UNA GIORNATA DA PILOTA
UNA GIORNATA DA PILOTA
Il racconto della prima manovra della giornata
Viviamo qualche ora, tra routine e imprevisti, insieme al Pilota.
La sveglia suona alle tre e un quarto.
Alzarmi presto dal letto non è mai stato un problema.
Mi muovo al buio, in silenzio. Dormono tutti.
Il primo caffè ha il compito di aprire la connessione con il mondo: un rito da vivere senza fretta. Un’occhiata on-line alla scheda delle prime navi che devono muovere, stabilisce il tempo che ho a disposizione per raggiungere la base operativa dei piloti. A quest’ora la strada è sempre libera e in venti minuti supero il varco di controllo per entrare in porto.
Fino a pochi anni fa la sala operativa era posta al quinto piano della Torre Piloti e, da quell’altezza, ruotare lo sguardo da Punta Vagno verso il taglio della Canzio e poi ancora fino al Porto Vecchio, permetteva di inanellare le informazioni necessarie a impostare il lavoro. I fanali di via fornivano i dati sul traffico in arrivo, la disposizione delle navi alla fonda suggeriva la direzione e l’intensità della corrente, i fumi dell’Italsider e della centrale dell’Enel parlavano del vento, e poi le “pecorelle” sull’acqua in avamporto, le bettoline e i pescherecci in movimento e molti altri dettagli “aggiornavano”, a colpo d’occhio, le numerose variabili così importanti per la sicurezza del nostro lavoro.
Dopo il crollo della Torre ci siamo trasferiti a Ponte Colombo. Sono passati quasi cinque anni. In questo periodo abbiamo lavorato per migliorare la logistica e per supplire ai punti deboli dovuti all’infelice posizione.
Quando esco dalla macchina una brezzolina fredda mi porta a chiudere gli ultimi bottoni del piumino intorno al collo.
La sera prima soffiava un vento teso da scirocco che, nella notte, ha lasciato il posto alla tramontana, ma non è ancora sufficientemente forte da spianare le onde. Questo lascia supporre la presenza di una discreta corrente in canale.
Qualche minuto più tardi entro nella sala operativa.
Le luci sono spente. Un retaggio della vecchia Torre, dove aveva un senso restare al buio per poter vedere cosa succedeva all’esterno.
Le lavagne luminose mostrano i dettagli aggiornati delle navi prossime ai movimenti. Ci si consulta con i colleghi, si assegnano i lavori, si controllano eventuali nuove ordinanze della Capitaneria e si leggono le note lasciate dai piloti smontanti. Resta giusto il tempo per il secondo caffè, poi si scende in pilotina. A seconda delle condizioni meteomarine in cui si opera, si decide se usarne una leggera e veloce che consuma poco, fa meno onda ed è più agile nel traffico intenso, oppure una più dislocante, meno reattiva ma precisa ed efficace nel mare mosso.
Oggi é una di quelle giornate in cui imbarcare potrebbe essere un problema e, proprio per questo, ad attenderci troviamo il pilotino Paolo con la Gemini, un’imbarcazione originale Nelson costruita in nord europa su misura per il tempo cattivo.
Tramontana, onde residue da scirocco e corrente in canale: resta solo da scoprirne l’intensità.
Passato l’avamporto accostiamo per levante offrendo la prora al mare che entra. La tramontana fa il suo lavoro e gli spruzzi lavano la fiancata sinistra per poi sfumare verso la diga, dove si mescolano alle onde che passano le ostruzioni.
Avvisiamo le navi di mantenere un miglio e mezzo di distanza l’una dall’altra e di restare almeno a due miglia dall’imboccatura; questo per permettere tutte le accostate necessarie a creare un buon ridosso per imbarcare.
Riduciamo la velocità per due buone ragioni: evitare colpi troppo forti contro i muri d’acqua che ci troviamo davanti, e per limitare i danni nel caso dovessimo urtare uno dei numerosi tronchi semi-sommersi portati in mare dal torrente Bisagno.
A me tocca la prima nave, pertanto comincio a dare istruzioni al Comandante sulla velocità e sulle accostate da effettuare. Quindici minuti più tardi ci troviamo cinque o sei metri distanti e paralleli alla nave. Se voglio ottenere un ridosso dal vento per non bagnarmi devo farla accostare a dritta, esponendo la pilotina alle onde dello scirocco; se invece voglio evitare di rischiare le gambe a causa delle rollate, devo farla accostare a sinistra… Opto per la prima soluzione, confidando sulla mia agilità per bagnarmi il meno possibile.
È una nave da carico di 180 metri con una biscaglina di circa sei metri che, nella rollata svantaggiosa, finisce alcuni metri sott’acqua. Raggiungo le griselle e salgo alcuni gradini allontanandomi dalla coperta e dalle secchiate d’acqua che arrivano ogni volta che la prua infilza un’onda.
È una questione di tempismo: il beccheggio e il rollio asincroni della nave e della pilotina, l’alzarsi e l’abbassarsi dell’una e dell’altra sull’onda, devono coordinarsi fino ad avere il motoscafo nel punto più alto, altrimenti le gambe rischiano di restare schiacciate tra i due scafi.
E arriva il momento giusto: nave sulla rollata interna e pilotina sulla cresta dell’onda. Uno slancio veloce e passo dalla grisella alla scala di legno e corda. Un istante dopo la pilotina cade sul cavo dell’onda e la nave sale sulla rollata esterna, mentre le gambe pestano veloci sui tarozzi per allontanarsi dal pericolo.
Raggiungo la coperta e con la radiolina portatile dico al Comandante di tornare in rotta; nel frattempo il cervello registra in automatico alcuni particolari: equipaggio filippino, in ordine e ben organizzato; ufficiale con il vhf e salvagente vicino alla biscaglina; illuminazione ok; la nave sembra vecchiotta ma tenuta bene. Non c’è l’ascensore, ma le scale sono pulite e il marinaio che mi accompagna ha un passo decisamente veloce.
Quando apre la porta, scatta lo spegnimento automatico della luce sulle scale ed entriamo nel Ponte di Comando.
Il Comandante croato parla un "italiano" impreciso ma comprensibile e, non essendo la prima volta che viene a Genova, lo scambio d’informazioni viene formalizzato in modo chiaro e veloce.
La nave non è dotata di elica di manovra prodiera, per cui decidiamo di comune accordo di utilizzare due rimorchiatori, che verranno voltati a prora e a poppa una volta raggiunto il ridosso della diga. Ci allineiamo all’imboccatura mettendoci il mare in poppa, riduciamo la velocità per mantenere la riserva di macchina necessaria a riprendere il governo quando rischieremo di perderlo una volta che lo scafo sarà metà dentro e metà fuori della diga.
La velocità diminuisce di poco… vuol dire che la corrente è più forte di quanto pensavo. Non appena la prua prende il ridosso, la nave accosta decisa a sinistra ed è necessaria l’Avanti Tutta per riprenderne il controllo. Non appena il timone sente la macchina, riduciamo l’andatura per poi fermare del tutto i motori e procedere a voltare i due rimorchiatori in sicurezza. Raggiungiamo l’avamporto con una velocità residua di otto nodi e proseguiamo con un bell’inchino a nord per contrastare la tramontana che nel frattempo sta rinforzando. Attraversiamo il taglio della Canzio bene al vento, ma ancora troppo veloci. Appena passata la Bettolo prendiamo il ridosso di Ponte San Giorgio e dell’Idroscalo che ci permette di diminuire di nuovo la macchina. Davanti a noi si vedono chiaramente le “pecorelle” provocate dal vento sull’acqua tra le testate dei pontili. Tra i venticinque e i trenta nodi. Dobbiamo ormeggiare al levante Somalia. Punto al ponente, fermo la macchina, andiamo di bolina lasciando cadere la poppa. Una volta passato il levante Etiopia ridò macchina avanti, timone tutto a sinistra, rimorchiatore di prora a sostenere al vento. Ci riportiamo in vantaggio e, non appena la poppa si libera dall’Etiopia, ordino al rimorchiatore di tirarmela su. Fermo la macchina per farla ripartire indietro appena possibile. Sull’aletta il vento forte e gelido rende difficile comunicare via radio, ma la poppa prende vantaggio. È il momento di aumentare la macchina e di fermare il rimorchiatore di prua. La nave pesante arranca avanti verso la diga, ma ben presto il motore fa sentire la sua potenza tra scossoni e vibrazioni, il vento passa in filo e la gestione della manovra torna a essere meno “muscolare”.
È arrivato il momento di lavorare di fino: bisogna stare attenti nell’utilizzo della propulsione, perché adesso c’è in giro la barca degli ormeggiatori. Basta un ordine sbagliato per mettere a rischio le loro vite. E poi bisogna affiancare la nave alla banchina parallela e dolcemente, stare attenti alle gru, ai cavi, alla posizione…
Il “good job pilot” pronunciato dal Comandante al termine della manovra non è per niente scontato e soddisfa sempre la parte romantica del nostro lavoro.
John GATTI
Rapallo, 31 Gennaio 2018
L'EPOPEA DEI "MACCHI"...
L’EPOPEA DEI "MACCHI"
GENOVA
Le moderne dighe foranee dei porti principali sono costruite con moduli in calcestruzzo che in gergo marinaro vengono chiamati MACCHI oppure CASSONI. In questa foto se ne vedono DUE che sono pronti per essere rimorchiati verso la loro destinazione. Questi manufatti sono di varie misure: peso, lunghezza, larghezza e pescaggio a seconda del fondale su cui dovranno poggiare. Chi scrive ne rimorchiò 21 a Monaco per la costruzione della diga del porto di Fontvieille. Il dislocamento dei macchi varia da 2.000 tonn. a 4.000, pescano da 9 a 12,5 mt. La velocità di navigazione varia da 1 a 3 nodi, con tempo buono assicurato. La ridotta velocità non dipende dalla scarsa potenza del rimorchiatore, ma dalla assenza di linee idrodinamiche del manufatto che, in pratica, é senza prua e poppa.
Nel macco più basso della foto, si può osservare la suddivisione interna in celle che hanno una precisa funzione: per essere posizionato, allineato e affondato secondo il progetto ingegneristico, le celle del manufatto vengono riempite d'acqua, per cui il macco può essere appesantito o alleggerito fino a raggiungere la perfetta posizione. Appoggiato definitivamente sul fondale, la fase finale consiste nel sostituire l'acqua di zavorra con colate di cemento, sabbia o altro materiale edilizio.
27.15.4.16.4000…i macchi
I numeri qui riportati non sono quelli del lotto ma sono le caratteristiche che contraddistinguono alcuni tipi di cassoni della Fincosit (da noi confidenzialmente chiamati macchi) e che dai Cantieri venivano rimorchiati ai luoghi di affondamento per la costruzione delle infrastrutture portuali: Porto Torres, Marsha el Brega, Monaco furono le nostre destinazioni.
27 metri la lunghezza, 15 metri la larghezza, 5 metri la parte emersa, 11 metri la parte immersa, per un peso di 4000 tonnellate di cemento.
Fiuto, naso, sensibilità tutte doti indispensabili che facevano e fanno la dotazione del Barcacciante nel prevedere il tempo (vedi i Siparietti dedicati al “naso” nel libro "Con le Barcacce nel cuore" di C.Gatti-S.Masini) e prendere le decisioni del caso, ma c’è una condizione di rimorchio dove solo una dose di fortuna gioca un ruolo predominante: quando si rimorchia il “macco”, questa specie di iceberg in cemento.
I “macchi” in attesa di essere rimorchiati sul luogo di affondamento.
Qui non si scappa, anche con tanta potenza la velocità è di 3-3½ nodi (4 un record con corrente a favore...) e con un pescaggio di 11 mt. che non dava scampo per eventuali ridossi. Partenza da Genova con tempo dichiarato ma la lunghezza del viaggio non assicurava niente, anche l’avviso di perturbazione non dava possibilità di cercare ridosso.
Un pugile alle corde che poteva solo difendersi come poteva.
La velocità alla partenza era ancora inferiore dovuta alla vegetazione che aveva fiorito nella parte immersa durante la sosta in Cantiere e che lentamente in parte si rilasciava nelle prime 48 ore di navigazione.
Tanto eravamo lenti che ancora il giorno successivo alla partenza si metteva il gommone a mare per andare a comprare pane fresco e giornali.
Che dire ancora su questo tipo di rimorchio.
Intanto che anche con potenze di molto maggiori la velocità non incrementava significativamente. Ci provammo anche col Vortice (6.500 CV) ma con risultati modesti, c’era comunque da considerare lo sforzo maggiore delle attrezzature e la sollecitazione alla struttura del cassone che suggeriva una certa cautela.
Per i meno iniziati ricordiamo come le resistenze al moto in mare incrementano col cubo della potenza raggiungendo rapidamente valori astronomici.
Movimento in porto di un "macco".
Il Rimorchiatore della Fincosit movimenta il cassone e lo consegna al Rimorchiatore di altura.
Rimorchio di un cassone di cemento di medio tonnellaggio. Rapportino del viaggio del cassone da Genova a Monaco: Miglia 75 in 22h – Velocità 3.41 nodi.
Alcune fasi nella costruzione dei Cassoni (Fincosit)
L’epopea di un cassone Fincosit.
Nelle rievocazione dell’Ing. Pasquale Buongiorno:
A tutti i marittimi che hanno contribuito a far grande
la Fincosit ......
"Sono le tre del mattino del primo febbraio 2007. Marco esce di casa cercando di non svegliare la famiglia. E parte, direzione Marghera. Lì in banchina lo aspettano Fabrizio, Paolo, Giovanni e Pietro per andare fuori dalla Bocca di Lido incontro al cassone.
I cognomi non sono importanti, di solito ci si dà del tu, del vaffa... se occorre.
Se il tempo lo permetterà, oggi il cassone NS42, il 2271-esimo cassone della FINCOSIT (e questo vuol dire più di 50 km di dighe e banchine costruite...), il primo del progetto Mo.S.E. entrerà a Venezia.
Mi hanno chiesto di scrivere qualcosa sul rimorchio dei cassoni.
Ma io mi intendo più di numeri che di lettere e poi il rimorchio è meccanica, movimento e noi ingegneri civili preferiamo la statica. Allora mi sono detto “Perché non parlare dei nostri marittimi e del loro lavoro....?”
Ho appena abbozzato la dedica e la premessa e so già che prenderò una bella strigliata dal mio Presidente. Lo so, ora il nome della società è GLF ma per me che sono in ditta da più di 20 anni ma anche per tutti i colleghi, le Autorità Portuali e i giornali, la branca marittima della società è e rimarrà sempre “la FINCOSIT”.
Se dici a un genovese “rimorchio di un cassone”, ti parlerà della partenza del superbacino, bianco lui, nero il rimorchiatore, salutati dal fischio delle sirene e dalle colonne d'acqua degli idranti, come una coppia di sposi in partenza per la luna di miele.
Ricorderà solo il viaggio.
Ma il rimorchio è come la grappa, c'è una testa e una coda.
C'è la testa, i preparativi per il viaggio, la posa in opera delle bitte di manovra, dei cavi di rimorchio e di emergenza, della biscaggina, delle luci per la navigazione notturna fino a presentare il cassone al rimorchiatore. E' un lavoro di routine, tutto si svolge in banchina, con la gru, i pontoni di servizio, i giusti tempi.
C'è la coda, il cassone che arriva a destinazione e viene preso e affondato. E' il duro lavoro dei marittimi, la fatica in mare, con tutte le difficoltà ed i problemi che si possono presentare. Ed è di questo che voglio parlare.
Solitamente i cassoni terminano il loro viaggio all'interno dei porti o in corrispondenza delle dighe foranee e in attesa di una giornata con mare piatto, adatta per la posa, vengono ormeggiati in banchina.
Qui è diverso, all'interno delle bocche c'è la corrente che va e che viene, che spinge il cassone prima verso il mare e poi verso la laguna, senza interruzioni, più di due metri al secondo e i cassoni devono essere tenuti fermi in qualche modo.
Nei giorni precedenti i marittimi hanno quindi posto in opera i corpi morti a cui ormeggiare i cassoni, per poi tonneggiare con gli argani e posizionarli con la dovuta precisione.
I cassoni sono stati arredati con bitte da 30 tonnellate, bitte da piccola banchina portuale e i corpi morti sono da 100 tonnellate.
Hanno messo le boe, le catene, gli spezzoni di cavo in polipropilene ad alta resistenza.
Tutto è pronto per ricevere il cassone. E il cassone è arrivato in rada il giorno prima.
Il S. Cataldo lo ha rimorchiato dal centro di prefabbricazione di Taranto (credo che Leonardo avrà salutato il suo “primo nato” con trepidazione) e con un viaggio di 11 giorni lo ha trasportato fino a Venezia, burdesandu-burdesandu, girando intorno al Gargano, su su fino al delta del Po e poi alla Bocca di Lido
E i ragazzi gli sono andati incontro. I marinai ma anche Davide, il direttore di cantiere, che è cresciuto a pane e Fincosit, con il padre a fargli da maestro.
Un piccolo viaggio, da Marghera fino fuori alle bocche di porto, 12 miglia a bassa velocità per non danneggiare, con le onde generate dalle eliche, con lo sciabordio, le fondamenta degli storici palazzi veneziani.
E hanno raggiunto il cassone.
Ricordo ancora la prima volta che, studente del biennio, vidi un cassone a rimorchio uscire dal porto, alla Foce. Spuntò d'improvviso e nel silenzio da dietro il padiglione B. Una visione onirica, il passaggio del Rex nel film Amarcord. Qualcosa che solo Archimede era in grado di spiegare.
E ora lo spettacolo è simile.
E' là, alto, maestoso contro l'orizzonte, quasi cinque metri di franco bordo".
Macco in navigazione
Un bestione di 21,88 x 12,24 x 13,80 m che immerge 9 metri e spiccioli (ecco che ricompare l'ingegnere.....) che però ha seguito il rimorchiatore ad una distanza di circa 400 m docile come un cagnolino, incurante delle onde, del vento di maestrale, del mare che è montato fino a forza 5, 6....
Il comandante del S. Cataldo è soddisfatto: un rimorchio di tutta tranquillità.
Per l'occasione è venuto a Venezia anche Dino, un nostro “vecchio” capo cantiere.
Ha quasi 70 anni ma con un "mascone" ti farebbe ancora fare tre giri su te stesso. E' lì nella foto con il suo cappellaccio calato sulla testa che osserva e commenta a mezza voce.
Lui conosce bene tutti i ragazzi, pregi e difetti, li ha visti crescere, li ha fatti crescere....
Era un po' di tempo che non si vedevano: si sono avvicinati, guardati, annusati quasi, per vedere se qualcosa era cambiato.
Un colpo sulla spalla, un ciao con voce sommessa, un tocco sul braccio, un abbraccio, una grossa risata e una bella presa in giro: tutto come prima...
Non è retorica: la vita di cantiere è diversa dalla vita di ufficio, si crea un altro spirito, i rapporti sono diversi. Anche con Enrico, il project manager, solitamente così riservato, anche con me che sono un progettista.....
I ragazzi sono saliti sulla cima del cassone per passare la patta d'oca al rimorchiatore del porto che dovrà fungere da batticulo durante il viaggio fino all'interno della bocca.
Mi piacerebbe dire che sono andati all'arrembaggio, su per la biscaggina. Sarà che la nostra bandiera è per metà nera...."
Uno guarda le foto e dice: “Una bella giornata di sole” e feroce come una mannaia cala la nebbia. La natura è imprevedibile e per questo deve essere rispettata, sembra che si diverta a canzonare l'incauto che cerca di piegarla ai propri voleri.
E i nostri sono rimasti lì, vicini al S. Cataldo, sul loro mezzo, giastemandu perché erano quasi alla fine....
Bastava che il rimorchiatore fosse arrivato qualche ora prima, che non fosse stato rallentato dalle correnti, che ...., che ..... ma non conta: ora si sta fermi.
Il porto è chiuso e i ragazzi dopo essersi azzuppati nell'umidità tornano alla banchina, nervosi per la giornata in parte persa, per il tempo che dovranno perdere domani e poi dopodomani e.... lo sa il Signore.
Il lavoro in mare è così, imprevedibile; si rimane magari in attesa del bel tempo per tutta la settimana e non si può uscire per la burrasca .. e poi il bel tempo arriva la domenica e devi lasciare tutto e andare a lavorare .. ma tant'è....
E siamo al mattino dopo, alle cinque, a Marghera; si parte, presagendo già che sarà una giornata persa. In Canal Grande la nebbia va e viene; alle bocche è un velo lattigginoso che tutto nasconde.
Intanto il S. Cataldo è lì che gira, fa la ruota davanti alle bocche, come i gabbiani intorno alla fontana illuminata di De Ferrari, in certe fredde sere d'inverno.
E Dino, da buon genovese, lui che è della Versilia, non ha dimenticato il mestiere, fa i conti. E misura le controstallie, le ore di straordinario, ma si preoccupa anche dei “suoi”: “Domani dovranno di nuovo uscire: speriamo bene; con queste distanze e questi tempi (....quasi una quinta dimensione a Venezia....ndr) bisogna sempre partire all'alba per essere pronti quando serve”. La giornata passa così in attesa. E si torna indietro aspettando il bel tempo.
E finalmente il giorno dopo non c'è nebbia e il porto viene riaperto.
Il convoglio parte e raggiunge la spalla sud.
Qui il cassone viene posto in corrispondenza dell'imbasamento provvisorio dove potrà riposare in attesa della sua sistemazione finale.
Viene affiancato dal pontone, i nostri salgono a bordo, agganciano le cime alle bitte, iniziano a smontare la cinta di rimorchio, danno il liberi tutti ai rimorchiatori.
Gli argani sono al loro posto, i tappi delle coperture aperti, le pompe installate. Ora il cassone è domato.
Il macco entra in porto. Un rimorchiatore lo traina ed un altro lo frena
Personale FINCOSIT in azione
Navigazione portuale
E lentamente scende, controllato, per evitare che vada fuori posizione, si posa, viene immobilizzato con la zavorra.
Un altro giorno è andato direbbe Guccini.....
Ora il rimorchio si è concluso.
Fra 15 giorni si replica, speriamo senza nebbia; il S. Cataldo ha già ripreso la sua corsa verso Taranto".
TESTIMONIANZA del Comandante Luciano Ravettino
Era il 1974, forse aprile, ed io ero appena entrato negli RR di Genova (venivo dalla SIDERMAR). Partiamo da Genova con il M/r Torregrande per rimorchiare un macco a Palermo; comandante Nicola Marongiu. Il macco, per quanti non addetti ai lavori, è un manufatto in cemento armato galleggiante che quando viene allagato si deposita sul fondo, fungendo da basamento per la costruzione di dighe foranee. Il nostro misurava 12x16x32 metri...praticamente una palazzina. Per la sua forma a parallelepipedo, raggiungeva, trainato, una velocità massima di due nodi e mezzo, grosso modo otto giorni di traversata, tempo e mare permettendo. Siamo abbastanza fortunati e viaggiamo abbastanza spediti fin quasi alle Bocche di Bonifacio: sono le 5 del mattino e sento Nicola salire sul ponte. Precisazione e premessa indispensabili: chiunque abbia fatto un rimorchio d'alto mare sa con quanta assoluta scrupolosità si ascoltino i bollettini meteo e il Com.te Marongiu non era da meno, anzi, non solo non se ne perdeva uno, ma per ognuno aveva una sua personale classifica di attendibilità.
Dicevo, sono le 5, i bollettini sono tutti favorevoli, mare calmo, solo una leggera brezza, le condizioni ideali per navigare. Sono le 5 e Nicola passeggia sul ponte, respira profondo, guarda il cielo quasi a scorgere le prime luci dell'alba. Di punto in bianco mi ordina "Rallenta, avvisa in macchina, accorcia il cavo, andiamo a ridosso a Porto Vecchio (una sorta di fiordo nella costa sud della Corsica). Per i non addetti: un rimorchio del genere implica l'utilizzo di 800-1000 metri di cavo di acciaio del diametro di 70 m/m, entrare a Porto Vecchio significava 3...4 ore di avvicinamento e manovra per portare la lunghezza del cavo a 200 mt.
Rimasi sbalordito da simile decisione ma, chi va per mare sa che deve obbedire e non indugiai un attimo, anche se in cuor mio pensai a qualche losco intrallazzo...ero nuovo dell'ambiente, non conoscevo l'Uomo.
Verso le 8 i bollettini cominciano a cambiare, il vento rinforza, il mare si increspa. Via via che ci avviciniamo al ridosso i bollettini sono sempre più allarmati e, quel che più conta, le condimeteo sempre peggiori. Alle 11 fuori è buriana, ma noi siamo al riparo!
Per 5 giorni facciamo avanti e indietro a lento moto nel golfo di Porto Vecchio, continuando a sentire bollettini, che tutti unanimemente sono di burrasca.
Il sesto giorno, all'alba, siamo in prossimità dell'uscita del fiordo e io mi preparo all'accostata per tornare dentro. E' l'alba, c'è vento, in lontananza vedo il mare agitato, i bollettini continuano ad essere estremamente brutti: sento Nicola sul ponte, incredulo lo sento dire: "Fila cavo...usciamo...andiamo". Incredulo obbedisco.
Alle 11 siamo fuori...alla via...Non dico fosse bonaccia, ma le condizioni andavano velocemente migliorando e pure i bollettini davano il miglioramento.
A quel punto non ho resistito, mi sono rivolto al Comandante e gli ho chiesto: "Come ha fatto?" E Lui, con quella parlata che hanno solo la gente di Carloforte, mi dice:
"Ghea l'aia strassaa" (L'aria era strappata). Parliamo di mare, di Uomo di mare.
Testi e foto di:
Carlo Gatti e Silvano Masini
Rapallo, 28 dicembre 2017
MSC ISTANBUL - LA PRIMA NAVE DA 400 MT. A GENOVA
MSC ISTANBUL
LA PRIMA NAVE DA 400 metri a Genova
Tra qualche istante la MSC ISTANBUL imbarcherà il Pilota
“Questi vapurassi sono sempre più grandi!” diceva vent’anni fa un pilota genovese riferendosi alla “Empress Dragon“, una portacontenitori lunga 270 metri.
Oggi ne abbiamo portata all’ormeggio una di 399.
Si sente spesso parlare della necessità di intervenire sulle infrastrutture ormai inadeguate e, a chi non è del mestiere, può sembrare un azzardo manovrare scafi così grandi in spazi così ristretti.
Ma è proprio così, oppure qualcosa è cambiato da allora?
Direi che anche se il porto è lo stesso, tutto quello che si muove al suo interno appartiene a un’altra epoca.
A quei tempi il traffico era più intenso, le navi mediamente molto più piccole, le eliche di manovra trasversali rarissime, così come i passi variabili dei propulsori principali. I rimorchiatori offrivano metà della potenza rispetto a quella su cui si può contare oggi, e convincere i Comandanti/Armatori a utilizzarli era spesso frutto di guerre psicologiche snervanti. Si manovrava spesso sull’ancora, gli avviamenti erano sempre contati e l’affidabilità delle navi un punto di domanda.
La variabile principale era il vento: le navi si portavano sempre dentro e, a seconda dell’intensità della Tramontana, si utilizzavano i rimorchiatori o meno. Il problema nasceva quando il vento aumentava durante la manovra, trovandoci impreparati. Evenienza, date le caratteristiche orografiche di Genova, tutt’altro che rara.
Oggi il numero di rimorchiatori da utilizzare su ogni singola nave è quasi standard, perché il limite su cui impostare i parametri di sicurezza è passato dal vento allo spazio disponibile che, ovviamente, rimane costante. Va da sé che continua a esistere una certa discrezionalità legata alle condizioni meteorologiche, ma non è più quella principale. Oggigiorno, oltre una certa intensità di vento la nave rimane fuori, anche perché a volte è più difficile tenerla in banchina che portarcela.
Una manovra a lieto fine
Torniamo alla domanda principale: che cosa è cambiato?
- I rimorchiatori sono più potenti. Senza entrare nei tecnicismi, penso sia facile intuire come, operando in poco spazio, concentrare la potenza su un solo rimorchiatore sia più efficace che dividerla su due.
- Le navi sono più manovriere. Quasi tutte, infatti, sono dotate di eliche di manovra e motori mediamente più potenti e affidabili rispetto al passato.
- La tecnologia è diventata un ausilio importante. Gli angoli ciechi, presenti intorno a questi giganti del mare, impediscono di vedere direttamente gli ostacoli rendendo più delicate le necessarie valutazioni. Oggi possiamo contare sui PPU, su apparecchi laser per la misura delle distanze (telemetri), sulle telecamere per gli angoli ciechi, ecc.
- I cavi di rimorchio e di ormeggio hanno beneficiato di un’evoluzione incredibile e oggi sono presenti sul mercato prodotti più resistenti, leggeri e maneggevoli rispetto al passato.
Ma, oltre a tutti questi importanti fattori, sono cambiate la mentalità e le procedure.
È un argomento che ho già affrontato in più di un articolo, proprio perché lo ritengo di rilevante importanza (link 1 link 2 e link 3). È cresciuta la sinergia e la collaborazione tra professionalità diverse. Rappresentanti di settori con specificità così particolari da risultare spesso ermetiche anche a chi ci lavora a fianco, contribuiscono, per la parte che li riguarda strettamente, ad aggiungere il tassello che manca al completamento del quadro generale.
Procedure
Percorsi che nascono dalla conoscenza individuale, cui segue la stima e il rispetto, che portano ad ascoltare il contributo altrui, a sviscerare problemi e soluzioni, a condividere esperienze positive ed errori.
Non basta un giorno, e neppure un mese. Ci vogliono anni di confronti e di studio, di valutazioni e prese di posizione.
Ognuno parla di quello che sa.
È così che diventa possibile superare le sfide proposte di volta in volta.
Veduta aerea del Bacino di VOLTRI-PRA
La valutazione della possibilità di portare navi di 400 metri al VTE è iniziata con uno studio sull’adeguamento degli arredi portuali necessari ad accoglierle. La seconda fase ha visto un esame congiunto delle difficoltà di gestione legata alle dimensioni, al tonnellaggio, alla superficie velica e alle caratteristiche proprie di quel tipo di navi. Terminata la parte prettamente teorica si è proseguito utilizzando dei simulatori di manovra per capire i limiti e provare le procedure d’emergenza.
Una volta raccolti tutti i dati, e sviscerate le possibili manovre, siamo rimasti in attesa della prima nave per procedere con le sperimentazioni pratiche.
Oggi quel giorno è arrivato!
La manovra era stata studiata e pianificata a tavolino durante la consueta riunione del Tavolo Tecnico dove, con la sezione Tecnica della Capitaneria e i Servizi Tecnico Nautici, abbiamo valutato tutte le possibilità e concordato la manovra da effettuare.
Le condizioni meteomarine erano quasi ottimali: mare calmo e 15 nodi di vento da levante.
La “MSC ISTANBUL” è una nave che presenta caratteristiche manovriere di tutto rispetto: un’ottima marcia avanti e una pronta risposta indietro, bow-thruster adeguato e un timone ben dimensionato.
La scelta di girarla fuori dal porto e di procedere in retromarcia è nata dalla valutazione delle condizioni generali. Con venti e mare da levante, scirocco, libeccio e ponente, ritengo sia questa la manovra più idonea. L’evoluzione, effettuata alla via dell’elica, viene fatta senza l’ausilio dei rimorchiatori che intervengono in un secondo tempo disponendosi sottovento, a ridosso dell’imponente struttura, una volta che la nave si trova parallela alla diga foranea: in questo modo possono spingere, per contrastare il vento, operando riparati dall’imponente scafo. Il rimorchiatore di poppa viene voltato quando la poppa raggiunge le acque protette dalla diga.
L’evoluzione viene fatta alla via dell’elica (significa che se l’elica è destrorsa si evoluisce a dritta). Questo perché, nonostante la rotazione sia tre volte più lunga rispetto a quella antioraria, risulta molto più veloce e sicura (se ritenuto interessante posso spiegare meglio le motivazioni di questa scelta).
La MSC ISTANBUL entra in porto con la poppa
Un altro importante motivo che mi fa prediligere la manovra fuori porto con entrata di poppa, è dato dall’avere, in questa condizione, la possibilità di reagire agli imprevisti utilizzando la marcia avanti per uscire nuovamente in mare aperto.
L’evoluzione si può impostare con una discreta velocità (5/6 nodi), che permette di affrontare l’accostata sfruttando appieno l’efficienza del timone. Quando l’abbrivo comincia a diminuire interviene l’efficacia del thruster. Al momento opportuno l’effetto dell’elica a marcia indietro completa l’opera.
A questo punto, utilizzando opportunamente eliche e timone, si governa la nave attraverso l’imboccatura.
Durante tutto il tragitto occorre monitorare costantemente l’effetto del vento sull’importante superficie velica. Lo scarroccio di navi così grandi non è, infatti, istantaneamente intuibile, e talvolta si rende palese quando la situazione è diventata ormai critica.
Sfruttare le qualità manovriere della nave e l’esposizione al vento delle parti più esposte (ponte di comando, ciminiera, file di contenitori, ecc.) aiuta a rendere fluida la manovra, evitando di dover ricorrere ad azioni di forza per correggere eventuali effetti indesiderati.
L’avvicinamento all’ormeggio, specialmente in presenza di gru sul ciglio banchina, è sempre un momento molto delicato: in questa fase i rimorchiatori, sia alla spinta che pronti ad allargare sul cavo, rappresentano un’assicurazione irrinunciabile.
Immagine molto suggestiva del tagliamare e del bulbo che fanno da cornice alle strutture del VTE
In caso di vento da nord, valuterei la possibilità di entrare in porto con la prua per poi girare all’interno. Lo spazio a disposizione è senz’altro misurato, ma entrare di poppa, a velocità ridotta e con il vento al traverso, credo che sia un’opzione da valutare con attenzione.
Concludendo, posso dire che questa prima manovra sperimentale ha avuto un riscontro positivo. Adesso occorre testare altre possibilità da mettere in pratica valutando di volta in volta l’influenza delle variabili.
Quando finalmente si avrà un quadro completo si potranno stabilire i limiti operativi che garantiranno il giusto livello di sicurezza.
…probabilmente qualche anziano pilota ribadirebbe che questi vapurassi sono sempre più grandi…
La MSC ISTANBUL é ormeggiata in banchina - Due rimorchiatori la stanno spingendo.
John GATTI
20 dicembre 2017
LA DIGA DEL PORTO DI GENOVA
LA DIGA DEL PORTO DI GENOVA
LA LANTERNA - L'indiscusso SIMBOLO di Genova
Un po' di Storia...
I primi veri complessi portuali, nel mondo classico, risalgono al sec. VI a. C., allorché si svilupparono sia i porti con bacino aperto (Siracusa) sia quelli a bacino chiuso, protetti da mura, come il più tardo Pireo. In età ellenistica furono creati grandi porti unitari, circondati da portici, come quello di Alessandria di Egitto con due bacini divisi da una diga, due bacini interni e il celebre faro. I porti romani si distinguono da quelli greci per la loro autonomia rispetto ai centri urbani, per la frequenza di bacini artificiali scavati nell'entroterra, per la robustezza delle opere portuali e per la ricchezza e varietà di edifici circostanti (magazzini, santuari). Notevoli, tra gli altri, il porto militare di Miseno e quello commerciale di Pozzuoli, i porti ostiensi di Claudio e di Traiano (vedi articoli dedicati su questo sito), il porto di Ravenna, quello di Leptis Magna. Vitruvio diede una sistemazione teorica ai problemi connessi con la progettazione di porti. Intorno al Mille, dopo un periodo di grande decadenza, si verificò una notevole ripresa di traffici marittimi, con la conseguente costruzione di porti i quali, dato il prosperare della pirateria, assunsero spesso il carattere di roccaforti. Enormi furono lo sviluppo portuale e il perfezionamento delle tecniche costruttive a partire dal sec. XVI, in conseguenza delle scoperte geografiche e del formarsi di grandi potenze marittime (Spagna, Olanda, Inghilterra). Nel mondo moderno il porto marittimo è diventato uno strumento di promozione e di competitività internazionale del sistema produttivo di una nazione, in quanto l'efficienza dei servizi che è in grado di fornire ha un'incidenza decisiva sull'economicità e la sicurezza dell'approvvigionamento e della distribuzione delle merci. E poiché il porto è suscettibile di promuovere flussi di traffici e nuovi insediamenti produttivi, esso può incidere sull'equilibrio di aree territoriali sempre più vaste, determinando profonde modificazioni al loro sviluppo. Ma proprio questa accresciuta importanza assunta dal porto marittimo moderno ha avuto e ha gravi riflessi sul tessuto economico e sociale della comunità in cui è inserito, creando problemi tra porto e città, tra le necessità di espansione dell'attività portuale e quelle della comunità senza interferire sui livelli della vita urbana e senza creare motivi di conflittualità sulle strutture metropolitane.
La profonda modificazione delle correnti di scambio internazionale intervenuta nell'ultimo XX secolo ha privilegiato l'attività e la funzione dei porti dell'Europa settentrionale e del Mediterraneo (dopo la riapertura del Canale di Suez), ripristinando l'importanza che questi ebbero nel Medioevo e nel Rinascimento, conferendo ai maggiori di essi la fisionomia di metropoli in cui le attività commerciali, industriali, finanziarie e culturali si addensano attorno agli impianti portuali che assicurano il rapido ed economico smaltimento del traffico proveniente e destinato ai rispettivi hinterland. Nell'ambito delle mutate relazioni tra il porto marittimo e la città va ricordata la cosiddetta politica del waterfront (fronte d'acqua): larghi spazi portuali sono riconquistati da parte delle città e vengono loro assegnate funzioni non mercantili con elevato valore aggiunto. Tra queste le più diffuse sono: porticcioli di pesca, porticcioli turistici, parchi di divertimento a base acquatica, acquari e musei del mare, centri congressuali, eliporti, ecc. A Baltimora, a Vancouver, a Tōkyō, a Yokohama, a Londra e a Rotterdam e in molti altri porti, di grandi e piccole dimensioni, sono stati realizzati questi progetti di riassesto, che hanno inciso sul waterfront storico in modo profondo ma con la minima compromissione ambientale.
Tecnica delle costruzioni: le opere foranee
Costituenti la cintura esterna del porto, le opere foranee comprendono antemurali, dighe, frangiflutti, moli, disposti in genere secondo gli schemi seguenti: cinta a pianta poligonale o curva, con una o più bocche rivolte alla traversia, ridotta in particolare a due moli convergenti in un'unica bocca, pure rivolta alla traversia; moli convergenti, con bocca protetta dal molo principale o soprafflutto; il bacino compreso fra i due moli forma il porto interno, cioè la zona più a ridosso, mentre la zona esterna adiacente al molo secondario, protetta anch'essa dal molo principale, costituisce l'avamporto; moli convergenti, con bocca protetta da antemurale; molo unico, radicato alla riva. Soprattutto nei porti-canale, le opere esterne sono di regola formate da due moli paralleli, opportunamente orientati, detti moli guardiani. Soluzioni diverse debbono essere adottate per quei porti situati in luoghi dove le variazioni di marea superino i 4 m: tali porti sono, in genere, del tipo “a marea” oppure “a livello quasi costante”. Nel primo caso occorre tener conto delle forti correnti di marea per cui, secondo la linea di costa, si adottano moli convergenti con bocca ridotta al minimo e rivolta alla traversia, oppure (nel caso di baie) un solo molo radicato a riva la cui parte iniziale è conformata a viadotto onde favorire l'azione della corrente di riflusso contro l'interramento; in ogni caso l'altezza delle opere deve essere commisurata a quella delle maree. I porti a livello quasi costante, invece, vengono separati dal mare aperto da chiuse semplici, che consentono il passaggio delle navi solo con l'alta marea, o da conche, che rendono il traffico indipendente da questa, anche se il movimento portuale risulta relativamente lento; questi porti, anche se più costosi, presentano, rispetto a quelli a marea, altezza delle opere minore, maggiore stabilità delle strutture, indice trascurabile d'interramento; inoltre, le operazioni di imbarco e sbarco risultano più agevoli.
LA DIGA FORANEA DEL PORTO DI GENOVA
E' lunga oltre 20 Km. Nasce con l'Imboccatura di Levante (zona Fiera); s'interrompe con la seconda imboccatura (Italsider-Aeroporto); prosegue e s'interrompe con la terza imboccatura del Porto Petroli di Multedo; prosegue infine verso la quarta imboccatura del Porto di Voltri-Prà.
Calata Sanità con larga visuale sulla diga
Il Porto Vecchio
Panoramica del Porto di genova
Diga foranea
Il grande ampliamento di ponente del porto aveva inizio nel 1913 con la costruzione, completata entro il 1926, del primo tratto, di m.1550, della Diga Foranea.
La diga venne studiata dal Genio Civile del tipo a muro verticale formato con piloni composti di tre massi cellulari, per contenerne il peso singolo (=220 t) nella possibilità di sollevamento del pontone posa massi ITALICO, il primo pontone di portata superiore alle 100 t. impiegato nei lavori marittimi ed appositamente studiato ed approntato nel 1914 dalla Grandi Lavori Fincosit, con la possibilità di portare a bordo tre elementi del peso massimo.
Le celle dei massi vennero poi riempite con versamento di calcestruzzo di calce e pozzolana.
Nel secondo tratto della Diga Foranea (1926 - 1929), lungo m.1850, costruito a protezione del bacino di Sampierdarena, venne perfezionata la sezione della diga prevedendone i massi, (della larghezza di m. 4.50 nel senso longitudinale diga) del tipo pieno, o ciclopico, del peso singolo sino alle 450 t.
Per il trasporto e la posa dei massi la Grandi Lavori Fincosit provvide a costruire il pontone posa massi IMPERATOR, che, con la potenza di sollevamento di 450 t. e la possibilità di trasportare quattro massi di tale peso, rappresenta tutt'ora uno dei maggiori mezzi galleggianti del genere.
La sezione della Diga Foranea, indipendentemente dalla bontà d'esecuzione delle opere, è risultata col tempo insufficiente sotto il profilo idraulico per la limitatezza dei fondali antistanti e forte elevazione della sovrastruttura; dopo gli eventi della tempesta del febbraio 1955, è stata trasformata con una gettata esterna in massi artificiali e scogliera.
Prolungamento orientale del molo Galliera
Con tipo analogo di struttura fu portato a compimento il prolungamento del Molo Galliera, per una lunghezza di m.400, a completamento della difesa della bocca di levante del porto.
Moli di sottoflutto
Con piloni di massi ciclopici sovrapposti sono stati costruiti i moli di sottoflutto, che delimitano il grande complesso portuale, a levante, o Molo Cagni, (che ha richiesto l'asportazione degli strati superficiali del fondale e la loro rigenerazione con letto di sabbia versata) - sviluppo m.630 - ed a ponente, o Molo Polcevera, - sviluppo di circa m.800.
Si tratta di una diga a parete verticale, a protezione del porto di Genova, composta da due tratti principali per una lunghezza complessiva di oltre 3.800 metri. Il primo tratto, di 1.550 metri, fu costruito tra il 1916 ed il 1926. Il secondo tratto, di 1.850 metri, fu concluso nel 1929. Successivamente venne realizzato un prolungamento di altri 400 metri a difesa dell'entrata del porto a levante. I lavori della diga furono ultimati nel 1933. Nel corso degli anni soffrì vari problemi. Durante la guerra (1945) i tedeschi aprirono una breccia di oltre 80 metri. Varie mareggiate (soprattutto nel 1949) causarono alcuni danni e piccole brecce. Ma fu la tempesta ciclonica del febbraio del 1955 che causò il principale crollo della diga, che interessò complessivamente un'estensione di circa 450 metri. Esiste oggi un progetto per spostare la diga circa 500 metri più al largo, con nuova struttura e funzionalità.
Bacino portuale della Lanterna
Creato con il primo tratto di Diga Foranea il necessario ridosso, la Grandi Lavori Fincosit provvide a costruire l'intero bacino portuale comprendente le Calate Canzio e Bettolo ed i Ponti Rubattino e San Giorgio, con uno sviluppo di 2,7 chilometri di muri di banchina a piloni di massi, su fondali di m.12.
Lo specchio d'acqua a disposizione delle navi misura 74 ettari ed i piazzali ricavati dal mare 26 ettari.
Bacino portuale di Sampierdarena
Negli Anni '20 sono stati costruiti cinque chilometri di banchine distribuite sugli sporgenti, o Ponti: Etiopia, Eritrea, Somalia, Libia e Canepa - lunghi ciascuno 400 m. - circa 80 ettari di specchi acquei, 75 ettari di piazzali totalmente ricavati dal mare.
I muri delle banchine sono del tipo a piloni di massi pieni sovrapposti, fondati a quota -12 ÷ -12,70 m., la banchina alla radice del Ponte Canepa ha fondale superiore ai 13 m.
Diga di recinzione SIAC a Cornigliano
La difesa dei piazzali che dovevano essere ricavati dal mare per la formazione dello stabilimento siderurgico della SIAC, ora ITALSIDER S.p.A., venne realizzata con una soluzione sotto vari aspetti originale, tenendo conto della notevole esposizione e dei bassi fondali.
L'opera comprendeva una diga, lunga mt.925, a parete verticale su limitato fondale di 8 m. circa, formata con piloni di massi pieni sovrapposti (del peso singolo da 300 t. a 360 t., e con le superfici a contatto sagomate "a dente e contro dente"), un canale di calma ed una banchina di contenimento del terrapieno artificiale.
Per evitare lo scalzamento, dovuto ai forti moti riflessi e vorticosi, la diga venne protetta al piede con grandi lastre tra loro collegate onde seguire gli abbassamenti del fondale antistante.
La grande tempesta da libeccio del febbraio 1955, come già si é visto, aprì varchi nella diga per oltre 450 mt. e nel 1963 terminarono i lavori di rinforzo in più punti della diga stessa, quelli che si dimostrarono più deboli.
La foto mostra l'impianto Portuale del VTE di Genova Prà con l'ovale rosso intorno alla diga. A destra della foto é visibile l'entrata del Porto Petroli ed il terminale della pista dell'Aeroporto.
La diga del VTE (Voltri Terminal Europa). Nell'angolo la CONCORDIA in attesa di essere portata a Genova per la demolizione.
La LONDON VALOUR é naufragata sulla diga del porto di Genova il 9 aprile 1970. 22 furono le vittime.
(vedi articoli dedicati su questo Sito)
Le due immagini sopra, testimoniano la violenza della LIBECCIATA che distrusse 400 metri di diga affondando numerose navi ormeggiate nel Porto Nuovo (Sampierdarena).
Questi disegni tecnici d'archivio sopra riportati, illustrano chiaramente le varie SEZIONI della diga di Genova.
Carlo GATTI
Rapallo, 20 Dicembre 2017
PORTO DI GENOVA: Cosa succede quando si decide di unire le forze?
PORTO DI GENOVA
Cosa succede quando si decide di unire le forze?
Foto Fabio Parisi
La complessità di un porto di grandi dimensioni è accentuata dalla compartimentazione delle realtà che ci lavorano. È possibile creare sinergia?
Il mondo portuale è molto complesso e articolato. Una miriade di interessi economici coinvolge soggetti differenti che, a loro volta, intrecciano la parte operativa e quella amministrativa con altre organizzazioni, le quali interagiscono con enti pubblici e militari. Realtà dove la sicurezza, l’efficienza, i posti di lavoro e l’economicità, s’incontrano e si scontrano in continuazione, cercando vantaggi e scappatoie lungo sentieri border line, dove spesso galleggia la possibilità di tenere aperta un’azienda o dichiararne il fallimento.
Alla domanda:
“Cos’è che non va nei porti italiani?”
mi verrebbe da rispondere:
“Confusione organizzata. Sembra di guardare una mischia durante una partita di rugby…”.
In realtà non è così semplice trovare una risposta. Prima di tutto occorre prendere coscienza del fatto che ogni porto ha caratteristiche che lo differenziano dagli altri. Seguendo la politica e la parte operativa di alcuni di questi, ci si rende conto di come singole forze in gioco – armatori, terminalisti, autorità, politici, ecc. – influenzano in modo differente le regole del gioco, mentre la fluidità del sistema viene fortemente compromessa dalla “responsabilità latente”. Quella cosa fuggevole, non sempre ben identificata, con limiti e interpretazioni volatili e variabili, che salta fuori prepotente – giustamente – quando viene reclamata a gran voce dalla parte lesa.
Non è facile, ripeto, porre delle regole e stabilire procedure che mettano in ordine le competenze, le priorità, la sicurezza, l’efficienza e l’economicità, definendo con chiarezza i limiti e i contorni delle responsabilità.
I porti sono motori dell’economia, dove ogni singolo pezzo ha una professionalità vincolata al lavoro che svolge in sinergia con gli altri.
I tasselli, come in un puzzle, non sono interscambiabili e l’incastro forzato di uno sull’altro genera confusione e pericolo, arrivando a compromettere gli obiettivi che si vogliono raggiungere.
I “tuttologi” sono pericolosi.
Nell’era del web, in pochi secondi, è possibile trovare risposta a quasi tutte le domande: un’arma potente, se usata con criterio. Il problema nasce quando non teniamo conto del fatto che, i risultati così ottenuti, non sono supportati da un’esperienza diretta: se non abbiamo il trascorso necessario a interpretarli correttamente e se tendiamo a non dare la giusta importanza all’autorevolezza dell’informazione, otteniamo un inutile conflitto, pretendendo di porci sullo stesso piano di chi ha costruito il sapere su fondamenta concrete e non sull’inconsistenza del “sentito dire da altri”.
La conoscenza di un determinato settore nasce da un primo anello, a cui se ne collega un secondo e poi un terzo, un quarto, e così via. Raccogliere informazioni frammentarie porta, il più delle volte, a trarre conclusioni apparentemente coerenti, ma sbagliate perché incomplete, o perché non è stato dato il giusto peso ai singoli elementi informativi.
La cultura e la curiosità sono importanti, ma l’umiltà e l’apertura mentale sono decisivi!
L’umiltà permette, non solo di accettare l’esistenza di persone più preparate di noi in un determinato settore, ma di andarle a cercare perché ritenute un valore aggiunto necessario; l’apertura mentale porta ad accettare “l’unione di più cervelli” (concetto che ho già espresso) come un upgrade del nostro potenziale.
È finita l’era in cui dalla figura verticistica si pretendeva l’onnipotenza culturale; quando il sapere universale giustificava la presenza del “padre padrone”; quando avere bisogno degli altri era un punto a sfavore.
Oggi la base è la stessa: cultura generale, decisionismo e autorevolezza, ma affiancati dalla comunicazione, dalla preparazione specifica, dalla capacità di circondarsi di persone positive, propositive, preparate e, soprattutto, dall’umiltà e dall’apertura mentale necessarie ad ascoltare, per fare proprie, le idee degli altri.
Qual’è il perché di questo lungo preambolo?
Entro nello specifico con l’intenzione di valorizzare un percorso che, a mio parere, esemplifica quanto detto finora.
Foto Fabio Parisi
Soggetti in gioco:
Terminalisti: concessionari di spazi portuali che lottano quotidianamente per aggiudicarsi nuove linee di traffico. Per raggiungere lo scopo devono essere concorrenziali e fornire vantaggi ai possibili clienti. A seconda della loro specificità agiscono in diverse direzioni: economicità dello scalo, efficienza nella movimentazione delle merci, limiti degli ormeggi, limiti operativi per cattivo tempo, ecc.
Armatori/Noleggiatori: sicurezza dello scalo, efficienza del terminal, tempi di attesa, costi, ecc.
Autorità di Sistema Portuale (AdSP): è un ente pubblico che gestisce e organizza il proprio ambito portuale. Individua strategie per essere concorrenziale con altri porti, si cura dell’efficienza dello scalo, della manutenzione delle opere portuali, dei dragaggi, del continuo aggiornamento strutturale e tecnologico per restare allineato alle richieste del mercato, ecc.
Autorità Marittima: soggetto estraneo al coinvolgimento economico diretto, svolge una pluralità di funzioni nei diversi ambiti d’impiego. In questo contesto interessa sottolineare il suo ruolo nella gestione del traffico portuale, nel controllo del rispetto delle norme di sicurezza, nelle valutazioni di fattibilità, ecc.
Servizi Tecnico Nautici: i servizi di pilotaggio, rimorchio, ormeggio e battellaggio sono servizi di interesse generale, il cui compito è quello di garantire la sicurezza della navigazione e l’ormeggio nei porti. La disciplina e l’organizzazione dei Servizi Tecnico Nautici sono competenza dell’Autorità Marittima.
Il Tavolo Tecnico, che si riunisce per esaminare le previsioni degli accosti e si esplicita nell’incontro quotidiano tra i Servizi Tecnico Nautici e la Sezione Tecnica della Capitaneria di porto, è il risultato di un percorso sfociato nella formalizzazione di procedure applicate da sempre. La necessità di un confronto, per decidere il modo più efficace di operare – osservando la questione da diversi punti di vista determinati dalle diverse professionalità – è sempre stata avvertita.
Prima dell’istituzione del Tavolo Tecnico, il confronto avveniva quando evidentemente necessario: riunioni saltuarie, telefonate, convocazioni, meeting allargati, ecc., erano i mezzi usati per affrontare le questioni operative.
A questo punto devo rimarcare il fatto che ogni porto ha le sue specificità e, quindi, le sue esigenze.
Il Tavolo Tecnico non può essere generalizzato, pena lo scontro ideologico di chi trova, per la propria realtà, esagerato o poco aderente alle necessità, un impegno quotidiano.
Non si tratta di una procedura standard valida per tutti i porti.
Qual’è lo scopo e quali sono i vantaggi legati al “Tavolo”?
A questo punto entra in gioco l’aspetto umano.
Abbiamo detto, infatti, che la pratica era già soddisfatta da una procedura non scritta creata dall’esigenza. Quello che mancava era un ingrediente essenziale alla qualità dei rapporti: la conoscenza diretta e profonda tra i soggetti; la mitigazione, pur nel rispetto dei ruoli, delle barriere professionali che, al di là delle competenze, restringevano il campo visivo dei singoli.
In pratica, è nella natura umana porsi al centro del proprio universo, considerandone il nucleo la parte che più la riguarda; ed è pure nella natura umana esordire con atteggiamenti di sospetto quando gli argomenti trattati si prestano ad essere viziati da possibili interessi personali.
Diffidenza, dubbi, incompetenza, limiti, ecc., sono solo alcuni degli ostacoli risolti approfondendo semplicemente la conoscenza tra le persone.
L’incontro quotidiano, inoltre, ha permesso di affrontare i problemi nella loro fase embrionale, limitando i malintesi e l’aggravarsi delle situazioni.
Nella prima parte ho scritto che i porti sono vittime di una confusione organizzata.
Forse non è la definizione più appropriata. Sarebbe più giusto dire che “i soggetti operanti all’interno dei porti sono scollegati”.
Infatti, osservandoli, è evidente che ognuno lavora con passione perseguendo i propri interessi con forza. Il problema è che, pur stando tutti sulla stessa barca, si rema in direzioni diverse.
Scollegati.
Il rispetto dei ruoli.
Ho parlato del “rispetto dei ruoli”, dell’importanza della “professionalità”, del pericolo dei “tuttologi”, del problema che deriva dallo “scollegamento”. Lasciatemi ora dire che il Tavolo Tecnico è un ulteriore passo nel percorso verso un'”efficienza comune”.
Manca infatti ancora un tassello importante, affinché la barca cominci a prendere una rotta precisa: l’Autorità di Sistema Portuale(AdSP).
All’interno di questo ente esistono individui di grande valore, il cui contributo, purtroppo, viene spesso rallentato dalla melma burocratica e dallo spettro giudiziario che, ormai da troppi anni, volteggia insidioso su chiunque cerchi di sbloccare i problemi.
Beh, il primo passo da compiere è quello individuare un soggetto dell’AdSP che partecipi quotidianamente al Tavolo Tecnico. Un rappresentante dell’ente che si inserisca nel gruppo, assorba e digerisca i pensieri altrui, per poi condividere il suo.
In questo momento, infatti, il punto più scollegato è proprio quello tra la parte operativa gestita dall’Autorità Marittima e quella burocratico-politica controllata dall’Autorità di Sistema Portuale.
Affrontare, e soprattutto condividere, obiettivi, strategie e decisioni, sommando le competenze dei singoli, spiana la strada a procedure efficaci, responsabilità partecipate e soluzioni coerenti agli interessi generali.
Il rispetto dei ruoli è fondamentale, ma tutti i soggetti devono trovare un punto comune per la risoluzione dei problemi, riconoscere l’autorevolezza delle singole professionalità, mettere a disposizione le proprie competenze e trarre profitto da quelle degli altri.
Al Tavolo Tecnico sono presenti l’AM e i Servizi Tecnico Nautici, dovrebbe aggiungersi l’AdSP e, come già avviene quando ritenuto necessario, allargare le riunioni ai rappresentanti dei terminal, delle agenzie e degli armatori.
Elevare l’interesse individuale a un piano comune, dove la componente umana sovrasti la compartimentazione cronica che limita lo sviluppo.
Nelle complicate economie generali di aziende (da piccole realtà ad immense multinazionali) che hanno interessi all’interno di un porto, l’approdo di una nave alla banchina può essere considerato un “dettaglio”. Questo succede perché, trattandosi di un aspetto particolarmente tecnico, resta estraneo alla mentalità manageriale di chi gestisce un’impresa che si affaccia sul mare ma si sviluppa a terra.
I pescaggi, gli spazi ristretti, il vento, la corrente, le bitte, diventano numeri in un contratto di noleggio, che possono o meno corrispondere alle esigenze di chi compra, vende, si appresta a scambiare merci, navi o persone.
Per quanti siedono attorno al Tavolo Tecnico, sono argomenti che hanno una loro tridimensionalità e vengono valutati sotto i riflettori della sicurezza, dell’efficienza, dell’economicità e della fattibilità. E’ un contesto in cui viene affrontato proprio quel “dettaglio”, spesso trascurato dalle grandi aziende, che può bloccare anche la più complessa macchina economica.
In definitiva, il lavoro svolto dal Tavolo Tecnico nella sua specificità, è un’importante risorsa a disposizione della portualità.
John GATTI
Capo Pilota del Porto di Genova
Rapallo, 29 Novembre 2017
CAMALLI E CARAVANA
CAMALLI E CARAVANA
Statua simbolo dei CARAVANA
Caravana al lavoro
I porti si guardano da una parte all’altra degli oceani, si scambiano le navi che raccontano storie sempre nuove ma anche quelle antiche affinché non siano dimenticate.
Già! Forse tocca proprio a noi, anziani cantastorie dei porti, rinverdire qualche ricordo dei CARAVANA che a metà degli Anni ’60, (noi c’eravamo…) erano ancora in auge e calcavano, magari da pensionati, le calate del porto con il loro incedere pesante, robusto ma benevolo.
Un caravana…
Forse non tutti sanno, che i camalli, ovvero gli scaricatori del porto di Genova, della Compagnia dei Caravana, (progenitrice dell’attuale Compagnia Unica del porto), scioltasi nell’immediato dopoguerra provenivano, fin dal XIV secolo, in gran parte dalla Bergamasca, in particolare dalle valli Brembana, Brembilla ed Imagna, dove pare vivessero uomini fortissimi e giganteschi.
In un antico statuto della Repubblica di Genova, l’origine lombarda viene menzionata come conditio sine qua non per far parte della Compagnia:
“Niuno presumi di venir ammesso nella Caravana, se non sia di Bergamo. Mani grandi et anco gambi forti, per niuna ragione sentir la fatica ammesso”.
Ci eravamo già dedicati ai CARAVANA sul sito di Mare Nostrum Rapallo, avevamo trattato alcuni interessanti aspetti storici e legislativi; col presente articolo vorremmo approfondirne invece alcuni aspetti che oggi destano ancora stupore e qualche “curiosità” che vi elenchiamo.
1-CURIOSITA’
CAMALLO - SABIR
Prima di pronunciare la parola CAMALLO occorre sapere qualcosa sulla sua origine e provenienza. Il camallo, termine genovese camallu, derivato dall'arabo ḥammāl 'portatore', è lo scaricatore o facchino che operava sulle navi nel porto di Genova.
Per il trasporto su carrello il termine è rebellâ, appunto da rebellö, carretto con ruote.
I termini camallo e rebellö hanno assunto nel tempo anche una valenza metaforica per intendere persone dai modi non propriamente fini, o trasandate nel vestire o nel parlare.
Genova, scalo di prima grandezza, è stata la porta d’ingresso degli arabismi nella nostra lingua e soprattutto nel dialetto zeneize SABIR che girava il Mediterraneo in lungo e in largo e fu parlata come lingua franca per secoli fino all’imporsi della lingua inglese; parlato a bordo delle navi, in banchina e nei mercati, in tutti i contatti tra le categorie imprenditoriali e naturalmente tra gli equipaggi in mare. Parole dialettali genovesi e veneziane che diventarono la lingua fu un idioma pidgin “di servizio” parlato in tutti i porti del Mediterraneo tra l'epoca delle Crociate e tutto il XIX secolo. La più diffusa e persistente era costituita principalmente da un lessico al 65-70% italiano (con forti influenze venete e liguri) e per un 10% spagnolo, con parole di altre lingue mediterranee, come arabo, catalano, greco, occitano, siciliano, e turco.
Sebbene il lavoro di scaricatore di porto abbia assunto con l'industrializzazione connotati differenti, il termine CAMALLO mantiene una sua forte valenza nella città degli affari, che rimane tuttora un cardine, ovvero la memoria storica di una categoria radicata nel porto e dotata anche di una sua connotazione politica nella vita della città portuale e non solo.
PICCOLO GLOSSARIO ITALIANO – GENOVESE
Uncino
Scaricare: scaregâ
Schiena: schenn-a
Bicibiti:bacchette
Uomo con molta forza: forsa da beu
Sbucciatura: sgarbeleuia
Bernoccolo: borlo
Trasportare a spalla:camallâ
Forza: forsa
Conoscere: conosce
Antico: antigo
2-CURIOSITA’
Come abbiamo già visto, dal medioevo (XIV Secolo) fino intorno al 1870, i “camalli” non erano genovesi bensì BERGAMASCHI, in quanto gli scaricatori genovesi precedenti, si erano consorziati in organizzazioni molto potenti che influenzavano non solo la vita del porto ma anche quella politica della città con conseguenti danni all'attività commerciale del porto stesso. Fu deciso e scelto di rivolgersi a dei "foresti" e la scelta cadde sui bergamaschi.
Lo scösalin da camallo
Il termine scösâ significa in genovese grembiule. Con l'espressione scösalin da camallo si intendeva identificare il gonnello blu indossato dai camalli sin dal medioevo, di tela di jeans, tessuto tipicamente genovese.
O scöselin era portato dai caravana e non dai camalli. I caravana erano i facchini ammessi dalla dogana ad operare negli appositi siti "franchi" ove la merce sostava in franchigia daziaria e poteva essere sottoposta a modifiche di imballaggio ecc., vedi merci preziose o soggette a particolari imposte come il caffè. Difficilmente nei depositi franchi si camallava come normalmente in altre zone del porto e per altre merci in transito normale.
3-CURIOSITA’
Religiosità
I camalli del porto di Genova furono tra i primi a realizzare dei crocifissi artistici di notevoli dimensioni formando delle CASACCE. Ancora oggi il termine camallo viene usato nell'ambiente delle CONFRATERNITE liguri per indicare la persona che trasporta il crocifisso. Il primo Cristo di notevoli dimensioni, circa 160 kg, venne realizzato proprio in uno degli oratori del porto di Genova. Famoso e antico è il cosiddetto Cristo delle Fucine del XVII secolo del ancora conservato nell'oratorio della marina di Genova.
4-CURIOSITA’…biblica… Riportiamo alcune opinioni di studiosi della materia.
Caso celeberrimo di ipotetica polisemia è quello del cammello che passa per la cruna dell'ago (Mc 10,25; Mt 19,24; Lc 18,25). L'immagine è ovviamente bizzarra. Qualche studioso ha ipotizzato che 'cruna dell'ago' fosse una piccola porta nelle mura di Gerusalemme: in tal caso la parabola sarebbe sicuramente più azzeccata.
Cercando la soluzione a livello linguistico, la parola aramaica gamal può indicare, polisemicamente, sia il 'cammello' che una 'corda'. L'ipotetico traduttore greco avrebbe in tal caso optato per il senso sbagliato: l'immagine di una corda che passa (o meglio, non passa) per la cruna di un ago è sicuramente più simmetrica della lettura tradizionale proposta.
La citazione biblica del cammello, del ricco e della cruna dell'ago soffre di un divertente errore di traduzione dei Vangeli. In pratica, per colpa di una lettura sbagliata nella prima versione in ebraico di Matteo, la parola gomena (gamta) si è trasformata in un improbabile cammello (gamal). Oltre ad essere più "logica" (una gomena è pur sempre un cavo, ma di spessore molto più grande di quello del filo che passa usualmente nella cruna dell'ago), la parabola era anche ben contestualizzata, dato che si rivolgeva ai pescatori del lago di Tiberiade, avvezzi come tutti i marinai all'uso anche delle gomene. L'equivoco permane anche nella versione greca dei Vangeli, con la "grossa fune", "kamilos" (da cui forse il genovese camallo, colui che muove appunto le funi e le gomene portuali), che suona alquanto simile a cammello, cioè "kamelos".
5-CURIOSITA’
Quando i camalli diventarono attori del cinema…
Il mito di Maciste che rifondò l’Italia unita
“Quando Bartolomeo Pagano passava nei caruggi, la gente si appiattiva spalle al muro per lasciarlo passare. Alto 1 e 90 per 120 chili di muscoli, il gigante sorrideva a tutti. Era scaricatore per la Compagnia della Carovana al porto di Genova. Sollevava sacchi di grano argentino, casse di coloniali, e caffè; al tocco si sfamava nell’osteria della Nina con tre piatti di minestrone accomodato con il pesto e un chilo e mezzo di pane, con cui faceva la scarpetta. Per digerire pugnava con l’altro gigante del porto, tale Franchino, così per gioco”.
Bartolomeo PAGANO, il famoso “MACISTE” reso celebre dalle sue apparizioni cinematografiche nei film muti di inizio Novecento.
…. Uno dei tanti maciste dell’epoca …
Vorrei…essere…Maciste...
Maciste non è un vero personaggio mitologico: non nasce né sui libri, né sui fumetti. È una creatura dello schermo. Per risalire alle sue origini, però, non bisogna fermarsi alle avventure in technicolor che lo vedono muscoloso protagonista nel fortunato filone dedicato agli "uomini forti" degli anni Sessanta. Il primo, vero Maciste fu, cme abbiamo visto, Bartolomeo Pagano, camallo del porto di Genova chiamato dal regista Pastrone a interpretare un simpatico e fortissimo schiavo numida in Cabiria (1914), kolossal storico che conquistò le platee di tutto il mondo. Il successo personale di Pagano fu tale che si decise di dedicare al suo personaggio un intero ciclo di film: Maciste avrebbe regnato per più di dieci anni come campione di incassi e di consensi del cinema italiano.
6-CURIOSITA’
La Compagnia dei Caravana, come abbiamo visto, è stata un'antica corporazione di lavoratori del porto di Genova che fu sostituita, nell'immediato secondo dopoguerra, dalla COMPAGNAIA UNICA DEL PORTO DI GENOVA.
Per i bestemmiatori multe salate:
All'interno della Compagnia vigeva un regolamento molto rigido che veniva applicato partendo dal presupposto che le virtù morali e sociali della Compagnia dovessero essere un caposaldo alla base dell'attività comune. Pesanti multe venivano ad esempio inflitte a coloro che si lasciavano andare a bestemmie contro la Madonna o che non partecipavano alle Messe sociali celebrate nella cappella votiva della corporazione, all'interno della chiesa di Nostra Signora del Carmine.
Gli statuti della Compagnia dei Caravana che, almeno inizialmente, comprendeva solo una parte dei lavoratori impegnati nei diversi pontili, ovvero quelli di Banchi, Pedaggio e Calcina - vennero firmati l'11 giugno 1340. Con essi il Comune concedeva ai soci della corporazione il diritto esclusivo allo scarico e al carico delle merci transitanti per la Dogana di Genova.
Alla Compagnia, in base a uno statuto entrato in vigore quasi centocinquant'anni dopo, nel 1487, e abolito solo a metà Ottocento, potevano appartenere solo soci provenienti dalle vallate situate intorno a Bergamo.
L'appartenenza al sodalizio avveniva per successione, a condizione che i figli nascessero nelle zone di origine dei padri e l'usanza di garantire ai figli il diritto di subentrare ai padri è in vigore nell'ambito della moderna Compagnia Unica dei Lavoratori delle Merci Varie del Porto.
Nella sostanza, lo scopo di questa regola era quello di assicurare che i cosiddetti portuali - tutti giovani di aspetto robusto e disposti ad un lavoro estremamente duro - fossero estranei, in quanto foresti, ad ogni tipo di lotta di parte tesa al predominio su quella che era un'attività centrale per la vita economica cittadina.
Per spiegare cosa fu la compagnia dei “CARAVANA” e chi erano i “giganti” che vi lavoravano, vi proponiamo questo bellissimo articolo del Corriere della Sera del novembre 1932. Un quadro d’epoca ripreso dal vivo con i suoi personaggi ancora in piena attività. Leggerlo sarà davvero un bellissimo viaggio nel tempo.
Ringrazio a nome di Mare Nostrum Rapallo e dei suoi lettori, il cultore e divulgatore che ha messo a disposizione questo “capolavoro” di altri tempi…
Di Cesare Meano - 1932
Genova, Novembre.
In questo mondo marino, che ha per confini muraglie, cancelli, tettoie, casermoni, torri» e, per foreste, le alberature delle navi, per fiumi le strisce di mare luccicanti fra carena e carena, per nuvole il fumo nero che il vento strappa alla bocca dei camini, i giorni nascono, passano e muoiono al grido delle sirene. Anche da terra si odono, dalla città, che contrappone a esse le sue campane. E ai primi segni dell’alba non si capisce se siano le sirene a risvegliare le campane, 0 queste a risvegliare quelle. E’ un coro improvviso, enorme, che sembra sorgere d’ogni intorno, vicino e lontano, mentre sulle montagne, alle spalle della città, appaiono le prime incerte dorature del sole, e il mare si stria d’argento e trema. La Lanterna si spegne. Si spengono le luci rosse dei semafori, i lumi delle banchine e delle strade, delle navi e delle case. La luce del sole scende dalla montagna, come una lentissima fiumana color di miele, che trabocchi dalle valli di là: scende e raggiunge il mare, lo illumina. Tra il mare e la montagna, — tutta la bellezza e la forza del mondo, — ricomincia la vita di Genova e del suo porto, dopo la sosta notturna.
I lavoratori del porto
I cancelli si sono aperti. Le gru hanno ripreso il loro moto sonnolento, ai qua e di là, come palmizi in un vento rallentato. Sugli specchi dell’acqua riappaiono i rimorchiatori, i battelli, le barche tentennanti sulle zampe di grillo dei remi Lungo i binari interminabili le locomotive avanzano speronando le nuvole del loro stesso vapore: cortei di carri-piatti, di carrozzoni, di carri-botte. E un esercito si incammina in ordine sparso, sfociando dai cancelli e dai porticati: dilaga, si disperde, scompare, riappare più lontano, popola i magazzini e le calate, le boe.
Migliaia di uomini: la popolazione di questo mondo che allinea, dinanzi al mare aperto, i suoi quattro bacini, i suoi cinque moli, i suoi tredici ponti e le sue venti calate. L’esercito dei lavoratori del porto: facchini, cassai, barilai, imballatori, pesatori, calafati, puntellatori, demolitori, carpentieri, carenanti, ormeggiatori, manovratori, barcaiuoli: decine e decine di categorie. E chi osservi la loro vita e il loro lavoro, o consulti i quadri e gli statuti delle loro organizzazioni, li vede veramente inquadrati in un esercito esemplare, cui non mancano neppure l’antica gloria, la nobiltà conquistata in secoli di disciplina, di fatica, d’eroismo, la ricchezza che deriva ai popoli privilegiati dal patrimonio delle loro tradizioni. La nuova odierna potenza, per i lavoratori di questo porto, è fiorita su un saldo tronco secolare; i gagliardetti dell’Italia rinata si sono issati sulle aste che ressero i gonfaloni di ieri.
Le compagnie
In numerose Compagnie, al comando di consoli e di vice-consoli, questi lavoratori sono costituiti, e il Sindacato Interprovinciale dei Lavoratori del Porto li tutela e li domina. Ogni Compagnia, però, ha i suoi statuti e le sue consuetudini, difesi e rispettati con incrollabile fede. In alcune di esse si riscontrano quasi i caratteri di confraternite religiose; in tutte un soldatesco senso di disciplina e di dovere, insieme con quell’orgoglio che negli eserciti si chiama «spirito di corpo » e che è custode incorruttibile delle tradizioni più alte. Ecco la congrega dei facchini del Deposito Franco, i caravana: unica Compagnia che, per antico diritto, goda larghi privilegi ed eccezionale autonomia; ecco la Corporazione dei Calafati, i cui « capitoli » datano dal 1370; ecco la Corporazione dei Barcaiuoli, menzionati nella storia fin dal secolo XV; e le altre Compagnie meno antiche, e le altre ancora che si vanno formando sul modello di quelle. La milizia del lavoro ha qui la sua aristocrazia, i seggi dei suoi anziani, i custodi del suo tempio.
La compagnia dei « caravana »
La Compagnia più antica e gloriosa è quella dei caravana. Nel recinto del Deposito Franco s’incontrano i suoi duecentosettanta affiliati. Dai magazzini ai carri della ferrovia, con passo lungo e immutabile, vanno sotto il peso di sacchi e cassoni, senza curvarsi e senza tentennare. Deposto il peso alzano il capo e lo scuotono, come per cacciare un pensiero, poi ritornano indietro, sollevano un nuovo peso, alti, diritti, impassibili. Intorno alla cintura, fino quasi ai ginocchi, portano un gonnellino azzurro, e d’estate un mantelletto bianco, la capota, che copre spalle e nuca. Cosi da più di sei secoli. Il gonnellino è l’uniforme del caravana, che non ne conosce l’origine né la ragione, ma con orgoglio lo veste, non appena gli sia concesso l’onore, non facilmente conquistabile, di appartenere alla Compagnia. Anche i loro capi portano il gonnellino; nessuno pensa ad esimersene. Il console e 1 capisquadra vestono panni borghesi e, tra la giacca e i calzoni, ecco il bizzarro indumento (il console, Angelo Caprile, detto Cirillo, porta anche gli occhiali cerchiati di tartaruga: e il gonnellino). Ma chi sono questi caravana, il cui nome, per tutto il porto e la città, suscita simpatia e ammirazione? Udendoli chiamarsi l’un l’altro, non si chiarirebbe certo il mistero. Minosse, Cerbero, Caronte, Gerion: i caravana si chiamano cosi; e anche peggio. Una tradizione fra le tante: quella dei soprannomi. La «Caravana» vive ancora oggi, esattamente, come viveva nei suoi primi tempi. Immutabile ha varcato i sei secoli della sua storia, ha superato difficoltà e avversità, ha resistito a controversie e a crisi; riconosciuta e protetta da re, pontefici, ministri, dogi, è arrivata a essere quale è oggi, la più genuinamente antica delle Compagnie, e, nello stesso tempo, la più giovanilmente viva.
Chi erano i « caravana »
Nella sua sede si custodiscono i tre codici di pergamena che recano il testo delle sue leggi. « A nome di Dio e de la Madona Sancta Maria e de tuli li Sancii e le Sancte e de tuta la Corte Celestia, amen » : in data 1340, cosi si preludiava a < li statuti e le ordination facto per tuli li lavoratori… et ordenà per lo prior, in lo dì de la lesta de messer Sancto Barnaba, in la aesua di Messer Sancto Lorenzo di Genua… ». Fui da allora s’imponevano ai cara – vana le leggi che permisero a essi di guadagnarsi fama di lavoratori incomparabili e di virtuosissimi cittadini. Vietati il turpiloquio e la bestemmia, severamente inibiti l’uso delle armi e la consuetudine delle spese superflue, limitato ai giorni di Natale e di Pasqua il gioco dei dadi e alla domenica quello delle carte, disciplinati tutti i rapporti fra di essi, tanto da eleggere a giudici d’ogni questione, anche privata o amichevole, i capi della congrega, la Compagnia si elevava senz’altro a prototipo di tutte le altre organizzazioni congeneri. Le leggi del 1340 ne partano come d’una confraternita preesistente. Non si sa quindi e quali tempi risalga la sua origine, ma si può senza errore reputarla uno dei più antichi esempi storici di organismo sindacale dotato di leggi intese a instaurare i principi della previdenza e del mutuo soccorso. Oggi, come sei secoli or sono, i caravana affidano ai loro capi il denaro guadagnato, poi lo spartiscono. Nulla chiedono e nulla possono accettare oltre al compenso stabilito. A una parete della sede sociale è affissa una lapide vecchia di tre secoli: « Si avertisca non prendere premio o recognitione di sorte alcuna… », che sarebbe come dire: « Sono proibite le mance ». Nel recinto del Deposito Franco, dove essi prestano servizio con diritto di assoluta esclusività, i distributori di vino e di vivande sono gestiti in forma sociale. Dopo trent’anni di servizio i caravana diventano pensionati della Compagnia stessa, e così le loro vedove. Fino all’ultimo respiro i compagni vegliano e proteggono il caravana vinto dalla vecchiaia o dai mali; poi lo accompagnano alla tomba in forma solenne. Ma c’è pure chi lascia la « Caravana » senza gloria e senza premio, quando la sua umana debolezza l’abbia fatto incorrere nei peccati che la congrega condanna. E c’è chi bussa alla sua porta e non riesce a entrarvi, o per deficienza fisica, e il caso è raro, o per deficienza fisica e, il caso è raro, o per deficienza morale, e il caso, data la severità delle inflessibili leggi, è più frequente. Oggi, come sei secoli or sono, bisogna che il caravana porti il suo gonnellino come si porta un blasone, e, quando, lontano dal lavoro, abbia dimesso la visibile insegna, possa vincere ogni diffidenza e conquistare ogni amicizia, solo col dire: « Sonn-u carav-vana». Lungo il tempo le glorie si allineano. I caravana appaiono al pensiero contro un fondo di bandiere, di armi, di templi e di luci trionfali, come in un’allegoria. Nella chiesa di Santa Maria del Carmine essi si adunano, dai secoli più lontani, per rendere a Dio il dovuto. Le processioni di Genova conoscono il loro incesso imperatorio, nelle pieghe di tuniche variopinte, sotto il peso dei simulacri e degli stendardi, (li eventi della Patria li trovarono sempre all’erta. Nel 1746, contro gli Austriaci invasori, furono i caravana a trascinare i cannoni genovesi su per l’erta di Pietra Minuta. Nel 1812 e nel 1815, per due volte portarono attraverso la città il Pontefice Pio VII, che li rimeritò con larghe indulgenze. Nel 1848 ebbero affidata la custodia del tesoro della Banca Nazionale. Nell’ultima guerra furono mobilitati in centocinquanta, e rimasero sul campo in tredici.
Quelli di Bergamo
Un lungo periodo della storia di questa Compagnia (che diligentemente è stata rievocata di sui codici dal capitano Giorgio Ricci, dal dottor Annibale Ghibellini e da altri ancora) è occupato dal nome di Bergamo. Per oltre un secolo e mezzo la « Caravana » fu tutta composta di bergamaschi, e altri che non fosse di Bergamo o del circondario non aveva diritto d’appartenervi, tanto che i componenti mandavano a Bergamo le mogli incinte, affinchè generassero autentici bergamaschi. Discordi sono i pareri sulla ragione di questo fatto. La Compagnia, in base alle più recenti ricerche del Ghibellini, risulterebbe in origine prettamente genovese. Verso il 1450 cominciò l’infiltrazione bergamasca forse da parte di qualche brigata di mercanti.
Nel 1576, quasi tutti i caravana erano oriundi di Bergamo, o figli di bergamaschi; nel 1695 fu emanato il decreto che prescriveva per tutti i soci della Compagnia, senza eccezione, l’origine bergamasca. Secondo alcuni, questa legge sarebbe stata pretesa dagli stessi caravana di Bergamo, a compenso della pietosa opera da essi prestata durante una pestilenza, nel soccorrere i malati e nel seppellire i morti. Secondo altri sarebbe stata originata dal desiderio di evitare che tale organizzazione di uomini eccezionalmente forti e audaci potesse parteggiare per l’una o per l’altra delle fazioni nelle quali la cittadinanza era divisa, come facilmente sarebbe accaduto se non si fosse trattato di foresti, per nulla interessati nelle faccende della patria d’elezione. Comunque, dal 1695 al 1848, negli annali della «Caravana» si susseguono nomi di bergamaschi e di paesi del Bergamasco: da Brembilla e da Dossena, da Almenno e da Zogno, da San Pietro d’Orzio e da Rigosa, i caravana arrivavano a Genova. L’onore della Compagnia era affidato alle salde braccia e ai nobili cuori lombardi.
La fine di un curioso ostracismo
Ma i genovesi brontolavano, anzi mugugnavano. Tornasse a loro e ai loro figli la confraternita ch’era orgoglio del loro porto: non erano stati essi, forse, a crearne la prima compagine? non erano braccia genovesi quelle che avevano portato la terra sulla montagna arida, per farvi allignare le sementi, e avevano trasportato la tribuna del coro di San Matteo» con tutti i suoi mosaici e i suoi altorilievi, per più di venti metri? Nel 1848 il mugugno fu ascoltato, e la legge venne abrogata. Le porte della «Caravana» si riaprirono anche ai genovesi. L’ultimo caravana bergamasco morì nel 1914, e si chiamava Andrea Ghisalberti, detto Diego. Ora, nei ranghi, non vi sono più che alcuni figli di bergamaschi. E più nessuno mugugna, né a Genova né a Bergamo: tutti amici e camerati. Non dimentichiamo, però, le altre glorie della Compagnia, più modeste di quelle elencate, eppure giustamente care al cuore dei caravana. Nella loro sede, alle cui muraglie pendono lucide stadere, come panoplie d’armi in un (museo guerresco, c’è un quadro che il caravana non manca di presentarvi. Una ghirlanda di ritratti contornati e legati da fregi floreali. Un vescovo e alcuni signori con barba e occhiali, dal nobile aspetto.
Chi sono? La guida vi addita le parole che accompagnano ogni ritratto: l’avvocato commendator tal dei tali, « figlio di caravana » ; il professor tal altro, « figlio di caravana; monsignor vescovo così e così, « figlio di caravana ». Non senza stupore si guarda il volto compiaciuto di chi ci sta accanto. Ecco una specie di gloria che non ci aspettavamo. E che diremo, dunque, del console di «Caravana» Gian Giacomo Casareto, detto Gerion, che professava filosofia e lettere? e del carbonaio Gian Battista Vigo, lavoratore del porto anche lui ch’ebbe dal Comune una tomba gratuita e onorifica, in riconoscimento dei suoi meriti poetici. I caravana, i carnali e tutti gli altri, affratellati dal lavoro e dalla fede, si direbbe che giochino con la gloria come giocano coi quintali. Ha avuto i suoi predecessori in fatto di strane fortune, quel carnaio dei Magazzini Generali, che una ventina d’anni addietro lasciò il porto e si fece africano, con l’aiuto del sole e dell’olio di cocco, per proteggere l’innocente Cabiria nel corso delle sue dannunziane avventure; e ora torna à ritrovare i suoi compagni, a rivedere le calate e i moli, salutato a gran voce : « Ohè, Maciste!>>.
La gloria quotidiana
Ma il caravana pensa assai poco alle glorie che furono e a quelle che, forse, verranno. Altre ne trova e ne gode, più immediate e più quotidiane, mentre lavora a denti stretti, misurando il tempo sul ritmo del suo passo» che va e viene. Se no sorprendete qualcuno, durante il riposo, disposto a darvi udienza, e gli domandate quale sia stata la più grande impresa sua e dei suoi compagni, egli non ricorderà i cannoni di due secoli or sono, né il Pontefice portato dai suoi vecchi, né il vescovo generato da un suo predecessore. Sorriderà coi suoi denti bianchi nel viso di bronzo e, dopo avere lui poco pensato, vi racconterà di quella notte, quando cento caravana dovettero in dieci ore caricare sui treni quattromila tonnellate di grano. Le macchine insaccatrici lavoravano. I carri merci aspettavano. Avanti, caravana: quarantamila sacchi d’un quintale! quattrocento sacchi per ogni uomo; dieci ore di tempo; quattrocento passeggiate di venticinque o trenta passi, con cento chili sulle spalle, nello spazio di dieci ore; per ogni ora quaranta quintali; sempre avanti, caravana; per ogni passeggiata ottanta secondi, poi un bicchiere di vino mentre i treni partivano e il sole, salutato dalle sirene, sorgeva. C’è un altro faro, ai piedi della Lanterna, di fronte al mare burrascoso del mondo.
Carlo GATTI
Rapallo, 22 Gennaio 2019
IL MUSEO MARINARO DI CHIAVARI INVITATO A VIENNA
di Ernani ANDREATTA
Ottobre 2017
Festa Nazionale Austriaca
CRONACA DELLE GIORNATE A VIENNA PER LA COMMEMORAZIONE DEI CADUTI IN MARE DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE
1) Siamo partiti in pulmino da Chiavari, diretti a Vienna, in 8 persone al mattino presto di Martedi 24 Ottobre. Autisti d'eccezione Enrico Paini e Francesca Perri. Arrivati benissimo al Cordial Apartment di Vienna, dopo 12 ore di viaggio, passando dal passo del Tarvisio con un tempo splendido.
Subito accolti alla sera da Hans Bernardy un amico e incaricato del Presidente O.M.V. Osterreich Marine Verband, Colonnello Professor Karl Skrivanek, ci siamo recati nella sua suggestiva casa per un aperitivo con vino prosecco. Nel tragitto non è mancata una rapida visita alla famosa Chiesa di Santo Stefano.
2) La casa di Skrivanek è un vero museo di ricordi della sua vita manageriale nel settore dei turbo generatori. Con accanto la gentile signora Maria Teresa che parla italiano, in quanto nata da nobile famiglia italiana, c'è tutta la personalità di un uomo che ha vissuto nel mondo con grande successo il campo militare e imprenditoriale e che poi si è dedicato a mantenere viva la memoria della Grande Marina Austro Ungarica dove, come spesso ricorda lo stesso Karl, in quelle navi si parlava anche il dialetto veneziano.
A tal proposito vale la pena ricordare che il grido di battaglia dei Marinai Austriaci era l’italianissimo "Viva San Marco" !
3) I preliminari del giorno prima alla Festa Nazionale Austriaca sono stati una rapida visita a questa splendida città ricca di cultura, di arte e anche di storia legata al mare. Non poteva mancare un giro di Vienna di circa due ore in un suggestivo BIG BUS a due piani dove, tra le tantissime cose viste e spiegate ci appare una enorme statua all'ammiraglio austriaco Wilhelm von Tegetthoff, nato a Marburgo nel 1827 e deceduto a Vienna nel 1871, artefice della vittoria della flotta austriaca nella Battaglia di LISSA. Tegetthtoff è considerato un simbolo della Marina Austro-Ungarica e nel 1896 è stato costruito questo imponente monumento alla sua memoria, alto 11 metri, che ha una statua di tre metri e mezzo.
4) Dopo una visita d'obbligo al mercato gastronomico orientale all'aperto di Vienna si è arrivati a sera. A cena c'è stata la presentazione informale dei marinai provenienti da altre nazioni come Ungheria, Cecoslovacchia, Germania e naturalmente Croazia, con una nutrita delegazione di Austria e Italia.
Facevano parte del nostro gruppo anche il Magister Leslie Czyzyk, proveniente dall'Ungheria, il diplomatico Ingegner Milan Hala della Repubblica Cecoslovacca, il Dottor Professor Heinrich Wallnofer di Vienna e il Generale di Brigata "retired" Magister Edwin Wall presidente dei modellisti di Vienna. Erano altresì presenti il Colonnello Marco Sonnenwald "Attaché della German-Defence".
5) L'ambasciata Italiana era rappresentata da Maurizio Rubino che rappresentava l'OSZE cioè l'Organizzazione per la Cooperazione e la Sicurezza in Europa e dal console dell'ambasciata Croata a Vienna Branimir Loncar in rappresentanza dell'Ambasciatore.
E qui una riflessione è necessaria. Venezia, così come Segonzano in provincia di Trento, soltanto nel 1866 entrò a far parte del Regno d'Italia e l'annessione fu sancita dal plebiscito del 21 e 22 ottobre 1866 appunto, che vide vincere il sì con maggioranza assoluta dei voti favorevoli dell'elettorato attivo.
Giuseppe Andreatta, nonno di Ernani, nato appunto a Segonzano nel 1857 sancisce le origini Austro Ungariche di Andreatta da parte di padre, oltre che liguri da parte di madre, Adele Gotuzzo, la cui famiglia era originaria di Recco in Liguria.
6) Ed ora entriamo nel vivo e nel cuore della manifestazione.
Il 26 Ottobre una delegazione Italiana ha presenziato alla commemorazione della festa Nazionale Austriaca e alla commemorazione dei caduti in mare della prima guerra mondiale indipendentemente dalla loro nazionalità. L'evento, organizzato dal Presidente Karl Skrivanek è stato molto scenografico e curato nei dettagli.
7) Oltre al Colonnello Professor Ingegner Karl Skrivanek Presidente O.M.V. Associazione Marinai Austriaci, erano presenti l'Arciduca Markus di Asburgo Lorena o Habsburg-Lothringen per dirlo alla tedesca; l'Arciduchessa Ulrike di Asburgo Lorena e gli Arciduchi Herta Margarete e Sandor d'Asburgo Lorena depositari e promotori della Fiamma della Pace, che nel Maggio 2017, è stata conferita a Chiavari, alla Dottoressa Simonetta Pettazzi. Presenti anche la Signora Sabine Wegleitner, coordinatrice dei vari spostamenti degli ospiti, con il piccolo e simpatico figlio Samuel che è stato fiero di poter parlare qualche parola di Italiano.
Lo sforzo organizzativo da parte di Skrivanek è stato ripagato dal grande successo della partecipazione di autorità sia viennesi che europee.
8) Ecco l'elenco degli ospiti Croati provenienti da Pula o Pola con Marino Popov e capitanati dal Presidente dell’Associazione Fucilieri di Marina Croati “ VANGA” di Pola, che parla un perfetto Italiano, Comandante Karlo Godina, poi quelli provenienti da Split / Spalato e quelli provenienti da Dubrovnik/Ragusa
e naturalmente quelli Italiani provenienti da Chiavari.
Erano presenti come curatori del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta
- il suo fondatore Comandante Ernani Andreatta accompagnato dalla moglie Dottoressa Simonetta Pettazzi.
- Il "Deep Diver" o palombaro ad alta profondità Giancarlo Boaretto accompagnato dalla moglie Paola Ferraris.
- L'esperto "Marinaio e storico" Enrico Paini
- la Signora Francesca Perri organizzatrice di eventi e bravissima fotografa che ha narrato in immagini tutta la spedizione.
Per Santa Margherita Ligure e Portofino erano presenti il Presidente dei Marinai d'Italia, ANMI, Luciano Cattaruzza ex sommergibilista e la moglie signora Rosa Capurro.
9) In rappresentanza dell’Associazione Nazionale Arditi Incursori di Marina, ANAIM, dalla Spezia, era presente il Cavalier Stefano Foti, già Tenente della riserva, insignito della Croce di Cavaliere della Repubblica e della Croce d’oro al Merito di Marina “Marine-Kreuz” austriaca
e soprattutto un grande appassionato di Storia Marinara, promotore della presenza Italiana a Vienna anche nello scorso 2016, oltre che nel 2017.
Il Capitano di Fregata Massimiliano Pennisi, della Scuola Telecomunicazioni Forze Armate di Chiavari che ospita il Museo Marinaro, già presente a Vienna per vacanza, si è unito dietro nostro invito al nostro gruppo di rappresentanza. Il Presidente Karl Skrivanek ha donato alla coppia Andreatta Pettazzi un significativo quadretto ovale con una stampa augurale per il loro recente matrimonio mentre l'Arciduca Markus D'Asburgo Lorena ha donato una tazza o "mug" con raffigurati il Kaiser Francesco Giuseppe Primo e la "Kaiserin" Elisabetta con una interessantissima e preziosa pubblicazione sulla storia di Elisabetta, Imperatrice d'Austria.
10) Nella mattina di giovedi 26 ottobre, alle 07.30 ci siamo recati tutti nella bellissima Chiesa di San Michele dove è stata officiata la Santa Messa dai cappellani militari Ortodossi e Cattolici tra i quali, Il generale di Brigata dell'esercito austriaco e Diacono ortodosso Magister Roman Fischer, Pater Erhard Rauch parroco di San Michele, il Diacono Colonnello Wilhelm Hold e il Cappellano militare ortodosso Vater Alexander DDDr Lapin. La Santa Messa è stata accompagnata dall'orchestra di 4 elementi della O.M.V., di soli ottoni, molto suggestiva.
Appena terminata la Santa Messa il Presidente dei Marinai Austriaci Karl Skrivanek ci ha guidati nel cortile di Palazzo Imperiale dove abbiamo assistito allo schieramento di numerosi plotoni di soldati delle Forze Militari Austriache per il giuramento di 1300 nuove reclute.
11) Erano presenti nel nostro gruppo guidato da Skrivanek anche gli addetti civili e militari dell'ambasciata Italiana a Vienna.
Nel cortile di Palazzo Imperiale si incontravano spesso simpatici personaggi che indossavanao storiche divise d'altri tempi. E' stato un vero privilegio e soddisfazione essere sempre nella prima fila di questo importante evento dato che il Presidente Skrivanek ci aveva munito tutti di uno speciale lasciapassare per accedere ai migliori posti proprio davanti alla bandiera Austriaca poi issata nel cerimoniale del giuramento.
12) Come vediamo nelle immagini erano presenti sia il Presidente della Repubblica Austriaca Alexander Van Der Bellen e il Cancelliere Federale Christian Kern che i nuovi eletti del Governo Austriaco e cioè l'astro nascente di soli 31 anni Sebastian Kurz con i vari ministri collegati. La nostra prima fila ci ha consentito di vederli e filmarli molto da vicino ed il Ministro Federale della Difesa e Sport , Hans Peter Doskozil, si è persino fermato a parlare e scherzare con il piccolo Samuel.
La posizione era veramente privilegiata e così abbiamo assistito ad una straordinaria cerimonia del Giuramento delle Reclute delle quali vi proponiamo alcuni brevi ma intensi filmati nella loro bellissima e suggestiva esecuzione. Il tutto termina con il lancio di paracadutisti l'ultimo dei quali faceva sventolare la bandiera Austriaca.
13) Dopo le marziali parate militari veniamo invitati, sempre nel privilegio del lasciapassare fornito da Karl Skrivanek, a entrare nei locali del Palazzo Imperiale dove ci viene offerto un buffet self service a base di "zuppetta" di Goulash molto gustosa, pane e naturalmente vino birra e altre bevande a volontà. Un buffet riservato soltanto ai VIP dove senza lasciapassare, non si poteva accedere.
14) Verso le 13.30, ci rechiamo nuovamente nella chiesa di San Michele, molto vicina a Palazzo Imperiale dove si è svolta la nostra cerimonia legata al mare. Una toccante celebrazione all'altare maggiore con il suono di un quartetto di ottoni con il "Bandleader" della O.M.V. Reinhold Nowotny che intona alcuni suggestivi brani tradizionali di mare come "Avevo un Compagno" e il commovente "Silenzio" .
Quindi Stefano Foti ed Ernani Andreatta hanno l'onore di portare, per l'Italia, la corona in memoria dei Caduti della Prima Guerra Mondiale. Insieme a quelle, con la Bandiera Tedesca e Croata ci rechiamo nella sacra cappella "detta dei Marinai" della Kriegsmarine Austro-Ungarica, per depositarle ai piedi dell'altare accompagnati dalla Bandiera dei Marinai dell'O.M.V Osterreich Marine Verband e il Gonfalone del Museo Marinaro di Chiavari
Nelle diverse lingue, vengono letti alcuni passi della Bibbia secondo San Luca 8 Salmo 22 e Salmo 25. Così, Il presidente ANMI Luciano Cattaruzza, per gli Italiani recita "Gesù ha calmato la tempesta in mare" mentre Enrico Paini legge il Testo Marinaro del Salmo 25, "Il Signore è il mio destino". Tra i presenti vengono accese le speciali e tradizionali candeline commemorative.
15) Dopo queste suggestive cerimonie, l'organizzazione di Karl Skrivanek ci fornisce un pullman per recarci all'imponente Museo dell'Arsenale e di Marina
dove, dopo una breve visita al piano superiore ci rechiamo nella sala audizioni per ricevere il benvenuto dal "Deputy Director" dottor Thomas Reichl a nome del Direttore Dottor Christian Ortner. E' una visita importante che potrebbe aprire a potenziali cooperazioni con il Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari. Tra l'altro l'O.M.V., l'Associazione Marinai Austriaci, ha organizzato una mostra di libri speciali e modelli navali allestita da Ernst Oppel.
16) Le varie nazionalità si alternano nell'esposizione di brevi filmati o conferenze sulle proprie attività. Non essendo purtroppo presente il Presidente dell’Istituzione dei Cavalieri di Santo Stefano, Commendator Ascani, trattenuto a Pisa per seri imprevisti, Stefano Foti, su suo specifico mandato, presenta una serie di slides sull’Ordine Militare di Santo Stefano, sulla Istituzione e sull’Accademia di Marina. Dopo il ringraziamento del Colonnello Skrivanek, che è divenuto Accademico di Marina nel 2017, nonchè primo straniero ad essere nominato tale, Stefano Foti passa a presentare le immagini sull’Associazione Nazionale Incursori, sulla storia dei mezzi di assalto e sulle forze speciali della Marina , per terminare con un filmato sulla Marina Militare Italiana di ieri ed oggi, che riscuotono vivo interesse e apprezzamento da parte dei presenti . A seguire Ernani Andreatta porge il suo saluto con alcuni commenti sulla sua attività di appassionato "Storico e Marinaio", fondatore di un apprezzato Museo Marinaro e presenta un filmato dello stesso in una edizione in tedesco preparata per l'occasione, che riscuote molti applausi e consensi.
17) Quindi Karl Skrivanek presenta alcune fotografie della sua recente visita in Croazia ospite del Comandante Karlo Godina.
La giornata termina con una cena nel ristorante dell'Arsenale con Servizio a Buffet e vino croato offerto dai marinai presenti.
Prima del commiato e i saluti di rito si passa al conferimento dei Crest del Museo Marinaro, tre filmati e la pubblicazione dedicata a Giuseppe Pettazzi per la sua costruzione nel 1938 della Stazione di Servizio della Fiat Tagliero di Asmara in Eritrea diventata patrimonio dell'Umanità dell'Unesco.
Di tali conferimenti vengono insigniti Markus D'Asburgo e Lorena Herta Margarete e Sandor D'Asburgo e Lorena il Generale di Brigata "Magister" Edwin Wall, presidente dei Modellisti di Vienna, Stefano Foti, delegato ANAIM La Spezia e naturalmente Karl Skrivanek.
A Karlo Godina, da parte sempre del Museo Marinaro, viene donato il libro sulla vita e le imprese di Enrico Millo firmato dai due autori presenti Andreatta e Paini. Il Museo Marinaro riceve in cambio il Crest "VIRIBUS UNITIS" da Parte del Professor SKRIVANEK.
Luciano Cattaruzza, Presidente dei Marinai d'Italia di Santa Margherita e Portofino ha donato il bellissimo Crest dell'Associazione al Professor Karl Skrivanek.
18) Il Cavalier Stefano Foti ha donato libri sugli Arditi Incursori di Marina agli Arciduchi Markus e Sandor, al Presidente Godina e al Comandante Ernani Andreatta, mentre al Colonnello Skrivanek ha donato un raro libro sul centenario della storia della OTO MELARA ove il colonnello aveva lavorato molto tempo fa per conto dell’Esercito Austriaco.
Ci sembra opportuno, seguendo anche la traccia di questa pubblicazione "Viribus Unitis" donata da Karl Skrivanek, spiegare la commemorazione legata ai caduti in mare dato che da molti anni l'Austria non possiede più porti di approdo per le navi.
19) Nel Novembre del 1918 la bandiera della Kriegsmarine fu abbassata, con evidente tristezza, per l'ultima volta in una nave di Sua Maestà nel porto di Pola. Sino a quella data l'orgogliosa flotta della Marina Austro-Ungarica si trovava nei porti di Trieste, Pola, Fiume e Venezia. Sino a quel giorno la flotta dell'Impero Austro Ungarico non era da meno di quelle della Gran Bretagna, Francia e Italia.
Molti libri, musei ed edifici ci ricordano ancora oggi questo periodo di storia e la grande epoca della dinastia degli Asburgo.
Come lo stupendo castello del Miramare residenza dell'Arciduca Massimiliano che diventò addirittura imperatore del Messico ma fu poi fucilato dai rivoluzionari della Repubblica Messicana. Da non dimenticare il Palazzo dei Loyd a Trieste e l'ampliamento del porto stesso così come i Cantieri Navali che tra il 1911 e 1912 costruirono le imponenti navi da battaglia VIRIBUS UNITIS, TEGHETTOFF e PRINZ EUGEN.
20) Nel 1798, Venezia, città dei Dogi, divenne possesso degli Asburgo e ancora oggi troviamo nel suo Museo Storico Navale le ancore delle Corazzate Teghettoff e Viribus Unitis. Moltissimi sono gli edifici storici a Trieste, Pola, Fiume e Venezia, che ricordano il periodo Asburgico in queste città che una volta erano i loro porti per l'ormeggio della navi della loro "Grande Marina".
Dopo la perdita di Venezia nel 1866 la Marina Austriaca si spostò nel porto di Pola.
21) L'ultima bandiera da guerra della Kriegsmarine austriaca si trova ormai in un Museo, ma il 26 Ottobre abbiamo visto le riproduzioni di tale bandiera issate che vogliamo definire "Simboli di Pace" invece che "Bandiere di Guerra" .
E così termina questo indimenticabile giorno dedicato al ricordo della Grande Storia della Marina Austro Ungarica e un senso di nostalgia pervade il cuore di tutti i presenti. I Marinai sono fatti così! La nave è pur sempre una loro casa !
Il mattino dopo si riparte. Il venerdi 27 Ottobre ritorno, sempre in pulmino, con alla guida ancora Enrico Paini e Francesca Perri. Ma questa volta si è deciso di passare dal Brennero. Scelta non molto felice dato il traffico intenso, così come la pioggia che ha mandato a monte un tentativo di sosta a Salisburgo. Ma, in tutta sicurezza, alle ore 23 del 27 Ottobre siamo tutti a casa a Chiavari e Santa Margherita Ligure.
22) Il Gonfalone e Labaro del Museo Marinaro è stato sempre presente nei momenti più significativi della nostra visita a Vienna. La sua origine "medioevale e costantiniana" adottata come insegna da molte associazioni militari e civili, che contempla il Timone d'Oro e Medaglie di Lunga Navigazione conferite ai Comandanti Andreatta Ernani Senjor e Junior, Croci dei Cavalieri di Santo Stefano conferite nel passato ai Gotuzzo, Fiamma della Pace conferita a Simonetta Pettazzi e altre importanti onorificenze, vuole rappresentare il Museo come ideale centro di raccolta per chi crede nella fede della cultura del mare, della storia e del ricordo.
23) Il Museo Marinaro Tommasino-Andreatta conosciuto ora anche in Austria, Croazia, Germania e Ungheria e Cecoslovacchia è orgoglioso di questa visita dedicata a tutti i Marinai Caduti in Mare della prima guerra mondiale proprio nel giorno della Festa Nazionale Austriaca del 26 Ottobre 2017.
Il senso di Viribus Unitis, cioè "Tutti Uniti" o "Tutti Assieme" è anche questo,
Buon Vento, Buona Fortuna e Buona Compagnia per il Futuro.
FINE
Un DVD del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari
Testi di Ernani Andreatta
Collaborazione di Karl Skrivanek , Stefano Foti ed Enrico Paini
Rapallo, 3 Novembre 2017
ALBUM FOTOGRAFICO
CARATTERISTICHE COSTRUTTIVE DI UN RIMORCHIATORE ROMPIGHIACCIO
CARATTERISTICHE COSTRUTTIVE DI UN
RIMORCHIATORE ROMPIGHIACCIO
Una rompighiaccio o nave rompighiaccio è una nave appositamente studiata per navigare in mari, laghi o fiumi la cui superficie sia coperta di ghiaccio, come nel caso della banchisa.
Perché una nave sia in grado di fare questo, deve avere tre caratteristiche:
- uno scafo in grado di resistere al ghiaccio;
- una forma dello scafo in grado di aprire lo strato di ghiaccio;
- una potenza di propulsione sufficiente per spingere la nave vincendo la resistenza del ghiaccio all'avanzamento.
In realtà un rompighiaccio non frantuma le lastre di ghiaccio direttamente con la prua, bensì più vantaggiosamente sfrutta la sua inerzia e la spinta propulsiva per sollevare la prua al di sopra del ghiaccio con il peso della nave che provoca la rottura del ghiaccio sottostante il quale aprendosi lascia tornare la prua in mare. I frammenti di ghiaccio vengono spinti lateralmente oppure fatti passare al di sotto dello scafo. In generale una nave rompighiaccio avanza più velocemente su una superficie interamente ghiacciata rispetto ad un mare coperto da frammenti di ghiaccio. La parte più esposta a danni in una nave di questo tipo rimane il sistema di propulsione.
I moderni rompighiaccio hanno eliche protette sia a prua che a poppa, ed anche propulsori laterali per manovrare meglio. Dell'acqua con funzione di zavorra è pompata tra cisterne poste ai due lati della nave (casse flume) per stabilizzare e ridurre il rollio durante la navigazione in mare libero dai ghiacci o per aumentare le oscillazioni dello scafo quando in mare ghiacciato.
Alcuni moderni rompighiaccio hanno due o tre eliche azimutali a passo fisso (con funzione di timone) a poppa e una o due a prua. In molti rompighiaccio, comunque, l’elica prodiera che sporge in fuori è stata sostituita con altre dette pump jet (incassate nello scafo) o da un sistema a bolle d’aria. Ugelli situati lungo lo scafo sotto la linea di galleggiamento immettono grandi quantità di aria compressa nell’acqua sottostante il ghiaccio, producendo un forte gorgogliamento dell’acqua, che riduce l’attrito.
Laser per rompere i ghiacci: e’ la nuova frontiera tecnologica a cui sta lavorando TsNII Kurs, una societa’ russa che progetta equipaggiamenti marittimi che spaziano dalle armi per la guerra elettronica a kit corazzati anfibi, dai radar agli strumenti di navigazione satellitare.
”L’idea che sta dietro al progetto e’ di avere un potente laser che taglia il ghiaccio davanti alla nave, consentendo di romperlo facilmente”.
Carlo GATTI
ALBUM FOTOGRAFICO
rompighiaccio MANGYSTAU
ALBUM FOTOGRAFICO ROMPIGHIACCIO
NEL MONDO
Giuseppe SORIO
Rapallo, 21 Ottobre 2017
LA NUOVA DIGA DEL PORTO DI GENOVA...E SE FOSSE L'UOVO DI COLOMBO?
La nuova diga del porto di Genova…
e se la soluzione fosse l’uovo di Colombo?
Da diverso tempo ormai, l’intervento radicale sulla diga del porto di Genova è tra i primi punti nella lista delle priorità.
A tal proposito mi è capitato di vedere diversi progetti molto differenti tra loro. Mi rendo conto che trovare la soluzione “perfetta” è tutt’altro che semplice, se non addirittura impossibile. E’ infatti necessario tenere conto di numerosi aspetti che debordano dalle competenze di singole persone/organizzazioni.
L’ammontare degli investimenti dipende dalle soluzioni proposte e si tratta, in ogni caso, di cifre alte e tempi lunghi per l’eventuale realizzazione.
La diga del porto di Genova si estende dall’imboccatura di Levante fino all’Italsider e protegge la zona della Fiera, l’Avamporto e il canale di Sampierdarena.
L’esigenza di un intervento su questa grande opera nasce principalmente dalla necessità di un adeguamento infrastrutturale alle crescenti dimensioni delle navi. A fronte di piroscafi che misuravano in media 150 metri all’epoca della sua realizzazione, siamo arrivati a valutare la possibilità di operare portacontainer di 400 metri. Non mi dilungherò sui motivi che rendono improrogabili tali lavori – materia ampiamente discussa in ogni contesto – quanto sulle considerazioni tecniche che devono aiutare nelle valutazioni di fattibilità.
Si tratta, ovviamente, di argomenti relativi al settore in cui opero, e per questo starò attento a non insinuarmi in discorsi di pertinenza ingegneristica o amministrativa.
Se non consideriamo l’inadeguatezza del porto alle dimensioni attuali delle navi, dobbiamo ammettere che il progetto originario potrebbe essere ancora valido:
- il vento dominante è la tramontana, tenuta sotto controllo prevedendo banchine disposte per Nord/Sud;
- c’erano (ora sono meno) ben cinque bacini di evoluzione: Avamporto, Gadda, Sanità, Porto Vecchio e Bettolo;
- la corrente generata dallo Scirocco era mitigata dal “dente” di cemento presente al taglio della Canzio (purtroppo non c’è più);
- la disposizione delle banchine nel canale di Sampierdarena “invita” all’uscita di levante, agevolando le manovre;
- l’imboccatura di ponente ha senso per servire il traffico diretto all’Italsider (ci tornerò in seguito).
A mio parere, se un porto nasce assecondando in maniera funzionale le regole imposte dalla natura, diventa un grande azzardo stravolgere il piano non tenendone conto.
Esaminiamo, ad esempio, l’opzione di concentrare gli investimenti per “potenziare” l’imboccatura di ponente:
- il primo punto dolente va collegato al fatto che le navi in entrata si troverebbero ad imboccare con una rotta parallela al frangiflutti esistente, e il mare, proveniente dai quadranti meridionali, impattando contro la diga, genererebbe una pericolosa onda di ritorno. Per contrastare questo fenomeno occorrerebbe aumentare proporzionalmente la velocità della nave in ingresso, con la conseguente difficoltà ad arrestarla in tempo utile per l’evoluzione. Consideriamo che, per proteggere gli ormeggi dalla risacca generata dallo Scirocco – molto frequente nel periodo invernale – l’imboccatura non potrebbe essere ampia a sufficienza e, probabilmente, dovrebbe prevedere particolari “denti” o curve che, pena la perdita del governo, non permetterebbero l’arresto della macchina neanche una volta preso il ridosso.
- Per creare un bacino di evoluzione compatibile con le restrizioni previste dal cono aereo dell’aeroporto e per allontanarsi dall’influenza del fiume Polcevera, sarebbe necessario demolire almeno 600 metri della attuale diga. Per esperienza mi viene spontaneo pensare alla conseguente esposizione alla risacca di tutto il ponte Canepa/Ronco, visto che attualmente la stessa si scarica pesantemente sugli ormeggi dell’Italsider.
- Abbiamo già detto che le banchine del canale di Sampierdarena sono sguardate verso l’imboccatura di levante. Se l’imboccatura di ponente diventasse la porta principale, le navi in partenza si troverebbero svantaggiate rispetto ad ora e questo comporterebbe un maggior uso di rimorchiatori, con conseguente aumento delle spese.
- Sempre per quanto riguarda l’uscita, le navi monoelica (per la maggior parte destrorse) si troverebbero a dover compiere un’accostata di 180 gradi al contrario della via dell’elica, in una zona dove la Tramontana picchia forte. Anche qui il rischio si alzerebbe e l’inevitabile uso di un numero maggiore di rimorchiatori contribuirebbe a rendere meno concorrenziale lo scalo nel nostro porto.
In definitiva, spostare la porta d’ingresso e di uscita delle navi da levante a ponente, per permettere alle navi da 400 metri di bloccare il canale di Sampierdarena ormeggiando alla Bettolo, lo vedo come un pericoloso “salto nel buio”: sai cosa lasci, ma soprattutto sai che quello che troverai farà alzare i costi e abbasserà il livello della sicurezza.
Nel corso degli anni diverse modifiche alle infrastrutture, più o meno giustificate dalle esigenze contingenti, hanno contribuito a penalizzare il porto sotto l’aspetto tecnico nautico. In modo particolare mi riferisco ai seguenti punti:
- l’allungamento e l’allargamento delle banchine presenti nel Porto Vecchio, ha eliminato la possibilità di evoluire in quell’area con le attuali navi passeggeri;
- la costruzione della darsenetta per l’ormeggio delle bettoline ha ristretto lo spazio evolutivo dell’Avamporto;
- il riempimento dello specchio acqueo compreso tra Canzio e Rubattino ha tolto un’altra importante alternativa nella scelta delle evoluzioni;
- l’allargamento del taglio della Canzio ha peggiorato l’effetto della corrente in canale.
Ma la spinta più importante alla ricerca di un adeguamento strutturale, nasce dalla necessità di integrare e rendere completamente fruibile la nuova banchina Bettolo. Mi verrebbe da dire, con il senno del poi, che – difficoltà oggettive e burocratiche a parte – aver previsto l’accosto delle grandi portacontainers nel senso Nord/Sud, tombando da testata Sanità alla nuova darsena per l’ormeggio delle bunkerine, avrebbe bypassato numerosi problemi… ma, tornando con i piedi per terra, troviamo l’evidenza di un eccessivo restringimento del canale, nell’eventualità dell’ormeggio di navi di lunghezza superiore ai 300 metri e larghezza superiore ai 40 metri (valori approssimativi ricavati da numerose prove sui simulatori di manovra). Avremmo quindi una sorta di tappo che costringerebbe buona parte del traffico a utilizzare l’imboccatura di Ponente. Soluzione che, come ho già scritto sopra, sconsiglierei.
Vediamo cos’altro potremmo prendere in considerazione.
I problemi da risolvere sono due:
- ormeggiare grandi navi alla Bettolo;
- allargare il bacino di evoluzione dell’Avamporto.
Beh, penso che a questo punto la soluzione meno impattante si suggerisca da sola:
Allargare la diga a partire dal secondo rosso fino all’altezza dell’idroscalo.
- Questo intervento, nella sostanza, non cambierebbe i principi seguiti nella realizzazione del progetto originario.
- Permetterebbe l’evoluzione in Avamporto di navi di dimensioni maggiori rispetto a quelle che attualmente scalano il porto di Genova.
- Offrirebbe lo spazio necessario al transito nel canale di Sampierdarena con una Bettolo finalmente “operativa”.
La domanda giusta da porsi non deve scaturire dalla disponibilità a un compromesso.
Non ci sono i soldi? Bene, se è questo il lavoro da fare, aspetteremo di avere da parte la somma necessaria.
Avrei da suggerire soluzioni alternative (probabilmente più invasive e dispendiose), ma sono convinto che anche altre persone, con un punto di vista differente dal mio, potrebbero sorprenderci positivamente.
JOHN GATTI
Rapallo, venerdì 20 Ottobre 2017
IL CANALE DI GÖTA - SVEZIA
IL CANALE DI GÖTA
SVEZIA
GÖTA KANAL
La rete idrografica della Svezia, così estesa e ramificata, non é molto idonea come reticolo di comunicazione per i frequenti dislivelli; pertanto, specie nella parte settentrionale del paese, le comunicazioni sono state difficili fino all’introduzione della ferrovia.
I grandi laghi invece hanno sempre rappresentato vie di comunicazione di traffico locale, specie quando sono stati congiunti per mezzo di canali o di tronchi fluviali artificialmente sistemati.
Il canale più importante é il Göta Kanal, che unisce Göteborg a Stoccolma collegando due mari, otto laghi, tre canali e un fiume attraverso un sistema di 66 chiuse. Costruito tra il 1810 ed il 1823, fu inaugurato nel 1832. Rimane tuttora l’opera ingegneristica più importante della Svezia.
La sua costruzione fu voluta dal re Gustavo Vasa per unire le due maggiori città svedesi senza dovere pagare una tassa che la Danimarca imponeva a tutte le imbarcazioni che passavano lo stretto di Öresund.
La sua lunghezza complessiva é di 560 km, la larghezza é di 28 metri, e la profondità 3,50; lo sviluppo, che é solo parzialmente artificiale, é interrotto, come dicevamo, da 66 chiuse. La sezione che va da Göteborg al lago Vänern, prende il nome di canale di Trollhättan ed é più larga e profonda del resto, tanto da permettere il passaggio di navi di 1350 t. Importante per il traffico della regione del lago Mälaren é il canale Södertälje, che unisce il lago stesso al mar Baltico.
Nel dopoguerra c’è stata la conversione del traffico commerciale in turistico, ma le navi sono rimaste le stesse, naturalmente anch’esse sono state convertite ai nuovi standard moderni.
Le attrazioni turistiche sono numerose e le mostreremo nel percorso fotografico.
Il Göta Kanal si snoda da Sjöstorp (lago Vänern) a Östersjön e ci sono 58 chiuse. I canali artificiali hanno una lunghezza di 190 km, di cui 87 sono stati scavati. Il canale raggiunge la sua massima altezza a Forsvik 91,8 metri.
Le caratteristiche delle navi:
Lunghezza: 30 m
Larghezza: 7 m
Pescaggio: 2,83 m
Altezza: 22 m
Velocità massima: 5 nodi
Durata del viaggio
La compagnia di navigazione Göta Kanal, da maggio a settembre, effettua crociere da Göteborg a Stoccolma e viceversa che durano 4 giorni (3 notti) con le navi storiche Juno del 1874, Wilhelm Tham del 1912 e Diana del 1931. La Juno è lunga 31,45 metri, larga 6,68 metri, ha un pescaggio di 2,72 metri e 29 cabine a due posti; le altre hanno misure analoghe.
Il viaggio in una sola direzione dura 6/7 giorni in alta stagione, di cui sono previsti 5 pernottamenti negli alberghi lungo il percorso. LA NAVIGAZIONE E' SOLO DIURNA!
Imbarcazioni private
Anche i privati con le loro barche possono utilizzare il canale: le cui misure non possono superare:
Lunghezza:88 m, Larghezza:13,2 m, Altezza:27 m, pescaggio 5,4 m
Un po’ di Storia:
Baltzar von Platen (1766-1829)
Tra il 1810 e il 1832 furono scavati 190 chilometri di canali e chiuse, da 58.000 soldati svedesi, scaglionati in diversi periodi, che hanno dedicato 7.000.000 di giorni di lavoro, per 12/g, sotto la direzione del conte Baltzar von Platen, militare di carriera e Consigliere di Stato. Fautore e promotore nonché realizzatore di questa immane opera. Parteciparono alla costruzione del Canale anche 200 disertori russi (1809), e molti tecnici inglesi. L’inaugurazione del primo tratto avvenne nel 1822. B.von Platen rivette il Serafimerorden dal re Karl Johan 14°. B.v.Platen morì 3 anni prima del termine dell’opera. Il suo motto era: “quando dici che non sei all’altezza é perché non ne hai voglia”.
L’inaugurazione avvenne a MEM (M.Baltico) il 26 settembre 1832 alla presenza del re e delle massime autorità. L’avvento della ferrovia, il traffico su gomma, l’aumento del tonnellaggio navale sono le cause principali della conversione del GÖTA canale, fino ad allora soltanto commerciale, in una delle maggiori attrazioni turistiche della Svezia.
ALBUM FOTOGRAFICO
Sette "chiuse"
Pattugliatore Marina Svedese N°91
Pattugliatore Marina Svedese N° 834
Juno
Vaporetti in salita...
WILHELM THAM
GÖTA HOTEL
Castello di Ekenäs
Chiusa
Hiulangaren-Norfdevall
JUNO
SANDÖN
Carlo GATTI
Rapallo, 12 Settembre 2017