LOCH KISHORN – CHEVRON NINIAN CENTRAL
LOCH KISHORN – CHEVRON NINIAN CENTRAL
Storia del Porto e del Bacino di Kishorn
Progetto Ninian Central
Il progetto originale del cantiere di Kishorn in Scozia era stato sviluppato come un cantiere di costruzione per le piattaforme nel 1970. Il cantiere fu gestito dalla Società Howard Doris Ltd ed operò dal 1975 al 1987. Nel 1975 il lavoro iniziò nel lato a nord del Loch Kishorn per acquisire e sviluppare un’area sufficiente per costruire la Piattaforma di Ninian Central. Questo era molto diverso dal piano originale di costruire un dry dock di 150 metri di diametro per alloggiare la costruzione della struttura di cemento del primo anello della base di Ninian Central.
Nelle foto seguenti si vedono le fasi di costruzione del bacino di Loch Kishorn:
Dal 1977 c’erano più di 3000 persone che lavoravano nel cantiere. Per la pianificazione di tutto il personale impegnato il cantiere fu considerato come un’isola e tutti i materiali e le persone venivano movimentate per mare e per cielo. Due navi passeggeri in disarmo (Ragantira e Odysseus) furono ormeggiate nel Loch ed adibite a hotel galleggianti per ospitare tutto il personale.
Per continuare il progetto di Ninian la base galleggiante da 150.000 tonnellate fu rimorchiata fuori dal dock ed ormeggiata nel Loch Kishorn. Il bacino nel Lock Kishorn ha una profondità utile per costruzioni di 80 metri. Dopo il completamento le 600.000 tonnellate della piattaforma di cemento furono rimorchiate da 7 rimorchiatori nel campo petrolifero del Mare del Nord. A quel tempo questa piattaforma era stata il più grande oggetto mobile mai costruito dall’uomo.
Nella sequenza di foto che segue si vedono le varie fasi della costruzione della piattaforma:
Base piattaforma in costruzione dentro al bacino
Base piattaforma galleggiante mentre viene rimorchiata fuori dal bacino.
Nelle foto che seguono si vedono le varie fasi durante la costruzione a ptf galleggiante e ormeggiata davanti a Loch Kishorn:
Rimorchio per cambio ormeggio
Rimorchio per la destinazione finale
Nelle foto a seguire si vede la c.v. Pearl Marine della Micoperi durante le fasi di sollevamento dei moduli:
Ninian Central
La piattaforma di Ninian Central ha un singolo piede di supporto in cemento piuttosto che molte gambe. Il piede di supporto alla base ha un diametro di 140 metri restringendosi salendo verso l’alto.
Installazione di Ninian Central
Alle 05.00 del mattino del 12 di agosto 1977 le 220.000 tonnellate della piattaforma a gravità e galleggiante erano pronte per essere posizionate. E’ stata rimorchiata da una flotta di 6 rimorchiatori oceanici da Loch Kishorn fino al alla destinazione finale in mezzo al Mare del Nord (settore inglese). La base della piattaforma è grande quanto Trafalgar Square . La posizione finale della piattaforma alla fine è risultata di 3 metri migliore che nel progetto.
Piattaforma di Ninian Central terminata e in produzione
Prove di produzione dei pozzi
D.M. PINO SORIO
Carlo GATTI
Rapallo, 7 Maggio 2017
SEQUENZA VARO JACKET PIATTAFORMA
SEQUENZA VARO JACKET PIATTAFORMA
Spieghiamo innanzitutto cosa sia un Campo Petrolifero prendendo come esempio IL CAMPO VEGA che è stata costruita dalla Pearl Marine della Società MICOPERI. All'epoca, l'autore di questi APPUNTI, il D.M. Pino SORIO, socio di Mare Nostrum Rapallo, era a bordo della piattaforma in qualità di Direttore di Macchina.
Scheda tecnica
- Luogo:
Canale di Sicilia, 20 Km a sud di Pozzallo (RG)
- Tipologia:
campo off-shore
- Produzione giornaliera:
circa 2700 barili/giorno
- Situazione erogativa:
attualmente in produzione
- Numero piattaforme:
Vega A e una nave stoccaggio (FSO Leonis)
- Numero di pozzi:
24 (di cui 17 in produzione)
- Profondità acqua:
122 m
- Operatore:
Edison (60%) – ENI (40%)
- Inizio produzione:
1987
- Trattamento e stoccaggio:
Vega A, stoccaggio su FSO Leonis
Vega è la più grande piattaforma petrolifera fissa realizzata nell’off-shore italiano. Il campo Vega, 60% Edison in qualità di operatore e 40% Eni, è ubicato a circa 12 miglia a sud della costa meridionale della Sicilia, al largo di Pozzallo. Comprende una piattaforma denominata Vega – A per lo sfruttamento del giacimento petrolifero e un deposito galleggiante da 110.000 tonnellate ricavato dalla trasformazione della ex-petroliera Leonis in FSO (Floating – Storage – Offloading). Il galleggiante è ormeggiato a una mono boa situata a circa 1,5 miglia dalla piattaforma e ad essa collegata tramite condotte sottomarine.
La piattaforma è stata appoggiata nel febbraio 1987, su un fondale di circa 122 metri di profondità d’acqua tramite un Jacket, struttura di acciaio tubolare a forma di traliccio con otto gambe ancorate al fondo marino per mezzo di 20 pali, su cui sono stati successivamente posati i restanti moduli di produzione e servizi.
La piattaforma adotta tecnologie d’avanguardia per la sicurezza del personale e dell’ambiente circostante. E’ stata, infatti, progettata per resistere a venti fino a 180 Km/h, onde marine di 18 metri e terremoti fino al nono grado della scala Mercalli. Vega A è munita, inoltre, di un sistema di sicurezza combinato di rivelazione gas/incendio e arresto di emergenza che garantiscono un alto livello di sicurezza
Il giacimento si trova ad una profondità sotto il livello del mare variabile da 2.400 a 2.800 metri, il quale si estende su una superficie di circa 28 chilometri quadrati. La produzione è stata avviata nell’agosto del 1987; attualmente dei 24 pozzi presenti in piattaforma 17 sono in produzione.
Dalla piattaforma il greggio viene trasferito tramite una condotta flessibile e coibentata, verso la FSO Leonis che riceve il greggio, lo distribuisce nelle diverse cisterne di carico e se necessario lo riscalda con vapore. La FSO funge inoltre da terminale per il caricamento delle navi cisterna che trasportano in raffineria il greggio prodotto dal Campo Vega.
La piattaforma Vega è permanentemente presidiata 24h su 24h e tutto il controllo degli impianti è monitorato in Sala Controllo. Il personale usufruisce dei turni di riposo secondo una turnazione che prevede 14 giorni a bordo e 14 giorni di riposo a terra.
Leonis
Nell’ottobre 2009 al fine di ottemperare alle nuove normative Europee in materia di doppio scafo, Edison ha sostituito l’ex galleggiante a singolo scafo Vega Oil con la nuova unità a doppio scafo e doppio fondo Leonis del tipo Aframax.
Una piattaforma petrolifera è un'imponente struttura utilizzata per l'esplorazione di aree marine in cui sono locati potenziali giacimenti di IDROCARBURI. Allo stesso tempo le piattaforme vengono utilizzate anche per la perforazione di pozzi petroliferi, nel caso sia stata provata l'esistenza del giacimento. Una volta terminato il pozzo, la piattaforma può essere usata per estrarre idrocarburi dallo stesso, oppure può essere spostata in un'altra località per eseguire una nuova perforazione.
SEQUENZA VARO JACKET PIATTAFORMA
Come si vede nella sequenza di foto il varo di un jacket viene eseguito con una procedura particolare. Le bettoline per il trasporto dal cantiere di costruzione sono fatte apposta per questo servizio. Il jacket posa su due rotaie guida e viene spinto da due enormi pistoni idraulici. Con un piano di zavorrameto preparato in anticipo la bettolina viene appruata di qualche grado fino che il jacket incomincia a scivolare sulle due guide acquistando via via velocità fino alla caduta in mare. In questa sequenza di foto il jacket è del tipo auto verticalizzante, cioè con l’apertura e chiusura automatica di valvole si allagano delle tanke situate nella parte bassa: l’acqua che entra fa si che il jacket si verticalizzi restando però galleggiante. Dopo di che viene agganciato dalle gru della nave e posizionato nel punto esatto dove c’è il pozzo pilota. A questo punto si allagano completamente le tanke della zavorra e posato sul fondale.
Jacket auto verticalizzato e galleggiante pronto per essere posizionato e posato sul pozzo pilota o sulla template già fissata sul fondo del mare.
D.M. Pino SORIO
Carlo GATTI
Rapallo, 28 Marzo 20167
VENDÉE GLOBE RACE 2016-2017
VENDÉE Globe Race 2016-2017
…. La regata più pazza del mondo…..
Fu dondata nel 1989 – Per le Classi IMOCA 60
Partenza e Arrivo da LES SABLE-D’OLONNE (Francia)
Nel duello più lungo il bretone Armel Le Cléac’h vince il giro del mondo 2016-2017
Con il record del mondo abbassato di quattro giorni, Armel Le Cleac'h ha vinto la leggendaria Vendée Globe Challenge, il giro del mondo in solitario e senza scalo che era partito il 6 novembre da Les Sables d'Olonne, un'edizione rivoluzionata dagli scafi dotati di "baffi". Testa a testa con il britannico Alex Thomson durato oltre 25 mila miglia:
Capo di Buona Speranza (Sud Africa)
Al Capo di Buona Speranza fu dato il nome di «Capo Tempestoso» dall’esploratore portoghese Bartolomeu Diaz, il primo europeo a raggiungerlo via mare nel 1488. Nel XV secolo, le navi si trovavano spesso in difficoltà in questo tratto di mare.
Capo Leeuwin (Australia)
Capo Leeuwin è considerato erroneamente il punto più a sud dell’Australia e il punto d’incontro tra l’Oceano Indiano e l’Oceano Glaciale Antartico. Il nome gli fu assegnato nel 1801 dal navigatore e cartografo inglese Matthew Flinderscapo, in onore del vascello olandese “Leeuwin” che per primo lo doppiò, nel 1622.
Pur non essendo il punto più meridionale dell’Australia Capo Leeuwin fa parte delle “boe” naturali, utilizzate dalla maggior parte delle regate intorno al mondo (come la Vendée Globe)
Assieme agli altri due capi nominati fa parte della fascia di latitudine dei "QUARANTA RUGGENTI", così denominata proprio per indicare alcuni dei tratti di mare più pericolosi al mondo.
Se ti è piaciuto questo articolo condividilo con i tuoi amici! Oppure raccontaci quale di queste rotte ti piacerebbe intraprendere, da solo o in compagnia!
Capo Horn (Cile)
Capo Horn è il punto più a Sud delle Americhe, situato in realtà nell’omonima isola, appartenente all’arcipelago della Terra del Fuoco. Venne doppiato per la prima volta dalla spedizione Olandese di Willem Schouten e Jacob Le Marie, che lo battezzarono Kaap Horn in onore della città natale di Schouten.
Si può scegliere di passare in mare aperto, dal canale di Drake, oppure nello Stretto di Magellano, attraverso le isole della Terra del Fuoco, che però offrono un passaggio lento e ricco di insidie. In ogni caso Capo Horn va affrontato nella stagione estiva, quando le giornate durano circa 20 ore e le temperature sono un po meno proibitive.
Il motivo delle violenti tempeste che si infrangono su Capo Horn risiede nella costante presenza di vento da Ovest, che corre lungo l’Oceano australe, unita ad un repentino abbassamento della profondità del mare. Nello stretto di Drake il fondale passa improvvisamente da 4.000 m ad appena 100 me questo causa la formazione di onde estremamente violente. La normalità in estate sono 20-25 knt di vento e 2-3 m di onda ma la Marina cilena rileva spesso venti di 80- 100 knt e onde superiori a 20 m. Se poi consideriamo una temperatura dell’aria che va dai 12°C (in estate) ai -5°C (di inverno), con l’acqua sempre prossima agli 0°C, potrete facilmente capire il perché della fama di Capo Horn.
La mappa indica la rotta della regata VENDE’E GLOBE
http://www.vendeeglobe.org/en/
La 17a RACE
Iniziata il 6 novembre 2016
Terminata il 17 gennaio 2017
Per il vincitore: Armel Le Cléac'h è durata 74 giorni 03h 35' 46"
Sebastien Josse alla partenza del Vendée Globe su Gitana
la Francia s'inchina agli eroi della vela estrema.
I PARTECIPANTI ARRIVATI
Sailor |
Yacht |
Time |
Banque Populaire VIII § |
74d 03h 35' 46" (current record) |
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Hugo Boss § |
74d 19h 35' 15" |
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Maître CoQ § |
78d 06h 38' 40" |
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StMichel-Virbac § |
80d 01h 45' 45" |
|
Quéguiner - Leucémie Espoir |
80d 03h 11' 09" |
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Finistère Mer Vent |
80d 04h 41' 54" |
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Bureau Vallée |
87d 19h 45' 49"
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Spirit Of Hungary |
93d 22h 52' 09" |
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Comme un Seul Homme |
99d 04h 56' 20" |
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La Mie Câline |
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100% Natural Energy |
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One Planet One Ocean |
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Newrest - Matmut |
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La Fabrique |
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No Way Back § |
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Great American IV |
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Famille Mary - Etamine Du Lys |
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TechnoFirst - FaceOcean |
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UN PO’ DI STORIA:
La Vendèe-Globe è una regata per barche a vela che consiste in una circumnavigazione completa in solitaria, senza possibilità di attracco o di assistenza esterna (pena l'esclusione). L'iniziativa è stata fondata da Philippe Jeantot nel 1989 , e a partire dal 1992 si è svolta ogni quattro anni. Per le sue evidenti restrizioni, la regata costituisce una dura prova di resistenza individuale, e viene da molti considerata come la più significativa delle competizioni in ambito velico, è soprannominata « L'Everest de la mer » o « L'Everest des mers », in ogni caso è l'unica regata al mondo in solitario, senza scali e senza assistenza che prevede la circumnavigazione completa del globo.
La Regata venne istituita nel 1989 dal velista Philippe Jeantot. Jeantot aveva già preso parte alla BOC CHALLENGE (oggi Velux 5 Oceans Race), nelle edizioni 1982-83 e 1986-87, vincendole entrambe: insoddisfatto della formula "a tappe", decise di allestire una nuova regata non-stop, che nelle sue intenzioni doveva rappresentare la sfida per eccellenza per i navigatori in solitaria.
La prima edizione della gara si tenne a cavallo fra il 1989 e il 1990, e fu vinta da Titouan Lamazou; Jeantot stesso vi prese parte, classificandosi al quarto posto . L'edizione successiva fu quella del 1992-93; da allora si è regolarmente svolta ogni quattro anni.
Le Barche
La gara è aperta a ogni imbarcazione a scafo singolo conforme ai parametri della classe OPEN 60 (prima del 2004, la competizione era estesa anche agli Open 50). Alcune peculiarità dell'imbarcazione sono lasciate alla discrezione del partecipante, ma un pacchetto di regole limita o impone parametri riguardanti lunghezza, pescaggio, stabilità e appendici, oltre a una serie di numerose norme legate alla sicurezza.
LA ROTTA DEI CLIPPERS
La Gara
La gara inizia e finisce a Les Sables-d'Olonne, nel dipartimento francese di Vendèe. Sia Les Sables d'Olonne che il Vendée Conseil Général sono sponsor ufficiali della competizione. Il tragitto è sostanzialmente una circumnavigazione lungo la clippers route: da Les Sables-d'Olonne, giù per l'Oceano Atlantico al Capo di Buona Speranza, dopo di che si procede in senso orario attorno all'Atartide, lasciando a sinistra Cape Leeuwin e Capo Horn, infine di nuovo verso Les Sables d'Olonne. La gara generalmente dura da Novembre a Febbraio: è studiata in modo che i partecipanti possano affrontare i Mari Antartici durante l'estate australe.
Ulteriori punti di navigazione obbligatori possono essere imposti in aggiunta al regolamento per una particolare edizione, al fine di garantire la sicurezza dei partecipanti in merito per esempio alle mutevoli condizioni dei ghiacci. Nell'edizione 2004, ai partecipanti fu chiesto di tenersi a nord dei seguenti punti di riferimento:
· un passaggio situato a sud del Sudafrica , a 44 ° Sud, tra 005 ° e 014 ° Est
· un passaggio a sud ovest dell'Australia, a 47° Sud, tra 103° Est e 113° Est
· un passaggio a sud est dell'Australia, fra 52° Sud, tra 136° Est e 147° Est
· un passaggio nell'Oceano Pacifico, a 55° Sud, tra 160° Ovest e 149° Ovest
· un passaggio nell'Oceano Pacifico, a 55° Sud, tra 126° Ovest e 115° Ovest
Ai concorrenti è concesso star fermi all'ancora, ma non accostarsi a una banchina o un'altra imbarcazione; essi non possono ricevere assistenza esterna, comprese previsioni meteo personalizzate o informazioni sulla rotta. L'unica eccezione è che un concorrente che ha un problema iniziale può tornare alla partenza per le riparazioni, purché sia in grado di riprendere la gara entro 10 giorni dalla data in cui la competizione ha avuto ufficialmente inizio. La gara si caratterizza come una serie di sfide di rilievo, in particolar modo per le impegnative condizioni di vento e onda nei Mari Antartici, la notevole durata di una corsa senza assistenza, e il fatto che la rotta spinga spesso i concorrenti lontano dalla portata di qualsiasi normale risposta in caso di emergenza. Di norma, una significativa percentuale di iscritti è costretta al ritiro, e nell'edizione 1996-97 il velista canadese Gerry Roufs è scomparso in mare. Per contenere i rischi, ai concorrenti è richiesta l'idoneità a corsi di sopravvivenza e pronto soccorso. Devono altresì fornire prove attendibili di una solida esperienza acquisita in materia di navigazione, e queste consistono in due possibilità: o la partecipazione a una precedente competizione transoceanica in solitaria, oppure, naturalmente, aver preso parte a una passata edizione dello stesso Vendée Globe e averla portata a termine per intero. Per regolamento, il passaggio di qualificazione deve essere stato effettuato con la stessa imbarcazione che gareggerà; in alternativa il concorrente dovrà sottoporsi, con la barca che gareggerà, a un ulteriore passaggio transoceanico di osservazione, non inferiore alle 2.500 miglia e da percorrersi a una velocità media di almeno sette nodi (circa 13 km/h). Dal momento che le gare transoceaniche in genere sottostanno a rigidi criteri di idoneità, si ritiene che ogni iscritto al Vendèe abbia accumulato una sufficiente competenza in merito.
I VINCITORI delle varie edizioni:
1989-1990 - Titouan Lamazou – Francia – 109 gg 08 h 48’
1992-1993 - Alain Gautier - Francia – 110 gg 02 h 22’
1996-1997 – Christophe Auguin - Francia - 105 gg 20 h 31’
2000-2001 - Michel Desjoyeaux Francia - 93 gg 3 h 57’
2004-2005 - Vincent Riou - Francia - 87 gg 10 h 48’
2008-2009 - Michel Desjoyeaux – Francia - 84 gg 3 h 9’
2012-2013 - François Gabart - Francia - 78 gg 2 h 16’
Il fascino della vela
Vittorio Malingri è l'unico italiano ad aver fatto e quasi completato il Vendée Globe, giro del mondo in solitario, con una barca progettata e costruita da solo. Vittorio “Ugo” Malingri, skipper, figlio di Franco, navigatore e progettista, e nipote di Doi, apripista della vela oceanica in Italia. Vittorio (19 maggio, 1961), naviga da quando ha cinque anni. A diciassette anni ha fatto il giro del mondo con la famiglia e, come ama ripetere, da allora “non è mai più tornato”. Ha vissuto sempre a bordo delle sue barche a Cuba, Bahamas, Francia, Panama, Grecia. Non ha mai tenuto il conto delle miglia percorse, anche se si dice che siano attorno alle 400mila. Pragmatico e insieme sognatore, anticonformista, ama la natura selvaggia in tutte le sue forme, non solo quella marina, ed è sempre alla ricerca di una nuova sfida o di una nuova impresa da compiere.
Vero e proprio “maestro di mare”, tra un’avventura nautica e una terrestre, Vittorio ha sempre tenuto su tutte le sue barche - Huck Finn, Moana 60’, Elmo’s Fire, Time of Wonder e sull’ultima Huck Finn II - corsi di scuola di vela d’altura “Ocean Experience”, ai quali hanno preso parte negli anni oltre un migliaio di allievi. Ha una grande famiglia allargata di cui va molto fiero e che forma da sola un gran bell’equipaggio. Ma la sua crew preferita è quella composta dai figli: Manuele (26), Nico (24), Nina (12) e Mila (6).
CARLO GATTI
Rapallo, 15 Febbraio 2017
ABERDEEN, LA CAPITALE DEL PETROLIO EU
ABERDEEN
La capitale del Petrolio EU
Mare del Nord
Aberdeen in Scozia a sinistra - Stavanger in Norvegia a destra delimitano la vasta zona d’estrazione del Mare del Nord impossibile immaginare la nostra società di oggi senza gas e petrolio, che servono per gli autoveicoli, per il riscaldamento, per la produzione di energia elettrica e per tante altre cose indispensabili a garantire il livello di comfort che conosciamo. Tutto il settore è in mano a grandi compagnie multinazionali come Shell, BP, Exxon, Elf, Petrochina, Gazprom, Eni ed altri, che spesso lavorano insieme nella ricerca e nello sfruttamento dei campi di petrolio e di gas perché i costi da affrontare sono altissimi. Gas e petrolio si trovano in molti angoli della terra. In Europa la zona del Mare del Nord è la più ricca di petrolio e gas. L’estrazione riguarda principalmente il territorio inglese e quello norvegese, in parte ridotta quello danese, tedesco e olandese.
Veduta aerea di Aberdeen
Strada principale di Aberdeen
Università di Aberdeen
Regno Unito e Norvegia
Nel Regno Unito tutta l’economia del petrolio gira intorno ad Aberdeen e Glasgow. Sono i due principali centri per trovare un lavoro sulle piattaforme o nell’indotto, come cantieri navali, raffinerie, ditte di catering, agenzie che gestiscono il personale subacqueo. Altre località coinvolte sono Newcastle e i porti che guardano verso l’Irlanda. L’industria inglese, compreso l’indotto, impiega attualmente 260.000 unità. Una sezione a parte è dedicata al settore petrolifero e del gas in Norvegia che rappresenta una delle punte di diamante dell’economia nazionale. Impiega quasi 80.000 persone e costituisce un terzo degli introiti del paese; crea inoltre un effetto di ricaduta anche su altri settori economici chiave, che si giovano dell’innovazione e dello sviluppo tecnologico. Decenni di esperienza nel campo hanno permesso alla Norvegia di acquisire un’industria petrolifera ben sviluppata, più sicura, efficiente e attenta all’ambiente. A livello mondiale la Norvegia si attesta al terzo posto come esportatore di gas e petrolio.
Barche da pesca nel porto di Aberdeen, com’era nel 1955
Aberdeen è una città nel Nordest della Scozia sulla costa del Mare del Nord. La sua economia si basava sull’industria della pesca e sul tessile fino agli anni Settanta, quando la scoperta di grandi giacimenti petroliferi sottomarini l’ha trasformata in uno dei principali centri per l’estrazione del greggio.
Oggi ad Aberdeen grandi compagnie internazionali come l’americana Chevron mettono a punto le più innovative tecniche di perforazione sottomarine. Le sperimentazioni per l’estrazione del petrolio a grandi profondità vengono poi utilizzate per estrarre gas naturale e petrolio nel Golfo del Messico, in Angola, in Australia, nella Repubblica del Congo e in molte altre parti del mondo.
Aberdeen è la terza città della Scozia, ha circa cinquecentomila abitanti se si comprendono anche le contee circostanti, ma la sua economia è la seconda più ricca dell’intera Gran Bretagna, superata soltanto da Londra. Il reddito medio dei suoi abitanti si aggira tra le le 32 mila e le 49 mila sterline. Il tasso di disoccupazione della città è la metà della media nazionale. Lo stipendio medio per un lavoratore dell’industria petrolifera è di 64 mila sterline, più del doppio della media britannica.
Torre Piloti del Porto di Aberdeen
Il porto di Aberdeen, oggi
I Supply Vessels sono mezzi di supporto alle piattaforme offshore
Una piattaforma petrolifera nel Mare del Nord
Una piattaforma petrolifera Total nel Mare del Nord
This is an undated handout photo issued by Total E&P UK Ltd of Total's Elgin PUQ (Process/Utilities/Quarters) platform. A two-mile exclusion zone has been set up around the offshore platform in the North Sea which has been evacuated after a gas leak, Tuesday, March 27, 2012. The leak on Total's Elgin PUQ platform, about 150 miles (241km) off the coast of Aberdeen, led to the evacuation of all 238 workers on Sunday. (AP Photo / TOTAL E&P UK Ltd) NO SALES.
L'incendio alla piattaforma Piper Alpha nel Mare del Nord, nel luglio 1988. Morirono 160 persone
In questo disegno vengono rappresentate le piattaforme utilizzate in base alla profondità del fondale
A marzo 2016, il numero complessivo di piattaforme operative in attività di prospezione o di estrazione di petrolio e gas, nel mondo, è 1.551: quasi il 12% in meno di quelle in attività a febbraio (erano 1761) e il 18% in meno rispetto a gennaio 2016 (1891).
MUSEO MARITTIMO ABERDEEN
Aberdeen Maritime Museum is a maritime museum in Aberdeen, Scotland.
The museum is situated on the historic Shiprow in the heart of the city, near the harbour. It makes use of a range of buildings including a former church and Provost Ross' House, one of the oldest domestic buildings in the city.
The museum tells the story of the city's long relationship with the North Sea. Collections cover shipbuilding, fast sailing ships, fishing and port history, and displays on the North Sea oil industry. It also commands a spectacular viewpoint over the busy harbour.
Collection highlights include ship plans and photographs from the major shipbuilders of Aberdeen including Hall, Russell & Company Ltd, Alexander Hall and Sons, Duthie and John Lewis & Co. Ltd and Walter Hood & Co.
Displays include ship and oil rig models, paintings, clipper ship and "North Boats" material, fishing, whalers and commercial trawlers, North Sea oil industry, and the marine environment.
Ricostruzione in scala di una pittaforma offshore
Attrezzature per divers d'alti fondali
Il Bar del Museo con molti reperti originali
Anders Lebano, un rapallino "esportato" ad Aberdeen
Due Supply Vessels in notturno
CARLO GATTI
Consulenza tecnica di Anders Lebano
Rapallo, 13 Febbraio 2017
TORRE PILOTI NEI PORTI DEL MONDO
ALBUM FOTOGRAFICO
TORRE PILOTI NEI PORTI DEL MONDO
Lo scrittore J. Conrad definì il pilota:
- trustworthiness personified -
ovvero l'attendibilità in persona!
PORTI ITALIANI
TORRE PILOTI - VENEZIA (2 foto)
TORRE PILOTI - NAPOLI
TORRE PILOTI - TARANTO
TORRE PILOTI - GIOIA TAURO
TORRE PILOTI - LIVORNO
PORTI FRANCESI
MARSIGLIA Porto Vecchio - TORRE PILOTI
FOS - MARSEILLE
FOS
LE HAVRE
PORTOGALLO - LISBONA
BELGIO - ANVERSA
Port-House
GERMANIA
HAMBURG
Piloti HAMBURG
Piloti KIEL
STRALSUND
HANSEATIC PILOTS
SPAGNA
VALENCIA
LA CORUÑA
OLANDA
ROTTERDAM
SCANDINAVIA
MARSTRAND (SVEZIA)
ISOLA DI ÅLAND
Kobba-Klintar
COPENHAGEN (DANIMARCA)
GDANSK - POLONIA
PORTI INGLESI
SCOZIA
GREENOCK
ABERDEEN
SPITHEAD (U.K.)
HARWICH
Pilot arriving by helicopter at the rendez-vous
CALSHOT- HAMPSHIRE
ROGER STIRK HARBOUR
TOWER CLYDE
LIVERPOOL: Pilot Office-1883/1978
PORTSMOUTH
SPINNAKER TOWER
DOVER
TURCHIA
ISTAMBUL
CANADA
VANCOUVER
STATI UNITI
CAPE HENLOPEN DELAWERE
NEW YORK - STAZIONE PILOTI
HONDURAS
PUERTO CORTES
AUSTRALIA
SYDNEY
SOUTH AFRICA
PORT ELIZABETH
EMIRATI ARABI
KALIFHA
ARABIA SAUDITA
JEDDAH
CARLO GATTI
Rapallo, 2 dicembre 2016
JOHN GATTI E I PILOTI DI PRA'
JOHN GATTI E I PILOTI DI PRA’
Tra le persone da annoverare tra gli “amici di Pra’ “ c’è sicuramente John Gatti, il giovane e brillante Capo dei Piloti del Porto di Genova. Avendo compreso le genuine ragioni dei cittadini di Pra’ e le loro legittime richieste ed aspettative, ha di sua spontanea iniziativa corretto tutte le scritte e diciture che, sui documenti dei Piloti e sul loro sito web, riportavano gli obsoleti riferimenti relativi al bacino portuale realizzato davanti a Pra’. John ha la grande responsabilità di dirigere e coordinare i piloti del più grande porto italiano, uno dei più grandi del mondo, quello di Genova, facendo in modo che le navi entrino, ormeggino ed escano nei tempi previsti ed in sicurezza, con ogni condizione meteo. Il suo ufficio si trova nell’edificio di Ponte Colombo che un tempo era il terminal Tirrenia, poi ristrutturato in modo originale, con i prospetti, porte e finestre che ricordano le sovrastrutture di una nave.
Attorno a lui la sala operativa, “high-tech”, da dove è possibile seguire la situazione dei transiti, delle manovre, e degli accosti, e poi altri uffici, e le “cabine” dove i piloti possono riposare nelle pause, e perfino una piccola, deliziosa, mensa con cucina dedicata, operativa 24 ore su 24. La sede è ad uso temporaneo, dopo il triste evento dell’abbattimento della Torre Piloti da parte della Jolly Nero, e resterò operativa fino alla realizzazione della nuova struttura, posta all’impoccatura del porto, di cui, nell’ufficio di John si può vedere uno schizzo a mano libera dell’ideatore Renzo Piano. Il Corpo dei Piloti, oltre alla sede principale a Genova, ha anche due sedi distaccate a Multedo e a Pra’. Il Corpo Piloti del Porto di Genova è composto da 23 Piloti più il Capo Pilota. Le aree in cui operano comprendono i bacini di Genova (Porto Vecchio, Sampierdarena, Italsider), Multedo e Pra’, per un totale di oltre 25 chilometri di costa. Annualmente ogni Pilota svolge dalle 700 alle 1000 manovre che, con il passare del tempo, diventano un bagaglio di esperienza a disposizione delle generazioni che seguono. Per entrare in questa Corporazione è necessario partecipare a un concorso pubblico bandito dalla locale Capitaneria di Porto a cui si accede per titoli ed esami. Occorre infatti aver effettuato diversi anni di navigazione su navi al di sopra di un certo tonnellaggio per arrivare a sostenere gli esami di diritto, manovra, inglese e comunicazione previsti dal concorso. Il vincitore accede a un tirocinio della durata di un anno, al termine del quale deve superare un ulteriore esame pratico, che consiste nello svolgimento di una manovra, e uno teorico sulla conoscenza del porto e delle sue caratteristiche. Il pilotaggio è un servizio di interesse generale che contribuisce in maniera rilevante alla sicurezza e alla piena funzionalità del porto, ma è anche un lavoro che permette di assaporare paesaggi incantevoli da punti di vista esclusivi e la bellezza del tratto di costa su cui è seduta Pra’, con il verde dei boschi che scende fino all’acqua, è uno spettacolo che aggiunge una perla alla collana di meraviglie offerte dalla Liguria vista dal mare. John ci ha reso una sua personale ed appassionata testimonianza: «Nascere e crescere nella delegazione di Pra’, abbracciata tra gli Appennini e il mare, vuol dire conoscere la Tramontana: un vento freddo che pulisce il cielo e rende l’aria asciutta e frizzante, ma significa anche aver visto tante volte lo Scirocco e il Libeccio frustare di sale l’intero paese. Non sono solo gli elementi a spingersi ai massimi livelli: in pochi chilometri di costa troviamo gru che appartengono alla generazione delle più grandi al mondo e davanti a loro evoluiscono i così detti “giganti del mare” per ormeggiare nel Bacino Portuale di Pra’, uno dei terminal più moderni d’Italia che riesce a superare periodicamente i suoi stessi record».
John GATTI – Guido BARBAZZA
Rapallo, 22 Novembre 2016
DONAZIONE "REGATTA" AI PILOTI DI GENOVA
DONAZIONE DELL’OPERA REGATTA AI PILOTI DEL PORTO DI GENOVA
Giovedì 13 ottobre 2016
Giovedì 13 ottobre 2016 una delegazione di Mare Nostrum ha fatto visita alla Stazione Piloti del Porto di Genova.
Era in programma la donazione di un bassorilievo in ardesia chiamato REGATTA, voluta dal suo proprietario, il socio Renzo Bagnasco, presente alla cerimonia, che ha desiderato unirsi a Mare Nostrum per questo gesto che é stato MOLTO APPREZZATO dal Capo Pilota e dalla comunità dei Piloti di Genova. Il socio Regista-Comandante Ernani Andreatta ha raccolto molto materiale: interviste, riprese cinematografiche, fotografie e tante altre curiosità marinare che vedremo in occasione dell’Evento programmato in cui il Capo Pilota John Gatti affronterà il tema: LE PROBLEMATICHE DELLA PORTUALITA’ ALLE PRESE CON IL GIGANTISMO NAVALE. L’attività del Pilotaggio Marittimo sarà inoltre ampiamente documentato con la Mostra fotografica PILOTAGE che si terrà al Castello Antico di Rapallo dal 22 ottobre al 6 novembre 2016.
La nostra visita ha coinciso con la manovra d’attracco di una gigantesca nave portacontenitori cinese di 368 metri di lunghezza, sotto la direzione del Capo Pilota John Gatti, proprio nella banchina del SEK davanti alla Stazione Piloti.
Il forte vento di tramontana (22-23 nodi) ha reso la manovra alquanto complicata. Ma tutto si è concluso nel migliore dei modi. Non mi dilungherò nella descrizione della accoglienza riservataci, né sull’efficienza e funzionalità della Stazione Piloti per non anticipare la documentazione cui facevo riferimento perché sarà in seguito riportata sul sito di Mare Nostrum Rapallo. Rimane tuttavia da sottolineare il significato dell'EVENTO, che rappresenta un’importante pietra miliare nella trentennale storia della ASSOCIAZIONE MARE NOSTRUM RAPALLO.
Segue uno scritto del socio Renzo Bagnasco che ci fornisce la motivazione della sua personale volontà di DONARE “REGATTA” ai Piloti genovesi:
REGATTA
Questa opera, creata dallo scultore Stelvio Pestelli genovese, la stiamo oggi donando ai Piloti del Porto di Genova perché resti con loro sempre e, con essa anche noi che l’abbiamo donata. Respireremo il loro sudore e l’acre odore della lana bagnata ogni qual volta ritorneranno da una loro “missione”. Quale miglior compagnia può volere di più uno che ama il mare? Ci siamo uniti nella donazione con Mare Nostrum-Rapallo perché ci accomuna la passione per il mare. Alla mia tarda età ho già preparato la sacca da marinaio che mi ha sempre seguito in mare quando lo navigavo con la mia amata Nada, io comandante e lei….mozzo. In quella sacca ci ho messo dentro tutto quello che ho fatto e nulla di superfluo perché, dove andrò, mi si dice non si possa bluffare; il buon Dio mi ha concesso il tempo di raccogliere e riordinare quello che ho fatto e non quello che avrei voluto fare. Quando mi chiamerà sarò pronto ad “IMBARCARMI” per l’ultima volta e non a “partire”: ecco perché non ho le valige. Anche per arrivare là, navigherò con nel cuore la stessa forte speranza che aveva chi doppiava Capo Horn: confidare nella misericordia di Dio. La scultura immortala, anzi ci fa rivivere, uno dei momenti più adrenalinici di chi va per mare: la partenza di una “regata” alla genovese, che sembra confusa e caotica, mentre invece è calcolata al millimetro: se sgarri sei fuori. In questa scultura si respira questa tesa atmosfera e quando un’opera ti fa vivere l’emozione di quello che l’artista voleva significare, vuol dire che sei davanti ad un’opera d’arte. Sia il poeta che lo scultore come il pittore, quando, attraverso le loro opere ti coinvolgono, vuol dire che hanno raggiunto lo scopo.
E pure noi, ascoltando e vivendo proviamo le stesse sensazioni ma loro le sanno esprimere: se non fossero così sensibili sarebbero come noi.
Buona compagnia quindi cara scultura: ti abbiamo affidato in buone mani; gente che tutti i giorni respira salmastro e questo basta. Ho scelto di restare con voi cari amici, perché fra noi di Mare Nostrum, anche senza parlarci, come quando sui velieri il vento cancellava le parole o nella rumorosa sala macchina ci si doveva parlare, basta guardarci.
Grazie!
Renzo Bagnasco
A queste toccanti parole di Renzo Bagnasco aggiungo il pensiero che ho espresso al Capo Pilota John Gatti:
Il socio Renzo Bagnasco ha voluto coinvolgere L’Associazione MARE NOSTRUM che rappresento, nella DONAZIONE del bassorilievo REGATTA ai Piloti del Porto di Genova. Nessuno più di loro, in questo grande porto talvolta martoriato, è più degno di possederla.
I piloti dei porti sanno che il mare scuro come l’ardesia è presagio di burrasche vicine, ma non hanno ragioni sufficienti per rimanere a ridosso della diga.
Lo scultore genovese Stelvio PESTELLI, purissima espressione del “mare di Liguria”, ha usato la nostra pietra, il nostro vento e le nostre barche per calarsi nel profondo della spiritualità e dell’essenza del marinaio ligure: duro, spigoloso, ma coraggioso e pronto fino al sacrificio estremo. Lo dice la sua STORIA, quella lontana e quella dei giorni nostri.
Grazie!
Il Presidente
Carlo GATTI
ALBUM FOTOGRAFICO
A sinistra Carlo Gatti a destra John Carlo Gatti
John Gatti e Ernani Andreatta
Renzo Bagnasco
Piloti in Sala Operativa
La portacontenitori YANG MING ha ormeggiato al SEK
Pilota che sale sulla "biscaglina"
Carlo GATTI
Rapallo, 19 Ottobre 2016
M/N BOCCADASSE, nacque dall'unione di due Liberty Ships
La M/N BOCCADASSE
Nacque dall'unione di due relitti di Liberty Ships
In una nostra precedente pubblicazione, definimmo i Liberty USA:
“Le navi che vinsero la guerra e poi la pace”
“L’operazione Liberty” prese il via il 27 Settembre 1941 con l’entrata in linea dell’ormai celebre “PATRICK HENRY”, e si concluse con la consegna dell’ultimo esemplare, il “RODA SEAM” del tipo “collier” (carboniero) il 13 Ottobre 1945 da parte del Cantiere “Delta” di New Orleans-Louisiana. Tra queste due date ne scesero in mare ben 2710.
Queste carrette dei mari furono costruite per compiere una traversata oceanica durante la Seconda guerra mondiale, tra gli agguati dei sottomarini dell’Asse, che agivano negli Oceani adottando la ben nota tattica “a branco di lupi”. In seguito a queste azioni belliche, affondarono circa 200 Liberty.
Subito dopo la fine del conflitto “i brutti anatroccoli”, come li definì F. D. Roosvelt, ripresero a navigare e i più longevi lo fecero dignitosamente per circa trent’anni, partecipando alla ricostruzione della flotta mercantile di quasi tutti i paesi belligeranti.
Nel 1945 si concluse una tragica guerra che fu combattuta in cielo, in terra ed in mare, lasciando ovunque distruzione, miseria e rovina.
Soltanto poche cifre sono sufficienti per mettere a fuoco un quadro spaventoso:
- nel 1939 la flotta mercantile italiana contava 3.3 milioni di tonnellate di stazza lorda per un totale di oltre 1200 navi.
- nel 1945 le navi superstiti erano ridotte ad un numero molto esiguo che non raggiungeva in totale le 200.000 tsl. Inoltre le strutture ed infrastrutture portuali erano distrutte ed inagibili, i fondali da sgomberare da centinaia di relitti e da bonificare per la presenza di migliaia di proiettili e bombe inesplose.
A questo punto cruciale della storia martoriata del nostro paese, era necessario reagire con fermezza alla pericolosa situazione di stallo, ed era oltremodo impellente chiamare a raccolta tutte le forze vive e disponibili sul territorio, per passare ad un rapido piano di ricostruzione.
In quel periodo in cui c’era solo da rimboccarsi le maniche, anche il cervello degli uomini più attivi esplodeva d’idee: non c’era nulla da buttare, ma tanto da recuperare, specialmente dai relitti che nel Mediterraneo erano presenti a migliaia, a tutte le profondità.
Da questa idea nacque la storia che ora andiamo a raccontarvi.
Siamo alla fine del 1946. La Liberty “Natahaniel Bacon” è in piena burrasca. Per chi non conosce le “Spiagge Romane”, ventose e senza ridossi, è portato a sottovalutare le difficoltà che le navi incontrano da sempre in questa zona di mare. In questo caso si tratta di una nave carica di scatolame, con scarsa potenza di macchina e quindi con poche possibilità di allontanarsi verso zone più calme. Le onde le imprimono forti movimenti di rollio e beccheggio, sollevano schiuma e limitano la visibilità. La zona non è stata ancora bonificata dalle mine più o meno vaganti ed il comandante è cosciente o forse incosciente di scarrocciare proprio verso una zona “rossa” pericolosamente infestata da questi terribili ordigni. Non ha scampo! Poco dopo si ode una deflagrazione immane: della Liberty galleggia solo la poppa che si allontana alla deriva.
La seconda storia prende inizio nell’aprile del 1948. Complice è sempre la burrasca.
la Liberty “Bert Willians”, va ad incagliarsi al largo del faro di Al Shrat nel Mar Rosso. Viene deciso il rimorchio a Genova, ma dopo un lungo, pericoloso e travagliato viaggio, quando finalmente si trova in Mediterraneo, s’incaglia nuovamente nelle vicinanze di Marsa Matruk (Egitto). Il mare finisce per un terzo l’opera di demolizione, a galla rimane solo la prua, rimorchiata in un primo momento verso il porto di Taranto e poi definitivamente verso il Porto di Genova.
Si sa: “quando il gioco si fa duro, in duri entrano in gioco”.
E furono senza dubbio dei duri gli uomini che pensarono di realizzare, con quei due tronconi galleggianti, un TERZO LIBERTY. La nave che risultò allungata di 10 metri, fu chiamata BOCCADASSE, da una famosa frazione balneare affacciata come un balcone sul mare di Genova.
Giunti a questo punto, ho scelto il servizio più completo che ho trovato su questa operazione. Si tratta di un breve estratto dell’ articolo:
La tecnica che Genova ha dimenticato /La STORIA
di Alberto Quarati – 08 Marzo 2016.
Tratto dalla Rivista SHIPYARD & OFFSHORE
“Le vecchie dinastie vennero affiancate da nuove società di navigazione, alcune destinate a dominare il mercato, altre semplici meteore. Della Industriale Marittima - che ordinò la “Boccadasse”, prima e penultima nave costruita con la prua e la poppa di altre due - rimane solo una citazione presso l’archivio storico della Banca commerciale italiana.
Il creatore della “Boccadasse”, nel 1950, fu Angelo Cassanello, direttore delle Officine meccaniche navali Campanella, allora nel pieno dell’attività. Pietro Campanella, figlio del fondatore Tito, è stato presidente degli industriali genovesi nel primo dopoguerra, e lo stesso Cassanello sarebbe stato tra i fondatori dell’associazione dei riparatori navali. Gli stabilimenti di Savona e Genova (uno per costruire le navi, l’altro per ripararle) erano ancora lontani dalla crisi degli anni Ottanta, dai passaggi di proprietà, dalle divisioni. Il lavoro delle maestranze genovesi dirette da Cassanello produsse quella che gli americani battezzarono “super-Liberty”, una nave di 136 metri in luogo dei 127 standard, e circa 7000 tonnellate di portata lorda.
La novità stava anche nel modo con cui l’operazione venne condotta, cioè tramite elettrosaldatura, e la società che ha fornito questa tecnologia - la svedese Esab - è l’unica realtà ancora esistente tra i protagonisti di questa storia. Per diverso tempo la “Boccadasse” ha navigato per i mari di tutto il mondo, fino al suo smantellamento del 1962, alla Spezia”.
Concludiamo con alcune osservazioni:
Da quell’operazione siderurgica di grande impatto ingegneristico, sono passati 66 anni densi di grandi evoluzioni nel settore navale. Tuttavia, lo straordinario esperimento della BOCCADASSE, è degno di essere ricordato perché fu il primo, nell’era moderna, di una lunga serie di “allungamenti” eseguiti su navi passeggeri, petroliere e container per renderle più “economicamente competitive”.
All’epoca della BOCCADASSE, l’obiettivo era quello di creare navi che fossero in grado di far circolare merci, unica vera “linfa vitale” per la ripresa dell’economia del mondo, oggigiorno gli allungamenti, frutto di quella antica esperienza genovese, sono sempre di moda, ma l’obiettivo appare rovesciato nel suo significato: occorre favorire la massima circolazione di merce con poche navi.
Questo fenomeno si chiama: GIGANTISMO NAVALE ed impensierisce il mondo moderno per le sue cruciali controindicazioni.
Sul sito di Mare Nostrum Rapallo abbiamo affrontato questo problema con molti servizi mirati che trovate in NAVI E MARINAI - Sezione Mondo Marittimo.
Carlo GATTI
Rapallo, 27 Settembre 2016
CAPO HORN - L'inferno dei Marinai
VERSO CAPO HORN
Foto Nejrotti
L’inferno dei marinai
Sabato 13 Agosto 2016 – ore 21.00 Piazza Gagliardo – Chiavari
Il Museo Marinaro Tommasino-Andreatta con il patrocinio del Comune di Chiavari
Presentano
Com.te Ernani Andreatta - Fondatore del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari
Com.te Carlo Gatti - Presidente Associazione Culturale Mare Nostrum Rapallo
Nel 1616 due intrepidi olandesi videro ed affrontarono per primi il famigerato CAPO HORN. Dunque proprio 400 anni fa, il mercante-navigatore Jacob Le Maire (figlio di Isaac, uno dei fondatori della Compagnia Olandese delle Indie Occidentali e finanziatore della spedizione) e il capitano di lungo corso Willem Cornelius Schouten. Salparono da Texel, nei Paesi Bassi, in cerca della Terra Australis, ma soprattutto di una nuova rotta per il Pacifico, con due navi, la Hoorn, il nome della città di Schouten, che andrà distrutta, e la Eendracht, con la quale doppiarono il fatidico “Scoglio” il 29 gennaio 1616:
La storia di Kaap Hoorn parte da qui, anche se per alcuni scritti il primato dell’avvistamento spetterebbe a Francis Drake, che avrebbe sottaciuto la scoperta. Capo Horn (55°58’28” Sud 67°16’20” Ovest) è uno sperone di roccia che segna la fine della Terra del fuoco, e con essa del continente americano. Si alza al cielo a 424 metri dal suolo dell’isla Hornos, la più occidentale del gruppo delle Hermite. È un pezzo di Cile e cileno è il presidio militare che si prende cura dei due fari che lo segnalano.
L'albatross. Scultura simbolo di Capo Horn
MALLYHAWK — “E' a Saint Malo, dove aveva sede l’Amicale, venne chiuso il libro delle firme”, conclude Flavio Serafini. Nel 2003, la cerimonia finale, sempre a Saint Malo, con lo scioglimento dell’Amicale. Resta il monumento di Imperia, i cimeli dei Cap Hornier nel suo Museo Navale e un altro monumento proprio a Capo Horn. Venne eretto nel 1992 in ricordo di quanti affrontarono e spesso persero la vita in quel mare che, nell’800 o a giorni nostri, a bordo di un brigantino o di una supertecnologica barca a vela come quella di Stamm e Le Cam, con o senza diavoleria elettroniche, che si arrivi da Est o da Ovest, impone, senza sconti e possibili scorciatoie, di essere un grande marinaio degno di diventare un cap hornier”.
Segue l’intervista del Comandante Ernani Andreatta, Fondatore del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari, al Comandante Carlo Gatti, Presidente dell’Associazione Culturale Mare Nostrum di Rapallo.
E. Andreatta - PERCHE’ GLI HANNO DATO QUEL NOME?
C. Gatti – Nel 1616 – Lo avvistarono e lo rimontarono gli OLANDESI Shouten e Lemaire che lo chiamarono così in onore della città di Horn i cui mercanti avevano finanziato la spedizione.
Fino al 1400 – ebbero il predominio marinaro l’ITALIA (con le Repubbliche Marinare) e il Portogallo. Dopo essere arrivati in Brasile, esplorarono minuziosamente il Rio de la Plata che però era solo un fiume... dopo di ché la flotta ripartí verso SUD alla ricerca di una vera via d’acqua che collegasse i due OCEANI. Il 1° Novembre 1520, la Spedizione capitanata da Ferdinando Magellano entrò finalmente nello Stretto che fu subito battezzato: Stretto di Ognissanti e che solo in seguito fu rinominato: “Stretto di Magellano”. Le terre al Nord dello Stretto furono chiamate “Terre dei Patagoni” (Patagonia) e quelle al sud “Terra dei Fumi” (Tierra del Fuego). Ci vollero cinque settimane di navigazione difficile tra montagne, secche, fondali variabili, strettoie e venti ghiacciati, ma alla fine le tre navi superstiti si trovarono davanti un nuovo oceano che parve loro calmo, accogliente, invitante a tal punto da chiamarlo “Mare Pacifico”.
Nel 1500 – La SPAGNA ebbe il predominio sui mari / Nel 1600 – L’ OLANDA / Nel 1700 – la FRANCIA / Nel 1800 - l’INGHILTERRA
Ma dopo il 1616, per due secoli quella via di comunicazione rimase deserta. Soltanto qualche nave filibustiera di corsari o esploratori inglesi come Drake, Howe e più tardi Cook ebbero il coraggio di affrontarlo. Nel 1790 l’italiano Alessandro Malaspina, Capitano di Vascello nella Marina Spagnola (con le corvette Descubierta e Atrevida), rimontò Capo Horn da Ovest ad Est in rotta per Cadice.
E. Andreatta - QUANDO CAPO HORN DIVENNE IMPORTANTE E PER QUALI MOTIVI?
C. Gatti - Dopo il 1815 le cose cambiarono. Capo Horn cominciò ad essere frequentato dai velieri sardi in rotta per Valparaiso e Lima.
1) - L’esercito francese (Campagne Napoleoniche) occupò la SPAGNA che si ritrovò isolata dal suo impero d’oltremare. Le guerre in Europa fornirono ai creoli americani la possibilità di conquistare l'indipendenza dalla madre patria, e le rivoluzioni cosiddette Atlantiche iniziarono a scoppiare in tutta l'America Spagnola. Toccò anche a Garibaldi passare Capo Horn.....
2) - 1840 – La SCOPERTA DELL’ORO IN CALIFORNIA richiamò masse di pionieri che imbarcarono su centinaia di velieri diretti per l’unica via conosciuta: CAPO HORN. Una rotta che, con la corsa all’oro della California del 1848 diventò leggenda. Si calcola che solo nel 1849 dai porti dell’Atlantico ben 777 navi salparono per Capo Horn dirette a San Francisco. Navi che si aggiungevano a quelle che già battevano quella rotta.
CORSA ALL’ORO — “Gli equipaggi si imbarcavano con contratti di due o tre anni. Si sapeva quando si partiva, ma non quando si tornava. Se si tornava. Mesi e mesi in mare e a volte, semplicemente, si scompariva. E poi Horn. Le difficoltà di manovrare vele e cime ridotte a blocchi di ghiaccio manovrate da gente sottoalimentata, con abbigliamenti che non possiamo neppure immaginare, impegnati per settimane e settimane a tirare bordi controvento per guadagnare qualche miglio, scapolare il Capo e andare a nord”. Occorreva essere uomini di ferro prima che grandi marinai. Un’epopea quella di Horn che ha avuto un prezzo molto alto; si parla di oltre 800 navi e di 10.000 persone perse in quel mare. E un’epopea che finisce, oltre che per il Canale di Panama, anche con la prima guerra mondiale. “Il grosso dei grandi velieri italiani finì sott’acqua per i siluri tedeschi, ma erano bastimenti vecchi che avevano fatto Capo Horn al comando di capitani per la maggior parte liguri. Come quello, era di Recco (30 km da Genova), dell’ultima nave italiana che passò Horn nel 1914. C’erano anche comandanti che venivano da Procida, da Sorrento e Trapani, ma per lo più erano liguri, come i maggiori armatori dei velieri di allora”. Anche se l’ultima nave a vela a doppiare Horn è stata, nel 1949, la nave-scuola tedesca Pamir, l’epopea del Capo era da tempo finita. Tanto da spingere, nel 1937, un gruppo di capitani cap hornier francesi a fondare, a Saint Malo, l’Amicale Internationale des Capitaines au Long Cours Cap Horniers, per riunire e ricordare quella pagina, già allora lontana, della storia della navigazione. “L’associazione arrivò a contare cap hornier di 14 nazioni e nel 1983 la sezione italiana, di cui ero allora segretario, contava ancora una ventina di membri”, ricorda Serafini. “Fu in quella occasione che venne inaugurato il monumento ai cap hornier a Imperia”. Poi, naturalmente, come “la schiuma sul mare dopo la tempesta”, prendendo le parole della relazione del congresso del 1996 dell’Amicale tenuto a Brest, in Francia, il numero dei cap hornier scomparirono uno dopo l’altro. Quell’anno di comandanti cap hornier ne restava uno solo, un finlandese di 98 anni e se n’era rimasto a casa. Gli altri, età media 85 anni, erano mallyhawk. Ma se ne sono andati tutti.
3) - Una forte corrente commerciale navale da Capo Horn iniziò quando dal litorale peruviano iniziò il commercio del GUANO diretto in Europa.
Capo Horn divenne così l’incrocio obbligato delle rotte commerciali più importanti e quindi la via CLASSICA della marineria velica.
4) - Ma L’avvento del motore, la Prima Guerra mondiale, e soprattutto l’apertura del CANALE DI PANAMA (1914), fecero morire la vela mercantile e le acque di Capo Horn rimasero quasi deserte. Ma una cosa é certa: che per tutto l’800 e 900, Capo Horn fu il banco di prova per tutti i velieri del mondo e dei loro equipaggi.
E. Andreatta - Quando ebbe Origine l’emigrazione italiana in Cile ed in Peru’ ?
C.Gatti - Non c’é famiglia nella nostra Riviera di Levante che non abbia o non abbia avuto parenti in Cile e in Perù. Di una cosa siamo certi: I PRIMI ITALIANI CHE EMIGRARONO DA QUELLE PARTI furono marinai che per un motivo o per l’altro (paura di ripassare Capo Horn, malattie, incidenti di navigazione ecc....) disertarono, non rientrarono più a bordo, in pratica si stabilirono nelle principali città del Sud Pacifico e diedero vita ad attività di pesca e vendita del pescato, altri si diedero all’agricoltura, altri ancora diventarono commercianti aprendo negozi o magazzini (ALMACIEN). I più fortunati e intraprendenti iniziarono con piccole laboratori artigianali che divennero via via fabbrichette sempre più importanti le quali fecero nel corso degli anni da calamita per tanti loro parenti amici che poi lasciarono la Liguria in cerca di fortuna.
E.Andreatta - La ferrovia Transandina evitò a tanti emigranti di affrontare CAPO HORN e quindi si può dire che li salvò dai tanti naufragi.
La ferrovia Transandina attraversa la cordigliera delle Ande e collega le due sponde oceaniche; la parte centrale, aperta nel 1910, collega Buenos Aires-Mendoza-Valparaíso: è lunga 1420 km e raggiunge i 3150 mt. s.l.m.
La Transandina, Ferrovia del Nord, entrata in servizio nel 1962, unisce la città argentina di Salta, collegata a Buenos Aires, con il porto cileno di Antofagasta.
Questa opera fu di grande importanza per gli emigranti provenienti dall’Italia e dalla Europa che non erano più obbligati a doppiare Capo Horn rischiando la vita.... Arrivavano nei porti Argentini con i velieri, le navi passeggeri e da carico, sbarcavano e saltavano sul treno della Transandina e, in poco tempo, raggiungevano le loro destinazioni. Tuttavia, un rischio incombeva, su di loro: l’altitudine eccessiva che colpiva i cardiopatici. Non poche furono le vittime di questa situazione.
E.Andreatta - PERCHE’ CAPO HORN ERA COSI’ TEMUTO DAI NAVIGANTI?
C.Gatti - L'espressione Quaranta ruggenti (in inglese : Roaring Forties) è stata coniata dagli Inglesi all'epoca dei grandi velieri che passavano per Capo Horn. Poiché la forza del vento aumenta procedendo verso sud, oltre il 50° parallelo gli stessi inglesi parlavano di Furious Fifties (che in italiano viene tradotto conn Cinquanta urlanti).
Con Quaranta ruggenti e Cinquanta urlanti vengono convenzionalmente indicate nel mondo marinaro due fasce di latitudini australi caratterizzate da forti venti provenienti dal settore OVEST (predominanti), le quali si collocano rispettivamente tra il 40º e il 50º parallelo e tra il 50º e il 60º parallelo dell'emisfero meridionale. Tali venti hanno la stessa origine dei venti da Ovest dell'emisfero settentrionale), ma la loro intensità è superiore di circa il 40 per cento: ciò è dovuto alla serie di intense depressioni che interessano queste zone, dovute all'incontro tra l'aria fredda dell'Antartide e l'aria calda proveniente dal centro degli oceani, inoltre questi venti sono amplificati dalla relativa scarsità di terre emerse nell'emisfero sud, cosicché soffiando sempre sul mare non incontrano mai la terraferma che li potrebbe frenare.
La denominazione deriva dal nome dei paralleli alla cui latitudine soffiano questi venti: Quaranta o Cinquanta e dal rumore che il vento produce sibilando attraverso gli alberi, il sartiame e la velatura delle imbarcazioni a vela, che somiglia a un ruggito sui 40° e ad un grido sui 50°
E.Andreatta - CAPO HORN UN CIMITERO DI NAVI?
1983-Imperia - L’opera dedicata ai Cap Horniers è dell’artista genovese Stelvio PESTELLI.
C.Gatti - Il monumento al navigante di Capo Horn nel Borgo Marina / Imperia-Porto Maurizio, fu realizzato dallo scultore Stelvio Pestelli e inaugurato il 24 maggio 1983, in occasione del XXXIX Congresso Mondiale dei Cap Horniers, alla presenza del Presidente Pertini e dell’allora Sindaco Scaiola. Esso é dedicato ai naviganti di Capo Horn, agli 800 velieri affondati, ai 10000 marinai che giacciono sul fondo del mare più tremendo del globo.
La Statua rappresenta il classico Lupo di mare dal volto rugoso e barbuto, con cerata, "sudovest" e stivaloni, con le mani sulle caviglie della ruota del timone, teso nello sforzo di governare il suo veliero.
Eretta alla radice del molo di Porto Maurizio, alta m. 2,30, in bronzo, poggia su un piedistallo di m. 2 sul quale c’è la dedica dell’A.I.C.H. (Amicale des Capitaines au Long Cours Cap Horniers) di Saint Malo, sezione italiana. La facilità di navigazione di oggi rende ancora più leggendario il navigare di allora quando, chi doppiava Capo Horn per la prima volta, aveva il diritto di mettere l’orecchino all’orecchio che era dalla parte del Capo in quel momento e di "pisciare" controvento.
Sulla targa l'albatro, simbolo dell'Amicale e l'iscrizione: A ricordo / dei naviganti della / vela oceanica di / Capo Horn.
E.Andreatta – Poco a Nord di Capo Horn c’é una città: USHUAIA che é molto cara agli Italiani. Puoi raccontarci il perché?
C. Gatti - Una Storia dimenticata - Italiani alla Fine del Mondo - Ushuaia (Patagonia del Sud-Argentina)
Nell'immediato dopoguerra una nave, un'impresa italiana e tanta mano d'opera specializzata in cerca di lavoro e fortuna partono per la Terra del Fuoco, regione inospitale, difficile e senza strutture. Ushuaia si trova 140 km a NW di Capo Horn - Cile.
Ushuaia è la città più australe del mondo e si trova sulla costa meridionale della Terra del Fuoco, in un paesaggio circondato da montagne che dominano il Canale Beagle (Ushi = al fondo, Waia=baia). Baia al fondo, alla fine. È così che gli indigeni Yamanas, da oltre seimila anni, chiamano il loro mondo: la "fine del mondo".
Nell’immediato dopoguerra, la decisione del governo argentino di costruire la capitale Ushuaia nella Terra del Fuoco fu presa per riaffermare la sovranità del paese sull'isola Grande, all'epoca oggetto di aspre dispute con il confinante Cile. Siamo nel 1947 e le imprese italiane ricevono l’incarico di costruire opere pubbliche. L’unica struttura presente sull’isola è un vecchio penitenziario ormai fatiscente. Occorre partire da zero: case, strade, ospedale, scuola, centrale idroelettrica. Ad organizzare la spedizione è Carlo Borsari, imprenditore edile bolognese e proprietario di una fabbrica di mobili che convince il governo argentino di saper operare con le sue maestranze anche in climi molto rigidi. Nella primavera del 1948 il presidente Peròn firma il decreto che attribuisce all'imprenditore italiano la commessa di lavoro. Il 26 settembre 1948 salpa dal porto di Genova la prima nave che, guarda caso, si chiama “GENOVA”, con a bordo, 506 uomini e 113 donne, per un totale di 619 lavoratori.
La M/n GENOVA della Co.Ge.Da. è in partenza da Ponte dei Mille per la Terra del Fuoco. Questa rara fotografia è una preziosa testimonianza di quella grande spedizione.
Durante il lungo viaggio della nave, le autorità argentine vietano di scalare i soliti porti intermedi per evitare defezioni. La paga dei lavoratori è di circa 3,5 pesos, superiore rispetto ad altri luoghi in Argentina e permette di mandare soldi alle famiglie in Italia.
Il 28 ottobre 1948, dopo 32 giorni di oceano, la M/n Genova giunge ad Ushuaia con un carico umano colmo di speranze e con le stive stracolme di materiale. Ad accoglierla c’è il ministro della Marina argentina dell'epoca. La stagione è la più favorevole per iniziare i lavori. Per i primi mesi una parte degli operai è sistemata nei locali dell'ex penitenziario, il rimanente alloggia a bordo di una nave militare del governo.
La mano d'opera è soprattutto emiliana, ma non mancano piccole comunità di veneti, friulani e croati. Nelle ampie stive della nave c’è tutto l’occorrente per la costruzione ed il montaggio di un paese moderno. Del carico fanno parte 7.000 tonnellate di materiale per allestire una fornace e la centrale idroelettrica, vi sono mezzi di trasporto leggeri e pesanti, gru, scavatrici, case prefabbricate, generatori, l’attrezzatura per la costruzione di una fabbrica di legno compensato e persino le stoviglie per la mensa dei dipendenti. L’inventario della merce trasportata comprende tutto il necessario alla comunità per essere autosufficiente ed il suo valore attuale corrisponde a venti milioni di euro che il governo argentino, ha pagato all'impresa Borsari che li aveva anticipati.
Agli emigranti provenienti dal nord Italia, le montagne alle spalle di Ushuaia ricordano le Alpi, e per tutti loro la nuova terra significa un futuro migliore per se stessi e per i propri figli. I primi due anni pattuiti con Borsari sono veramente duri per il freddo, la neve, l’oscurità e con le difficoltà di costruire opere murarie e idrauliche. Onorato il contratto, in molti decidono di stabilirsi definitivamente in questa città che hanno creato dal nulla e che sentono ormai propria. Grazie al lavoro di un nucleo di avventurieri italiani, si assiste ad un fenomeno di migrazione di massa unico al mondo. Ushuaia cresce, si popola e si trasforma in una città viva, speciale per varietà di razze e culture.
Restano i ricordi. Lo sforzo per l’ambientamento climatico fu sostenuto dagli emigranti grazie anche al promesso ricongiungimento con le famiglie, che fu rispettato e si concretizzò con l’arrivo di una seconda nave italiana, la M/n "Giovanna C." che giunse a Ushuaia il 6 settembre 1949 con mogli e figli. Quel giorno la comunità italiana raggiunse le 1300 unità.
Gino Borsani aveva promesso due anni di lavoro ben pagato, terre e case ai suoi uomini. “Alcuni di noi non sapevano neppure dove erano diretti” - dice Elena Medeot 78 anni, nata a Zara – “In Italia c'era il mito dell' Argentina, ma quando siamo arrivati qui, dopo un mese di navigazione, abbiamo scoperto la verità. Per scaldarsi, in un posto dove in piena estate la temperatura raramente supera i 10 gradi, si doveva risalire la montagna per fare un po’ di legna. Le promesse del bolognese svanirono in pochi mesi, così come il sogno di tutti, mettere da parte un po' di soldi e tornare a casa.
“Però si mangiava carne tutti i giorni e questo già sembrava un miracolo”. Ricorda Dante Buiatti nato a Torreano di Martignacco. “Nel 1923 Avevo un lavoro in Friuli, ma era più importante dimenticare la guerra e a casa non ce la facevo”.
Dante fu uno dei pochi pionieri, arrivati ad Ushuaia con la ditta Borsari, che scelse di restare in quella terra al confine del mondo. La maggioranza, infatti, rincorse orizzonti più caldi, spostandosi in altre province “più ospitali” dell’Argentina. Buiatti s’impegnò nell’attività commerciale del paese, che oggi continua con sua figlia Laura; mentre Leonardo, il figlio minore, gestisce un albergo. Sempre col cuore rivolto alla sua cittadina natale, Dante Buiatti fu uno dei principali animatori dell’associazionismo friulano e italiano nella Terra del Fuoco. Fino al giorno della sua morte è stato il principale punto di riferimento per gli studiosi dei processi migratori, per la collettività italiana, per i giovani della comunità friulana di Argentina ed Uruguay e, fondamentalmente per i suoi cinque nipoti.
GATTI Carlo
Rapallo, 31 Agosto 2016
PERCHE' IL CANALE DI CALMA DI PRA' (Genova) E' inquinato
Perché il Canale di calma di Prà (Genova) è inquinato
Ogni volta che esco dall’autostrada a Prà e vedo il porto colà realizzato, penso a come poteva, anzi doveva essere, se non ci fossero state le …. fogne. Pare strano ma pure quelle riescono, in Italia, a deviare opere faraoniche perché ci si è dimenticati di regolamentarle per tempo.
Quindi non solo la burocrazia ci intralcia ma pure loro, o meglio, i funzionari inetti che avrebbero dovuto vigilare che si eseguissero i progetti iniziali invece di …infognarsi negli eterni compromessi..
Quando si iniziò a parlare di creare a Pra un nuovo porto, specializzato nella rumorosa movimentazione dei container, si prese subito in esame come garantire, con il tombamento, il problema dello scarico a mare del rio Branega che colà sfocia così come tanti altri piccoli rivi che, come tutti quelli della scoscesa terra ligure, quando piove diventano importanti, repentini e dirompenti torrenti. Poi si tentò di censire pure gli sbocchi, bianchi e neri, che dalla battigia si potessero individuare anche perché, molte delle costruzioni nel sito e sulle alture sono antiche e non esiste documentazione circa i loro scarichi fognari e molti scaricavano, da sempre, nei rivi esistenti. Molte fogne delle cascine in altura, con il tempo e gli smottamenti si erano creati nuovi incanalamenti, per raggiungere i rivi, filtrando sotto il terreno e quindi, invisibili, ma esistenti. Un problema.
Esaminato bene il luogo, si diede incarico di redigere una prima bozza a progettisti di chiara fama, funzionari come si usava un tempo, esempio di rettitudine, emeriti e seri professori universitari ed esperti di costruzioni marittime che si potevano contare sulle dita di una mano; esaminato l’esistente arrivarono alla conclusione che fosse indispensabile e prioritario individuarli e canalizzarli tutti così da portarli a scaricare al di lì della banchina esterna del costruendo porto, canalizzandoli mano a mano che si procedeva a tombare. In altre parole due o tre grandi canali in cemento avrebbero permesso di scaricare le acque intercettate e non, direttamente in mare aperto. Alla fine e in sicurezza, si sarebbe creato il nuovo porto che, “prolungando” sul mare la terra ferma, avrebbe avuto una superficie pari al doppio e forse più di quanto in realtà non abbia adesso. All’inizio nessun “canale di calma” era previsto come invece poi si ci è inventato per mascherare colossali errori e scoordinamenti. Sarebbe stato tutto un grande piazzale che dalla ferrovia e dall’Aurelia raggiungeva la attuale banchina esterna di scarico, con sotto i canali di sfogo. Per rimediare si raccontò pure la panzana che con questa soluzione si sarebbero creati due lati di attracco: uno esterno e una interno, utilizzando appunto quel canale. Questo secondo approdo non fu mai praticato per il basso pescaggio e per la difficoltà a far girare le navi, una volta costeggiato a levante il molo esistente, così da poterle infilarle in quello che eufemisticamente oggi viene chiamato ‘canale di calma’. Poi si compensò i penalizzati abitanti di Prà esaltando l’idea del canale “fognario”, perché di questo si tratta, utilizzandolo come base per sport acquei. Genova avrebbe avuto il suo canale per il canottaggio. Peccato che a causa delle reti nere che vi scaricano e dell’impetuoso vento che soffia da Voltri, si dovette anche per manlevarsi da possibili colpe, affiggere qua e la cartelli che ne vietavano la balneazione. Si raccolsero solo le fogne “visibili” in un unico depuratore Pra-Voltri. Dovendo rimediare per calmare gli animi e non perdere i tradizionali voti molto ambiti in zona, realizzarono sulla vecchia battigia, piscine balneabili per sopperire a quanto, per trascuratezza, resero inagibile e, del canottaggio “olimpico” non se ne parlò più. Ogni tanto vi si svolgono regate di canottaggio a sedile fisso, che altro non sono che i vecchi gozzi “filanti”, sport ormai in disuso e di nessun richiamo; ma attenti a non bagnarsi se si vuol restare sani.
Dopo tanto parlare, come capita in Italia, quando arrivarono i soldi si pose subito mano, anche sotto la potente, interessata e urgente influenza delle poche ditte in grado di eseguire simili imponenti opere, ad eseguire i lavori a mare; per non <disturbare i manovratori>, nessuno tirò fuori i progetti che prevedevano i canali sotto al costruendo molo e solo dopo ci si accorse che non si erano risolti i problemi idraulici del territorio ma, in compenso, si era costruito anche un ulteriore molo interno per contenere il nuovo approdo che si poteva risparmiare se si fosse realizzato il progetto iniziale. Pazienza, l’importante era “godersi” i finanziamenti. Per continuare a procedere indisturbati fu allora che si ideò il ‘canale di calma’ cioè quella lingua di mare fra la vecchia battigia e il molo a nord del nuovo piazzale, cosi che gli scarichi non individuati continuassero, come nel passato, a inquinare il mare. Con quel sistema, a chi avesse obiettato che gli scarichi fognari occulti e i torrenti erano ancora non regimentati, si rispondeva: tutto come prima, liberi di sfociare a mare senza alcun impedimento. Si ometteva di dire che a rendere ancora più inquinate quelle acque “ chiuse”, era il fatto che il canale non sfoga a ponente perché lì c’è la lingua di terra che collega il manufatto per le movimentazioni con la terra ferma e sul quale passa pure la ferrovia per servire il sito: un <cul de sac>, insomma. Quel canale divenne, piano piano e di fatto un porticciolo turistico rabberciato e mal servito ma atto a coprire una mancanza nautica in un sito che lo richiedeva: insomma un ennesimo fai da te che in certe zone non è neppure raggiungibile dai mezzi dei pompieri. Ma all’epoca le Giunte che reggevano le fila, nel mentre non battevano ciglio nel vedere lo scempio che si stata perpetuando, continuavano a ritenere la nautica un lusso per ricchi, anziché capire che avrebbe portato lavoro; quando le ideologie ottenebrano il buon senso.
Morale, siccome le correnti marine scorrono da levante a ponente, quando giungono a Pegli si aprono: un ramo passa esterna al nuovo porto e va verso la Costa Azzurra (è là che trovano le salme di chi annega dalle nostre parti) mentre quella più a terra si infilala nel detto canale a fondo chiuso, non permettendo il ricambio delle acque; la conseguente fuoruscita dei liquami che dovrebbero, per uscire, vincere la corrente stessa che li spinge a Ponente, e poi sfociare su Pegli, resta bloccata in sito. Le frequenti forti ventolate di tramontana, tipiche del luogo, non risolvono il problema, influendo solo a spazzare quanto galleggia sull’acqua e avrebbero reso impossibile un impianto olimpico per il canottaggio..
Insomma un ennesimo pasticciaccio all’italiana che ci fadire: xe peso el tacon del buso.
Renzo BAGNASCO
LA STORIA
Dal 1998 VTE (Voltri Terminal Europa) fa parte del Gruppo PSA, uno dei leader mondiali nel campo della gestione di terminal portuali per contenitori.
L’area portuale di Voltri-Pra trae le sue origini da un progetto dell’allora “Consorzio Autonomo del Porto di Genova”, ora “Autorità Portuale di Genova”, ed è stata sviluppata progressivamente a partire dagli anni settanta/ottanta.
Nel 1992 FIAT Impresit, credendo nelle reali prospettive di sviluppo dell’area genovese, decise di costituire una società di servizi portuali –SINPORT– acquisendo dall’Autorità Portuale la concessione a completare e gestire il terminal contenitori di Voltri.
A partire dal 1992, il terminal si è rapidamente sviluppato raggiungendo in pochi anni la sua attuale configurazione. In parallelo con lo sviluppo delle infrastrutture, sono cresciute le attività e le risorse impiegate da VTE. Il primo traghetto merci fece scalo a Voltri nel 1992, la prima nave Car Carrier nel 1993 e finalmente il 5 maggio 1994 fu la volta della prima nave porta contenitori.
Il processo evolutivo è supportato dalla crescita del numero di addetti diretti sino agli attuali 700 circa, in maggioranza giovani, che hanno acquisito in pochi anni alta professionalità e competenza in virtù di un’intensa attività formativa. Essi costituiscono un elemento importante della competitività del terminal.
Il costante miglioramento delle risorse di VTE è stato largamente apprezzato dal mercato che ha contribuito ad una crescita dei volumi di traffico fino al raggiungimento di circa 1.010.000 TEUs nel 2008 e 1.242.000 TEUs nel 2012 (anno record anche per il Porto di Genova, che superò i 2.000.000 di TEUs anche grazie all'apporto di VTE).
ALBUM FOTOGRAFICO
A cura di Carlo GATTI
Rapallo, 25 luglio 2016