponendosi sottovento, a ridosso dell’imponente struttura, una volta che la nave si trova parallela alla diga foranea: in questo modo possono spingere, per contrastare il vento, operando riparati dall’imponente scafo. Il rimorchiatore di poppa viene voltato quando la poppa raggiunge le acque protette dalla diga.
L’evoluzione viene fatta alla via dell’elica (significa che se l’elica è destrorsa si evoluisce a dritta). Questo perché, nonostante la rotazione sia tre volte più lunga rispetto a quella antioraria, risulta molto più veloce e sicura (se ritenuto interessante posso spiegare meglio le motivazioni di questa scelta).
La MSC ISTANBUL entra in porto con la poppa
Un altro importante motivo che mi fa prediligere la manovra fuori porto con entrata di poppa, è dato dall’avere, in questa condizione, la possibilità di reagire agli imprevisti utilizzando la marcia avanti per uscire nuovamente in mare aperto.
L’evoluzione si può impostare con una discreta velocità (5/6 nodi), che permette di affrontare l’accostata sfruttando appieno l’efficienza del timone. Quando l’abbrivo comincia a diminuire interviene l’efficacia del thruster. Al momento opportuno l’effetto dell’elica a marcia indietro completa l’opera.
A questo punto, utilizzando opportunamente eliche e timone, si governa la nave attraverso l’imboccatura.
Durante tutto il tragitto occorre monitorare costantemente l’effetto del vento sull’importante superficie velica. Lo scarroccio di navi così grandi non è, infatti, istantaneamente intuibile, e talvolta si rende palese quando la situazione è diventata ormai critica.
Sfruttare le qualità manovriere della nave e l’esposizione al vento delle parti più esposte (ponte di comando, ciminiera, file di contenitori, ecc.) aiuta a rendere fluida la manovra, evitando di dover ricorrere ad azioni di forza per correggere eventuali effetti indesiderati.
L’avvicinamento all’ormeggio, specialmente in presenza di gru sul ciglio banchina, è sempre un momento molto delicato: in questa fase i rimorchiatori, sia alla spinta che pronti ad allargare sul cavo, rappresentano un’assicurazione irrinunciabile.
Immagine molto suggestiva del tagliamare e del bulbo che fanno da cornice alle strutture del VTE
In caso di vento da nord, valuterei la possibilità di entrare in porto con la prua per poi girare all’interno. Lo spazio a disposizione è senz’altro misurato, ma entrare di poppa, a velocità ridotta e con il vento al traverso, credo che sia un’opzione da valutare con attenzione.
Concludendo, posso dire che questa prima manovra sperimentale ha avuto un riscontro positivo. Adesso occorre testare altre possibilità da mettere in pratica valutando di volta in volta l’influenza delle variabili.
Quando finalmente si avrà un quadro completo si potranno stabilire i limiti operativi che garantiranno il giusto livello di sicurezza.
…probabilmente qualche anziano pilota ribadirebbe che questi vapurassi sono sempre più grandi…
La MSC ISTANBUL é ormeggiata in banchina - Due rimorchiatori la stanno spingendo.
John GATTI
20 dicembre 2017
LA DIGA DEL PORTO DI GENOVA
LA DIGA DEL PORTO DI GENOVA
LA LANTERNA - L'indiscusso SIMBOLO di Genova
Un po' di Storia...
I primi veri complessi portuali, nel mondo classico, risalgono al sec. VI a. C., allorché si svilupparono sia i porti con bacino aperto (Siracusa) sia quelli a bacino chiuso, protetti da mura, come il più tardo Pireo. In età ellenistica furono creati grandi porti unitari, circondati da portici, come quello di Alessandria di Egitto con due bacini divisi da una diga, due bacini interni e il celebre faro. I porti romani si distinguono da quelli greci per la loro autonomia rispetto ai centri urbani, per la frequenza di bacini artificiali scavati nell'entroterra, per la robustezza delle opere portuali e per la ricchezza e varietà di edifici circostanti (magazzini, santuari). Notevoli, tra gli altri, il porto militare di Miseno e quello commerciale di Pozzuoli, i porti ostiensi di Claudio e di Traiano (vedi articoli dedicati su questo sito), il porto di Ravenna, quello di Leptis Magna. Vitruvio diede una sistemazione teorica ai problemi connessi con la progettazione di porti. Intorno al Mille, dopo un periodo di grande decadenza, si verificò una notevole ripresa di traffici marittimi, con la conseguente costruzione di porti i quali, dato il prosperare della pirateria, assunsero spesso il carattere di roccaforti. Enormi furono lo sviluppo portuale e il perfezionamento delle tecniche costruttive a partire dal sec. XVI, in conseguenza delle scoperte geografiche e del formarsi di grandi potenze marittime (Spagna, Olanda, Inghilterra). Nel mondo moderno il porto marittimo è diventato uno strumento di promozione e di competitività internazionale del sistema produttivo di una nazione, in quanto l'efficienza dei servizi che è in grado di fornire ha un'incidenza decisiva sull'economicità e la sicurezza dell'approvvigionamento e della distribuzione delle merci. E poiché il porto è suscettibile di promuovere flussi di traffici e nuovi insediamenti produttivi, esso può incidere sull'equilibrio di aree territoriali sempre più vaste, determinando profonde modificazioni al loro sviluppo. Ma proprio questa accresciuta importanza assunta dal porto marittimo moderno ha avuto e ha gravi riflessi sul tessuto economico e sociale della comunità in cui è inserito, creando problemi tra porto e città, tra le necessità di espansione dell'attività portuale e quelle della comunità senza interferire sui livelli della vita urbana e senza creare motivi di conflittualità sulle strutture metropolitane.
La profonda modificazione delle correnti di scambio internazionale intervenuta nell'ultimo XX secolo ha privilegiato l'attività e la funzione dei porti dell'Europa settentrionale e del Mediterraneo (dopo la riapertura del Canale di Suez), ripristinando l'importanza che questi ebbero nel Medioevo e nel Rinascimento, conferendo ai maggiori di essi la fisionomia di metropoli in cui le attività commerciali, industriali, finanziarie e culturali si addensano attorno agli impianti portuali che assicurano il rapido ed economico smaltimento del traffico proveniente e destinato ai rispettivi hinterland. Nell'ambito delle mutate relazioni tra il porto marittimo e la città va ricordata la cosiddetta politica del waterfront (fronte d'acqua): larghi spazi portuali sono riconquistati da parte delle città e vengono loro assegnate funzioni non mercantili con elevato valore aggiunto. Tra queste le più diffuse sono: porticcioli di pesca, porticcioli turistici, parchi di divertimento a base acquatica, acquari e musei del mare, centri congressuali, eliporti, ecc. A Baltimora, a Vancouver, a Tōkyō, a Yokohama, a Londra e a Rotterdam e in molti altri porti, di grandi e piccole dimensioni, sono stati realizzati questi progetti di riassesto, che hanno inciso sul waterfront storico in modo profondo ma con la minima compromissione ambientale.
Tecnica delle costruzioni: le opere foranee
Costituenti la cintura esterna del porto, le opere foranee comprendono antemurali, dighe, frangiflutti, moli, disposti in genere secondo gli schemi seguenti: cinta a pianta poligonale o curva, con una o più bocche rivolte alla traversia, ridotta in particolare a due moli convergenti in un'unica bocca, pure rivolta alla traversia; moli convergenti, con bocca protetta dal molo principale o soprafflutto; il bacino compreso fra i due moli forma il porto interno, cioè la zona più a ridosso, mentre la zona esterna adiacente al molo secondario, protetta anch'essa dal molo principale, costituisce l'avamporto; moli convergenti, con bocca protetta da antemurale; molo unico, radicato alla riva. Soprattutto nei porti-canale, le opere esterne sono di regola formate da due moli paralleli, opportunamente orientati, detti moli guardiani. Soluzioni diverse debbono essere adottate per quei porti situati in luoghi dove le variazioni di marea superino i 4 m: tali porti sono, in genere, del tipo “a marea” oppure “a livello quasi costante”. Nel primo caso occorre tener conto delle forti correnti di marea per cui, secondo la linea di costa, si adottano moli convergenti con bocca ridotta al minimo e rivolta alla traversia, oppure (nel caso di baie) un solo molo radicato a riva la cui parte iniziale è conformata a viadotto onde favorire l'azione della corrente di riflusso contro l'interramento; in ogni caso l'altezza delle opere deve essere commisurata a quella delle maree. I porti a livello quasi costante, invece, vengono separati dal mare aperto da chiuse semplici, che consentono il passaggio delle navi solo con l'alta marea, o da conche, che rendono il traffico indipendente da questa, anche se il movimento portuale risulta relativamente lento; questi porti, anche se più costosi, presentano, rispetto a quelli a marea, altezza delle opere minore, maggiore stabilità delle strutture, indice trascurabile d'interramento; inoltre, le operazioni di imbarco e sbarco risultano più agevoli.
LA DIGA FORANEA DEL PORTO DI GENOVA
E' lunga oltre 20 Km. Nasce con l'Imboccatura di Levante (zona Fiera); s'interrompe con la seconda imboccatura (Italsider-Aeroporto); prosegue e s'interrompe con la terza imboccatura del Porto Petroli di Multedo; prosegue infine verso la quarta imboccatura del Porto di Voltri-Prà.
Calata Sanità con larga visuale sulla diga
Il Porto Vecchio
Panoramica del Porto di genova
Diga foranea
Il grande ampliamento di ponente del porto aveva inizio nel 1913 con la costruzione, completata entro il 1926, del primo tratto, di m.1550, della Diga Foranea.
La diga venne studiata dal Genio Civile del tipo a muro verticale formato con piloni composti di tre massi cellulari, per contenerne il peso singolo (=220 t) nella possibilità di sollevamento del pontone posa massi ITALICO, il primo pontone di portata superiore alle 100 t. impiegato nei lavori marittimi ed appositamente studiato ed approntato nel 1914 dalla Grandi Lavori Fincosit, con la possibilità di portare a bordo tre elementi del peso massimo.
Le celle dei massi vennero poi riempite con versamento di calcestruzzo di calce e pozzolana.
Nel secondo tratto della Diga Foranea (1926 - 1929), lungo m.1850, costruito a protezione del bacino di Sampierdarena, venne perfezionata la sezione della diga prevedendone i massi, (della larghezza di m. 4.50 nel senso longitudinale diga) del tipo pieno, o ciclopico, del peso singolo sino alle 450 t.
Per il trasporto e la posa dei massi la Grandi Lavori Fincosit provvide a costruire il pontone posa massi IMPERATOR, che, con la potenza di sollevamento di 450 t. e la possibilità di trasportare quattro massi di tale peso, rappresenta tutt'ora uno dei maggiori mezzi galleggianti del genere.
La sezione della Diga Foranea, indipendentemente dalla bontà d'esecuzione delle opere, è risultata col tempo insufficiente sotto il profilo idraulico per la limitatezza dei fondali antistanti e forte elevazione della sovrastruttura; dopo gli eventi della tempesta del febbraio 1955, è stata trasformata con una gettata esterna in massi artificiali e scogliera.
Prolungamento orientale del molo Galliera
Con tipo analogo di struttura fu portato a compimento il prolungamento del Molo Galliera, per una lunghezza di m.400, a completamento della difesa della bocca di levante del porto.
Moli di sottoflutto
Con piloni di massi ciclopici sovrapposti sono stati costruiti i moli di sottoflutto, che delimitano il grande complesso portuale, a levante, o Molo Cagni, (che ha richiesto l'asportazione degli strati superficiali del fondale e la loro rigenerazione con letto di sabbia versata) - sviluppo m.630 - ed a ponente, o Molo Polcevera, - sviluppo di circa m.800.
Si tratta di una diga a parete verticale, a protezione del porto di Genova, composta da due tratti principali per una lunghezza complessiva di oltre 3.800 metri. Il primo tratto, di 1.550 metri, fu costruito tra il 1916 ed il 1926. Il secondo tratto, di 1.850 metri, fu concluso nel 1929. Successivamente venne realizzato un prolungamento di altri 400 metri a difesa dell'entrata del porto a levante. I lavori della diga furono ultimati nel 1933. Nel corso degli anni soffrì vari problemi. Durante la guerra (1945) i tedeschi aprirono una breccia di oltre 80 metri. Varie mareggiate (soprattutto nel 1949) causarono alcuni danni e piccole brecce. Ma fu la tempesta ciclonica del febbraio del 1955 che causò il principale crollo della diga, che interessò complessivamente un'estensione di circa 450 metri. Esiste oggi un progetto per spostare la diga circa 500 metri più al largo, con nuova struttura e funzionalità.
Bacino portuale della Lanterna
Creato con il primo tratto di Diga Foranea il necessario ridosso, la Grandi Lavori Fincosit provvide a costruire l'intero bacino portuale comprendente le Calate Canzio e Bettolo ed i Ponti Rubattino e San Giorgio, con uno sviluppo di 2,7 chilometri di muri di banchina a piloni di massi, su fondali di m.12.
Lo specchio d'acqua a disposizione delle navi misura 74 ettari ed i piazzali ricavati dal mare 26 ettari.
Bacino portuale di Sampierdarena
Negli Anni '20 sono stati costruiti cinque chilometri di banchine distribuite sugli sporgenti, o Ponti: Etiopia, Eritrea, Somalia, Libia e Canepa - lunghi ciascuno 400 m. - circa 80 ettari di specchi acquei, 75 ettari di piazzali totalmente ricavati dal mare.
I muri delle banchine sono del tipo a piloni di massi pieni sovrapposti, fondati a quota -12 ÷ -12,70 m., la banchina alla radice del Ponte Canepa ha fondale superiore ai 13 m.
Diga di recinzione SIAC a Cornigliano
La difesa dei piazzali che dovevano essere ricavati dal mare per la formazione dello stabilimento siderurgico della SIAC, ora ITALSIDER S.p.A., venne realizzata con una soluzione sotto vari aspetti originale, tenendo conto della notevole esposizione e dei bassi fondali.
L'opera comprendeva una diga, lunga mt.925, a parete verticale su limitato fondale di 8 m. circa, formata con piloni di massi pieni sovrapposti (del peso singolo da 300 t. a 360 t., e con le superfici a contatto sagomate "a dente e contro dente"), un canale di calma ed una banchina di contenimento del terrapieno artificiale.
Per evitare lo scalzamento, dovuto ai forti moti riflessi e vorticosi, la diga venne protetta al piede con grandi lastre tra loro collegate onde seguire gli abbassamenti del fondale antistante.
La grande tempesta da libeccio del febbraio 1955, come già si é visto, aprì varchi nella diga per oltre 450 mt. e nel 1963 terminarono i lavori di rinforzo in più punti della diga stessa, quelli che si dimostrarono più deboli.
La foto mostra l'impianto Portuale del VTE di Genova Prà con l'ovale rosso intorno alla diga. A destra della foto é visibile l'entrata del Porto Petroli ed il terminale della pista dell'Aeroporto.
La diga del VTE (Voltri Terminal Europa). Nell'angolo la CONCORDIA in attesa di essere portata a Genova per la demolizione.
La LONDON VALOUR é naufragata sulla diga del porto di Genova il 9 aprile 1970. 22 furono le vittime.
(vedi articoli dedicati su questo Sito)
Le due immagini sopra, testimoniano la violenza della LIBECCIATA che distrusse 400 metri di diga affondando numerose navi ormeggiate nel Porto Nuovo (Sampierdarena).
Questi disegni tecnici d'archivio sopra riportati, illustrano chiaramente le varie SEZIONI della diga di Genova.
Carlo GATTI
Rapallo, 20 Dicembre 2017
PORTO DI GENOVA: Cosa succede quando si decide di unire le forze?
PORTO DI GENOVA
Cosa succede quando si decide di unire le forze?
Foto Fabio Parisi
La complessità di un porto di grandi dimensioni è accentuata dalla compartimentazione delle realtà che ci lavorano. È possibile creare sinergia?
Il mondo portuale è molto complesso e articolato. Una miriade di interessi economici coinvolge soggetti differenti che, a loro volta, intrecciano la parte operativa e quella amministrativa con altre organizzazioni, le quali interagiscono con enti pubblici e militari. Realtà dove la sicurezza, l’efficienza, i posti di lavoro e l’economicità, s’incontrano e si scontrano in continuazione, cercando vantaggi e scappatoie lungo sentieri border line, dove spesso galleggia la possibilità di tenere aperta un’azienda o dichiararne il fallimento.
Alla domanda:
“Cos’è che non va nei porti italiani?”
mi verrebbe da rispondere:
“Confusione organizzata. Sembra di guardare una mischia durante una partita di rugby…”.
In realtà non è così semplice trovare una risposta. Prima di tutto occorre prendere coscienza del fatto che ogni porto ha caratteristiche che lo differenziano dagli altri. Seguendo la politica e la parte operativa di alcuni di questi, ci si rende conto di come singole forze in gioco – armatori, terminalisti, autorità, politici, ecc. – influenzano in modo differente le regole del gioco, mentre la fluidità del sistema viene fortemente compromessa dalla “responsabilità latente”. Quella cosa fuggevole, non sempre ben identificata, con limiti e interpretazioni volatili e variabili, che salta fuori prepotente – giustamente – quando viene reclamata a gran voce dalla parte lesa.
Non è facile, ripeto, porre delle regole e stabilire procedure che mettano in ordine le competenze, le priorità, la sicurezza, l’efficienza e l’economicità, definendo con chiarezza i limiti e i contorni delle responsabilità.
I porti sono motori dell’economia, dove ogni singolo pezzo ha una professionalità vincolata al lavoro che svolge in sinergia con gli altri.
I tasselli, come in un puzzle, non sono interscambiabili e l’incastro forzato di uno sull’altro genera confusione e pericolo, arrivando a compromettere gli obiettivi che si vogliono raggiungere.
I “tuttologi” sono pericolosi.
Nell’era del web, in pochi secondi, è possibile trovare risposta a quasi tutte le domande: un’arma potente, se usata con criterio. Il problema nasce quando non teniamo conto del fatto che, i risultati così ottenuti, non sono supportati da un’esperienza diretta: se non abbiamo il trascorso necessario a interpretarli correttamente e se tendiamo a non dare la giusta importanza all’autorevolezza dell’informazione, otteniamo un inutile conflitto, pretendendo di porci sullo stesso piano di chi ha costruito il sapere su fondamenta concrete e non sull’inconsistenza del “sentito dire da altri”.
La conoscenza di un determinato settore nasce da un primo anello, a cui se ne collega un secondo e poi un terzo, un quarto, e così via. Raccogliere informazioni frammentarie porta, il più delle volte, a trarre conclusioni apparentemente coerenti, ma sbagliate perché incomplete, o perché non è stato dato il giusto peso ai singoli elementi informativi.
La cultura e la curiosità sono importanti, ma l’umiltà e l’apertura mentale sono decisivi!
L’umiltà permette, non solo di accettare l’esistenza di persone più preparate di noi in un determinato settore, ma di andarle a cercare perché ritenute un valore aggiunto necessario; l’apertura mentale porta ad accettare “l’unione di più cervelli” (concetto che ho già espresso) come un upgrade del nostro potenziale.
È finita l’era in cui dalla figura verticistica si pretendeva l’onnipotenza culturale; quando il sapere universale giustificava la presenza del “padre padrone”; quando avere bisogno degli altri era un punto a sfavore.
Oggi la base è la stessa: cultura generale, decisionismo e autorevolezza, ma affiancati dalla comunicazione, dalla preparazione specifica, dalla capacità di circondarsi di persone positive, propositive, preparate e, soprattutto, dall’umiltà e dall’apertura mentale necessarie ad ascoltare, per fare proprie, le idee degli altri.
Qual’è il perché di questo lungo preambolo?
Entro nello specifico con l’intenzione di valorizzare un percorso che, a mio parere, esemplifica quanto detto finora.
Foto Fabio Parisi
Soggetti in gioco:
Terminalisti: concessionari di spazi portuali che lottano quotidianamente per aggiudicarsi nuove linee di traffico. Per raggiungere lo scopo devono essere concorrenziali e fornire vantaggi ai possibili clienti. A seconda della loro specificità agiscono in diverse direzioni: economicità dello scalo, efficienza nella movimentazione delle merci, limiti degli ormeggi, limiti operativi per cattivo tempo, ecc.
Armatori/Noleggiatori: sicurezza dello scalo, efficienza del terminal, tempi di attesa, costi, ecc.
Autorità di Sistema Portuale (AdSP): è un ente pubblico che gestisce e organizza il proprio ambito portuale. Individua strategie per essere concorrenziale con altri porti, si cura dell’efficienza dello scalo, della manutenzione delle opere portuali, dei dragaggi, del continuo aggiornamento strutturale e tecnologico per restare allineato alle richieste del mercato, ecc.
Autorità Marittima: soggetto estraneo al coinvolgimento economico diretto, svolge una pluralità di funzioni nei diversi ambiti d’impiego. In questo contesto interessa sottolineare il suo ruolo nella gestione del traffico portuale, nel controllo del rispetto delle norme di sicurezza, nelle valutazioni di fattibilità, ecc.
Servizi Tecnico Nautici: i servizi di pilotaggio, rimorchio, ormeggio e battellaggio sono servizi di interesse generale, il cui compito è quello di garantire la sicurezza della navigazione e l’ormeggio nei porti. La disciplina e l’organizzazione dei Servizi Tecnico Nautici sono competenza dell’Autorità Marittima.
Il Tavolo Tecnico, che si riunisce per esaminare le previsioni degli accosti e si esplicita nell’incontro quotidiano tra i Servizi Tecnico Nautici e la Sezione Tecnica della Capitaneria di porto, è il risultato di un percorso sfociato nella formalizzazione di procedure applicate da sempre. La necessità di un confronto, per decidere il modo più efficace di operare – osservando la questione da diversi punti di vista determinati dalle diverse professionalità – è sempre stata avvertita.
Prima dell’istituzione del Tavolo Tecnico, il confronto avveniva quando evidentemente necessario: riunioni saltuarie, telefonate, convocazioni, meeting allargati, ecc., erano i mezzi usati per affrontare le questioni operative.
A questo punto devo rimarcare il fatto che ogni porto ha le sue specificità e, quindi, le sue esigenze.
Il Tavolo Tecnico non può essere generalizzato, pena lo scontro ideologico di chi trova, per la propria realtà, esagerato o poco aderente alle necessità, un impegno quotidiano.
Non si tratta di una procedura standard valida per tutti i porti.
Qual’è lo scopo e quali sono i vantaggi legati al “Tavolo”?
A questo punto entra in gioco l’aspetto umano.
Abbiamo detto, infatti, che la pratica era già soddisfatta da una procedura non scritta creata dall’esigenza. Quello che mancava era un ingrediente essenziale alla qualità dei rapporti: la conoscenza diretta e profonda tra i soggetti; la mitigazione, pur nel rispetto dei ruoli, delle barriere professionali che, al di là delle competenze, restringevano il campo visivo dei singoli.
In pratica, è nella natura umana porsi al centro del proprio universo, considerandone il nucleo la parte che più la riguarda; ed è pure nella natura umana esordire con atteggiamenti di sospetto quando gli argomenti trattati si prestano ad essere viziati da possibili interessi personali.
Diffidenza, dubbi, incompetenza, limiti, ecc., sono solo alcuni degli ostacoli risolti approfondendo semplicemente la conoscenza tra le persone.
L’incontro quotidiano, inoltre, ha permesso di affrontare i problemi nella loro fase embrionale, limitando i malintesi e l’aggravarsi delle situazioni.
Nella prima parte ho scritto che i porti sono vittime di una confusione organizzata.
Forse non è la definizione più appropriata. Sarebbe più giusto dire che “i soggetti operanti all’interno dei porti sono scollegati”.
Infatti, osservandoli, è evidente che ognuno lavora con passione perseguendo i propri interessi con forza. Il problema è che, pur stando tutti sulla stessa barca, si rema in direzioni diverse.
Scollegati.
Il rispetto dei ruoli.
Ho parlato del “rispetto dei ruoli”, dell’importanza della “professionalità”, del pericolo dei “tuttologi”, del problema che deriva dallo “scollegamento”. Lasciatemi ora dire che il Tavolo Tecnico è un ulteriore passo nel percorso verso un'”efficienza comune”.
Manca infatti ancora un tassello importante, affinché la barca cominci a prendere una rotta precisa: l’Autorità di Sistema Portuale(AdSP).
All’interno di questo ente esistono individui di grande valore, il cui contributo, purtroppo, viene spesso rallentato dalla melma burocratica e dallo spettro giudiziario che, ormai da troppi anni, volteggia insidioso su chiunque cerchi di sbloccare i problemi.
Beh, il primo passo da compiere è quello individuare un soggetto dell’AdSP che partecipi quotidianamente al Tavolo Tecnico. Un rappresentante dell’ente che si inserisca nel gruppo, assorba e digerisca i pensieri altrui, per poi condividere il suo.
In questo momento, infatti, il punto più scollegato è proprio quello tra la parte operativa gestita dall’Autorità Marittima e quella burocratico-politica controllata dall’Autorità di Sistema Portuale.
Affrontare, e soprattutto condividere, obiettivi, strategie e decisioni, sommando le competenze dei singoli, spiana la strada a procedure efficaci, responsabilità partecipate e soluzioni coerenti agli interessi generali.
Il rispetto dei ruoli è fondamentale, ma tutti i soggetti devono trovare un punto comune per la risoluzione dei problemi, riconoscere l’autorevolezza delle singole professionalità, mettere a disposizione le proprie competenze e trarre profitto da quelle degli altri.
Al Tavolo Tecnico sono presenti l’AM e i Servizi Tecnico Nautici, dovrebbe aggiungersi l’AdSP e, come già avviene quando ritenuto necessario, allargare le riunioni ai rappresentanti dei terminal, delle agenzie e degli armatori.
Elevare l’interesse individuale a un piano comune, dove la componente umana sovrasti la compartimentazione cronica che limita lo sviluppo.
Nelle complicate economie generali di aziende (da piccole realtà ad immense multinazionali) che hanno interessi all’interno di un porto, l’approdo di una nave alla banchina può essere considerato un “dettaglio”. Questo succede perché, trattandosi di un aspetto particolarmente tecnico, resta estraneo alla mentalità manageriale di chi gestisce un’impresa che si affaccia sul mare ma si sviluppa a terra.
I pescaggi, gli spazi ristretti, il vento, la corrente, le bitte, diventano numeri in un contratto di noleggio, che possono o meno corrispondere alle esigenze di chi compra, vende, si appresta a scambiare merci, navi o persone.
Per quanti siedono attorno al Tavolo Tecnico, sono argomenti che hanno una loro tridimensionalità e vengono valutati sotto i riflettori della sicurezza, dell’efficienza, dell’economicità e della fattibilità. E’ un contesto in cui viene affrontato proprio quel “dettaglio”, spesso trascurato dalle grandi aziende, che può bloccare anche la più complessa macchina economica.
In definitiva, il lavoro svolto dal Tavolo Tecnico nella sua specificità, è un’importante risorsa a disposizione della portualità.
John GATTI
Capo Pilota del Porto di Genova
Rapallo, 29 Novembre 2017
CAMALLI E CARAVANA
CAMALLI E CARAVANA
Statua simbolo dei CARAVANA
Caravana al lavoro
I porti si guardano da una parte all’altra degli oceani, si scambiano le navi che raccontano storie sempre nuove ma anche quelle antiche affinché non siano dimenticate.
Già! Forse tocca proprio a noi, anziani cantastorie dei porti, rinverdire qualche ricordo dei CARAVANA che a metà degli Anni ’60, (noi c’eravamo…) erano ancora in auge e calcavano, magari da pensionati, le calate del porto con il loro incedere pesante, robusto ma benevolo.
Un caravana…
Forse non tutti sanno, che i camalli, ovvero gli scaricatori del porto di Genova, della Compagnia dei Caravana, (progenitrice dell’attuale Compagnia Unica del porto), scioltasi nell’immediato dopoguerra provenivano, fin dal XIV secolo, in gran parte dalla Bergamasca, in particolare dalle valli Brembana, Brembilla ed Imagna, dove pare vivessero uomini fortissimi e giganteschi.
In un antico statuto della Repubblica di Genova, l’origine lombarda viene menzionata come conditio sine qua non per far parte della Compagnia:
“Niuno presumi di venir ammesso nella Caravana, se non sia di Bergamo. Mani grandi et anco gambi forti, per niuna ragione sentir la fatica ammesso”.
Ci eravamo già dedicati ai CARAVANA sul sito di Mare Nostrum Rapallo, avevamo trattato alcuni interessanti aspetti storici e legislativi; col presente articolo vorremmo approfondirne invece alcuni aspetti che oggi destano ancora stupore e qualche “curiosità” che vi elenchiamo.
1-CURIOSITA’
CAMALLO - SABIR
Prima di pronunciare la parola CAMALLO occorre sapere qualcosa sulla sua origine e provenienza. Il camallo, termine genovese camallu, derivato dall'arabo ḥammāl 'portatore', è lo scaricatore o facchino che operava sulle navi nel porto di Genova.
Per il trasporto su carrello il termine è rebellâ, appunto da rebellö, carretto con ruote.
I termini camallo e rebellö hanno assunto nel tempo anche una valenza metaforica per intendere persone dai modi non propriamente fini, o trasandate nel vestire o nel parlare.
Genova, scalo di prima grandezza, è stata la porta d’ingresso degli arabismi nella nostra lingua e soprattutto nel dialetto zeneize SABIR che girava il Mediterraneo in lungo e in largo e fu parlata come lingua franca per secoli fino all’imporsi della lingua inglese; parlato a bordo delle navi, in banchina e nei mercati, in tutti i contatti tra le categorie imprenditoriali e naturalmente tra gli equipaggi in mare. Parole dialettali genovesi e veneziane che diventarono la lingua fu un idioma pidgin “di servizio” parlato in tutti i porti del Mediterraneo tra l'epoca delle Crociate e tutto il XIX secolo. La più diffusa e persistente era costituita principalmente da un lessico al 65-70% italiano (con forti influenze venete e liguri) e per un 10% spagnolo, con parole di altre lingue mediterranee, come arabo, catalano, greco, occitano, siciliano, e turco.
Sebbene il lavoro di scaricatore di porto abbia assunto con l'industrializzazione connotati differenti, il termine CAMALLO mantiene una sua forte valenza nella città degli affari, che rimane tuttora un cardine, ovvero la memoria storica di una categoria radicata nel porto e dotata anche di una sua connotazione politica nella vita della città portuale e non solo.
PICCOLO GLOSSARIO ITALIANO – GENOVESE
Uncino
Scaricare: scaregâ
Schiena: schenn-a
Bicibiti:bacchette
Uomo con molta forza: forsa da beu
Sbucciatura: sgarbeleuia
Bernoccolo: borlo
Trasportare a spalla:camallâ
Forza: forsa
Conoscere: conosce
Antico: antigo
2-CURIOSITA’
Come abbiamo già visto, dal medioevo (XIV Secolo) fino intorno al 1870, i “camalli” non erano genovesi bensì BERGAMASCHI, in quanto gli scaricatori genovesi precedenti, si erano consorziati in organizzazioni molto potenti che influenzavano non solo la vita del porto ma anche quella politica della città con conseguenti danni all'attività commerciale del porto stesso. Fu deciso e scelto di rivolgersi a dei "foresti" e la scelta cadde sui bergamaschi.
Lo scösalin da camallo
Il termine scösâ significa in genovese grembiule. Con l'espressione scösalin da camallo si intendeva identificare il gonnello blu indossato dai camalli sin dal medioevo, di tela di jeans, tessuto tipicamente genovese.
O scöselin era portato dai caravana e non dai camalli. I caravana erano i facchini ammessi dalla dogana ad operare negli appositi siti "franchi" ove la merce sostava in franchigia daziaria e poteva essere sottoposta a modifiche di imballaggio ecc., vedi merci preziose o soggette a particolari imposte come il caffè. Difficilmente nei depositi franchi si camallava come normalmente in altre zone del porto e per altre merci in transito normale.
3-CURIOSITA’
Religiosità
I camalli del porto di Genova furono tra i primi a realizzare dei crocifissi artistici di notevoli dimensioni formando delle CASACCE. Ancora oggi il termine camallo viene usato nell'ambiente delle CONFRATERNITE liguri per indicare la persona che trasporta il crocifisso. Il primo Cristo di notevoli dimensioni, circa 160 kg, venne realizzato proprio in uno degli oratori del porto di Genova. Famoso e antico è il cosiddetto Cristo delle Fucine del XVII secolo del ancora conservato nell'oratorio della marina di Genova.
4-CURIOSITA’…biblica… Riportiamo alcune opinioni di studiosi della materia.
Caso celeberrimo di ipotetica polisemia è quello del cammello che passa per la cruna dell'ago (Mc 10,25; Mt 19,24; Lc 18,25). L'immagine è ovviamente bizzarra. Qualche studioso ha ipotizzato che 'cruna dell'ago' fosse una piccola porta nelle mura di Gerusalemme: in tal caso la parabola sarebbe sicuramente più azzeccata.
Cercando la soluzione a livello linguistico, la parola aramaica gamal può indicare, polisemicamente, sia il 'cammello' che una 'corda'. L'ipotetico traduttore greco avrebbe in tal caso optato per il senso sbagliato: l'immagine di una corda che passa (o meglio, non passa) per la cruna di un ago è sicuramente più simmetrica della lettura tradizionale proposta.
La citazione biblica del cammello, del ricco e della cruna dell'ago soffre di un divertente errore di traduzione dei Vangeli. In pratica, per colpa di una lettura sbagliata nella prima versione in ebraico di Matteo, la parola gomena (gamta) si è trasformata in un improbabile cammello (gamal). Oltre ad essere più "logica" (una gomena è pur sempre un cavo, ma di spessore molto più grande di quello del filo che passa usualmente nella cruna dell'ago), la parabola era anche ben contestualizzata, dato che si rivolgeva ai pescatori del lago di Tiberiade, avvezzi come tutti i marinai all'uso anche delle gomene. L'equivoco permane anche nella versione greca dei Vangeli, con la "grossa fune", "kamilos" (da cui forse il genovese camallo, colui che muove appunto le funi e le gomene portuali), che suona alquanto simile a cammello, cioè "kamelos".
5-CURIOSITA’
Quando i camalli diventarono attori del cinema…
Il mito di Maciste che rifondò l’Italia unita
“Quando Bartolomeo Pagano passava nei caruggi, la gente si appiattiva spalle al muro per lasciarlo passare. Alto 1 e 90 per 120 chili di muscoli, il gigante sorrideva a tutti. Era scaricatore per la Compagnia della Carovana al porto di Genova. Sollevava sacchi di grano argentino, casse di coloniali, e caffè; al tocco si sfamava nell’osteria della Nina con tre piatti di minestrone accomodato con il pesto e un chilo e mezzo di pane, con cui faceva la scarpetta. Per digerire pugnava con l’altro gigante del porto, tale Franchino, così per gioco”.
Bartolomeo PAGANO, il famoso “MACISTE” reso celebre dalle sue apparizioni cinematografiche nei film muti di inizio Novecento.
…. Uno dei tanti maciste dell’epoca …
Vorrei…essere…Maciste...
Maciste non è un vero personaggio mitologico: non nasce né sui libri, né sui fumetti. È una creatura dello schermo. Per risalire alle sue origini, però, non bisogna fermarsi alle avventure in technicolor che lo vedono muscoloso protagonista nel fortunato filone dedicato agli "uomini forti" degli anni Sessanta. Il primo, vero Maciste fu, cme abbiamo visto, Bartolomeo Pagano, camallo del porto di Genova chiamato dal regista Pastrone a interpretare un simpatico e fortissimo schiavo numida in Cabiria (1914), kolossal storico che conquistò le platee di tutto il mondo. Il successo personale di Pagano fu tale che si decise di dedicare al suo personaggio un intero ciclo di film: Maciste avrebbe regnato per più di dieci anni come campione di incassi e di consensi del cinema italiano.
6-CURIOSITA’
La Compagnia dei Caravana, come abbiamo visto, è stata un'antica corporazione di lavoratori del porto di Genova che fu sostituita, nell'immediato secondo dopoguerra, dalla COMPAGNAIA UNICA DEL PORTO DI GENOVA.
Per i bestemmiatori multe salate:
All'interno della Compagnia vigeva un regolamento molto rigido che veniva applicato partendo dal presupposto che le virtù morali e sociali della Compagnia dovessero essere un caposaldo alla base dell'attività comune. Pesanti multe venivano ad esempio inflitte a coloro che si lasciavano andare a bestemmie contro la Madonna o che non partecipavano alle Messe sociali celebrate nella cappella votiva della corporazione, all'interno della chiesa di Nostra Signora del Carmine.
Gli statuti della Compagnia dei Caravana che, almeno inizialmente, comprendeva solo una parte dei lavoratori impegnati nei diversi pontili, ovvero quelli di Banchi, Pedaggio e Calcina - vennero firmati l'11 giugno 1340. Con essi il Comune concedeva ai soci della corporazione il diritto esclusivo allo scarico e al carico delle merci transitanti per la Dogana di Genova.
Alla Compagnia, in base a uno statuto entrato in vigore quasi centocinquant'anni dopo, nel 1487, e abolito solo a metà Ottocento, potevano appartenere solo soci provenienti dalle vallate situate intorno a Bergamo.
L'appartenenza al sodalizio avveniva per successione, a condizione che i figli nascessero nelle zone di origine dei padri e l'usanza di garantire ai figli il diritto di subentrare ai padri è in vigore nell'ambito della moderna Compagnia Unica dei Lavoratori delle Merci Varie del Porto.
Nella sostanza, lo scopo di questa regola era quello di assicurare che i cosiddetti portuali - tutti giovani di aspetto robusto e disposti ad un lavoro estremamente duro - fossero estranei, in quanto foresti, ad ogni tipo di lotta di parte tesa al predominio su quella che era un'attività centrale per la vita economica cittadina.
Per spiegare cosa fu la compagnia dei “CARAVANA” e chi erano i “giganti” che vi lavoravano, vi proponiamo questo bellissimo articolo del Corriere della Sera del novembre 1932. Un quadro d’epoca ripreso dal vivo con i suoi personaggi ancora in piena attività. Leggerlo sarà davvero un bellissimo viaggio nel tempo.
Ringrazio a nome di Mare Nostrum Rapallo e dei suoi lettori, il cultore e divulgatore che ha messo a disposizione questo “capolavoro” di altri tempi…
Di Cesare Meano - 1932
Genova, Novembre.
In questo mondo marino, che ha per confini muraglie, cancelli, tettoie, casermoni, torri» e, per foreste, le alberature delle navi, per fiumi le strisce di mare luccicanti fra carena e carena, per nuvole il fumo nero che il vento strappa alla bocca dei camini, i giorni nascono, passano e muoiono al grido delle sirene. Anche da terra si odono, dalla città, che contrappone a esse le sue campane. E ai primi segni dell’alba non si capisce se siano le sirene a risvegliare le campane, 0 queste a risvegliare quelle. E’ un coro improvviso, enorme, che sembra sorgere d’ogni intorno, vicino e lontano, mentre sulle montagne, alle spalle della città, appaiono le prime incerte dorature del sole, e il mare si stria d’argento e trema. La Lanterna si spegne. Si spengono le luci rosse dei semafori, i lumi delle banchine e delle strade, delle navi e delle case. La luce del sole scende dalla montagna, come una lentissima fiumana color di miele, che trabocchi dalle valli di là: scende e raggiunge il mare, lo illumina. Tra il mare e la montagna, — tutta la bellezza e la forza del mondo, — ricomincia la vita di Genova e del suo porto, dopo la sosta notturna.
I lavoratori del porto
I cancelli si sono aperti. Le gru hanno ripreso il loro moto sonnolento, ai qua e di là, come palmizi in un vento rallentato. Sugli specchi dell’acqua riappaiono i rimorchiatori, i battelli, le barche tentennanti sulle zampe di grillo dei remi Lungo i binari interminabili le locomotive avanzano speronando le nuvole del loro stesso vapore: cortei di carri-piatti, di carrozzoni, di carri-botte. E un esercito si incammina in ordine sparso, sfociando dai cancelli e dai porticati: dilaga, si disperde, scompare, riappare più lontano, popola i magazzini e le calate, le boe.
Migliaia di uomini: la popolazione di questo mondo che allinea, dinanzi al mare aperto, i suoi quattro bacini, i suoi cinque moli, i suoi tredici ponti e le sue venti calate. L’esercito dei lavoratori del porto: facchini, cassai, barilai, imballatori, pesatori, calafati, puntellatori, demolitori, carpentieri, carenanti, ormeggiatori, manovratori, barcaiuoli: decine e decine di categorie. E chi osservi la loro vita e il loro lavoro, o consulti i quadri e gli statuti delle loro organizzazioni, li vede veramente inquadrati in un esercito esemplare, cui non mancano neppure l’antica gloria, la nobiltà conquistata in secoli di disciplina, di fatica, d’eroismo, la ricchezza che deriva ai popoli privilegiati dal patrimonio delle loro tradizioni. La nuova odierna potenza, per i lavoratori di questo porto, è fiorita su un saldo tronco secolare; i gagliardetti dell’Italia rinata si sono issati sulle aste che ressero i gonfaloni di ieri.
Le compagnie
In numerose Compagnie, al comando di consoli e di vice-consoli, questi lavoratori sono costituiti, e il Sindacato Interprovinciale dei Lavoratori del Porto li tutela e li domina. Ogni Compagnia, però, ha i suoi statuti e le sue consuetudini, difesi e rispettati con incrollabile fede. In alcune di esse si riscontrano quasi i caratteri di confraternite religiose; in tutte un soldatesco senso di disciplina e di dovere, insieme con quell’orgoglio che negli eserciti si chiama «spirito di corpo » e che è custode incorruttibile delle tradizioni più alte. Ecco la congrega dei facchini del Deposito Franco, i caravana: unica Compagnia che, per antico diritto, goda larghi privilegi ed eccezionale autonomia; ecco la Corporazione dei Calafati, i cui « capitoli » datano dal 1370; ecco la Corporazione dei Barcaiuoli, menzionati nella storia fin dal secolo XV; e le altre Compagnie meno antiche, e le altre ancora che si vanno formando sul modello di quelle. La milizia del lavoro ha qui la sua aristocrazia, i seggi dei suoi anziani, i custodi del suo tempio.
La compagnia dei « caravana »
La Compagnia più antica e gloriosa è quella dei caravana. Nel recinto del Deposito Franco s’incontrano i suoi duecentosettanta affiliati. Dai magazzini ai carri della ferrovia, con passo lungo e immutabile, vanno sotto il peso di sacchi e cassoni, senza curvarsi e senza tentennare. Deposto il peso alzano il capo e lo scuotono, come per cacciare un pensiero, poi ritornano indietro, sollevano un nuovo peso, alti, diritti, impassibili. Intorno alla cintura, fino quasi ai ginocchi, portano un gonnellino azzurro, e d’estate un mantelletto bianco, la capota, che copre spalle e nuca. Cosi da più di sei secoli. Il gonnellino è l’uniforme del caravana, che non ne conosce l’origine né la ragione, ma con orgoglio lo veste, non appena gli sia concesso l’onore, non facilmente conquistabile, di appartenere alla Compagnia. Anche i loro capi portano il gonnellino; nessuno pensa ad esimersene. Il console e 1 capisquadra vestono panni borghesi e, tra la giacca e i calzoni, ecco il bizzarro indumento (il console, Angelo Caprile, detto Cirillo, porta anche gli occhiali cerchiati di tartaruga: e il gonnellino). Ma chi sono questi caravana, il cui nome, per tutto il porto e la città, suscita simpatia e ammirazione? Udendoli chiamarsi l’un l’altro, non si chiarirebbe certo il mistero. Minosse, Cerbero, Caronte, Gerion: i caravana si chiamano cosi; e anche peggio. Una tradizione fra le tante: quella dei soprannomi. La «Caravana» vive ancora oggi, esattamente, come viveva nei suoi primi tempi. Immutabile ha varcato i sei secoli della sua storia, ha superato difficoltà e avversità, ha resistito a controversie e a crisi; riconosciuta e protetta da re, pontefici, ministri, dogi, è arrivata a essere quale è oggi, la più genuinamente antica delle Compagnie, e, nello stesso tempo, la più giovanilmente viva.
Chi erano i « caravana »
Nella sua sede si custodiscono i tre codici di pergamena che recano il testo delle sue leggi. « A nome di Dio e de la Madona Sancta Maria e de tuli li Sancii e le Sancte e de tuta la Corte Celestia, amen » : in data 1340, cosi si preludiava a < li statuti e le ordination facto per tuli li lavoratori… et ordenà per lo prior, in lo dì de la lesta de messer Sancto Barnaba, in la aesua di Messer Sancto Lorenzo di Genua… ». Fui da allora s’imponevano ai cara – vana le leggi che permisero a essi di guadagnarsi fama di lavoratori incomparabili e di virtuosissimi cittadini. Vietati il turpiloquio e la bestemmia, severamente inibiti l’uso delle armi e la consuetudine delle spese superflue, limitato ai giorni di Natale e di Pasqua il gioco dei dadi e alla domenica quello delle carte, disciplinati tutti i rapporti fra di essi, tanto da eleggere a giudici d’ogni questione, anche privata o amichevole, i capi della congrega, la Compagnia si elevava senz’altro a prototipo di tutte le altre organizzazioni congeneri. Le leggi del 1340 ne partano come d’una confraternita preesistente. Non si sa quindi e quali tempi risalga la sua origine, ma si può senza errore reputarla uno dei più antichi esempi storici di organismo sindacale dotato di leggi intese a instaurare i principi della previdenza e del mutuo soccorso. Oggi, come sei secoli or sono, i caravana affidano ai loro capi il denaro guadagnato, poi lo spartiscono. Nulla chiedono e nulla possono accettare oltre al compenso stabilito. A una parete della sede sociale è affissa una lapide vecchia di tre secoli: « Si avertisca non prendere premio o recognitione di sorte alcuna… », che sarebbe come dire: « Sono proibite le mance ». Nel recinto del Deposito Franco, dove essi prestano servizio con diritto di assoluta esclusività, i distributori di vino e di vivande sono gestiti in forma sociale. Dopo trent’anni di servizio i caravana diventano pensionati della Compagnia stessa, e così le loro vedove. Fino all’ultimo respiro i compagni vegliano e proteggono il caravana vinto dalla vecchiaia o dai mali; poi lo accompagnano alla tomba in forma solenne. Ma c’è pure chi lascia la « Caravana » senza gloria e senza premio, quando la sua umana debolezza l’abbia fatto incorrere nei peccati che la congrega condanna. E c’è chi bussa alla sua porta e non riesce a entrarvi, o per deficienza fisica, e il caso è raro, o per deficienza fisica e, il caso è raro, o per deficienza morale, e il caso, data la severità delle inflessibili leggi, è più frequente. Oggi, come sei secoli or sono, bisogna che il caravana porti il suo gonnellino come si porta un blasone, e, quando, lontano dal lavoro, abbia dimesso la visibile insegna, possa vincere ogni diffidenza e conquistare ogni amicizia, solo col dire: « Sonn-u carav-vana». Lungo il tempo le glorie si allineano. I caravana appaiono al pensiero contro un fondo di bandiere, di armi, di templi e di luci trionfali, come in un’allegoria. Nella chiesa di Santa Maria del Carmine essi si adunano, dai secoli più lontani, per rendere a Dio il dovuto. Le processioni di Genova conoscono il loro incesso imperatorio, nelle pieghe di tuniche variopinte, sotto il peso dei simulacri e degli stendardi, (li eventi della Patria li trovarono sempre all’erta. Nel 1746, contro gli Austriaci invasori, furono i caravana a trascinare i cannoni genovesi su per l’erta di Pietra Minuta. Nel 1812 e nel 1815, per due volte portarono attraverso la città il Pontefice Pio VII, che li rimeritò con larghe indulgenze. Nel 1848 ebbero affidata la custodia del tesoro della Banca Nazionale. Nell’ultima guerra furono mobilitati in centocinquanta, e rimasero sul campo in tredici.
Quelli di Bergamo
Un lungo periodo della storia di questa Compagnia (che diligentemente è stata rievocata di sui codici dal capitano Giorgio Ricci, dal dottor Annibale Ghibellini e da altri ancora) è occupato dal nome di Bergamo. Per oltre un secolo e mezzo la « Caravana » fu tutta composta di bergamaschi, e altri che non fosse di Bergamo o del circondario non aveva diritto d’appartenervi, tanto che i componenti mandavano a Bergamo le mogli incinte, affinchè generassero autentici bergamaschi. Discordi sono i pareri sulla ragione di questo fatto. La Compagnia, in base alle più recenti ricerche del Ghibellini, risulterebbe in origine prettamente genovese. Verso il 1450 cominciò l’infiltrazione bergamasca forse da parte di qualche brigata di mercanti.
Nel 1576, quasi tutti i caravana erano oriundi di Bergamo, o figli di bergamaschi; nel 1695 fu emanato il decreto che prescriveva per tutti i soci della Compagnia, senza eccezione, l’origine bergamasca. Secondo alcuni, questa legge sarebbe stata pretesa dagli stessi caravana di Bergamo, a compenso della pietosa opera da essi prestata durante una pestilenza, nel soccorrere i malati e nel seppellire i morti. Secondo altri sarebbe stata originata dal desiderio di evitare che tale organizzazione di uomini eccezionalmente forti e audaci potesse parteggiare per l’una o per l’altra delle fazioni nelle quali la cittadinanza era divisa, come facilmente sarebbe accaduto se non si fosse trattato di foresti, per nulla interessati nelle faccende della patria d’elezione. Comunque, dal 1695 al 1848, negli annali della «Caravana» si susseguono nomi di bergamaschi e di paesi del Bergamasco: da Brembilla e da Dossena, da Almenno e da Zogno, da San Pietro d’Orzio e da Rigosa, i caravana arrivavano a Genova. L’onore della Compagnia era affidato alle salde braccia e ai nobili cuori lombardi.
La fine di un curioso ostracismo
Ma i genovesi brontolavano, anzi mugugnavano. Tornasse a loro e ai loro figli la confraternita ch’era orgoglio del loro porto: non erano stati essi, forse, a crearne la prima compagine? non erano braccia genovesi quelle che avevano portato la terra sulla montagna arida, per farvi allignare le sementi, e avevano trasportato la tribuna del coro di San Matteo» con tutti i suoi mosaici e i suoi altorilievi, per più di venti metri? Nel 1848 il mugugno fu ascoltato, e la legge venne abrogata. Le porte della «Caravana» si riaprirono anche ai genovesi. L’ultimo caravana bergamasco morì nel 1914, e si chiamava Andrea Ghisalberti, detto Diego. Ora, nei ranghi, non vi sono più che alcuni figli di bergamaschi. E più nessuno mugugna, né a Genova né a Bergamo: tutti amici e camerati. Non dimentichiamo, però, le altre glorie della Compagnia, più modeste di quelle elencate, eppure giustamente care al cuore dei caravana. Nella loro sede, alle cui muraglie pendono lucide stadere, come panoplie d’armi in un (museo guerresco, c’è un quadro che il caravana non manca di presentarvi. Una ghirlanda di ritratti contornati e legati da fregi floreali. Un vescovo e alcuni signori con barba e occhiali, dal nobile aspetto.
Chi sono? La guida vi addita le parole che accompagnano ogni ritratto: l’avvocato commendator tal dei tali, « figlio di caravana » ; il professor tal altro, « figlio di caravana; monsignor vescovo così e così, « figlio di caravana ». Non senza stupore si guarda il volto compiaciuto di chi ci sta accanto. Ecco una specie di gloria che non ci aspettavamo. E che diremo, dunque, del console di «Caravana» Gian Giacomo Casareto, detto Gerion, che professava filosofia e lettere? e del carbonaio Gian Battista Vigo, lavoratore del porto anche lui ch’ebbe dal Comune una tomba gratuita e onorifica, in riconoscimento dei suoi meriti poetici. I caravana, i carnali e tutti gli altri, affratellati dal lavoro e dalla fede, si direbbe che giochino con la gloria come giocano coi quintali. Ha avuto i suoi predecessori in fatto di strane fortune, quel carnaio dei Magazzini Generali, che una ventina d’anni addietro lasciò il porto e si fece africano, con l’aiuto del sole e dell’olio di cocco, per proteggere l’innocente Cabiria nel corso delle sue dannunziane avventure; e ora torna à ritrovare i suoi compagni, a rivedere le calate e i moli, salutato a gran voce : « Ohè, Maciste!>>.
La gloria quotidiana
Ma il caravana pensa assai poco alle glorie che furono e a quelle che, forse, verranno. Altre ne trova e ne gode, più immediate e più quotidiane, mentre lavora a denti stretti, misurando il tempo sul ritmo del suo passo» che va e viene. Se no sorprendete qualcuno, durante il riposo, disposto a darvi udienza, e gli domandate quale sia stata la più grande impresa sua e dei suoi compagni, egli non ricorderà i cannoni di due secoli or sono, né il Pontefice portato dai suoi vecchi, né il vescovo generato da un suo predecessore. Sorriderà coi suoi denti bianchi nel viso di bronzo e, dopo avere lui poco pensato, vi racconterà di quella notte, quando cento caravana dovettero in dieci ore caricare sui treni quattromila tonnellate di grano. Le macchine insaccatrici lavoravano. I carri merci aspettavano. Avanti, caravana: quarantamila sacchi d’un quintale! quattrocento sacchi per ogni uomo; dieci ore di tempo; quattrocento passeggiate di venticinque o trenta passi, con cento chili sulle spalle, nello spazio di dieci ore; per ogni ora quaranta quintali; sempre avanti, caravana; per ogni passeggiata ottanta secondi, poi un bicchiere di vino mentre i treni partivano e il sole, salutato dalle sirene, sorgeva. C’è un altro faro, ai piedi della Lanterna, di fronte al mare burrascoso del mondo.
Carlo GATTI
Rapallo, 22 Gennaio 2019