PILOTI E BARCACCIANTI

AUTORI

Com.te Carlo GATTI – Dir. Macchina Silvano MASINI

LE BARCACCE NEL CUORE è dedicato alla Società Rimorchiatori Riuniti Genova che ha accolto, sostenuto e realizzato questa proposta.

- Ma soprattutto il libro è dedicato agli equipaggi dei rimorchiatori di ogni epoca, alla memoria di chi ha già strappato "l'ultimo cavo da rimorchio"...

- Agli eredi di questa tradizione che più nessuno chiama con il pittoresco nome dibarcassanti”, ma che hanno oggi, la responsabilità e l’onore di tramandarla nel tempo.

LE BARCACCE NEL CUORE

L'amico Silvan è già risalito, nel corso di questo libro, all'etimologia della parola barcacciante e questo ruolo è già emerso qua e là nella vicenda dei rimorchiatori genovesi. A questo punto del nostro viaggio all'interno del porto, approfondiremo il rapporto intercorso tra il Comandante del rimorchiatore e la figura di un altro antico marinaio che spesso è confuso con altri protagonisti di questo affascinate scenario della nostra città: il Pilota portuale.

Chi è quindi il Pilota portuale?


La vecchia Torre Piloti

Le biscagline





Questo interrogativo non solo incuriosisce le migliaia di turisti dell'entroterra quando si affacciano dalle murate dei traghetti per filmare l'arrampicata dell'omino che viene da terra, ma turba da sempre anche molti abitanti della costa che confondono spesso e volentieri il pilota della nave con il comandante del rimorchiatore, con il timoniere, oppure con l'ufficiale di guardia sul ponte di comando, ma a volte anche con l'ormeggiatore portuale. Il personaggio in questione, per la verità, è rimasto chiuso nella sua antica leggenda di “esperto marinaio”, dalla quale non è mai completamente uscito per integrarsi con la gente di terra, tra la quale opera quotidianamente. Le categorie marinare appena accennate e che sono confuse con il pilota del porto, appartengono, di fatto, a rami della nautica ben distinti e gelosi, ognuno della propria identità e tradizione di corpo. Questi servizi sono necessari alla nave che ormeggia o disormeggia da una banchina ed il pilota ne rappresenta il coordinatore e direttore della manovra.

 

PILOTI E BARCACCIANTI

I rapporti tra le persone, in qualsiasi ambito, si modificano nel tempo in funzione di tante cause che lasciamo ad altri il compito d'indagare… In questa sede, a noi interessa soltanto ricordare “quell'angolo del porto” che è stato per trentacinque anni la nostra seconda casa, mio e di Silvan, anzi il cortile dove siamo cresciuti e che oggi, rivisitandolo a distanza di anni, lo ricordiamo popolato d'autentici personaggi che tanto ci hanno dato, sia sul piano umano che professionale. Con tutta sincerità, non sentiamo rimpianti tipo “Via Gluck”, anche perché certe sindromi da “cemento selvaggio” appartengono alla sfera dei “terrestri, i quali si dividono normalmente su tutto…con il risultato che al di là della cinta portuale c'è il caos più o meno riconosciuto da tutti, mentre al di qua, dove entra il mare, ci sono le navi che arrivano, partono e sono le uniche cellule economiche che si muovono sugli oceani, funzionano sempre e non conoscono conflittualità.


Tutto ciò non vi sembra strano? Eppure, oggi, come ieri e sicuramente come 20 secoli fa, le navi continuano a trasportare ricchezza viaggiando sicure anche quando i loro equipaggi, in terra, sono in guerra tra loro.

Ecco! Noi pensiamo che gli “specialisti della politica, della sociologia e d'altro…” dovrebbero indagare su questa cellula inesplorata: il funzionamento della nave e forse scoprirebbero che il mare, come un dio supremo e severo, costringe i suoi “sudditi” al rispetto di poche regole rendendole refrattarie alle ideologie umane, ai partiti politici e persino alle mode passeggere, perchè si basano sui valori dell'autodisciplina e della solidarietà.


Un tempo si diceva: “in mare non ci sono taverne” e s'intendeva che in mare non ci sono rifugi, neppure per i più ricchi e potenti della terra e con i primi colpi di mare in faccia s'imparava ad usare il buon senso, la modestia ed anche la paura. Già! Paura! I veri marinai hanno paura del mare e la maggior parte lo rispetta e lo teme come un dio pagano che usa vendicarsi lanciando fulmini e tempeste; per altri ancora si tratta di un Dio che non va affrontato neppure con le preghiere, ma va aggirato promettendo “voti” alla Vergine.


In terra, l'uomo del terzo millennio, con le sue sicurezze scientifiche, è convinto d'essersi finalmente emancipato dal “Supremo”. In mare le “sicurezze” si chiamano “aiuti alla navigazione” e suscitano diffidenze! In mare c'è qualcosa di mistico e d'irreale che blocca il marinaio nel tempo e lo unisce ai suoi simili più lontani, creando una sola razza che forse, come dice una vecchia leggenda, … “al momento del trapasso li trasforma in gabbiani.”

Ritornando tra le calate, a noi pare che i marinai portuali non siano diversi dai marinai d'altomare perché vivono nello stesso ambiente di “gabbiani” e si distinguono soltanto alla sera, quando ritornano a casa e il mondo piomba nell'oscurità della notte.


Poco più tardi, quando tutti dormono ancora, i piloti e i barcaccianti riprendono le strade dei moli e vanno incontro alle prime navi in arrivo.

Terminata la manovra, rientrano in torretta quando le prime luci dell'alba rivelano il “rush” del traffico cittadino, ma loro sono marinai e non conoscono le code, lo smog, gli isterismi del traffico e non incontrano gli amici terrestri neppure quando vanno in franchigia, perché anche i loro turni appartengono a due emisferi opposti, proprio come il nadir e lo zenit. Mentre sulle strade si litiga e si muore per una “precedenza”, sul ponte di comando di una nave, Master e Pilot uniscono le loro forze a quella dei barcaccianti per portare la nave in banchina, in sicurezza, nel minor tempo possibile ed in grande armonia. Rispetto e disciplina sono quindi le due “ancore di salvezza” alle quali ci aggrappiamo ogni volta che vogliamo rivivere, con gli occhi chiusi, come in un sogno, una qualsiasi delle migliaia di manovre vissute sotto la Lanterna.


 

1939. Una rara fotografia dei Piloti del Porto di Genova a bordo della pilotina Teti-1939, a rare image of the Genoa Pilots

Si raccontava a bassaprora, che nel periodo epico, già illustrato da Silvan, il divario culturale tra i padroni marittimi al comando dei rimorchiatori portuali ed i piloti del porto era veramente notevole. I primi ne venivano dai fumi di una gavetta portuale dura, tra i campi minati della ricostruzione, dai tratti primitivi come gli arrembaggi alle navi e i ganci sicuri soltanto per chi giungeva “primo” sotto le prue, parecchie miglia al largo di Genova e a noi, ancora oggi ci vien fatto di chiederci: “Quanti Marlon Brando s'aggiravano tra le calate nel Fronte del Porto genovese?” C'era la gelosia del mestiere, la difesa estrema della propria professione, la concorrenza e la ripresa della scalata sociale.

I piloti del porto di Genova, a giudicare da quanto si sentiva nello shipping internazionle, lavoravano con molta professionalità ed “il loro miglior maestro” - si diceva allora – “era il vento, che riuscivano a farselo amico, con molta abilità.”

Questo giudizio molto lusinghiero, per la verità, era esteso anche ai comandanti-Rr, che erano nati e cresciuti nel porto della tramontana e prima d'essere utili alla nave, imparavano a governare il proprio mezzo con tutti i venti e con grande maestria. Il mestiere era un oggetto misterioso che andava “rubato” di sottecchi, spiando per lunghi anni le tecniche e le tattiche di chi la sapeva lunga…. e lo faceva giustamente pesare! Nulla di male! L'Arte marinara della manovra, come tutte le grandi tradizioni manuali del mare, si tramandava anche allora oralmente, con un impercettibile e sussurrante passaparola!

Sicuramente, a quei tempi, il tirocinio era molto lungo per i barcaccianti che erano immersi nella vera culla della tradizione, dove non c'erano professori a promuovere…, ma l'unico giudice era l'eventuale pericolo che incombeva sull'equipaggio del rimorchiatore a causa dell'immaturità del nuovo comandante. Per i piloti del porto, lo scenario era meno complesso, tuttavia i candidati erano sottoposti ad una rigida selezione che precedeva il concorso statale, che era in ogni caso molto difficile da superare, sia per le numerose prove d'esame, sia per la fitta schiera di candidati provenienti da tutta Italia.

A dire il vero, il barcacciante non aveva complessi d'inferiorità e nonostante sapesse che soltanto i suoi marinai lo chiamavano con deferenza “Comandante”, ostentava autorità e imponeva disciplina. Per esempio: non tutti potevano salire sul ponte di comando e proprio nessuno durante la manovra. Egli conosceva esattamente la tecnica per raddoppiare la potenza del suo mezzo, perchè la nave doveva essere fermata e piegata ad ogni costo e se non bastavano l'elica e il timone, interveniva di slancio lo scafo con il suo folle peso e quando riusciva a strappare un cavo della nave, non ne era poi tanto dispiaciuto… Il barcacciante difendeva il suo piccolo mondo con la strenua filosofia di “ogni scarrafone è bbello a' mamma suia.

Guai a toccargli l'equipaggio! Guai a criticargli la barca! In fondo in fondo, una piccola parte d'eredità del vecchio detto del tempo velico: “dopo Dio ci sono io”, toccò anche a lui…e ancora oggi non sappiamo quanto la barca appartenesse agli armatori…perché il barcacciante la gestiva come un proprio “feudo” famigliare! Forse l'intendeva come una insostituibile compagna provvista d'anima e di propria personalità che possedeva una propria vita.


barcaccianti erano perfettamente consapevoli di saper ormeggiare in porto qualsiasi nave, anche senza pilota; l'avevano già fatto più volte in quelle non rare occasioni che capitano nei grandi porti, ma il loro metodo era da barcacciante, da uomo senza volto, da operaio capace, ma anonimo, lontano dalla sfera psicologica che coinvolge il comandante di una nave ed il pilota portuale. La sua abilità era tuttavia confermata ogni volta che il pilota taceva e gli affidava per lunghi periodi la nave in manovra.

Il pilota conosceva le lingue, era un diplomatico ed anche un uomo di cultura che portava sul ponte di comando i commenti e le novità internazionali del giorno e godeva di un prestigio personale presso gli armatori, le agenzie di navigazione, le autorità del porto e della città. Il pilota era una sorte d'ambasciatore che riceveva la nave straniera in anteprima e stabiliva con il suo equipaggio, i primi rapporti d'amicizia, talvolta anche di contrasti. I due mestieri erano simili nella sostanza ma diversi nello stile.


REX-CONTE DI SAVOIA-ROMA-GIULIO CESARE

In questa foto d'epoca degli anni ‘30 si possono notare gli esigui spazi vuoti nel porto. Ogni metro è sfruttato per l'ormeggio di navi molto spesso di punta/1930: the just suffiecient spaces of the Genoa harbor.

 

Anni '30 - Il “Rex” in arrivo a Genova sta per essere preso in consegna dal pilota e dai rimorchiatori/The Rex, arriving at Genoa: the pilot is on stand-by.


Negli anni '30, quando le navi si chiamavano “Rex” “Conte di Savoia” ed erano lunghe 250 metri, i barcaccianti operavano con gli stessi risultati dei loro successori degli anni ’60-'70, che ormeggiavano la Andrea Doria” e “Cristoforo Colombo” (nella foto) e, in seguito:


la “Michelangelo”, la “Raffaello”, l’Eugenio C. Di una cosa siamo certi: se si andasse a comparare i tempi di manovra di queste grandi unità nell'arco di 50 anni, saremmo sorpresi della loro similitudine, perché il grande regolatore della manovra è “l'ammiraglio vento” che sa aiutare i marinai più “esperti” che sanno come sfruttare a proprio vantaggio il suo enorme potenziale di cavalli, secondo la scuola che essi stessi si sono tramandati.


Foto n.3 - La M/n “Raffaello” ha compiuto una completa rotazione davanti a Ponte dei Mille e procede all'attracco di Ponte Andrea Doria con l'assistenza di quattro rimorchiatori/The Raffaello at Genoa, assisted by four tugs.

La meravigliosa linea (shape) dell’EUGENIO C. in un quadro del pittore di marina Marco LOCCI



Il Porto Vecchio con il consueto panorama di liners

Di questo notevolissimo fatto n'era consapevole soprattutto il pilota che molto spesso, rientrando in torretta con il rimorchiatore ringraziava il suo comandante con una stecca di Marllboro, dono della nave, per aver lavorato bene e qualche volta per avergli salvato la prua o la poppa...

C'era una volta … quando il pilota aveva il potere di rovinare, con una semplice telefonata di biasimo, un qualsiasi dipendente-RR. Era un'epoca in cui i piloti erano considerati “i signori del porto” e godevano di un meritato prestigio e grande peso politico, perché sapevano vendere bene il loro mestiere, che era fisicamente rischioso e di grande fascino ed alcuni di loro furono anche stimati armatori. Orbene, non ci risulta che tale potere sia mai stato usato dai piloti contro chicchessia. Al contrario sappiamo che i più “chiacchierati” tra i piloti, sono stati i più generosi nel sistemare… figli in tutto l'ambiente portuale.

E' successo, quasi sempre, che i principianti dei due “servizi” ne abbiamo combinate di tutti i colori… durante le loro prime performances, ma in questi comprensibili casi è sempre valsa la legge del buonsenso e della compensazione. Abbiamo vissuto tre periodi lavorativi ben distinti, durante i quali i rapporti tra i piloti e i barcaccianti sono mutati a causa della tecnica, delle misure delle navi e persino da un considerevole livellamento culturale.


Nel primo periodo, quando non esisteva il VHF, il pilota emetteva gli ordini di manovra con il fischietto e indicava con la rotazione più o meno veloce del braccio, la forza del tiro. Era il periodo romantico della manovra: il pilota era in divisa e portava un cappello regolamentare. Il comandante del rimorchiatore indossava la cappotta nera ed in testa aveva il sud-ovest. Girava la ruota sul ponte più alto che era aperto ai fumi ed alle intemperie e si scaldava con la fiaschetta del rhum appoggiandosi alla ciminiera. Il pilota manovrava navi lente, con timoni piccoli e pochi avviamenti di macchina a disposizione. Affrontava la tramontana portandosi a randeggiare le testate dei moli sfruttando al massimo gli spazi a sopravvento. 

Il comandante del Rr, ancora più audacemente, andava a sfiorare letteralmente il cemento delle calate per portare la nave a tiro di heaving-line rischiando di rimanere imbottigliato tra le scie delle smacchinate e i cavi delle altre navi. Spesso s'infilava in posti così angusti e pericolosi dove rischiava danni e quindi sospensioni dal servizio. Il pilota apprezzava sempre il suo coraggio e non mancava di tributargli la propria stima in tutte le sedi. 

L'impossibilità del dialogo tra pilota e barcacciante in manovra, aveva sviluppato il senso del “capirsi al volo” e quando il pilota ordinava di tirare in una direzione, il più delle volte il rimorchiatore era già in lavoro. La conoscenza dell'ambiente nella sua totalità, umana e tecnica, giocava in ogni caso un ruolo decisivo. Mentre ogni pilota aveva il suo stile personale d'ormeggiare la nave e lo imponeva con fermezza, il barcacciante doveva imparare trenta stili diversi per accontentare quel pilota. L'intero capitolo non l'imparava in poco tempo, perché le manovre del porto erano circa duecento e variavano il disegno dinamico con la direzione del vento. Non era certamente un problema per i veri barcaccianti, molti dei quali si erano imbarcati sui rimorchiatori quando avevano ancora le braghe corte ed avevano imparato i trucchi del mestiere dal padre o dallo zio.

Nel secondo periodo


I piloti, nell'immaginario collettivo, appartenevano a stili e comportamenti diversi: Vi erano quelli dalla visione ampiamente “marinara”, in cui il signorile e naturale rispetto era esteso alla nave, al lavoro pericoloso dei barcaccianti e degli ormeggiatori; questi erano sicuramente i piloti più amati e stimati nell'ambiente e sono stati nel tempo, la parte più consistente del Corpo dei Piloti.


La velocità della nave può costituire un momento molto delicato per il rimorchiatore che si trova ad entrare per qualche istante sotto l'arco della prora/The tugboat is in a critic position.


Il cavo della nave sta per essere messo al gancio del M/r “Canada”. In questa fase, la scia della nave tende ad allontanare il rimorchiatore/The ship rope is almost made fast.


Il cavo della nave sta per essere messo al gancio del M/r “Canada”. In questa fase, la scia della nave tende ad allontanare il rimorchiatore/The ship rope is almost made fast.

Per altri invece il tempo stringeva sempre… e la pilotina ed in seguito il taxi appariva sottobordo quando la manovra era ancora in corso … questi piloti non facevano mai perdere il treno “buono” e liberavano presto le barche…ma con loro, dover prendere il cavo di poppa nella scia di un'elica sempre in moto, oppure rimanere nell'attesa del cavo a pochi centimetri dal tagliamare, a otto miglia di velocità, costituiva un azzardo inutile e si pensava quanto fossero distanti le conoscenze delle difficoltà degli altri servizi…
Per altri, infine, la manovra passava da fasi “compassate” ad altre simili alla “rassegnazione”…. Sotto la loro direzione non si rischiava nulla, il convoglio procedeva al ritmo di un “lumassun”, si perdevano i treni e si marcava un'ora di straordinario…. del tutto inutile agli effetti del sonno perduto! Per la verità, questa esigua categoria di piloti tranquilli, ebbe uno scatto d'orgoglio quando, a causa di numerosi e lunghi scioperi degli altri servizi, si adeguarono alla situazione con la stessa audacia di tutti gli altri piloti, ormeggiando navi di qualsiasi tipo, dimensione e con qualsiasi tempo. Si trattava, quindi, soltanto di un fatto caratteriale!


1955 - Sala Operativa della Torre Piloti. Da sinistra: i piloti Caso, Santagata, Longo, Raimondi, Ragazzi, Zoccola, Cavallari, Protti/Operation room of the Genoa Pilots


La smacchinata è partita. Il rimorchiatore si è defilato/The engine started, the tugboat is cleared. Una smacchinata di dieci/ventimila cv, quasi sempre involontaria e senza preavviso, poteva causare il rovesciamento del gozzo degli ormeggiatori, impegnato vicino all'elica, oppure rompere il cavo e far girare il rimorchiatore su se stesso, senza controllo, proprio come una trottola.

Sul tema degli scioperi in porto ritorneremo tra breve, per ricordare che i rapporti tra piloti e barcaccianti attraversarono anche momenti d'angoscia che furono, in ogni caso, superati e ristabiliti nel nome della loro grande professionalità. Consentiteci ora una breve digressione sulla scala dei valori dei nostri eroi: noi pensiamo che ogni manovratore poggia i piedi sui legni di una biscaglina, dove ogni tarozzo è un ipotetico valore stabilito dal buon senso marinaro. Tuttavia, quando si parla del porto di Genova, è necessario riferirsi ad una scala “accademica” molto elevata che, in un primo tempo ha forgiato e selezionato tanti marinai nella dura palestra della tramontana e in seguito ha premiato i suoi migliori “figli del vento” ponendoli ai vertici delle manovre navali del porto. Questi piloti e barcaccianti hanno avuto spesso caratteri diversi, ritmi opposti, ma sono stati tutti eccellenti manovratori.

In quest'ambiente dinamico, in continuo fermento di crescita, “vivere il porto” significava respirare con tutti pori della pelle quelle sfumature sul lavoro che ogni giorno nascevano con nuove linee e che arricchivano di esperienze e conoscenze il bagaglio di ognuno di loro. Il più adesciu tra i barcassanti era quello che per primo raggiungeva l'imboccatura ed occupava il posto “migliore” della manovra. La posizione occupata contava in funzione della “bozza”, del “fuori fascia”, “dell'attesa finale a spingere la nave ormeggiata e ritiro-pilota”, “dell'orario del treno” e quindi tutto variava in funzione del traffico, del vento e delle esigenze personali nelle varie fasi della giornata.


“Felice! se puoi, mandami in su Ragone, Scintilla, Garilli e Vittorio.. ho un lavoro impegnativo senza macchina e c'è vento..”
“Manna! vado all'Italsider per l'arrivo di una turbinaccia, mandami Marietto, Miglio, Pasqualin, Ragonetto, Florindo..”
“Enrico! Vado al Silos, avvertimi appena un “rotore” è libero.


A sinistra il pilota Schiaffino. Al centro Salomone e Maggiolo, anch'essi di recente scomparsi/Other passed out Genoa pilots


Giovanni Santagata ed Ernesto Santagata, due generazioni di piloti che hanno fatto storia/Two generations of pilots.


Il compianto Oddera a sinistra, con Gatti e Bonomi/Other pilots

Con questo tono famigliare, i piloti si raccomandavano alla torretta-RR di Molo Giano, ben sapendo che quei nomi, cognomi o soprannomi erano il paradigma, l'acronimo dell'unità speciale che in quel momento serviva. Con l'uso del VHF, si assisteva ad una strana convivenza tra due stili di lavoro differenti. Gli anziani, tra i piloti e i barcaccianti, continuavano a manovrare in silenzio, mentre i loro giovani colleghi si adeguavano rapidamente agli standard internazionali usando terminologie moderne ed appropriate via radio. In quegli anni, ci furono molti pensionamenti ed altrettanti nuovi innesti sui due fronti e ci fu una novità: il nuovo comandante-Rr non “capiva più al volo”, ma aspettava l'ordine via radio. Non tutti ovviamente avevano perso improvvisamente l'idea del mestiere, ma il dado era tratto.

“ C'è la radio!” – si sentiva dire tra i bordi –
Aspetto l'ordine, perchè se mi prendo un'iniziativa che non va bene, il pilota mi riprende e io faccio la figura del belinone davanti a tutto il porto. Io aspetto sempre l'ordine di tirare!”

Per la cronaca, riscontriamo che questa duplice convivenza di filosofie è tuttora in corso, perché la stessa tendenza è diffusa anche tra i piloti. A nostro parere non esiste una verità assoluta, tuttavia, dovrebbe esistere per ogni manovra, il buon “senso marinaresco” che sempre illumina le posizioni dinamiche via via da occupare con un leggero anticipo, onde poter applicare alla nave l'effetto voluto con una certa rapidità.

Ritorniamo a sfogliare l'album dei ricordi e confessiamo di non avere mai considerato, in quegli anni, il rimorchio ed il pilotaggio, attività molto distanti tra loro e quando si rimorchiava una nave in altura, il più delle volte si pilotava il convoglio sui fiumi e spesso si ormeggiava e disormeggiava in piccole anse dove neppure esisteva il servizio di pilotaggio.

Nel 1970 a New York, in occasione del rimorchio oceanico di due Liberty da Newark alla Spagna, i capitani dei due rimorchiatori della Mc Allisters', che tenevano affiancate le due navi, usavano alternarsi al nostro fianco sul M/r Vortice per pilotare il convoglio dalla Reserve Fleet, sino alla foce dell'Hudson.

Ci trascinammo d'allora la convinzione che le due attività fossero talmente simili e complementari da essere anche intercambiabili, quantomeno lo erano già da lungo tempo nel “nuovo mondo”. Questa idea americana superava, sulla base di una conclamata praticità, antichi stereotipi di scuola anglosassone, importate anche in Italia nell'800.
La famosa “nota” dei lavori emessa di sera dall'Ufficio Accosti del porto, era studiata a memoria dai barcaccianti per prevenire le possibili mosse…del destino, ma durante la giornata intervenivano le aggiunte e le cancellazioni di navi e l'analisi dei lavori in corso… riprendeva daccapo.

Dopo qualche anno d'esperienza, anche il più giovane marinaio in coperta era in grado d'indovinare esattamente il nome del pilota che si stava avvicinando al faro di Punta Vagno; le spie principali erano la rotta e la velocità. Da quel riconoscimento visivo, sul rimorchiatore ci si poteva prefigurare ed organizzare la manovra: dove si sarebbe preso il cavo, a quale andatura, dove la nave avrebbe girato, quante smacchinate avrebbe dato ecc… Lo stile del pilota Cavallari era unico. Pur essendo un appassionato velista, credeva soltanto nella propria potenza di macchina. Tirava per la tangente, accostava in velocità ed attaccava i rimorchiatori a volte nell'ultima fase della manovra.

Ricordiamo, in proposito, una giornata di foschia densa al Porto Petroli di Multedo, agli inizi degli anni '70. Il Porto era chiuso per ovvie ragioni di sicurezza. I rimorchiatori erano tutti legati in banchina. Improvvisamente si udì una serie di fischi. Era la petroliera Praga di 30.000 tonnellate che stava entrando senza i soliti quattro rimorchiatori attaccati ed aveva iniziato a girare in solitario per andare in banchina… Cavallari non fece scuola, tuttavia, in seguito, abbiamo avuto modo di capire che altri piloti preferivano manovrare “ liberi da qualsiasi legame ”, finchè era possibile…
La radio VHF, in effetti, aveva portato sicurezza, rapidità d'esecuzione, informazioni in tempo reale e chiarezza d'intenti, sia in manovra che in tante altre circostanze di lavoro, non solo tra piloti e rimorchiatori, ma anche tra le Autorità, gli Uffici tecnici ed i bordi in servizio, sia nella quotidianità, ma soprattutto nelle emergenze che non mancavano mai.

Tuttavia, mentre da un lato le comunicazioni portavano cultura marinara e maggiore conoscenza reciproca, si assisteva ad un lieve deterioramento dei rapporti umani, a causa più che altro della confusione tra il vecchio e il nuovo sistema di lavoro. L'anziano barcacciante non era abituato a sentirsi riprendere via radio da un giovane pilota ed il giovane comandante Rr aspettava l'ordine dell'anziano pilota che non era abituato a dare. I nomi dei barcaccianti, in definitiva, non rappresentavano più l'estensione della barca di un tempo, non solo, ma l'uscita di scena di tanti “senatori” delle due sponde aveva sballato il vecchio ordine, creando dubbi, incertezze e rivelando inoltre i limiti di una “timida” programmazione dei quadri.
In questo scenario, caratterizzato da un forte movimento sussultorio, si affermava il gigantismo navale dei containers e delle superpetroliere, innescato da quei sette anni di chiusura del Canale di Suez tra gli anni '60 e '70.

Ormai era impensabile riuscire a vedere il braccio del pilota vorticare alla distanza di 300/400 metri, e la radio ebbe la sua giusta celebrazione, anche perché il pilota non riusciva a vedere neppure i rimorchiatori attaccati di prua e di poppa, e doveva mandare un secondo pilota a prua in funzione di telemetro per le distanze dalla piattaforma di Multedo.

Era finita per sempre l'epoca romantica


Cinque generazioni di Capi Piloti, da sinistra: O.Lanzola, A.Baffo, G.Longo, A.Cavallini, A.Maccario/Five generations of pilots 

In questo periodo si riscontarono forti crisi istituzionali, scioperi, cali di traffico e poi finalmente l'assestamento, ed infine la ripresa del nostro porto; questi furono i fatti che caratterizzarono buona parte degli anni '80. I piloti si difesero da queste calamità, diminuendo l'organico da 34 a 22 unità, ma i dipendenti del Corpo Piloti da stipendiare: impiegati, pilotini, tecnici, e gli addetti ad altri servizi, rimasero in ogni caso una quindicina. Questo assillante motivo prettamente economico e legato al “rischio impresa”, poggiava tuttavia sull'antica tradizione del Corpo che era contrario a qualsiasi forma di sciopero e di sindacalismo politicizzato.

Con questi presupposti, i piloti perseverarono sulla loro strada solitaria e non aderirono, neppure per solidarietà agli scioperi degli altri servizi in corso in quegli anni. In quella situazione d'estremo disagio e contrapposizione molto sofferta su entrambi i fronti, i piloti s'assestarono in prima linea, soli sulle navi ed in banchina, durante i ripetuti scioperi del personale dei rimorchiatori. Per la verità furono anche sabotati dagli ormeggiatori, che non erano in sciopero, ma evitavano d'usare i gozzi d'ormeggio per solidarietà con il personale dei rimorchiatori. Non tutti in porto, ovviamente, capirono le necessità di sopravvivenza e rischio-fallimento dei piloti e purtroppo si aprì una ferita che impiegò molti anni a guarire e rimase come una cicatrice-ricordo nella storia portuale.

Abbiamo preso spunto da questi avvenimenti storici per ricordare che, in quelle non facili giornate, i piloti vissero, dal punto di vista professionale, paradossalmente, la fase più brillante della loro storia professionale. E' forse giusto ricordare che dagli scioperi dei dipendenti della Società Rimorchiatori Riuniti, furono esclusi i traghetti e le emergenze, ed è altrettanto utile ricordare che, da parte dei piloti, non si cercarono atti d'eroismo e neppure lavori degni d'encomi, riconoscimenti ufficiali o cose di questo tipo. Tuttavia, escluse le manovre ritenute impossibili, a causa del consueto utilizzo di quattro o più rimorchiatori, tutte le altre navi entrarono ed uscirono regolarmente dal porto, senza il minimo danno.

Da un lavoro di routine, basato sulla velocità e la sicurezza, i piloti passarono ad un sistema più lento e studiato nei minimi particolari. Tutto ciò fu possibile perché il pilota di turno, indipendentemente dall'età e dall'esperienza maturata, s'impegnò strenuamente nella preparazione della “sua” performance, partendo da quella manovra teorica che aveva studiato a scuola e dallo sfruttamento adeguato della tecnologia della “sua” nave.

Il pilota di turno non spinse mai il comandante ad entrare in porto, oppure ad uscire senza l'aiuto dei rimorchiatori. Il pilota, ascoltava le caratteristiche della nave:


•  Effetto elica, eventuale potenza del Bow Thruster (elica di prora).


•  Velocità timone.


•  Potenza macchina alle varie andature.


•  Pescaggio.


•  Superficie velica.


•  Caratteristica dell'ancora per l'eventuale dragaggio, o girata ecc..


Con questi dati, il pilota esponeva al comandante la “sua” soluzione, adattandola, ovviamente, alle condizioni del vento e della corrente di quel momento.

Ogni pilota che rientrava in Torretta ripeteva come un ritornello ciò che il comandante gli aveva appena chiesto:

“Pilota, se te la senti di portarmi fuori (o dentro) senza rimorchiatori, io sono a tua disposizione !”. In quelle giornate d'estrema tensione nervosa, i piloti scoprirono il loro enorme potenziale professionale.
Lasciamo il ricordo di una di quelle giornate al pilota O. Lanzola:

“Di quelle giornate, veramente stressanti, ne ricordo una in particolare. Era un sabato del giugno 1986 e il vento di scirocco soffiò dall'alba al tramonto sui 20/25 nodi. Alla fine del turno giornaliero, contammo 54 lavori eseguiti, tra arrivi e partenze. Tra cui una decina di navi passeggeri: le “vecchie” a turbina, Amerikanis, Britanis, Ellinis, girate tutte sull'ancora davanti a Ponte dei Mille, e poi Eugenio C.- Enrico C.- Ausonia ecc..

Si era così precipitati improvvisamente Nel Terzo Periodo. Le distanze erano aumentate anche sul piano umano. Erano venute a mancare le pacche amichevoli sulle spalle del barcacciante, la stecca di sigarette e quel sorriso che esprimeva stima, amicizia e simpatia. Per necessità di tempo e di traffico, i piloti preferivano rientrare dagli arrivi con il taxi, per ripartire subito dalla torretta verso l'imboccatura.





Potenza, manovrabilità, eleganza. Con l'avvento del “Modello Tractor”, il servizio di rimorchio nel porto di Genova si è allineato allo standard dei maggiori porti del mondo/The new model "tractor".

Ed i giovani comandanti Rr, a bordo dei nuovi “tractors” con le prore alte, evitando di sbarcare i piloti, salvavano volentieri la prora dai danni contro la banchina di molo Giano. Si chiudeva così, per ragioni di servizio, un dialogo che era stato per decenni soprattutto un approfondimento, un commento, una vera lezione reciproca di manovra. I Tractors, pur avendo un nome ed un numero, erano tutti uguali nello scafo ed il pilota, nel dubbio di sbagliare gli ordini preferiva scandire l'ordine così: “ Prora a dritta, voga più in banchina!” – “Poppa a sinistra, allarga bene!” Si era finiti così nel più totale anonimato! Non c'era più tempo e spazio per i rapporti umani di un tempo, quello dei sentimenti vissuti, degli aneddoti, dei revival storici, degli scambi d'idee, degli stessi commenti alla manovra, delle notizie dei figli ecc…

In quella fase transitoria di rinnovamento tutto era trasformato in esasperata robotica, in pause vuote d'umanità, in silenzi freddi che parlavano sempre e solo di tempo perso. Si era aperta, in quella prima metà degli anni '90, una stagione tecnologica sulla quale occorreva ricucire un tessuto nuovo, per una generazione di manovratori computerizzati, tutto sommato, più aperta, più istruita e forse anche più democratica. Anche la parola barcacciante cadeva in disuso, perchè forse neppure gli stessi comandanti-Rr, un buon numero dei quali era uscita dal Nautico, ne conosceva l'etimologia storica.


Simi de Burgis, Pignatelli, Baffo jr. Ruggeri (prematuramente scomparso), Gatti jr, Calcagno, fanno parte della generazione di piloti genovesi del terzo millennio/New generation of pilots.

Qui ci fermiamo e lasciamo ad altri il compito di raccontare le gesta degli attori e testimoni oculari della storia del nostro porto nel nuovo millennio. Ecco! Avevamo parlato all'inizio dei rimpianti della Via Gluck oltre la cinta portuale. Per la verità, mentre scorrono le ultime immagini di questo film del nostro tempo, rivediamo tanti volti di piloti e barcaccianti e sentiamo, all'interno del confine ormai “abbattuto”, una grande nostalgia della loro umanità.

Com.te Carlo Gatti (2/2007)

Rapallo, 14 Marzo 2021

 


DIGA DI GENOVA: thinking outside the box

Ph: sito Autorità di Sistema Portuale Genova https://dpdigaforanea.it/il-progetto/

DIGA DI GENOVA

thinking outside the box

 

BY JOHN GATTI

•8 MARZO 2021•8 MINUTI

 

La diga del porto di Genova!

Un argomento attuale, stimolante e coinvolgente

L’aumento delle dimensioni delle navi, fenomeno noto come “Gigantismo navale” ha reso inadeguati molti porti italiani; le crescenti performance dei rimorchiatori portuali, gli ausili tecnologici alle manovre, le simulazioni e i limiti operativi studiati ad hoc per l’entrata di ogni singola nave destinata a un preciso ormeggio, non sono più accorgimenti sufficienti a risolvere questi problemi. (Ne abbiamo parlato in questo articolo.)

Nel caso del porto di Genova:

· ilL primo tema da affrontare è quello del bacino di evoluzione che, attualmente per le navi di grandi dimensioni, è posizionato in avamporto e ha un diametro di circa 550 metri;

· lL secondo problema lo riscontriamo al terminal Bettolo. La recente costruzione di questa banchina permette (dando per scontata la realizzazione di un bacino di evoluzione e dragaggi adeguati) l’ormeggio delle portacontenitori di ultima generazione, ma lo spazio occupato, una volta affiancate, rende delicato, e a volte impossibile, il transito di altre navi nel canale di Sampierdarena;

· sebbene la fetta più grossa del mercato riguardi il settore dei contenitori, l’insufficienza di spazio coinvolge anche zone del porto che operano su altri rami merceologici; si avverte, ad esempio, una carenza di spazi anche tra le varie banchine a pettine di tutto il canale di Sampierdarena.

Nelle relazioni presentate sulla pagina “Quaderno degli attori”, predisposta  dall’Autorità di Sistema, vengono evidenziati altri aspetti di estrema importanza e di difficile soluzione. Mi riferisco, per esempio, a quanto espresso da Assagenti quando sottolinea l’importanza del potenziamento della linea ferroviaria a scapito della movimentazione delle merci su gomma, al piano dei dragaggi e al consolidamento delle banchine. Così come del resto sottolineato da Confindustria: “riteniamo che la realizzazione della nuova diga deve essere inserita in un contesto di sviluppo più ampio che ricomprenda anche quello infrastrutturale lato “terra”. “Gronda di ponente”, “terzo valico”, “nodo ferroviario”, “opere di ultimo miglio” (soprattutto quelle ferroviarie, cd. piano del ferro in ambito portuale) devono essere realizzati/ultimati senza indugio per consentire, una volta realizzata la diga, la fuoriuscita delle merci dal porto e, soprattutto, di riequilibrare il rapporto tra traffico stradale e ferroviario e garantire un porto più sostenibile anche dal punto di vista trasportistico e ambientale. Gli scenari dei volumi di traffico ipotizzati a seguito della realizzazione della nuova diga impongono importanti investimenti infrastrutturali per un agevole afflusso/deflusso delle merci dal porto al fine di evitare anche commistioni con il traffico cittadino“.

Molti interventi, inoltre, pongono quesiti relativi all’ambiente, all’impatto sull’ecosistema marino, alla compatibilità tra porto e città, ecc.

Insomma, in concreto, decidere quale sia la strada migliore da seguire implica responsabilità oggettive enormi nei confronti degli sviluppi strategici dei commerci marittimi, della città di Genova a 360 gradi – economia, viabilità, posti di lavoro, ecc. -, del futuro di ogni singolo terminalista e, a catena, di tutte le persone che lavorano in porto e per il porto, senza dimenticare l’ambiente e la sicurezza.


Ph: sito Autorità di sistema portuale Genova - https://dpdigaforanea.it/il-progetto/

 

È anche difficile, quando le variabili in gioco sono tante, centrare il segno al primo colpo, come è anche vero che la condivisione delle idee è costruttiva solo fino a un certo punto…

La raccolta di opinioni qualificate diverse, opportunamente vagliate da una mente aperta alla rivalutazione continua, è la strada più diretta per raggiungere un obiettivo così ambizioso.

Sono veramente poche, infatti, le persone che hanno tutti gli elementi, l’imparzialità e le competenze per decidere i giusti compromessi.

È quindi con spirito propositivo che devono essere giudicati gli interventi, anche perché spesso propongono spunti interessanti dal punto di vista tecnico progettuale. Tra quelli che mi hanno colpito per le soluzioni contemplate, ad esempio, cito lo studio dell’Ing. Guido Barbazza, Executive di Wärtsilä Italia, scaturito – come egli stesso afferma – da valutazioni di tipo “thinking outside the box”.


Ph: Ing. G.Barbazza

In particolare ho trovato interessante la creazione di nuove aree operative ottenute sfruttando la “penisola portuale”, piuttosto che il mero spostamento della diga (vedi foto sopra). Addossata al lato nord della nuova diga foranea, che è prevista essere collegata alla terraferma tramite un ponte innestato sul parco ferroviario di GE-Sestri Ponente (attraverso il collegamento su rotaie al servizio dello Stabilimento ILVA di Cornigliano) e su gomma al raccordo autostradale di Genova-Aeroporto. Quest’ultimo servirebbe a decongestionare, o quantomeno a non sovraccaricare ulteriormente, il nodo di Sampierdarena e lo svincolo di GE-Ovest. Buona anche l’idea di sfruttare il naturale sviluppo dei fondali antistanti il porto per realizzare le opere marittime su batimetriche più basse, in modo da ridurre i costi e i tempi di realizzazione.

Con questa impostazione sarebbe eventualmente possibile, in futuro, creare importanti aree con relativi accosti su alti fondali, favorire l’espansione delle attività già presenti nel Bacino Portuale di Sampierdarena, la rilocalizzazione di accosti e depositi petrolchimici, il rifornimento delle navi a GNL ed eventuali nuove attività risultanti dallo sviluppo del settore marittimo-portuale.

Dal punto di vista della manovra navale in porto, trovo adeguato l’ampio bacino di evoluzione in avamporto e gli spazi disponibili nel canale di Sampierdarena. L’eventuale onda di scirocco, e la relativa risacca, potrebbero essere ulteriormente mitigati utilizzando tetrapodi in punti strategici (per rompere la corsa delle onde sulla diga) e variando leggermente il layout dell’imboccatura di levante.

I dubbi e le domande sono tante e spaziano dall’inadeguatezza del retroporto alla viabilità, dal rapporto costi/benefici alla equa distribuzione dei vantaggi, dall’apertura del progetto a sviluppi futuri alla scelta delle priorità d’intervento.

Qualcuno starà pensando che è un po’ tardi per le considerazioni…

Può darsi, ma se penso a tutti i progetti dati per “definitivi” negli ultimi decenni e poi bocciati, riproposti e mai portati a compimento (vedi Torre Piloti di cui parliamo qui), mi viene da pensare che – probabilmente – siamo ancora agli inizi.

P.S.

Alcune pagine del progetto sono visibili sul sito dell’Autorità di Sistema nella sezione dedicata al dibattito pubblico sulla diga foranea del porto di Genova (qui), che consiglio di visitare anche per approfondire i punti menzionati e valutare le priorità delle singole realtà coinvolte.

Rapallo, 12 Marzo 2021

 

 


STUDIARE LA MANOVRA DELLE NAVI

 

STUDIARE LA MANOVRA DELLE NAVI

L'importanza di un programma di studio efficace


https://www.standbyengine.com/studiare-la-manovra-delle-navi/


BY JJOHN GATTI16 FEBBRAIO 20219 MINUTI

 

Per chi vuole imparare a manovrare;

Per chi sa manovrare e vuole migliorare;

Per chi si preparara al concorso da pilota del porto.

 

In questo articolo scriverò di studio e di preparazione, proporrò idee e pensieri.
Il focus sarà centrato sulla preparazione all’esame per diventare aspirante pilota, ma i concetti sono applicabili a chiunque voglia migliorare le proprie capacità.

In SBE stiamo lavorando intensamente a un progetto che prevede la realizzazione di un corso di manovra attentamente bilanciato, secondo la nostra esperienza, tra teoria e pratica. Ad oggi sono usciti 4 video con relativi Ebook, contiamo di proseguire con nuove pubblicazioni ogni 2 mesi.

Siamo nell’epoca dell’informazione!

Anzi, siamo sommersi dalle informazioni.

Sembrerebbe una cosa positiva, almeno per certi versi, se non fosse che…

Ti è mai capitato di cercare materiale di studio ma trovarlo inquinato da troppe nozioni non pertinenti?

Nello specifico, hai mai passato ore e ore alla ricerca di informazioni di qualità utili alla prepararazione del concorso da pilota? Sei rimasto soddisfatto da queste ricerche?

Si trova molto su internet e sui libri, ma spesso lo sforzo si concretizza in un aumento della confusione.

È difficile valutare la qualità e decidere cosa serva veramente.

Gli esami cambiano da porto a porto nonostante il programma sia lo stesso, perché la difficoltà oggettiva varia a seconda di chi vi esamina e della mentalità che ha maturato; ma una cosa è certa, il capo pilota del porto sede di concorso non è un teorico.

L’esperienza accumulata negli anni condiziona inevitabilmente le domande e il giudizio sulla qualità delle risposte. È per questo che diventa importante filtrare le informazioni ottenute dallo studio con un occhio da “pilota”.

È un esame impegnativo, dove i concorrenti hanno raggiunto un certo livello e sono decisi – proprio come te – a lottare per raggiungere il risultato che gli cambierà la vita.

Un punto importante da considerare, è che il pilota è un esperto dell’area presso cui presta servizio. Vuol dire che, al di là della preparazione generica, è un esperto in un porto ben definito.

Se è vero che l’esame non è specifico, è pur certo che chi prepara le domande ha più familiarità con argomenti relativi a situazioni che affronta abitualmente: la nebbia per Venezia e Ravenna ad esempio, il vento per Genova e Livorno, le grandi navi per Gioia Tauro, o l’utilizzo degli Escort Tugs piuttosto che i tradizionali, ormeggi in andana o affiancati, nei canali o in spazi aperti, navi passeggere o petroliere, e così via.

Il punto chiave è che le domande avranno comunque una matrice legata all’esperienza locale, anche se sostenute da evidenze teoriche.


È un lavoro di nicchia, dove la preparazione all’accesso va studiata setacciando i contenuti, scartando il superfluo e studiando quello che resta con occhio marinaresco.

Nella valutazione di una manovra, gli ingredienti da miscelare vanno oltre le formule e gli effetti, coinvolgendo strategie che tengono conto dell’esperienza del comandante del rimorchiatore, della nazionalità dell’equipaggio, dei ridossi offerti dall’orografia locale, dall’abitudine o meno di utilizzare l’ancora… la risposta che si attende dall’interrogato è inevitabilmente “inquinata” dall’aspettativa di un ragionamento pratico, da pilota appunto.

Questo è un aspetto della preparazione difficile da affinare.

Conosco esattamente le sensazioni che prova chi si prepara al concorso, visto che – a suo tempo – è una cosa a cui ho dedicato diversi anni della mia vita.

Libri, quaderni, appunti, formule, regole, esempi.

La vera svolta, nel mio caso, c’è stata quando ho cominciato a studiare con un pilota: disegnava sulla carta e mi spiegava i ragionamenti che portavano alla scelta della manovra da eseguire, al numero di rimorchiatori da utilizzare, a come impiegarli e la via per ottimizzare le opzioni disponibili al raggiungimento del miglior risultato.

Sembrava semplice, lineare, ma il modo di legare i pensieri tra loro era lontano anni luce dalla mia mentalità.

Considerate che – come molti di voi – erano anni che navigavo e, ben prima del passaggio al comando, avevo già maturato il sogno di diventare un pilota del porto. Avevo un obiettivo e non perdevo occasione per studiare e manovrare.

Solo molto tempo dopo mi sono reso conto che fare il comandante – senza nulla togliere a questa professione di grande prestigio e alta professionalità – è un lavoro diverso dal fare il pilota.

La specificità del manovrare navi tutti i giorni per anni, porta a seguire dei ragionamenti selettivi distanti dalla psicologia maturata navigando.

Incertezze, errori, strategie sbagliate, paure, ma anche determinazione, coraggio, scelte giuste, obiettivi realistici (seppure ambiziosi) e una rotta.

Una rotta chiara, precisa, da correggere quando necessario.

Lavorare sui punti deboli.

La natura umana ci porta a sfruttare i nostri punti forti nascondendo quelli limitanti. Motivo per cui troviamo persone con qualità incredibili ridimensionate dall’emergere dei difetti su cui non hanno lavorato.

Io, per esempio, soffrivo di un problema comune a molti giovani: ero impulsivo. Riflettevo poco prima di agire e non prestavo attenzione alle conseguenze. Ero sempre in attesa di un ritorno immediato come risposta ai miei sforzi. Succedeva che, per quanto studiassi, non avvertivo nessun cambiamento, mi sembrava di non progredire mai, di non ricordare le cose. Avevo la sensazione di perdere le giornate a guardare l’erba crescere… non mi rendevo conto che, in realtà, l’erba cresceva, aveva solo bisogno di tempo, di costanza, di impegno.

Piano piano si cambia, si cresce, ci si forma. L’importante è non smettere di studiare, di imparare, di migliorare, di lavorare sui punti critici.

Questa è la base.


Applicato al nostro caso, significa che è inutile dedicarsi allo studio della manovra di una superpetroliera di pescaggio, senza prima aver appreso i fondamentali.

Nel corso SBE questa fase l’abbiamo indicata come l’ABC della manovra: Eliche, Timoni e Ancore.

Si deve imparare la teoria ma, soprattutto, capire come usarla nella pratica; cominciare a ragionare con la mentalità di chi lo fa per mestiere. Per questo abbiamo inserito numerosi esempi ed esperienze realmente vissute.

Dopo aver imparato e digerito la parte essenziale, si è pronti a entrare nel vivo della materia e ad apprezzare le sfumature degli argomenti che seguono. Arriva infatti il momento di parlare dei rimorchiatori: una componente essenziale della manovra, un argomento da padroneggiare, da sfruttare appieno. Seguito dal vento, dalle correnti, dalle interazioni e da tanti altri aspetti, che vanno poi miscelati per arrivare a elaborare ragionamenti concreti supportati da solide basi.

StandByEngine nasce per diradare il fumo delle cose inutili, per concentrare quello che ti serve e per aiutarti a spostare il punto di vista: da spettatore esterno alla manovra a spettatore dentro la manovra.

 

Rapallo, 2 Marzo 2021

 


QUANDO A GENOVA SI FACEVANO LE GRANDI OPERE PORTUALI

QUANDO A GENOVA SI FACEVANO LE GRANDI OPERE PORTUALI…

Oggi se ne parla soltanto, da tanto tempo!

Porto di Genova. Da molto tempo ormai si parla di spostare più al largo l’attuale diga Duca di Galliera per consentire il passaggio sicuro delle navi “container” in epoca di gigantismo navale. La discussione sulle tre opzioni da scegliere per il piano finale dell’opera, gigantesca e molto costosa, è in atto proprio in questi giorni e i giornali ne riportano puntualmente i disegni - le varie fasi e problematiche.

La foto computerizzata riprodotta qui sotto rappresenta una delle soluzioni in cui vede la futura diga esterna che è nelle menti dei suoi progettatori.

La vecchia diga, costruita tra le due guerre, appare ancora nella ricostruzione digitale per rimarcare visivamente le distanze utili per la navigazione e manovra interna delle navi. La vecchia Duca di Galliera sarà demolita nel momento in cui le banchine saranno protette dalla nuova diga.

 


Al momento questa é la soluzione più gettonata

Sono passati 100 anni dalla nascita del Porto Nuovo ai piedi della LANTERNA, e l’intero sistema portuale genovese soffre, già dai primi Anni ’60 del secolo scorso, della mancanza di spazi per la crescita costante del numero di navi e, da circa 20 anni anche per le loro dimensioni per cui oggi si parla di GIGANTISMO NAVALE.

Del futuro del Porto di Genova avremo o avranno modo di parlarne e scriverne le future generazioni, tenendo presente che in Italia non c’è nulla di più definitivo del provvisorio e nulla di più provvisorio del definitivo.

Lo dicono in Francia da due secoli (il n’y a que le provisoire qui dure), ma l’arguzia ci sta così a pennello che la ascriviamo di volta in volta a Flaiano, a Prezzolini o ad altri padri putativi delle citazioni orfanelle. E’ uno di quegli aforismi vezzosi con cui amiamo commiserarci; e invece dovremmo studiarlo come una legge scientifica per decifrare il tempo fuor di sesto della politica.

TRA LE DUE GUERRE IL PORTO DI GENOVA INIZIA LA SUA CORSA VERSO PONENTE

- NASCE IL “PORTO NUOVO” SOTTO LA LANTERNA

- HA LE “BANCHINE A PETTINE” -

- L’ARTEFICE SI CHIAMA

UMBERTO CAGNI


Porto Nuovo- I moli a pettine davanti alla Lanterna

 

UMBERTO CAGNI conte di Bu Meliana è stato un ammiraglio ed esploratore italiano. Ricoprì le cariche di senatore del Regno e commissario al Consorzio autonomo del porto di Genova.

Nel 1911 all'inizio della guerra italo-turca sbarcò a Tripoli nella Libia ottomana occupando la città con poche centinaia di soldati. Durante la prima guerra mondiale guidò la flotta d'incrociatori di Brindisi e poi della base navale della Spezia.

Con Luigi Amedeo di Savoia-Aosta, il 12 giugno 1899 l'ammiraglio Umberto Cagni salpò da Christiania (oggi Oslo) sulla baleniera di legno di 350 tonnellate Jason, (ribattezzata Stella Polare) per tentare di raggiungere il Polo Nord per via “di superficie”, cioè su quel mare di ghiaccio e raggiunse la baia di Teplitz. Erano imbarcati, oltre a Cagni e a Luigi Amedeo, dodici italiani, tra cui gli amici (Querini, Cavalli, Molinelli), otto norvegesi (che costituivano l'equipaggio), un centinaio di cani da slitta, provviste alimentari e attrezzature varie.

L'ammiraglio lasciò il servizio militare nel 1923. Morì nel 1932 e fu sepolto nella sua città natale, Asti.


Umberto CAGNI

Politecnico di Torino

Corso di Laurea Magistrale in
Pianificazione Territoriale, Urbanistica e Paesaggistico‐Ambientale

IL CONCETTO DI “CENTRO STORICOE LE SUE TRASFORMAZIONI NELLA GENOVA DEL NOVECENTO:
C
ITTÀ E PORTO NELLE POLITICHE PER IL CENTRO STORICO

Relatore:
Prof. Andrea Longhi

Candidata: Rachele Gangale

Riportiamo la pag. 168

Nella relazione del 1929 del presidente del Consorzio Autonomo del Porto, l’Ammiraglio Cagni, tra le opere in corso di realizzazione per l’ampliamento portuale, vennero indicate la nuova arteria GenovaSampierdarena e la nuova sedeferroviaria lungo la spiaggia di Sampierdarena.118
I successivi quattro anni furono decisivi per l’ulteriore ampliamento dello scalo portuale fino al Polcevera. Nel 1933 risultarono infatti pressoché ultimate le opere di difesa a mare del Bacino Mussolini con il prolungamento del molo di ponente per 3.400 metri. Nel 1933 fu completata la realizzazione dei primi due sporgenti previsti, Etiopia ed Eritrea, con un incremento di piazzali per attività portuali di 25 ettari, funzionali ad un incremento del 22% della capacità commerciale dell’intera struttura portuale. Nello stesso anno venne completata la diga di sottoflutto di ponente e appaltati, per un importo di 28 milioni, gli ultimi tre sporgenti previsti nel progetto. All’inizio del conflitto i primi due sporgenti erano funzionanti: entrambi erano infatti dotati di magazzini e di impianto ferroviario.119


Proposta di sistemazione del bacino di Sampierdarena elaborata dall’ing. Albertazzi, nel 1928 (A.S.C.G.) F.BALLETTI, B. GIONTONI, Una città tra due guerre, DE FERRARI EDITORE S.R.L., GENOVA, 1990, P.29


bacino di Sampierdarena in corso di costruzione (A.S.A.)

F.BALLETTI, B. GIONTONI, Una città tra due guerre, DE FERRARI EDITORE S.R.L., GENOVA, 1990,P.29


Il porto di Genova nel 1934

 

G. BORZANI, Cento anni di pianificazioni, IN Merci, strutture e lavoro nel porto di Genova tra ‘800 e ‘900, M.E. TONNIZZI, FRANCOANGELI, GENOVA,2000, P.213

MARE NOSTRUM RAPALLO, con i suoi relatori, è stata numerose volte invitata dalla A Compagna” presso la sede di Palazzo Ducale. Per chi non lo sapesse, parliamo dell’Associazione storica e culturale ligure più antica del capoluogo regionale fra quelle attive. Fondata nel 1923, ha in passato varcato i confini regionali con una sede a Torino; il nome è stato tratto dall'antica Compagna Communis, nucleo del costituendo comune e futura Repubblica di Genova.

DA A COMPAGNA RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO

A COMPAGNA

Articolo a firma Umberto Cagni, pubblicato sul bollettino n° 3 – Marzo 1929

È stata di questi giorni, pubblicata la Relazione sulle «Opere costruttive, i Servizi, le Tariffe, le Maestranze› del Porto di Genova, pel 1928». L’Ammiraglio Cagni, ha scritto una delle più belle pagine della storia millenaria del nostro grande emporio marittimo. È storia vissuta, della quale Egli è narratore ed artefice: utilissima per segnare non solo il corso degli avvenimenti attuali, ma per tracciare le linee maestre dell’immediato futuro. Col 1928 si è chiuso il ciclo delle opere a ponente che prendono nome da Vittorio Emanuele III, di quelle a levante che prendono nome dal Duca degli Abruzzi. E si apre il ciclo delle nuove grandiose opere che prendono nome da Benito Mussolini. Sarebbe interessante poter seguire lo scritto dell’ammiraglio Cagni in tutti i particolari che riguardano l’attività del porto: i mezzi di scarico, l’ordinamento del lavoro e delle tariffe, il traffico. Le contingenze dello spazio ci costringono a stralciare alcuni dei punti più rilevanti che riguardano le opere costruttive, opere meravigliose delle quali è meritorio rimanga in queste pagine il ricordo; come è meritorio che rimanga un segno di gratitudine verso l’illustre Presidente del Consorzio Autonomo.

L’attività del porto

L’anno 1928 ha segnato per il movimento portuale di Genova una ripresa ascensionale veramente confortante a cui à [sic] fatto riscontro un intenso fervore di opere e di provvedimenti da parte dell'Amministrazione consortile nel preparare tempestivamente gli adeguati mezzi portuali per gli ulteriori sviluppi dei traffici.

Il totale del movimento di quest’anno (salvi i più esatti accertamenti che saranno oggetto della consueta relazione statistica di prossima pubblicazione) si aggira infatti su tonn. 8.624.000 delle quali circa 7.151.000 sbarcate, 991.000 imbarcate e 482.000 di bunkers, il che significa un aumento di oltre 878.000 tonn. negli arrivi e di 72.000 tonn. negli imbarchi, una diminuzione di circa 77.000 tonn. di bunkers; in totale un maggior incremento di circa 873.000 tonn. sul 1927, in modo che il movimento complessivo segna una cifra mai raggiunta per il passato.

Il Bacino Vittorio Emanuele III

Nel campo delle opere portuali va posto in evidenza il lavoro compiuto nel Bacino Vittorio Eman. III, già aperto al traffico nel 1925, il quale è ormai ultimato coll’entrata. in esercizio del suo secondo sporgente (il Ponte S. Giorgio) completamente attrezzato, realizzando così dai 5 a 6 nuovi accosti per piroscafi con carbone, con fosfati ed eventualmente con minerali alla rinfusa.

Complessivamente il Bacino Vittorio Emanuele III, adibito di regola allo sbarco dei carboni e dei fosfati, disporrà di 2100 metri di banchina utilizzabile e capace di 15 accosti serviti complessivamente da 40 elevatori elettrici. dotati di una velocità pratica di sbarco di tonn. 2000 di carbone all’ora.

IL BACINO VITTORIO EMANUELE III – L’OFFICINA DI RIPARAZIONE ELEVATORI

 

Il Molo di Ponente

La risacca che nell’inverno scorso, durante i forti venti da libeccio, disturbava il lavoro in questo grande bacino dei carboni, è stata definitivamente eliminata con l’avvenuto compimento del Molo di Ponente, il quale ridossa uno specchio acquo [sic] di oltre trecentomila metri quadrati, che rimane fin d’ora a disposizione del traffico, mentre, senza l'accennata opera, sarebbe stato utilizzabile soltanto tra quattro anni.

Il molo predetto è stato costruito in trenta mesi ed è costato circa 10 milioni di lire in confronto dei 12 previsti. Fu eseguito con cassoni di calcestruzzo gettati entro casse-forme di tipo speciale, portati galleggianti sul posto e riempiti di calcestruzzo in modo da costituire così dei blocchi di m. 12 X 6 X 6,50. Esso è lungo 400 metri, e la sua testata, che era prevista a 130 m. dalla diga foranea, è stata invece portata a soli m. 80 dalla diga stessa, in modo da chiudere con maggior efficacia l’accesso del mare di libeccio.

IL MOLO DI DIFESA DI PONENTE

 

Il Porto Duca degli Abruzzi

Il Porto Duca degli Abruzzi, con uno specchio acqueo di 40.000 mq. viene a resultare fra l’antico Molo Giano ed il nuovo Molo di scirocco Umberto Cagni, fra i quali si è costruita una leggera diga a piloni per difendere dai residui oleosi galleggianti lo specchio acqueo stesso. Il Molo Umberto Cagni misura uno sviluppo di m. 690 e, colla diga foranea, difende l’avamporto e le calate del vecchio porto dalle frequentissime agitazioni di scirocco, inconveniente molto serio, lamentato sempre per il passato.

Il molo sarà prolungato ancora di 40 metri, in modo che l'imboccatura del porto da m. 293, come è attualmente, si ridurrà a m. 250, misura giudicata più che sufficiente per la manovra di entrata delle navi.

Questo piccolo porto costruito in appena due anni, è, com’è noto, destinato alla marina da diporto dalla quale traggono vita tante interessanti industrie delle nostre riviere e che contribuisce a formare quello spirito marinaro, mai abbastanza sviluppato nel nostro popolo.

Sulla calata di questo porto è già costrutta la grandiosa sede del R. Yacht Club e presto vi sorgeranno anche quelle minori del Rowing Club, della Società di Canottaggio Elpis e della benemerita Società Ligure di Salvamento, in modo che questo specchio acqueo, dove troveranno sicuro ormeggio i candidi yachts della marina da diporto, avrà una degna cornice di decorosi edifici, sicché potrà gareggiare per sicurezza, comodità ed eleganza coi più noti ritrovi dello sport nautico del Mediterraneo.

Il nuovo Bacino da Carenaggio

Ad appena tre anni da quando, nel maggio 1925, Sua Maestà Vittorio Emanuele III faceva brillare la prima mina di scavo del nuovo bacino da carenaggio, quest’opera, invero grandiosa, era compiuta, ed ospitava, il 19 luglio u. s., il primo grande transatlantico, il Conte Rosso.

Tutte le costruzioni che l’alacre nostro armamento ha varato in questi ultimi anni, e che prima dovevano valersi, per le operazioni di carenamento e di raddobbo, di bacini militari in Italia o, peggio, di quelli stranieri, possono essere accolte in questo bacino, la cui lunghezza è superiore alle massime lunghezze dei piroscafi modernissimi.

Le dimensioni del bacino sono infatti: lunghezza del gargame esterno alla testata interna dell’emiciclo: m. 240 - larghezza, tra le pareti verticali interne: m. 32 - Profondità della soglia esterna del bacino: m. 11 - Capacità: mc. 90.000.

E, se nuove prossime costruzioni dovessero superare di qualche decametro lo sviluppo del bacino, provvidenze di non difficile né costosa attuazione possono venire adottate per servire anche ai nuovi piroscafi, senza turbare per nulla l’esercizio di questo.

Per l’esecuzione dell’opera che è costata circa 32 milioni, si sono scavati 110.000 metri cubi di terra e 40.000 di roccia; si sono impiegati in media 200 operai; si è adoperato un complesso di lamiere e di ferri laminati, per le due porte, del peso di 700 tonnellate; si sono costruiti 60.000 metri cubi di murature diverse.

I magazzini per l’esportazione sul Ponte Caracciolo

Sul ponte Caracciolo i grandi magazzini in cemento armato destinati al concentramento del servizio di imbarco, ed ai quali fu posto mano al principio dell’annata, sono in avanzatissima costruzione, esempio notevole di celerità edilizia. Quest’anno vi si sono compiuti lavori per Lire 8.000.000 circa e se ne prevede il completamento entro il primo semestre 1929. La superficie complessiva dei vari piani sarà di mq. 24.000.


 

I MAGAZZINI PER L’ESPORTAZIONE A PONTE CARACCIOLO

La Stazione Marittima Passeggeri

Quest’anno ha visto anche accelerati i lavori per il compimento della grandiosa Stazione Passeggeri a Ponte dei Mille. Tutta l’ala di ponente è da tempo completamente arredata ed in esercizio, il corpo centrale è pressoché ultimato anche nei suoi rifinimenti interni; dal 15 ottobre u.s. si è inoltre iniziata la costruzione dell’ala di levante, che sorgerà sull’area dell’antica stazione quest’anno demolita. È anche ultimata la piattaforma centrale, sopraelevata di 7 metri sul piano di calata e che costituirà il piazzale dal quale si staccherà il grande viadotto destinato a congiungere la Stazione alla Piazza Principe, presso il monumento al Duca di Galliera, al disopra dei fasci dei binari e della nuova grande arteria che unirà via Milano a via Carlo Alberto. Sono ora in avanzato corso le fondazioni dei piloni di sostegno del viadotto stesso, nonché le opere di deviazione del grande fognone del Lagaccio, che veniva a trovarsi lungo l’asse delle fondazioni stesse.

Si prevede che per l'ottobre 1929 la Stazione sarà completa e risulterà, per comodità ed eleganza, superiore a qualsiasi altra stazione marittima.

LA STAZIONE MARITTIMA PASSEGGERI A PONTE DEI MILLE

La nuova arteria Genova - Sampierdarena

Quest'anno ha anche visto, ad opera del Consorzio, finalmente aperto il varco alla nuova grande arteria Genova Sampierdarena, attraverso la cava rocciosa della Chiappella, che prelude al completo sbancamento di tutto il colle di San Benigno. Sono stati espropriati ed abbattuti i caseggiati verso Sampierdarena che ricadevano sul tracciato; ed ora si sta sistemando la sede stradale colla relativa fognatura e pavimentazione.

LA NUOVA STRADA GENOVA SAMPIERDARENA

I mezzi meccanici

Né l’Amministrazione Consortile ha trascurato quanto si attiene all’attrezzamento ed alla manutenzione del porto.

Sul Ponte S. Giorgio (l’ultimo entrato in esercizio) sono stati installati 9 elevatori elettrici di tipo moderno; sono pronte le 9 gru elettriche destinate ai nuovi magazzini dell'imbarco al Ponte Caracciolo; si è iniziata la costruzione di altre 24 grue [sic] pure elettriche, e si sta procedendo all’arredamento dei ponti Caracciolo ed Assereto, in armonia alle destinazioni a ciascuno assegnate.

Colle opere costruite dall’Amministrazione, è giusto citar ancor quelle dovute all’iniziativa privata incoraggiata dal Consorzio (il quale ha dato in concessione le aree necessarie) e che contribuiscono ad aumentare potentemente la efficienza del Porto.

I GRANDI ELEVATORI DI CARBONE

Depositi olii minerali

Tra quelle che, pur essendo state iniziate negli anni decorsi, sono state perfezionate o completate in ogni loro parte nel 1928, oltre ai grandi magazzini per cotoni per mq. 11.000 di superficie coperta, costruiti dalla Società Esercizio Magazzini al Molo Vecchio, ricorderò il grande stabilimento della Società Generale degli Olii Minerali, a levante della Calata Stefano Canzio, e quello per gli Olii Lubrificanti della «Vacuum Oil» alla Calata della Sanità.

Specialmente notevole lo stabilimento per gli Olii Minerali che è capace, nei suoi otto serbatoi metallici, di oltre quarantamila tonnellate di olii combustibili.

I DEPOSITI PER GLI OLI MINERALI

La grande centrale termo-elettrica

La grandiosa Centrale termo-elettrica, la cui costruzione fu iniziata nel 1927 a cura del Consorzio Centrali Termiche, alla radice del ponte S. Giorgio. è completamente ultimata, come edificio e pressoché anche negli impianti interni dei macchinari.

Per la celerità di costruzione, per la potenza e la bontà dei macchinari impiantati, questo stabilimento costituisce una magnifica prova della capacità dei tecnici italiani e della potenzialità della siderurgia nazionale.

L’edificio misura 275.000 mc. ed è costrutto e racchiuso in una gigantesca ossatura metallica, pesante oltre 6000 tonn.

La centrale è disposta per una potenza totale di 130.000 KW di cui la metà già pronta a funzionare.

 

L’OFFICINA TERMODINAMICA «CONCENTER»

Lo spianamento del promontorio di S. Benigno

Procedono inoltre alacremente, in base alla legge 9 febbraio 1927, n. 321, le operazioni di esproprio e di demolizione delle proprietà sul colle di San Benigno, per accelerare l`inizio dei lavori di spianamento di questo promontorio che divide Genova da Sampierdarena e la cui eliminazione, non solo faciliterà la fusione delle due città, ma offrirà delle aree pianeggianti per oltre 37 ettari che, con quelle che si otterranno dai riempimenti lungo la spiaggia di Sampierdarena, daranno a Genova quello che finora le mancava per essere un porto franco veramente efficiente: gli spazi necessari agli stabilimenti industriali, che potranno lavorare per l`esportazione in franchigia doganale.

LA NUOVA STRADA GENOVA SAMPIERDARENA

Il nuovo bacino Benito Mussolini

La consegna dei lavori per la prima parte del nuovo Bacino Mussolini dinanzi a Sampierdarena, appaltati per Lire 74.500.000, venne effettuata il 16 aprile di quest’anno e già sono stati eseguiti m. 600, su 800 in progetto, della sottostruttura della diga foranea (Principe Umberto) e la demolizione della soprastruttura del molo di difesa del porticciuolo di servizio per il cantiere dei massi.

Questa prima parte del bacino consterà di due ponti lunghi m. 400 e larghi 130 con relativi magazzeni ed arredamenti, e, com’è detto nella relazione 22 dicembre sopra riportata, aggiungerà al porto 25 ettari di piazzali e ben 1100 m. di banchina praticamente utilizzabile, alla quale potranno lavorare simultaneamente 15  piroscafi accostati: aumenterà cioè di oltre un quinto la capacità del nostro porto 'rendendo possibile (coll’attuale intensità per metro lineare) un movimento annuo di 10 milioni di tonnellate; ma, come ho dimostrato nella relazione 22 dicembre, già riportata, essa sarà insufficiente qualora si voglia che questo movimento si svolga in maniera più comoda e più economica e cioè ad una quota assai inferiore a quella sforzata di 850 tonn. alla quale è costretto a lavorare oggi.

Riassumendo, possiamo, con giusto orgoglio di Italiani, constatare che il nostro porto lavora con ordine e fervore, che ogni anno accresce la propria attività e che vanta masse lavoratrici di grande abilità, inquadrate e protette come in nessun altro porto del mondo.

Nell’aumentata possibilità di lavoro e di conseguente benessere, le maestranze hanno anzi visto il frutto della disciplina e si sono rese conto della nobiltà della funzione delle classi lavoratrici, quando questa si esplichi nell'orbita e pei fini della Nazione.

Possiamo oggi dire che nel nostro porto, grazie al sincero e sano spirito di collaborazione, che è l’essenza del Fascismo, il lavoro non ha arresti di sorta e che sotto il potere moderatore del Consorzio, fiancheggiato dall’assidua opera dei Sindacati Nazionali, tutte le eventuali divergenze fra datori di lavoro e lavoratori vengono pacificamente ed onestamente risolte.

Questa concordia di animi ci affida che, mercé l’ingrandimento del porto ed il miglioramento delle vie ferroviarie d’accesso, Genova potrà mantenere il primato nel Mediterraneo e reggere vittoriosamente il confronto coi più grandi porti stranieri.

Il Presidente

U. Cagni

 

CARLO GATTI

Rapallo, martedì 2 Febbraio 2021


L'ASSO NELLA MANICA

 


L'ASSO NELLA MANICA

BY JOHN GATTI4 GENNAIO 2021•12 MINUTI


La fase di studio, propedeutica all’acquisizione delle competenze necessarie a renderci titolati e in grado di svolgere un determinato compito, determina – in larga misura – i confini entro i quali spazierà la nostra abilità.

Sarebbe forse più giusto dire che:

“l’apertura mentale con cui affrontiamo lo studio, stabilisce i limiti della vastità delle nostre conoscenze”.

Questo perché il nostro cervello è portato a semplificare tutto il possibile e, il più delle volte, raggiunge il suo scopo agendo per esclusione:

elimina, per motivi di efficienza, ciò che reputa superfluo

succede, quindi, che tendiamo a dimenticare quanto il cervello ritiene – a suo insindacabile giudizio – inutile o, ancora peggio, altera i ricordi adattandoli agli assunti già immagazzinati nella nostra memoria, secondo il principio per cui:

è meno dispendioso, in termini energetici, consolidare convinzioni già acquisite, anche se sbagliate, piuttosto che sovrascrivere informazioni già registrate.

Pensando a quanto ho scritto sopra, si materializza nella mia mente l’immagine di un aspirante pilota che si presenta all’esame con un sacco colmo di nozioni, formule, definizioni e simulazioni.

Una volta vinto il concorso, vedo l’allievo cominciare il suo anno di apprendimento con il sacco pieno da una parte e un sacco vuoto dall’altra.

Fin dai primi giorni quello pieno comincia a vuotarsi:

parte del contenuto viene dimenticato, perché inutile nella pratica, mentre una quantità modesta passa nell’altro sacco, quello che contiene la teoria necessaria a supportare l’esperienza.

Il ragionamento non è né bello né lineare.

Semplicemente il cervello fa il suo lavoro: elimina ciò che cataloga come superfluo e conserva ciò che ritiene utile.


Potrei disquisire a lungo sui vantaggi e gli svantaggi del modo di operare del cervello applicato alla manovra delle navi, ma il risultato è più o meno questo:

il pilota esperto ha uno stile personale che, purtroppo e di fatto, confina le sue conoscenze; all’interno di questi limiti c’è tutto il suo sapere, fatto di esperienza, di minimi calcoli e di soluzioni efficaci; di infinite ripetizioni, di automatismi e di spazi fisici/temporali compresi tra il momento “x” e il punto di non ritorno.

È giusto. Il fine è quello che conta.

Saper gestire perfettamente il necessario numero di opzioni permette di agire con tempestività, sicurezza ed efficacia.

Il resto è fumo.

Beh, non è proprio così… però, se osserviamo le cose da un punto di vista pratico, è evidente che un pilota che opera a Genova ha poca esperienza e poco interesse all’approfondimento della manovra nella nebbia, nei ghiacci o nei fiumi, perché diventa, nel tempo, esperto nella conduzione della nave in presenza di vento e negli spazi ristretti.

Un concetto realistico, che però presenta i suoi limiti.

Saper gestire l’ordinario è scontato e imprescindibile. Il buon pilota si vede nell’emergenza o quando l’ordinario sconfina nello straordinario, costringendolo a tirare fuori l’asso dalla manica.

È per questo che due “sacchi” non bastano e non ci possiamo permettere di rinunciare a portare, tra i nostri bagagli, anche uno zainetto.

Cambiare manovra per sfruttare un vento o una corrente troppo forti; avere sempre una via di fuga o un piano “B” in caso di rottura del cavo del rimorchiatore o di un’avaria della nave; decidere per tempo quando è il momento di fare dietrofront e ricominciare la manovra; sapere quando e come sfruttare le ancore, i cavi, la barca degli ormeggiatori o un ridosso di fortuna… e così via per le innumerevoli situazioni in cui ci si può trovare.

Il nostro zainetto deve contenere soluzioni potenti per situazioni difficili.

Ero a bordo di una nave chimichiera lunga 100 metri, scarica e ormeggiata con il fianco di dritta in banchina.

Potrebbe sorgere spontanea una domanda:

“Perché, negli esempi, spesso si parla di navi di modeste dimensioni?”

Perché le grandi navi, il più delle volte, hanno macchine e thrusters potenti e utilizzano i rimorchiatori. Questo non vuol dire che siano più facili da manovrare o che i problemi siano meno frequenti, piuttosto che l’intervento del pilota, quando gli elementi sotto controllo sono limitati, è più facilmente comprensibile da chi legge.

Elica a passo fisso destrorsa, bow thruster da 300 cavalli.

Quando era stata ormeggiata, due giorni prima, le condizioni meteomarine erano ottime ed era prevista una sosta di poche ore. Perciò, all’arrivo, confidando sull’effetto destrorso dell’elica e sul bow thruster, si era deciso di non dare fondo l’ancora di sinistra.

Un ritardo nella partenza, dovuto a problemi commerciali, fece sì che la situazione cambiasse radicalmente: 20 nodi di vento da scirocco schiacciavano la piccola nave in banchina e, la mancanza di un’ancora data fondo a sinistra ad allargare la prora e un thruster dalla potenza insufficiente, rendevano la manovra di disormeggio alquanto delicata.

Insieme a me c’era un allievo con circa 6 mesi di anzianità, praticamente a metà del suo percorso formativo.

Un’occasione importante per scoprire il livello di preparazione che aveva raggiunto.


Disegno di Garipoli M.

Lasciò due spring a prora e, con il timone tutto a dritta, mise la macchina avanti molto adagio. Ben presto la poppa cominciò ad allargarsi dalla banchina, mentre la prora si appoggiò a un ottimo parabordo.

L’allievo continuò ad allargare la poppa – giustamente – fino a un angolo apparentemente esagerato: il timore, piuttosto fondato, era che, una volta messa la macchina indietro, il vento facesse cadere la poppa sullo spigolo vivo della banchina poco distante.

Aveva impostato la manovra nel modo giusto, ma la sua idea era che, una volta mollati gli springs, l’effetto destrorso dell’elica avrebbe mantenuto la poppa e che il thruster sarebbe riuscito a far rimontare la prora al vento.

In realtà, con nave così scarica, avrebbe dovuto immaginare uno sviluppo dinamico differente e impostare una strategia per i passaggi successivi.

Ma andiamo per ordine.

La prora sfilò lungo la banchina alla costante distanza di un paio di metri, senza accennare ad allargarsi.

La poppa, nonostante l’effetto dell’elica, cadeva con una lentezza costante e la probabilità di finire contro lo spigolo era piuttosto elevata.

L’allievo aumentò la macchina fino a indietro tutta  e mise il timone tutto a sinistra per sfruttare anche questa componente.

La poppa si stabilizzò ma la prora cominciò a perdere qualcosa.

Quando arrivammo ad avere un discreto abbrivo indietro e la poppa libera dallo spigolo, fu evidente che la prora non sarebbe passata indenne.

Intervenni facendo fermare la macchina, mantenni il timone tutto a sinistra e avviai, per qualche secondo, l’avanti adagio.

La nave restò abbrivata indietro, anche se rallentata, e la prora – beneficiando di quell’aiuto – si allargò quel tanto che bastò a farle superare lo spigolo.

Subito dopo la situazione fu la seguente: poppa al vento e prora nella direzione opposta all’uscita.

L’allievo rimise la macchina indietro per aumentare l’abbrivo, dopodiché diede avanti adagio con timone tutto a dritta cercando di evoluire ma, non appena la nave si trovò al traverso del vento, non ci fu più verso di far salire la prora… e intanto lo scafo scarrocciava verso un’altra banchina.

Avrebbe dovuto usare più potenza di macchina, per sperare di ottenere qualcosa! Infatti – per avere un buon effetto evolutivo – occorre una buona spinta propulsiva immediata e tanto timone, altrimenti si va avanti e si gira poco.

Attesi ancora qualche minuto poi, per non correre il rischio di scadere troppo verso la banchina raggiungendo il “punto di non ritorno”, intervenni dando fondo una lunghezza all’ancora di dritta e fermai tutto.

Nel giro di qualche minuto la nave, con la prua vincolata dalla catena, ruotò mettendosi al vento.

Salpammo e procedemmo verso l’uscita.


PH: Parisi F.

Da questo esempio risulta evidente che, in certe circostanze, sfruttare l’ancora per evoluire è la scelta più semplice ed efficace.

Dare fondo, con pochissima catena e la presenza di un po’ di vento o corrente, permette di ruotare quasi su sé stessi.

Il fatto di dare meno lunghezze possibili, ci permette di operare in poco spazio e di salpare agevolmente una volta raggiunta la direzione voluta.

Ci si deve abituare all’utilizzo dell’ancora.

Decidere di dare fondo, non è scontato come agire sui thruster o usare lo spring per allargare la poppa.

Il feedback emotivo che emerge dal decidere di aprire il freno del verricello è – in mancanza di familiarità con l’azione – l’incertezza cognitiva dell’atto stesso e delle sue conseguenze:

· ho     -  ho dato fondo nel punto giusto?

· ho      -  ho dato abbastanza catena?

· rius    -  riuscirò a dragarla o a fermare la nave in tempo?

· e c     -  e così via.

Nella pratica i margini operativi non sono così stretti: in caso di errore posso filare più catena, dragare l’ancora per spostare la sua posizione, aumentare o diminuire la macchina e, se proprio le cose non vanno come dovrebbero, salpare e ripetere l’operazione.

Più usiamo gli strumenti presenti nello zainetto più diventiamo disinvolti, precisi e bravi.

Più si mantengono ampi i confini in cui spaziano le abilità, più chance si hanno nel momento del bisogno.

 


 

 


ISOLA DELLE ROSE-UNA STORIA TUTTA ITALIANA

 

ISOLA DELLE ROSE

MICRO-NAZIONE

UNA STORIA TUTTA ITALIANA…


la Piattaforma ISOLA DELLE ROSE che mise in allarme lo Stato Italiano

L'isola delle Rose, nome ufficiale Repubblica Esperantista dell'Isola delle Rose, fu il nome dato a una piattaforma artificiale di 400 m² che sorgeva nel mare Adriatico a 11,612 km al largo della costa tra Rimini e Pesaro e 500 mt al di fuori delle Acque Territoriali italiane; costruita dall’ingegnere bolognese Giorgio Rosa, il 1º maggio 1968 autoproclamò lo status di Stato indipendente, ma di fatto fu una MICRO-NAZIONE.

L'Isola delle Rose, pur dandosi una lingua ufficiale (ESPERANTO), un governo, una moneta, e un’emissione postale non fu mai formalmente riconosciuta da alcun Paese del mondo come nazione indipendente. Occupata dalle Forze di Polizia italiane il 26 giugno 1968 e sottoposta a Blocco Navale, l'Isola delle Rose fu demolita nel febbraio 1969. L'episodio venne lentamente dimenticato, considerato per decenni solo come un tentativo di “urbanizzazione del mare” per ottenere vantaggi di natura commerciale.

Solo a partire dal primo decennio del 2000 esso è stato oggetto di ricerche e riscoperte documentarie imperniate invece sull'aspetto utopico della sua genesi.

Area: 400 m²

Anno di fondazione: 24 giugno 1968

Capo di Stato: Giorgio Rosa

Dichiarazione d'indipendenza: 1º maggio 1968

Inno: Steuermann! Laß die Wacht! (Timoniere! Lasciali guardare!) - dall’Olandese Volante di R. Wagner

Territori rivendicati: piattaforma artificiale abbandonata a 11,6 km al largo della Costa Italiana.

Sebbene abbia avuto vita breve, l’Isola delle Rose, lo Stato indipendente al largo di Rimini potrebbe aver segnato una tappa importante per la storia dell’umanità, e il suo valore è stato riscoperto solo di recente. A raccontare la sua incredibile storia è un film uscito di recente, che svela tutti i segreti della micro-nazione che durò solamente 55 giorni.

L’AMBIENTE

Il ritrovamento del campo-gas a Ravenna confermò l'ipotesi che non pochi giacimenti si potessero trovare nel mar Adriatico e, nella prima metà degli anni '50, l'AGIP effettuò la prima campagna di rilievi sismici marini in Italia.

Nella seconda meta degli anni '50 iniziò anche la fase di ricerca diretta con perforazioni di pozzi nel Mar Adriatico. Il primo ritrovamento fu il campo di Ravenna-Mare a cui rapidamente seguirono quelli di Cervia Mare, Porto Corsini nell’offshore romagnolo-emiliano e Santo Stefano Mare nel medio adriatico. A questi si aggiungeranno i campi di Agostino, Porto Garibaldi e di Barbara nel mare Adriatico settentrionale nel periodo 1967-71. Parallelamente all’espandersi dell’attività di ricerca offshore, venne sviluppata la capacità produttiva della Saipem, sempre del gruppo ENI, con la costruzione di impianti di perforazione per l’attività esplorativa offshore.


L’ammucchiata di Piattaforme in Adriatico…


La piattaforma CERVIA-A (foto sopra)

La piattaforma CERVIA-K (foto sotto)

Che dire? L’idea di costruire una piattaforma offshore per attività ludiche, fuori dalle acque territoriali italiane, non poteva sicuramente venire in mente ad un giovane ingegnere del golfo Tigullio … dove l’orizzonte è ancora oggi la proiezione di un cielo pulito, ben lontano da altre realtà italiane ormai contaminate da impianti industriali di qualsiasi tipo.

Si è portati quindi a pensare che l’avventura che affascinò l’Ingegnere Giorgio Rosa, non fosse affatto in contraddizione con il mondo che aveva davanti alla sua costa già da qualche anno.

Ma c’è dell’altro: per noi di una certa età, è sufficiente un piccolo sforzo di memoria per ricordare quel 1968 attraversato da forti tensioni e contraddizioni: da una parte le lotte politiche in piazza e le rivolte degli operai nelle fabbriche; dall’altra la voglia di ripartire, la liberalizzazione dei costumi sessuali, lo spirito imprenditoriale e l’idea che per quella generazione di giovani tutto fosse possibile, non solo, esisteva pure il movimento hippie italiano portatore d’idee pacifiste. La lista è lunga: la lotta al consumismo, la love generation importata dagli USA ed una plateale assenza di regole.

“In questo clima di fermento, Rimini comincia ad affermarsi in Italia come località turistica ma soprattutto come luogo di possibilità, di divertimento e di un certo liberismo”.

Con questa premessa che ci racconta dell’aria che la gioventù romagnola respirava a pieni polmoni, Giorgio Rosa sceglie Rimini per mettere in piedi il suo progetto. Si tratta della costruzione di una piattaforma al largo della località balneare che, in un primo momento, doveva essere un’attrazione turistica con bar, uffici e camere d’hotel.

Ma questo non era che l’inizio, presto quel cumulo di piloni e ferro diventeranno un’utopia. L’utopia della libertà, di farsi e costruirsi uno STATO proprio dove poter vivere con le proprie leggi e le proprie regole.

CHI ERA GIORGIO ROSA?

Il 19 Dicembre 1950 GIORGIO ROSA 25 anni, si laurea in ingegneria all’Università di Bologna.
Dopo aver lavorato un anno alla Ducati, apre il suo studio e comincia a collaborare con il Tribunale di Bologna come Perito oltre a svolgere la sua normale attività di ingegnere presso i cantieri della città.
Chi lo ha conosciuto in questa fase della sua carriera – soprattutto chi lo ha incontrato in Tribunale – ne parla come di un professionista scrupoloso, sull’orlo del maniacale… sicuramente un osso duro!
Intorno alla metà degli anni ‘50 comincia a insegnare presso un Istituto Tecnico, nel frattempo (
1960) si sposa con Gabriella Clerici con la quale condivide anche il progetto dell’Isola delle Rose. Insieme fondano la Spic (Società Per Iniezione Cemento), la società che presenterà il progetto embrionale della piattaforma al largo dell’Adriatico, sottoforma di richiesta “di effettuare delle sperimentazioni in mare”.
La sua biografia ci racconta di un uomo pacato ma fermo nelle intenzioni. Instancabile lavoratore, sempre presente sul suo cantiere galleggiante. Un uomo che quando gli viene detto di stare alle regole s’inventa la sua indipendenza e si mette contro lo stato Italiano.

Giorgio Rosa e sua moglie

LA STORIA DELL’ISOLA DELLE ROSE

minuscola micro-nazione.

Il progetto della piattaforma al largo delle acque di Rimini consiste in una struttura di 5 piani con bar, negozi, attività commerciali e camere d’hotel per essere un’attrazione turistica per le migliaia di turisti estivi che ogni giorno affollavano le spiagge della Riviera Romagnola.

Dopo una fase iniziale di studio reciproco delle intenzioni tra Giorgio Rosa e lo Stato italiano, matura abbastanza presto il sospetto che la creazione di una “zona franca” fuori dalle Acque Territoriali, possa nascondere interessi stranieri di varia natura: impianto di missili russi, bisca clandestina, luogo di perdizione sessuale ecc…

Emergono forti tentativi di contrasto da parte dell’Autorità Marittima che, ogni volta, si sente rispondere dall’ingegnere:

“Io non devo rispettare nessuna regola perché la mia piattaforma si trova fuori dalle acque territoriali italiane”

Ben presto l’ISOLA DELLE ROSE appare sulle prime pagine della Stampa italiana, il caso diventa nazionale e centinaia d’imbarcazioni lasciano la costa per andare a curiosare l’impianto che ancora non è neppure agibile, ma la gente vuole dimostrare la propria solidarietà a questi nuovi eroi, forse ingenui e visionari, ma coraggiosi e determinati.

Sicuramente l’ingegnere e i suoi adepti, tra cui la futura moglie, non hanno previsto così tanta partecipazione e sostegno morale alla loro causa.

Tutti i giornali italiani si occupano della vicenda. Immagine tratta da “L’Isola delle Rose, la nazione che visse solo 55 giorni”

LA FILOSOFIA DEL PROGETTO

La sua idea, una vera e propria utopia, era quella di dare vita ad uno Stato indipendente in cui non vi fossero regole, dove gli abitanti potessero convivere in armonia sulla base di un unico, importante valore: la libertà. Era la fine degli anni ’50 quando Rosa diede il via ad un progetto incredibile, che trovò i primi ostacoli in alcuni problemi tecnici e nelle lungaggini della burocrazia italiana. Le autorità italiane avevano già intimato la rimozione di qualsiasi impedimento che potesse creare pericoli per la navigazione. Chi ha navigato sa benissimo quanto la nebbia da quelle parti sia un nemico molto insidioso.

Tuttavia, l’ingegnere portò avanti senza sosta la sua iniziativa, che richiese anni per la realizzazione. La piattaforma marina crebbe pian piano, sempre sotto l’occhio attento delle autorità, che non poterono però fare nulla per impedirlo. Un vero e proprio isolotto artificiale di appena 400 metri quadri emerse dalle acque a poco più di 11 km di distanza dalla costa romagnola. la posizione venne scelta accuratamente, affinché la piattaforma si trovasse appena al di fuori delle acque territoriali italiane.

Finalmente, nel 1967 l’isola venne aperta al pubblico e si preparò ad accogliere i suoi abitanti. L’anno seguente, e più precisamente il 1° maggio 1968, venne dichiarata la sua indipendenza e Giorgio Rosa venne eletto Presidente della Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose.

La micro-nazione adottò infatti l’esperanto come lingua ufficiale, una decisione chiaramente volta a sancire la propria sovranità e indipendenza dallo Stato italiano. E i provvedimenti seguenti furono in linea con questa necessità:

L’Isola delle Rose (Insulu de la Rozoj) si diede un governo, emise la propria moneta e persino dei francobolli.

Ma nessuno Stato riconobbe mai la sua indipendenza, e la micro-nazione durò appena 55 giorni.

Questa è una piccola “dichiarazione di guerra” che spinge la politica italiana a occuparsi della cosa in modo serio. Vengono fatte diverse interrogazioni parlamentari e il 25 Giugno 1968 l’Isola viene occupata militarmente dalle forze dell’ordine italiane che diedero vita ad un blocco navale e presero possesso della piattaforma, obbligando gli unici due residenti a sbarcare. Ebbe inizio un lungo dibattito tra le varie forze in gioco, ma fu Giorgio Rosa a soccombere: la sua oasi di pace avrebbe dovuto essere smantellata. Fu la Marina Militare ad occuparsi della demolizione, con diverse scariche di esplosivo.

A bordo resta solo il custode che non può essere toccato perché fuori dalle acque territoriali. L’isola delle Rose viene conosciuta in tutt’Europa, i giornali tedeschi prendono a cuore la vicenda e si schierano dalla parte dell’ingegnere e della sua impresa. In quei giorni arrivano lettere di stima, ma soprattutto richieste di cittadinanza e proposte di acquisto per gli spazi presenti sull’isola.

Nonostante tutto dopo mesi di battaglie legali – l’11 e il 13 Febbraio 1969 viene abbattuta con l’utilizzo di 2 tonnellate di esplosivo.

Finisce così un sogno. Le idee di un uomo visionario che si oppose alle regole e alla burocrazia, intenzionato a creare un’isola felice in mezzo al mare… Dell’Ingegner Rosa si è detto tutto, della sua furbizia di costruire fuori dalle acque territoriali, del suo progetto di fare dell’isola una macchina da soldi e perfino di prendere la parte dei russi nella Guerra Fredda…
Ovviamente non è possibile conoscere le intenzioni dell’Ingegnere Rosa, sta di fatto che questo è stato e rimane un bellissimo sogno di libertà!




La piattaforma viene distrutta nel febbraio del 1969. Immagine tratta da “L’Isola delle Rose, la nazione che visse solo 55 giorni” di Giambene

NUMERI E CURIOSITÀ SULL’ISOLA DELLE ROSE

1. L’indipendenza idrica – l’isola era indipendente dal punto di vista idrico, viene infatti individuata una falda di acqua potabile a 280 mt di profondità.

2. Le attività già avviate: al momento dell’occupazione sulla piattaforma erano presenti un bar, un negozio di souvenir, un ufficio postale (il timbro) e una banca.

3. Gli abitanti – sull’isola hanno vissuto una coppia di riminesi che ne gestivano il bar e un uomo di Città di Castello che faceva da custode.  I tre avevano affittato la piattaforma e avevano il mandato di gestire le attività dell’Isola.

 

4. La mostra a Vancouver – nel 2008 un museo canadese ha realizzato un’installazione in cui l’Isola delle Rose veniva paragonata all’Isola Utopia di Tommaso Moro.

5. I resti – nel 2009 sono stati ritrovati resti di muri e della struttura metallica che ha sorretto l’Isola delle Rose.

LA CRONOLOGIA DELLA STORIA DELL’ISOLA DELLE ROSE

  • 1960 – l’azienda guidata da Rosa e sua moglie presenta alla Capitaneria di Rimini la richiesta per effettuare delle sperimentazioni in mare. I sopralluoghi vengono fatti direttamente da Giorgio Rosa.
  • 1964 – comincia la costruzione della piattaforma. Vengono impiegati operai riminesi, mentre il primo traliccio è stato costruito a Pesaro. Ci sono voluti 2 anni solo per gettare le basi e creare gli attracchi della piattaforma.
  • 1965 – una mareggiata porta via il primo traliccio posato ma non ancorato e quel poco di piattaforma che era stata già posata.
  • 20 Agosto 1967 – l’Isola è pronta per essere aperta al pubblico.
  • 1 maggio 1968 – Giorgio Rosa dichiara l’indipendenza dell’isola.
  • 25 Giugno 1968 – la piattaforma viene occupata militarmente dalle forze dell’ordine italiane.
  • 5 Luglio 1968 – viene fatta la prima interrogazione parlamentare al Ministro dell’Interno per sapere quale fosse l’atteggiamento dello Stato italiano nei confronti della piattaforma.
  • 7 Agosto 1968 – il tribunale di Bologna decide per la distruzione della piattaforma.
  • 11 e 13 febbraio 1969 – la piattaforma viene abbattuta con 2 tonnellate di esplosivo.
  • 26 Febbraio 1969 – una mareggiata fece inabissare quello che restava dell’Isola delle Rose.


 

IL FASCINO DELLA STORIA CHE ORA DIVENTA UN FILM

La storia dell’Isola delle Rose è talmente assurda da sembrare un film, eppure è una storia realmente accaduta al largo di Rimini. Uno stato indipendente sorto e crollato nell’arco di 55 giorni. Di questa storia incredibile e del suo geniale quanto folle costruttore è stato girato un film, diretto da Sydney Sibilia e disponibile su Netflix dal 9 dicembre.


L'incredibile storia dell'Isola delle Rose, costruita in mezzo al mare Adriatico al largo delle coste di Rimini dall'ingegnere bolognese Giorgio Rosa è la storia del sogno visionario di un ingegnere bolognese, che ha trasformato un’utopia in realtà, anche se per soli 55 giorni, attirando l’attenzione del governo italiano e non solo. Si tratta di una storia molto particolare e poco conosciuta in Italia, riportata all’attenzione del grande pubblico grazie a un nuovo film targato Netflix, diretto dal regista Sidney Sibilia (già dietro la macchina da presa per la trilogia di “Smetto quando voglio”) e con protagonista l’attore Elio Germano.


 

Il film disponibile dal 9 dicembre 2021 è stato presentato così da Netflix: “Se non conoscete Giorgio Rosa, rimediamo subito: è un ingegnere che nel 1968 ha costruito un’isola in mezzo al mare e l’ha dichiarata indipendente, sfidando lo stato italiano”.

La storia non finisce qui, perché nonostante le cariche di dinamite l’Isola delle Rose si ostinò a rimanere in piedi. Servì un’imponente burrasca, che ebbe luogo il 26 febbraio 1969, a farla inabissare e a decretare definitivamente la sua morte. Pian piano vennero raccolti tutti i materiali abbandonati sul fondale, e la storia dell’Isola delle Rose venne dimenticata.

Il regista Sydney Sibilia ha portato sui nostri schermi la versione cinematografica dedicata proprio alla micro-nazione che nacque e morì al largo delle coste di Rimini. L’incredibile storia dell’Isola delle Rose vanta un cast notevole, con Elio Germano ad interpretare l’ingegnere Giorgio Rosa, affiancato da grandi attori quali Luca Zingaretti, Matilda De Angelis e Fabrizio Bentivoglio.


Impossibile rimanere indifferenti a una storia tanto affascinante quanto poco conosciuta. Negli ultimi anni, infatti, è diventata oggetto di un documentario di Stefano Biasulli e Roberto Naccari e del citato libro di Veltroni, edito nel 2012.


- Nome: Insulo de la Rozoj

- Status politico: Micronazione

- Fondatore: Ingegnere Giorgio Rosa

- Anno di nascita: 1 maggio 1968, la piattaforma viene dichiarata “stato indipendente”

- Anno di morte: 11-13 Febbraio 1969, l’isola viene abbattuta con 2 tonnellate di esplosivo

- Numero di abitanti: 3 abitanti

- Grandezza: 400 mq

- Distanza dalla terraferma: 11.612 km dalla costa di Rimini, 500 mt fuori dalle acque nazionali

- Organi Politici presenti: Presidenza del Consiglio dei Dipartimenti, 5 Dipartimenti (Presidenza,    Finanze, Affari Interni, Industria e      Commercio, Relazioni).

- Bandiera: di colore arancione con tre rose rosse su uno scudo sannitico bianco

- Moneta: Mills, cambio con la Lira 1:1. Non vennero mai prodotte

- Francobolli: da 30 Mills, ne sono state emesse 5 serie

C      costo dell’affitto: 1.350 mila lire l’anno

- Lingua Parlata: esperanto

- Durata dell’indipendenza: 55 giorni

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Il 10 dicembre 2020 - L’amico Fabio Pozzo ha scritto sulla STAMPA:

"Giorgio Rosa ha vissuto sino a 92 anni, nella sua Bologna (è morto nel marzo 2017). L’uomo che si è fatto Stato ha pensato fino all’ultimo alla sua isola. «La mia storia dimostra che un uomo normale non può farsi un’isola», scherzava l’ingegnere. Fondò la Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose («Io non parlavo l’esperanto, ma era un modo per rimarcare la diversità dell’isola, per esaltarne la libertà»), una superficie di circa 400 metri quadrati ricavata su una piattaforma artificiale da lui costruita (e brevettata), ancorandola a quasi 12 km da Rimini, 500 metri oltre le acque territoriali italiane, nel 1968, in piena rivoluzione sociale. «Ma io non avevo tempo per queste cose», diceva. Gli hanno dato anche del fascista, ex repubblichino, missino. “Ho votato solo due volte dal 1945. Per Guazzaloca sindaco di Bologna e per il primo Berlusconi. Ma mi sono pentito», aveva replicato.

Emise francobolli (ricercatissimi dai collezionisti; «Spedivamo lettere che venivano regolarmente sottoposte ad annullo postale in Italia») e si dotò di una divisa monetaria, il Mills, mai battuta. La bandiera era costituita da tre rose rosse con il gambo verde, su un campo bianco di uno scudo su sfondo arancione. Per l’inno fu preso un passo dell’Olandese volante di Richard Wagner. Vi aprì un bar-ristorante, pensava a negozi. In Romagna stava appunto sbocciando il turismo, l’isola strana diventò un’attrazione. Ci si andava in barca, amministratori e operatori a terra apprezzavano".

Carlo GATTI

Rapallo, 19 Gennaio 2021


MANOVRE E METEO: ANCHE L'OCCHIO VUOLE LA SUA PARTE


Ph: J.Gatti

 

MANOVRE E METEO: ANCHE L’OCCHIO VUOLE LA SUA PARTE

by JOHN GATTI25 NOVEMBRE 2020•11 MINUTI

 

Le previsioni metereologiche interessano tutti ma, per alcuni, l’informazione relativa all’evoluzione dei fenomeni atmosferici – il più possibile precisa – è uno degli ingredienti fondamentali del piano strategico a breve e a lunga distanza.

Abbiamo parlato del gigantismo navale in questi articoli (Una manovra a lieto fine) (MSC Istanbul. La prima nave da 400 metri a Genova) (L’arrivo delle grandi navi) e di quanto l’intensità del vento e la forza del mare influenzino la loro possibilità di gestione.

In quest’altro articolo abbiamo visto come il Tavolo Tecnico, che si riunisce quotidianamente per studiare le previsioni dei movimenti portuali del giorno successivo, ponga particolare attenzione alle condi-meteo.

In effetti, il vento e il mare dettano le regole del gioco.

Nella visione d’insieme occorre valutare la normalità:

numero di navi in arrivo e in partenza, movimenti portuali,

-  manovre contemporanee e particolari

Ogni situazione descritta ha bisogno, o meno, di piloti, rimorchiatori e ormeggiatori. La corretta programmazione consente un’ottimizzazione dei tempi – che si traduce in risparmio di soldi per l’utenza – nel contenimento dei rischi e in un’efficienza generale.

La “normalità”, descritta sopra, può essere attaccata da vari fattori, quali:

- gestione di navi di grandi dimensioni in contemporanea;

-   manovre particolari che prevedono l’impegno per lungo tempo dei servizi tecnico nautici;

 

· ma  -  condizioni meteomarine negative; ecc...

In questo caso, occorre valutare accuratamente le armi che si hanno a disposizione per affrontare eventuali imprevisti o un peggioramento delle condizioni.

 

Se si attende vento molto forte, per esempio, in base al numero disponibile di rimorchiatori, di eventuali shore-tension, agli ormeggi assegnati e alle dimensioni, si pianifica il numero di navi che possono stare contemporaneamente in una determinata banchina, la sequenza delle manovre e la strategia d’intervento.


La "Concordia" nel suo ultimo trasferimento da Prà a Genova.

Fin qui siamo nell’ordinario.

Le cose cambiano quando la sfera di cristallo si rompe…

Era una tranquilla notte d’estate e, con un collega, uscivamo in pilotina incontro a due navi: una portacontenitori lunga 140 metri per lui e una piccola ro-ro di 90 metri per me.

Mare piatto e assenza di vento; tutte e due erano navi che scalavano frequentemente il nostro porto; comandanti simpatici. Ingredienti non indispensabili, ma che contribuivano a un clima sereno e rilassato.

La Norlandia era una nave “vecchietta”, dotata di due macchine, senza thrusters, di poco pescaggio e, spremendo i pochi cavalli che aveva, riusciva a raggiungere a malapena la velocità di 8/9 nodi.

Mentre passavo il traverso del rosso dell’imboccatura, sentii al VHF il mio collega che chiamava il solito rimorchiatore previsto per la sua manovra.

Stavo chiacchierando tranquillamente con il comandante quando mi accorsi che poco più avanti, nell’area dell’avamporto, la superficie del mare non specchiava più: una brezza leggera disegnava strisce alterne di chiaro/scuro tremolanti sullo sfondo delle luci portuali.

Niente di grave, un po’ di aria fresca che scivolava dai monti ci avrebbe solo rinfrescato dalla calura estiva, almeno così pensavo fino a quel momento.

Dieci minuti più tardi cominciai a preoccuparmi; vedevo distintamente una nube di carbone, illuminata dalle torri faro presenti in una banchina, spostarsi verso sud: la brezza si era trasformata in vento e, da quello che percepivo, soffiava ad almeno 20 nodi.

Chiamai per radio il mio collega per avvisarlo ma, ovviamente, anche dove si trovava lui la situazione stava cambiando velocemente.

Tenete presente che non era ancora assolutamente un’emergenza. Si trattava, se così si può dire, di un innalzamento dell’attenzione, di una manovra che, da facile, stava diventando via via più impegnativa. Ero convinto che il vento avesse raggiunto il suo picco; d’altra parte era estate, le previsioni erano di tempo ottimo e fino a qualche minuto prima era calma piatta.

I dieci minuti successivi procedemmo a ridosso di alcune ostruzioni portuali e, di conseguenza, il vento calò notevolmente, ma il fumo quasi orizzontale di una ciminiera, posta parecchio più a ponente, rivelava la persistenza di una situazione da non sottovalutare.

Terminata la parte di canale protetta, il vento ci investì nuovamente e dovetti aumentare la macchina per contenere lo scarroccio verso la diga. Raggiungemmo un equilibrio con 8 nodi di velocità e un’andatura di bolina.

Non c’era tempo per chiamare un rimorchiatore e, contando sempre sull’errata convinzione che il vento non sarebbe aumentato ulteriormente, proseguii.

Anche perché ormai eravamo quasi arrivati al punto di evoluzione.

30 nodi.

Cominciavo a essere preoccupato.

A quel punto mi restavano due possibilità: non evoluire, mettere la prua al vento, dare fondo e aspettare l’arrivo del rimorchiatore, oppure continuare come da programma.

La nave era vecchiotta e tutt’altro che potente, ma era piccola – e quindi avevo un discreto spazio a disposizione –  due macchine – che mi avrebbero aiutato nella rotazione facendo coppia – ed ero riuscito a sopravventarmi per bene.

Optai per la seconda soluzione.

Puntai la prora sullo spigolo di ponente della prima banchina, velocità 7 nodi. Contavo sul ridosso della testata per guadagnare ancora qualche metro sul vento.

Misi le macchine indietro tutta.

Quando la velocità scese a 5 nodi fermai la sinistra e, poco dopo, la direzione della prora si spostò liberando lo spigolo. Un minuto dopo persi il ridosso e il vento, picchiando sulla prua, mi aiutò nell’evoluzione… questo fino a quando tutta la nave non uscì allo scoperto, perché a quel punto iniziò uno scarroccio deciso, anzi, molto deciso.

Aspettai che la prora cadesse meglio e, per aiutarla, utilizzai un colpetto avanti con la dritta e tutto il timone a sinistra.

Dovevo portare la poppa al vento nonostante il timore di non avere sufficiente potenza di macchina per arrestare la corsa verso il cemento della diga.

Finalmente arrivò il momento di rimettere le macchine indietro tutta.

La nave rallentò, in maniera costante ma molto lenta.

Ci fermammo a pochi metri dalle ostruzioni restando in posizione di stallo per alcuni interminabili minuti.

Poi, finalmente, cominciammo a risalire il vento.

Non fu facile arrivare in banchina, anche perché, senza thruster e con poca potenza di macchina, il vento ci impediva di tenere sotto controllo la direzione, facendoci cadere ora da una parte e ora dall’altra.

È stata una manovra che con il comandante abbiamo ricordato numerose volte negli anni a seguire. A nessuno dei due era mai capitato di trovarsi in mezzo a un cambiamento così repentino della situazione meteo.


Ph: J.Gatti

 

Cosa ci portiamo a casa da questa esperienza?

In realtà molte cose, ma oggi voglio mettere l’accento sull’importanza di cogliere i segnali.

Un’occhio attento – e quello di chi manovra lo deve essere sempre in modo particolare – deve saper cogliere i segnali che arrivano dall’ambiente in cui opera.

L’anemometro, presente su quasi tutte le navi, indica la forza e la direzione del vento in quel momento e in quella precisa posizione.

La situazione, presente qualche centinaio di metri più avanti, potrebbe essere completamente diversa.

Propongo un elenco dei modi in cui possiamo ottenere le informazioni che ci interessano:

. Al primo posto abbiamo un’accurata previsione meteo; sono molte le possibilità di schiarirsi le idee, reperendo quanto d’interesse dai numerosi siti disponibili e, per esigenze più approfondite, esistono realtà consolidate, di grande esperienza e affidabilità come, per esempio, navimeteo.com, l’applicazione LaMMA Meteo, e diverse altre che forniscono dati molto personalizzati a seconda delle esigenze e delle preferenze.

. Al secondo posto metto le stazioni meteo dislocate nell’area di interesse: quelle curate dalle Autorità di Sistema, quelle presenti nei terminal, nei vari aeroporti, fino ad arrivare agli anemometri di cui sono dotate le gru di banchina. Di solito, cercando bene, si ottiene una buona copertura della situazione del vento;

. Il terzo posto, ma non per questo meno importante, lo dedico agli indicatori naturali. Un’occhiata alle navi alla fonda ci può far capire se siamo in presenza di corrente e se questa vince sul vento; il fumo, di qualsiasi tipo, ci offre un’indicazione abbastanza precisa di intensità e direzione; la superficie del mare, piatta, appena segnata, striata di bianco, la presenza di “pecorelle” o addirittura di moto ondoso all’interno di acque ridossate, sono segnali molto precisi.

Il progetto della nuova Torre Piloti, uscito dalla matita dell’architetto Renzo Piano – una persona dalle qualità umane e professionali incredibili – prevede un lungo e sottile palo, somigliante a un’antenna, sulla sua sommità. I suoi movimenti di flessione offriranno un’indicazione istantanea della forza e dell’intensità del vento alle navi che imboccano il porto.

Ricordiamoci che l’orografia generale cambia la situazione radicalmente, anche a distanza di poche decine di metri, per questo motivo è importante avere più indicatori possibili e, soprattutto, non sottovalutarli mai.


Presentazione del progetto "Torre Piloti"

Amm. Melone, Arch. Piano, Pres. Merlo, C.P. Gatti

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troverete interessanti articoli che parlano di mare.

 

 

 

 


IL VENTO (in manovra)

IL VENTO


 

BY JOHN GATTI17 NOVEMBRE 2020•11 MINUTI

 

Ogni porto presenta difficoltà differenti.

Per alcuni è la nebbia a complicare le cose, per altri sono il vento, la corrente, gli spazi ristretti, i bassi fondali, ecc.

Per altri ancora può essere la combinazione di più elementi a elevare il rischio nella manovra delle navi.

Oggi parliamo del vento.

Se talvolta può essere d’aiuto, quando è particolarmente teso occorre fare valutazioni accurate, o il rischio di non riuscire a gestire questa forza può metterci realmente in difficoltà.

Ho detto “talvolta può essere utile”. Mi riferisco, ad esempio, a quelle situazioni in cui un vento leggero aiuta ad allargarci dalla banchina durante un disormeggio; oppure, analogamente, quando una brezza leggera ci accompagna dolcemente in banchina. Un vento che soffia dalla giusta direzione, e una lunghezza di catena data fondo, ci possono permettere di ruotare la nave su sé stessa senza l’ausilio della macchina o dei thruster; o ancora, un vento calcolato bene, rispetto alla sagoma della superficie velica, può agevolare un’accostata o un’evoluzione.

Un altro aspetto poco considerato, e anche un po’ curioso, è che spesso il vento aiuta il pilota anche nella “preparazione” della manovra. Infatti, nella fase di discussione con il comandante della nave, uno dei passaggi più delicati resta quello legato al numero eventuale di rimorchiatori da impiegare durante l’operazione. Le insidie del vento e della corrente sono spesso paragonabili, ma il vento è percepibile e visibile, mentre la corrente, più subdola, può essere anche accompagnata da condizioni meteo ottimali. Va da sé che convincere il comandante, quando sente il vento fischiare e vede il mare striato di bianco, è molto più facile rispetto a quando si discute di un pericolo non visibile che si nasconde sotto la superficie del mare.

A questo proposito mi viene in mente un fatto accaduto diversi anni fa:


Ph: J.Gatti

Quattro giornate di forte scirocco, accompagnate da cielo coperto e rovesci di pioggia, lasciarono il posto, dal punto di vista meteomarino, a una serie di giornate perfette: cielo limpido, mare calmo e assenza di vento.

Da noi le brezze che soffiano da levante e da sud-est portano corrente in canale, e più giorni insistono più la corrente diventa forte.

Quella volta, in particolare, il fiume d’acqua che imboccava a levante per sfogare a ponente, fu particolarmente impetuoso. Corrente forte, ma comunque prevedibile per i primi due giorni… l’anomalia fu nel fatto che anche il terzo e quarto giorno, seppure il tempo continuasse ad essere ottimale, l’impetuosità di questa forza continuava vigorosa, e invisibile all’occhio, sotto la superficie del mare.

Il difficile era convincere i comandanti della necessità di usare rimorchiatori per contrastare la situazione.

 

A quei tempi, la pressione esercitata da molti armatori per contenere le spese, portava i comandanti a cercare di risparmiare “sempre e comunque” e per contro i piloti a gonfiare un po’ la gravità della situazione sparando alto per “ottenere almeno qualcosa”.

Ma quella volta la situazione raggiunse il limite: il comandante vedeva una bella giornata e non c’erano parole che lo potessero convincere della pericolosità della situazione. D’altra parte noi stessi ci aspettavamo l’usuale ridimensionamento della corrente nel giro di poco tempo.

Per farla breve, nell’arco di tre giorni tre navi in manovra andarono a urtare la stessa nave passivamente e sfortunatamente ormeggiata sottocorrente rispetto al punto di evoluzione.

Io mi trovai sulla quarta il quarto giorno…

Era un’ottima nave: 150 metri di lunghezza, due macchine e un bow thruster. Si trovava in una condizione di “mezzo carico”, ideale per la manovra. Il comandante era un habitué del porto; veniva due volte alla settimana da anni ed era, quindi, molto pratico delle “dinamiche e delle situazioni”.

Appena salii a bordo lo misi a conoscenza degli incidenti dei giorni precedenti e dell’anomala presenza di questa forte corrente. Uno sguardo di sufficienza fu l’immaginabile reazione. Provai a insistere, ma le argomentazioni con cui rispose avevano delle solide fondamenta:

· la nave manovrava bene;

· il comandante, buon conoscitore del porto e di grande esperienza, si faceva la manovra e, di solito, la faceva anche bene;

· era il quarto giorno di buon tempo e la corrente doveva per forza essere meno forte di quando erano avvenuti gli altri incidenti.

Non ero per niente convinto, ma non riuscii comunque a impormi, anche perché, in fondo in fondo, pensavo anch’io che, se la manovra veniva impostata bene, si sarebbe potuta gestire la situazione.

Il confronto, dal punto di vista psicologico, non terminò bene. Da una parte c’ero io, pilota, che difendevo la mia posizione e dall’altra c’era il comandante che moriva dalla voglia di dimostrarmi quanto fosse bravo anche in quella difficile situazione. In pratica non era stato raggiunto un punto di vista comune che sarebbe stata la base per una manovra condivisa.

In condizioni normali, si arrivava al punto di evoluzione con una discreta velocità, si fermavano le macchine per tempo, si metteva decisamente indietro la sinistra, il bow a sinistra e si ruotava quasi in derapata. Al momento giusto si metteva indietro anche la macchina di dritta e il gioco era fatto.

Quella volta, complice il difetto psicologico del nostro confronto, per dimostrare la sua bravura arrivammo in fondo al canale con una velocità ancora più alta del solito; e più gli dicevo che con quella corrente andavamo troppo veloci, più lui mi lanciava messaggi con gli occhi a voler dire “ora ti faccio vedere io come si fa”.

Tutto sembrava procedere per il meglio fino a tre quarti dell’evoluzione, ma quando l’opera viva del fianco sinistro della nave cominciò a chiudere fino a trovarsi al traverso della corrente, la situazione precipitò.

La nave cominciò a cadere velocemente di pancia.

Nell’attimo di esitazione del comandante intervenni suggerendo di mettere le macchine indietro tutta e il thruster a sinistra. Lo scopo era quello di urtare da fermi per non provocare aperture nello scafo. Picchiammo per ben tre volte, recuperando ogni volta spazio indietro sul rimbalzo. Giocammo sulle macchine per appoggiarci il più delicatamente possibile e sempre da fermi. Alla fine riuscimmo a toglierci dalla corrente e a raggiungere l’ormeggio.

Il danno materiale non fu particolarmente grave, ma quello nel mio orgoglio, per non essere riuscito a impormi, e in quello del comandante, per le conseguenze della sua presunzione, ci lasciarono il segno per un bel po’ di tempo.


Ph: J.Gatti

Ma torniamo al vento.

Anche in questo caso l’esperienza ha un peso importante.

Le differenze tra le navi non si limitano alla classificazione per tipologie, e neanche alle dimensioni. La stessa nave, infatti, ha caratteristiche completamente differenti a seconda del pescaggio o del carico che ha in coperta; e la stessa manovra, con la stessa nave, a parità di condizioni, può essere influenzata da improvvisi ostacoli o da diverse condizioni meteomarine.

L’esperienza porta a un’analisi automatica inconscia di numerose variabili che dà, come risultato, la consapevolezza delle accortezze necessarie allo svolgimento di una manovra.

Ovviamente occorre mantenere un margine di sicurezza assolutamente soddisfacente.

Laddove questo margine viene intaccato o quando l’esperienza non è sufficiente, diventa necessario supportare le sensazioni con la matematica. In questo senso ci vengono in aiuto numerose formule, più o meno pratiche, per stabilire la forza del vento in tonnellate.

Ve ne sono alcune che offrono la possibilità di calcolare tale forza in base all’angolo d’incidenza del vento, altre che tengono conto anche della densità dell’aria, qui vi propongo una formula di semplice applicazione che offre risultati comunque attendibili:

Forza del vento (Ton) = Velocità del vento al quadrato in metri al secondo, diviso 18, per la superficie velica esposta in metri quadrati.

Consideriamo, ad esempio, una portacontenitori lunga 366 metri, con un bordo libero di 11 metri, caricata con cinque file di contenitori per tutta la sua lunghezza. Che forza avrà il vento, in tonnellate, soffiando al suo traverso con 25 nodi?

25 nodi corrispondono (più o meno) a 12,5 m/s

La superficie di ogni container è: 2,4 m x 5 = 12 m

Quindi, la superficie velica totale è:

(11+12) x 366 = 8418 mq

Forza del v. a 25 kn= (12,5×12,5)x(8418):18 = 73 Ton circa

Se per la manovra si hanno a disposizione rimorchiatori di ultima generazione da 70 ton, in queste condizioni è consigliabile utilizzarne almeno tre.

Mi fermo qui, consapevole che l’argomento meriterebbe di essere approfondito molto di più.

È comunque nei nostri programmi dedicare un intero video (e un eBook)  al vento e ai suoi segreti.


Ph: J.Gatti

 

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NELLA MANOVRA, SAPER MANOVRARE E’ TUTTO?

NELLA MANOVRA, SAPER MANOVRARE E’ TUTTO?


 

by JOHN GATTI23 OTTOBRE 2020•13 MINUTI

Apro uno spiraglio su un momento particolare della manovra:

Voltiamo il rimorchiatore!

Portare una nave in banchina, o disormeggiarla per poi accompagnarla fuori dalle ostruzioni portuali, significa pianificare un’operazione.

Un po’ come guardare la figura per intero, scegliere i pezzi del puzzle, predisporli nel giusto ordine e fare attenzione affinché combacino bene.

Legare, incocciare o voltare un rimorchiatore – il termine usato varia da porto a porto – è un’operazione delicata.

Cerchiamo di capire quali sono le procedure più corrette per evitare di correre rischi inutili e rendere l’operazione fluida ed efficace.

Nel tempo sono successi numerosi incidenti che hanno visto coinvolti rimorchiatori che operavano nelle vicinanze di navi in movimento.

Nella maggior parte dei casi è stata individuata come causa principale di questi sinistri, la velocità! A seguire abbiamo l’errore umano, l’inesperienza e il tipo di rimorchiatore utilizzato.

In realtà c’è un altro aspetto da considerare che, in qualche modo, emerge soprattutto dai ricordi, visto che io stesso ho passato quella fase.

Mi riferisco alla naturale compartimentazione delle competenze.

Per diventare piloti si segue un percorso preciso che matura in una professionalità specifica e approfondita.

Una visione abbastanza completa la si raggiunge solo dopo esperienze maturate in molti anni di problemi risolti.

Nella prima fase si tende a concentrarsi sul “nocciolo” della manovra, sulla tecnica e sulla buona riuscita del contratto affrontato; obiettivo comunque ampio e impegnativo.

È solo quando si raggiunge un certo grado di tranquillità nello svolgimento del lavoro che si riesce a considerare, con interesse ed efficacia, anche il contorno del nocciolo: l’estetica della manovra, la fluidità, l’equilibrio obiettivo delle decisioni e dei consigli e, cosa molto importante, il ruolo e la dinamica degli altri soggetti più strettamente coinvolti. Mi riferisco al comandante della nave con il suo equipaggio, agli ormeggiatori e ai rimorchiatori.

Non basta sapere che ci sono, bisogna riuscire a guardare le cose dal loro punto di vista, capire i loro problemi, le loro necessità e i loro punti forti. Solo così si riuscirà a lavorare meglio e più in sicurezza.

Non è scontato che un pilota sappia le caratteristiche del rimorchiatore che volterà a prora, come non è scontato che sia perfettamente conscio delle difficoltà che, il comandante del rimorchiatore, potrebbe incontrare per quel nodo di velocità in piú della nave, o i possibili effetti di un cavo mollato troppo velocemente a poppa.

Come ho già detto è un aspetto importante, che sale la classifica delle priorità solo dopo che altri aspetti della manovra diventano talmente da familiari da non essere considerati più come problemi prioritari.

Ci vuole tempo.

Ph:J.Gatti


 

È in questa ottica che voglio affrontare, in maniera leggera e discorsiva, i punti che necessitano di un passaggio mentale condiviso.

Prima di entrare nel vivo però, dobbiamo parlare brevemente delle forze e degli effetti a cui è soggetto un rimorchiatore quando naviga in prossimità di una nave in movimento.

Queste forze aumentano con l’incremento della velocità della nave e con la diminuzione della distanza nave-rimorchiatore: più è alta la velocità e minore è la distanza, maggiori sono le forze di interazione che intervengono tra i due scafi. Oltre a questi due fattori, ad aumentare gli effetti concorrono anche le forme delle opere vive, l’underkeel clearance, l’assetto della nave, il pescaggio, ecc.

Le zone maggiormente interessate sono quelle vicine alla prora, molto meno quelle prossime al centro nave – questo è principalmente dovuto alla forma dello scafo – e risultano particolarmente insidiose quando il rimorchiatore si avvicina per essere voltato.

In quella fase, sapere esattamente a cosa si va incontro è praticamente impossibile. Come già detto, gli effetti subiscono numerose influenze e l’esperienza del comandante del rimorchiatore, unita a buone capacità di manovra del mezzo, incide molto sul livello generale di sicurezza dell’operazione, ma la cosa certa è che:

diminuendo la velocità diminuiscono anche gli effetti di interazione

Volendo rimandare l’approfondimento di un argomento che merita ben più di poche righe, semplifico citando solo alcuni dei rimorchiatori più utilizzati al mondo: quelli convenzionali, gli azimuth stern drive o ASD e i Tractor Tugs, o ATD, così chiamati perché hanno i propulsori posizionati verso prora.

Ph: M.Garipoli


Ho già detto che l’area più soggetta a queste forze d’interazione è quella prodiera e il rimorchiatore che viene voltato a prora si trova necessariamente a  operare molto vicino allo scafo. In questo caso, quelli che hanno i propulsori vicini al bulbo della nave, se si trovassero nella necessità di doversi disimpegnare velocemente da una situazione potenzialmente pericolosa, si troverebbero a utilizzare timoni o propulsori in un’area soggetta a forze imprevedibili e  non lineari, che contrasterebbero l’esecuzione della manovra. Questo è il motivo per cui la maggior parte degli incidenti si registra con il rimorchiatore che deve voltare a prua e dotato di propulsione poppiera.

Sarebbe quindi meglio, potendo scegliere, utilizzare a prora i Tractor Tugs.

In ogni caso, due regole che andrebbero sempre rispettate sono le seguenti:

· se a prora vengono presi più rimorchiatori, voltare per primo sempre quello al centro perché, in caso di emergenza (blackout, avaria, ecc.) avrebbe libere le vie di fuga laterali;

· in caso di utilizzo di più rimorchiatori, voltare prima quello a poppa; in questo modo potrà intervenire, in caso di necessità, aiutando il controllo della nave o rallentandone la velocità, mentre si cerca di voltare il rimorchiatore a prora.

Per quanto riguarda la procedura di avvicinamento del rimorchiatore alla prua della nave in movimento, ritengo pericoloso quasiasi approccio frontale, sia che il rimorchiatore aspetti la nave lungo la sua rotta per poi anticiparla una volta raggiunto, sia che – ancora peggio – il rimorchiatore vada incontro alla prora in controcorsa. In caso di avaria ai propulsori o agli organi di governo l’impatto sarebbe probabilmente inevitabile.

La soluzione che preferisco è quella che vede il rimorchiatore affiancare la nave in una rotta parallela, sorpassarla e, restando laterale alla prua dal lato sottovento, prende l’heaving line e inizia le operazioni di incoccio completamente libero.

Ph: J.Gatti


Parliamo ora di velocità. Argomento delicato e influenzato da diverse variabili.

· se parliamo di ASD da voltare a prora, o comunque di rimorchiatore tradizionale con i propulsori a poppa, minore è la velocità e meglio è; direi che un buon limite massimo potrebbe essere quello dei 6 nodi;

· se utilizziamo un Tractor Tug, allora andrebbe considerata anche la velocità massima del rimorchiatore e l’esperienza del suo comandante, ma direi che 6/7 nodi sarebbero accettabilissimi (per esperienza personale, e ascoltando il parere di diversi comandanti di rimorchiatori, direi che sono accettabili anche velocità superiori);

· quando il rimorchiatore deve essere voltato a poppa o lateralmente, il problema “sicurezza” assume un peso diverso e, di conseguenza, anche la velocità ha diversa rilevanza; 6/8 nodi possono andare bene.

È necessario sottolineare come, per un comandante di rimorchiatori, l’esperienza, l’abilità personale e la conoscenza del proprio mezzo influenzino enormemente il fattore “sicurezza”.

Anche in questo caso, come in quasi tutte le situazioni, conoscere e ammettere i propri limiti, dimostrando equilibrio e oggettività, contribuisce non poco al contenimento dei rischi e, di conseguenza, degli incidenti.

Facciamo ora qualche considerazione che interessa il lato “nave”.

È di uso comune, e lo ritengo anche corretto, utilizzare la lingua locale durante le comunicazioni con i rimorchiatori. Questo perché nella manovra sono coinvolti anche gli ormeggiatori e, a volte, personale di terra ed è meglio che tutti siano al corrente e comprendano quello che succede. D’altra parte è necessario mettere a conoscenza di tutti gli sviluppi anche il comandante, perciò è buona norma tradurre per lui tutte le comunicazioni che interessano la manovra.

Durante lo scambio di informazioni con il comandante della nave, è importante chiedergli l’SWL della bitta a cui verrà dato volta il cavo del rimorchiatore, informarlo sulla necessità dell’uso di un idoneo heaving line, di avvisare il personale al posto di manovra di stare lontani dal cavo in lavoro, chiedere di essere informati sulle varie fasi di aggancio dei rimorchiatori e su qualsiasi cosa di rilievo che li riguardi. Occorre, inoltre, informare il comandante su come si intendono utilizzare i rimorchiatori nei vari steps della manovra.

Al momento di mollare il cavo, in particolare quello di poppa, avvisare il personale al posto di manovra di lascarlo piano piano per evitare che possa finire nei propulsori del rimorchiatore.

Ph: M.Scarrone


Il comandante del rimorchiatore deve essere informato:

–   sulla SWL della bitta che useranno per voltarlo;

· sulle condizioni della nave (pescaggio, velocità minima, eventuali problemi);

· sull’ormeggio assegnato alla nave e la manovra che si intende effettuare.

Uno dei problemi che talvolta si riscontrano, riguarda il tempismo degli attori in campo: è molto importante che il rimorchiatore arrivi puntuale e, nel caso ciò non fosse possibile, che avvisi in tempo per permettere al pilota di regolare la velocità di conseguenza.

Allo stesso modo, al fine di evitare situazioni pericolose, l’equipaggio della nave deve essere pronto all’arrivo del rimorchiatore.

È infatti un rischio inutile per il rimorchiatore restare sotto la prua più tempo dello stretto necessario.

Quando si volta il rimorchiatore, inoltre, è importante che la nave mantenga rotta e velocità costanti ed è comunque buona norma avvisare sempre di eventuali variazioni.

Una cosa che il comandante del rimorchiatore, a mio avviso, deve tenere conto, è del fatto che il pilota, molto spesso, non ha piena coscienza delle caratteristiche dei loro mezzi. Questo vuol dire che non deve farsi problemi a suggerire variazioni di pianificazione, se queste sono più funzionali al lavoro da svolgere.

Come ho anticipato all’inizio dell’articolo, quello che ho scritto non è altro che un “assaggio” di una delle tante fasi delicate della manovra.

In futuro toccheremo altri argomenti sottolineando l’aspetto dell’efficacia, della coordinazione delle parti, della professionalità, della gestione degli imprevisti e, soprattutto, della sicurezza.

Leggi altri articoli nella sezione blog.

Ph: J.Gatti


Rapallo, 31 Ottobre 2020


QUANTO E’ SLEGATA L’ANCORA DALL’ELICA E DAL TIMONE

 


 

QUANTO E’ SLEGATA L’ANCORA DALL’ELICA E DAL TIMONE


BY JOHN GATTI 6 OTTOBRE 2020•13 MINUTI

 

Nel corso degli anni l’ancora come ausilio alla manovra, ha ceduto il posto – in ordine d’importanza – al passo variabile e ai thrusters.

Non molti anni fa era normale impostare una manovra di affiancamento a una banchina, con il lato nave non favorevole all’effetto dell’elica, prevedendo l’uso dell’ancora.

A questo proposito voglio riportare una piccola esperienza, maturata nel mio periodo da allievo, tratta dal libro “A bordo con il Pilota“:

“Il pilota che mi seguiva nella manovra aveva molta esperienza e il coraggio/pazienza di far continuare la gestione all’allievo fin quasi al “punto di non ritorno”. Questo è positivo, perché l’adrenalina provocata da un “quasi impatto” salvato il più tardi possibile lascia un segno indimenticabile e vale più di molta teoria.

Eravamo a bordo di una nave lunga cento metri che pescava sette metri e mezzo, monoelica a passo fisso sinistrorsa, timone tradizionale e senza elica di prora.

Dovevamo percorrere circa due miglia di canale per poi accostare di novanta gradi a dritta e affiancare in banchina con il fianco sinistro, senza evoluzione.


Poco dopo aver imboccato il canale, un altro pilota imbarcato su una nave in partenza ci chiese di aumentare la velocità per permettergli di mollare gli ormeggi.

Il mio ragionamento spiccio si limitava a considerare che ero a bordo di una nave piccola, che per me equivaleva a “piccoli problemi”.

Portai la macchina ad Avanti Mezza e passammo la metà del canale a setteno di di velocità. Una volta liberato il transito per l’altra nave, ridussi ad Avanti Adagio, ma la velocità scese solo di un nodo e, per farlo, ci mise parecchio tempo, ma dentro di me ero tranquillo perché continuavo a pensare che “la nave era piccola”…

A qualche centinaio di metri dall’accostata di novanta gradi scesi ad Avanti Molto Adagio.

Per farla breve, realizzai di avere un’elevata velocità, relativa alla situazione contingente, troppo tardi.

Fermai la macchina, ma la nave carica era troppo pesante e lenta nelle risposte.

Cominciai a sudare freddo: mi vedevo già contro la nave ormeggiata di fronte a noi.

Rimisi in moto la macchina, ma con il Molto Adagio la velocità di accostata era sempre troppo lenta e fui costretto ad aumentare fino ad Avanti Mezza. Il timone riprese a rispondere bene a scapito di una velocità che riprese a salire.

Lo scenario che si presentava ai nostri occhi era il seguente: una nave ormeggiata a sinistra e la nostra destinazione cento metri più avanti, duecentocinquanta metri di fronte finiva tutto: solo cemento.

Per chiudere il cerchio posso dire che avevamo a che fare con una velocità prossima ai sei nodi e a un effetto dell’elica che, a marcia indietro, ci avrebbe fatto dare una pruata in banchina…

Ormai ero in panico.

Intervenne il pilota.

Diede subito tutto il timone a dritta e, non appena la nave cominciò ad accostare, mise la macchina Indietro Tutta e il timone in mezzo: l’effetto dell’elica fermò l’evoluzione e chiamò la prua a sinistra; a quel punto diede fondo all’ancora di dritta. Una lunghezza e mezza in acqua, fece agguantare e poi filare un’altra mezza lunghezza.

Risultato: dopo qualche minuto eravamo ormeggiati in banchina, perfettamente in posizione.

Considerazioni:

  • la prima cosa che risulta evidente è la differenza tra il limite dell’allievo e quella del pilota, dovuta a una questione di abitudine alla reazione nelle situazioni critiche affrontata nelle migliaia di manovre già effettuate. Aggiungo l’abitudine all’uso disinvolto dell’ancora che elimina le esitazioni.
  • La teoria è la base imprescindibile, ma la pratica concretizza le parole incidendo l’esperienza nella memoria.
  • La velocità non è un valore assoluto, ma relativo alla situazione contingente.
  • Anche la grandezza della nave è spesso relativa: solitamente gli ausili alla manovra sono proporzionati alla stazza e il pescaggio può rendere una piccola nave molto difficile da governare.
  • La sicurezza della manovra in cui si è impegnati è la cosa più importante. Nel caso specifico, far aspettare qualche minuto in più il pilota in partenza non avrebbe portato nessuna conseguenza, mentre aumentare la velocità ha creato una situazione di potenziale pericolo.
  • L’errore più grave è stato quello di non prevedere i passaggi successivi, arrivando al punto di accostata in prossimità dell’ormeggio senza la possibilità di ridurre la velocità.
  • La giusta sequenza avrebbe previsto una riduzione progressiva della velocità, in modo di arrivare al punto di accostata con circa due nodi, per poi accelerare nell’evoluzione assicurandosi un maggior controllo. Terminata la rotazione si doveva stabilizzare la rotta, fermare la macchina e dare fondo per poi continuare dragando l’ancora.

In questo racconto sono stati messi in evidenza diversi punti, tra i quali troviamo la pianificazione dell’uso dell’ancora.

In questo racconto sono stati messi in evidenza diversi punti, tra i quali troviamo la pianificazione dell’uso dell’ancora.

In effetti, per una questione di “allenamento del gesto” al fine di renderlo fluido in caso di necessità, non sarebbe sbagliato utilizzare, di tanto in tanto, l’ancora anche solo per esercizio.

Purtroppo la reale efficacia di questo strumento, oggigiorno, la si apprezza soprattutto nelle emergenze. Situazioni in cui la rapidità d’intervento è il fattore che, il più delle volte, determina il controllo degli eventi o l’inevitabile impatto.

In generale i vantaggi nel suo utilizzo sono numerosi:

  • controllo della caduta della prora in banchina;
  • arresto della nave con uso minimo della macchina;
  • gestione della rotta con l’ancora a dragare;
  • posizionamento dell’ancora come aiuto per il successivo disormeggio;
  • e così via.

Passo variabile ed eliche di manovra hanno semplificato le cose…

Come ben sappiamo, e senza entrare troppo nei particolari, le eliche a passo fisso hanno le pale solidali al mozzo e non è possibile agire sul loro orientamento. Questo comporta tutta una serie di limiti di cui è necessario tenere conto:

  • per invertire la direzione di moto, si deve fermare il motore e riavviarlo con l’asse accoppiato in senso inverso. Ogni volta occorre un nuovo avviamento, che ha bisogno d’aria, che non è infinita…
  • a seconda del timone di cui sarà dotata la nave che stiamo manovrando, avrà una sua velocità minima di governo. Alcune, dotate di timone dall’ampia superficie manovrano fino a velocità molto basse, altre meno. In ogni caso tutte hanno un limite.

Va da sé che, per pareggiare i conti in queste condizioni, l’ancora è la soluzione ideale.

Abbiamo detto che l’avvento delle eliche a passo variabile e delle eliche di manovra ha cambiato la situazione.

Vediamo perché.

Per prima cosa rinfreschiamo la memoria definendo

il passo dell’elica: che è la distanza teoricamente percorsa in un giro completo dall’elica, trascurando la cedevolezza del fluido, che corrisponde alla distanza che la stessa percorrerebbe se si muovesse all’interno di un corpo solido. (Approfondimenti nel video “Le eliche“)


Si deve proprio alla possibilità di variare a piacimento il passo dell’elica una delle rivoluzioni avvenuta nelle impostazioni delle manovre, discorso che vale, in particolar modo, per le navi medio/piccole. Quelle cioè, dove spesso l’ancora sostituiva egregiamente il lavoro dell’eventuale rimorchiatore.

Le eliche a passo variabile ruotano sempre nello stesso senso a giri costanti.

Niente più problemi di avviamenti e facilità a regolare la velocità a seconda dell’esigenza.

Questo sistema porta con sé anche diversi difetti, come la difficoltà a mantenere la rotta a passo zero, dovuta alla continua rotazione dell’asse; la resa a marcia indietro generalmente scarsa e accompagnata da un forte effetto dell’elica; e diversi altri che in questo contesto non andiamo ad affrontare.

Sta di fatto che la possibilità di poter agire sul passo per regolare la velocità, permette di avere un controllo maggiore sulla manovra; se poi aggiungiamo un’elica di prora, allora l’ancora diventa veramente una cosa di cui, in queste condizioni, si può fare a meno.

Ma l’ancora, nonostante la frequenza del suo utilizzo sia diminuita considerevolmente negli ultimi anni, resta una delle carte più importanti del mazzo.

Mi è capitato solo una quindicina di volte, in più di vent’anni da pilota, di doverle utilizzare in situazioni d’emergenza, ma vi assicuro che se in quelle occasioni non avessi avuto “familiarità” nell’utilizzo di questo ausilio, il conto in soldi dei danni che ne sarebbero derivati sarebbe stato veramente alto.

Consiglio, per chi non l’avesse ancora fatto, di dare un’occhiata anche all’articolo “Ancore: quelli a prua non sono orecchini!”

Per approfondimenti sulle ancore e il loro utilizzo: Il punto sulle ancore“.

 

JOHN CARLO GATTI

 

Rapallo, 8 Ottobre 2020