L'ASSO NELLA MANICA
L'ASSO NELLA MANICA
BY JOHN GATTI•4 GENNAIO 2021•12 MINUTI
La fase di studio, propedeutica all’acquisizione delle competenze necessarie a renderci titolati e in grado di svolgere un determinato compito, determina – in larga misura – i confini entro i quali spazierà la nostra abilità.
Sarebbe forse più giusto dire che:
“l’apertura mentale con cui affrontiamo lo studio, stabilisce i limiti della vastità delle nostre conoscenze”.
Questo perché il nostro cervello è portato a semplificare tutto il possibile e, il più delle volte, raggiunge il suo scopo agendo per esclusione:
elimina, per motivi di efficienza, ciò che reputa superfluo
succede, quindi, che tendiamo a dimenticare quanto il cervello ritiene – a suo insindacabile giudizio – inutile o, ancora peggio, altera i ricordi adattandoli agli assunti già immagazzinati nella nostra memoria, secondo il principio per cui:
è meno dispendioso, in termini energetici, consolidare convinzioni già acquisite, anche se sbagliate, piuttosto che sovrascrivere informazioni già registrate.
Pensando a quanto ho scritto sopra, si materializza nella mia mente l’immagine di un aspirante pilota che si presenta all’esame con un sacco colmo di nozioni, formule, definizioni e simulazioni.
Una volta vinto il concorso, vedo l’allievo cominciare il suo anno di apprendimento con il sacco pieno da una parte e un sacco vuoto dall’altra.
Fin dai primi giorni quello pieno comincia a vuotarsi:
parte del contenuto viene dimenticato, perché inutile nella pratica, mentre una quantità modesta passa nell’altro sacco, quello che contiene la teoria necessaria a supportare l’esperienza.
Il ragionamento non è né bello né lineare.
Semplicemente il cervello fa il suo lavoro: elimina ciò che cataloga come superfluo e conserva ciò che ritiene utile.
Potrei disquisire a lungo sui vantaggi e gli svantaggi del modo di operare del cervello applicato alla manovra delle navi, ma il risultato è più o meno questo:
il pilota esperto ha uno stile personale che, purtroppo e di fatto, confina le sue conoscenze; all’interno di questi limiti c’è tutto il suo sapere, fatto di esperienza, di minimi calcoli e di soluzioni efficaci; di infinite ripetizioni, di automatismi e di spazi fisici/temporali compresi tra il momento “x” e il punto di non ritorno.
È giusto. Il fine è quello che conta.
Saper gestire perfettamente il necessario numero di opzioni permette di agire con tempestività, sicurezza ed efficacia.
Il resto è fumo.
Beh, non è proprio così… però, se osserviamo le cose da un punto di vista pratico, è evidente che un pilota che opera a Genova ha poca esperienza e poco interesse all’approfondimento della manovra nella nebbia, nei ghiacci o nei fiumi, perché diventa, nel tempo, esperto nella conduzione della nave in presenza di vento e negli spazi ristretti.
Un concetto realistico, che però presenta i suoi limiti.
Saper gestire l’ordinario è scontato e imprescindibile. Il buon pilota si vede nell’emergenza o quando l’ordinario sconfina nello straordinario, costringendolo a tirare fuori l’asso dalla manica.
È per questo che due “sacchi” non bastano e non ci possiamo permettere di rinunciare a portare, tra i nostri bagagli, anche uno zainetto.
Cambiare manovra per sfruttare un vento o una corrente troppo forti; avere sempre una via di fuga o un piano “B” in caso di rottura del cavo del rimorchiatore o di un’avaria della nave; decidere per tempo quando è il momento di fare dietrofront e ricominciare la manovra; sapere quando e come sfruttare le ancore, i cavi, la barca degli ormeggiatori o un ridosso di fortuna… e così via per le innumerevoli situazioni in cui ci si può trovare.
Il nostro zainetto deve contenere soluzioni potenti per situazioni difficili.
Ero a bordo di una nave chimichiera lunga 100 metri, scarica e ormeggiata con il fianco di dritta in banchina.
Potrebbe sorgere spontanea una domanda:
“Perché, negli esempi, spesso si parla di navi di modeste dimensioni?”
Perché le grandi navi, il più delle volte, hanno macchine e thrusters potenti e utilizzano i rimorchiatori. Questo non vuol dire che siano più facili da manovrare o che i problemi siano meno frequenti, piuttosto che l’intervento del pilota, quando gli elementi sotto controllo sono limitati, è più facilmente comprensibile da chi legge.
Elica a passo fisso destrorsa, bow thruster da 300 cavalli.
Quando era stata ormeggiata, due giorni prima, le condizioni meteomarine erano ottime ed era prevista una sosta di poche ore. Perciò, all’arrivo, confidando sull’effetto destrorso dell’elica e sul bow thruster, si era deciso di non dare fondo l’ancora di sinistra.
Un ritardo nella partenza, dovuto a problemi commerciali, fece sì che la situazione cambiasse radicalmente: 20 nodi di vento da scirocco schiacciavano la piccola nave in banchina e, la mancanza di un’ancora data fondo a sinistra ad allargare la prora e un thruster dalla potenza insufficiente, rendevano la manovra di disormeggio alquanto delicata.
Insieme a me c’era un allievo con circa 6 mesi di anzianità, praticamente a metà del suo percorso formativo.
Un’occasione importante per scoprire il livello di preparazione che aveva raggiunto.
Disegno di Garipoli M.
Lasciò due spring a prora e, con il timone tutto a dritta, mise la macchina avanti molto adagio. Ben presto la poppa cominciò ad allargarsi dalla banchina, mentre la prora si appoggiò a un ottimo parabordo.
L’allievo continuò ad allargare la poppa – giustamente – fino a un angolo apparentemente esagerato: il timore, piuttosto fondato, era che, una volta messa la macchina indietro, il vento facesse cadere la poppa sullo spigolo vivo della banchina poco distante.
Aveva impostato la manovra nel modo giusto, ma la sua idea era che, una volta mollati gli springs, l’effetto destrorso dell’elica avrebbe mantenuto la poppa e che il thruster sarebbe riuscito a far rimontare la prora al vento.
In realtà, con nave così scarica, avrebbe dovuto immaginare uno sviluppo dinamico differente e impostare una strategia per i passaggi successivi.
Ma andiamo per ordine.
La prora sfilò lungo la banchina alla costante distanza di un paio di metri, senza accennare ad allargarsi.
La poppa, nonostante l’effetto dell’elica, cadeva con una lentezza costante e la probabilità di finire contro lo spigolo era piuttosto elevata.
L’allievo aumentò la macchina fino a indietro tutta e mise il timone tutto a sinistra per sfruttare anche questa componente.
La poppa si stabilizzò ma la prora cominciò a perdere qualcosa.
Quando arrivammo ad avere un discreto abbrivo indietro e la poppa libera dallo spigolo, fu evidente che la prora non sarebbe passata indenne.
Intervenni facendo fermare la macchina, mantenni il timone tutto a sinistra e avviai, per qualche secondo, l’avanti adagio.
La nave restò abbrivata indietro, anche se rallentata, e la prora – beneficiando di quell’aiuto – si allargò quel tanto che bastò a farle superare lo spigolo.
Subito dopo la situazione fu la seguente: poppa al vento e prora nella direzione opposta all’uscita.
L’allievo rimise la macchina indietro per aumentare l’abbrivo, dopodiché diede avanti adagio con timone tutto a dritta cercando di evoluire ma, non appena la nave si trovò al traverso del vento, non ci fu più verso di far salire la prora… e intanto lo scafo scarrocciava verso un’altra banchina.
Avrebbe dovuto usare più potenza di macchina, per sperare di ottenere qualcosa! Infatti – per avere un buon effetto evolutivo – occorre una buona spinta propulsiva immediata e tanto timone, altrimenti si va avanti e si gira poco.
Attesi ancora qualche minuto poi, per non correre il rischio di scadere troppo verso la banchina raggiungendo il “punto di non ritorno”, intervenni dando fondo una lunghezza all’ancora di dritta e fermai tutto.
Nel giro di qualche minuto la nave, con la prua vincolata dalla catena, ruotò mettendosi al vento.
Salpammo e procedemmo verso l’uscita.
PH: Parisi F.
Da questo esempio risulta evidente che, in certe circostanze, sfruttare l’ancora per evoluire è la scelta più semplice ed efficace.
Dare fondo, con pochissima catena e la presenza di un po’ di vento o corrente, permette di ruotare quasi su sé stessi.
Il fatto di dare meno lunghezze possibili, ci permette di operare in poco spazio e di salpare agevolmente una volta raggiunta la direzione voluta.
Ci si deve abituare all’utilizzo dell’ancora.
Decidere di dare fondo, non è scontato come agire sui thruster o usare lo spring per allargare la poppa.
Il feedback emotivo che emerge dal decidere di aprire il freno del verricello è – in mancanza di familiarità con l’azione – l’incertezza cognitiva dell’atto stesso e delle sue conseguenze:
· ho - ho dato fondo nel punto giusto?
· ho - ho dato abbastanza catena?
· rius - riuscirò a dragarla o a fermare la nave in tempo?
· e c - e così via.
Nella pratica i margini operativi non sono così stretti: in caso di errore posso filare più catena, dragare l’ancora per spostare la sua posizione, aumentare o diminuire la macchina e, se proprio le cose non vanno come dovrebbero, salpare e ripetere l’operazione.
Più usiamo gli strumenti presenti nello zainetto più diventiamo disinvolti, precisi e bravi.
Più si mantengono ampi i confini in cui spaziano le abilità, più chance si hanno nel momento del bisogno.
ISOLA DELLE ROSE-UNA STORIA TUTTA ITALIANA
ISOLA DELLE ROSE
MICRO-NAZIONE
UNA STORIA TUTTA ITALIANA…
la Piattaforma ISOLA DELLE ROSE che mise in allarme lo Stato Italiano
L'isola delle Rose, nome ufficiale Repubblica Esperantista dell'Isola delle Rose, fu il nome dato a una piattaforma artificiale di 400 m² che sorgeva nel mare Adriatico a 11,612 km al largo della costa tra Rimini e Pesaro e 500 mt al di fuori delle Acque Territoriali italiane; costruita dall’ingegnere bolognese Giorgio Rosa, il 1º maggio 1968 autoproclamò lo status di Stato indipendente, ma di fatto fu una MICRO-NAZIONE.
L'Isola delle Rose, pur dandosi una lingua ufficiale (ESPERANTO), un governo, una moneta, e un’emissione postale non fu mai formalmente riconosciuta da alcun Paese del mondo come nazione indipendente. Occupata dalle Forze di Polizia italiane il 26 giugno 1968 e sottoposta a Blocco Navale, l'Isola delle Rose fu demolita nel febbraio 1969. L'episodio venne lentamente dimenticato, considerato per decenni solo come un tentativo di “urbanizzazione del mare” per ottenere vantaggi di natura commerciale.
Solo a partire dal primo decennio del 2000 esso è stato oggetto di ricerche e riscoperte documentarie imperniate invece sull'aspetto utopico della sua genesi.
Area: 400 m²
Anno di fondazione: 24 giugno 1968
Dichiarazione d'indipendenza: 1º maggio 1968
Inno: Steuermann! Laß die Wacht! (Timoniere! Lasciali guardare!) - dall’Olandese Volante di R. Wagner
Territori rivendicati: piattaforma artificiale abbandonata a 11,6 km al largo della Costa Italiana.
Sebbene abbia avuto vita breve, l’Isola delle Rose, lo Stato indipendente al largo di Rimini potrebbe aver segnato una tappa importante per la storia dell’umanità, e il suo valore è stato riscoperto solo di recente. A raccontare la sua incredibile storia è un film uscito di recente, che svela tutti i segreti della micro-nazione che durò solamente 55 giorni.
L’AMBIENTE
Il ritrovamento del campo-gas a Ravenna confermò l'ipotesi che non pochi giacimenti si potessero trovare nel mar Adriatico e, nella prima metà degli anni '50, l'AGIP effettuò la prima campagna di rilievi sismici marini in Italia.
Nella seconda meta degli anni '50 iniziò anche la fase di ricerca diretta con perforazioni di pozzi nel Mar Adriatico. Il primo ritrovamento fu il campo di Ravenna-Mare a cui rapidamente seguirono quelli di Cervia Mare, Porto Corsini nell’offshore romagnolo-emiliano e Santo Stefano Mare nel medio adriatico. A questi si aggiungeranno i campi di Agostino, Porto Garibaldi e di Barbara nel mare Adriatico settentrionale nel periodo 1967-71. Parallelamente all’espandersi dell’attività di ricerca offshore, venne sviluppata la capacità produttiva della Saipem, sempre del gruppo ENI, con la costruzione di impianti di perforazione per l’attività esplorativa offshore.
L’ammucchiata di Piattaforme in Adriatico…
La piattaforma CERVIA-A (foto sopra)
La piattaforma CERVIA-K (foto sotto)
Che dire? L’idea di costruire una piattaforma offshore per attività ludiche, fuori dalle acque territoriali italiane, non poteva sicuramente venire in mente ad un giovane ingegnere del golfo Tigullio … dove l’orizzonte è ancora oggi la proiezione di un cielo pulito, ben lontano da altre realtà italiane ormai contaminate da impianti industriali di qualsiasi tipo.
Si è portati quindi a pensare che l’avventura che affascinò l’Ingegnere Giorgio Rosa, non fosse affatto in contraddizione con il mondo che aveva davanti alla sua costa già da qualche anno.
Ma c’è dell’altro: per noi di una certa età, è sufficiente un piccolo sforzo di memoria per ricordare quel 1968 attraversato da forti tensioni e contraddizioni: da una parte le lotte politiche in piazza e le rivolte degli operai nelle fabbriche; dall’altra la voglia di ripartire, la liberalizzazione dei costumi sessuali, lo spirito imprenditoriale e l’idea che per quella generazione di giovani tutto fosse possibile, non solo, esisteva pure il movimento hippie italiano portatore d’idee pacifiste. La lista è lunga: la lotta al consumismo, la love generation importata dagli USA ed una plateale assenza di regole.
“In questo clima di fermento, Rimini comincia ad affermarsi in Italia come località turistica ma soprattutto come luogo di possibilità, di divertimento e di un certo liberismo”.
Con questa premessa che ci racconta dell’aria che la gioventù romagnola respirava a pieni polmoni, Giorgio Rosa sceglie Rimini per mettere in piedi il suo progetto. Si tratta della costruzione di una piattaforma al largo della località balneare che, in un primo momento, doveva essere un’attrazione turistica con bar, uffici e camere d’hotel.
Ma questo non era che l’inizio, presto quel cumulo di piloni e ferro diventeranno un’utopia. L’utopia della libertà, di farsi e costruirsi uno STATO proprio dove poter vivere con le proprie leggi e le proprie regole.
CHI ERA GIORGIO ROSA?
Il 19 Dicembre 1950 GIORGIO ROSA 25 anni, si laurea in ingegneria all’Università di Bologna.
Dopo aver lavorato un anno alla Ducati, apre il suo studio e comincia a collaborare con il Tribunale di Bologna come Perito oltre a svolgere la sua normale attività di ingegnere presso i cantieri della città. Chi lo ha conosciuto in questa fase della sua carriera – soprattutto chi lo ha incontrato in Tribunale – ne parla come di un professionista scrupoloso, sull’orlo del maniacale… sicuramente un osso duro!
Intorno alla metà degli anni ‘50 comincia a insegnare presso un Istituto Tecnico, nel frattempo (1960) si sposa con Gabriella Clerici con la quale condivide anche il progetto dell’Isola delle Rose. Insieme fondano la Spic (Società Per Iniezione Cemento), la società che presenterà il progetto embrionale della piattaforma al largo dell’Adriatico, sottoforma di richiesta “di effettuare delle sperimentazioni in mare”.
La sua biografia ci racconta di un uomo pacato ma fermo nelle intenzioni. Instancabile lavoratore, sempre presente sul suo cantiere galleggiante. Un uomo che quando gli viene detto di stare alle regole s’inventa la sua indipendenza e si mette contro lo stato Italiano.
Giorgio Rosa e sua moglie
LA STORIA DELL’ISOLA DELLE ROSE
minuscola micro-nazione.
Il progetto della piattaforma al largo delle acque di Rimini consiste in una struttura di 5 piani con bar, negozi, attività commerciali e camere d’hotel per essere un’attrazione turistica per le migliaia di turisti estivi che ogni giorno affollavano le spiagge della Riviera Romagnola.
Dopo una fase iniziale di studio reciproco delle intenzioni tra Giorgio Rosa e lo Stato italiano, matura abbastanza presto il sospetto che la creazione di una “zona franca” fuori dalle Acque Territoriali, possa nascondere interessi stranieri di varia natura: impianto di missili russi, bisca clandestina, luogo di perdizione sessuale ecc…
Emergono forti tentativi di contrasto da parte dell’Autorità Marittima che, ogni volta, si sente rispondere dall’ingegnere:
“Io non devo rispettare nessuna regola perché la mia piattaforma si trova fuori dalle acque territoriali italiane”
Ben presto l’ISOLA DELLE ROSE appare sulle prime pagine della Stampa italiana, il caso diventa nazionale e centinaia d’imbarcazioni lasciano la costa per andare a curiosare l’impianto che ancora non è neppure agibile, ma la gente vuole dimostrare la propria solidarietà a questi nuovi eroi, forse ingenui e visionari, ma coraggiosi e determinati.
Sicuramente l’ingegnere e i suoi adepti, tra cui la futura moglie, non hanno previsto così tanta partecipazione e sostegno morale alla loro causa.
Tutti i giornali italiani si occupano della vicenda. Immagine tratta da “L’Isola delle Rose, la nazione che visse solo 55 giorni”
LA FILOSOFIA DEL PROGETTO
La sua idea, una vera e propria utopia, era quella di dare vita ad uno Stato indipendente in cui non vi fossero regole, dove gli abitanti potessero convivere in armonia sulla base di un unico, importante valore: la libertà. Era la fine degli anni ’50 quando Rosa diede il via ad un progetto incredibile, che trovò i primi ostacoli in alcuni problemi tecnici e nelle lungaggini della burocrazia italiana. Le autorità italiane avevano già intimato la rimozione di qualsiasi impedimento che potesse creare pericoli per la navigazione. Chi ha navigato sa benissimo quanto la nebbia da quelle parti sia un nemico molto insidioso.
Tuttavia, l’ingegnere portò avanti senza sosta la sua iniziativa, che richiese anni per la realizzazione. La piattaforma marina crebbe pian piano, sempre sotto l’occhio attento delle autorità, che non poterono però fare nulla per impedirlo. Un vero e proprio isolotto artificiale di appena 400 metri quadri emerse dalle acque a poco più di 11 km di distanza dalla costa romagnola. la posizione venne scelta accuratamente, affinché la piattaforma si trovasse appena al di fuori delle acque territoriali italiane.
Finalmente, nel 1967 l’isola venne aperta al pubblico e si preparò ad accogliere i suoi abitanti. L’anno seguente, e più precisamente il 1° maggio 1968, venne dichiarata la sua indipendenza e Giorgio Rosa venne eletto Presidente della Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose.
La micro-nazione adottò infatti l’esperanto come lingua ufficiale, una decisione chiaramente volta a sancire la propria sovranità e indipendenza dallo Stato italiano. E i provvedimenti seguenti furono in linea con questa necessità:
L’Isola delle Rose (Insulu de la Rozoj) si diede un governo, emise la propria moneta e persino dei francobolli.
Ma nessuno Stato riconobbe mai la sua indipendenza, e la micro-nazione durò appena 55 giorni.
Questa è una piccola “dichiarazione di guerra” che spinge la politica italiana a occuparsi della cosa in modo serio. Vengono fatte diverse interrogazioni parlamentari e il 25 Giugno 1968 l’Isola viene occupata militarmente dalle forze dell’ordine italiane che diedero vita ad un blocco navale e presero possesso della piattaforma, obbligando gli unici due residenti a sbarcare. Ebbe inizio un lungo dibattito tra le varie forze in gioco, ma fu Giorgio Rosa a soccombere: la sua oasi di pace avrebbe dovuto essere smantellata. Fu la Marina Militare ad occuparsi della demolizione, con diverse scariche di esplosivo.
A bordo resta solo il custode che non può essere toccato perché fuori dalle acque territoriali. L’isola delle Rose viene conosciuta in tutt’Europa, i giornali tedeschi prendono a cuore la vicenda e si schierano dalla parte dell’ingegnere e della sua impresa. In quei giorni arrivano lettere di stima, ma soprattutto richieste di cittadinanza e proposte di acquisto per gli spazi presenti sull’isola.
Nonostante tutto dopo mesi di battaglie legali – l’11 e il 13 Febbraio 1969 viene abbattuta con l’utilizzo di 2 tonnellate di esplosivo.
Finisce così un sogno. Le idee di un uomo visionario che si oppose alle regole e alla burocrazia, intenzionato a creare un’isola felice in mezzo al mare… Dell’Ingegner Rosa si è detto tutto, della sua furbizia di costruire fuori dalle acque territoriali, del suo progetto di fare dell’isola una macchina da soldi e perfino di prendere la parte dei russi nella Guerra Fredda…
Ovviamente non è possibile conoscere le intenzioni dell’Ingegnere Rosa, sta di fatto che questo è stato e rimane un bellissimo sogno di libertà!
La piattaforma viene distrutta nel febbraio del 1969. Immagine tratta da “L’Isola delle Rose, la nazione che visse solo 55 giorni” di Giambene
NUMERI E CURIOSITÀ SULL’ISOLA DELLE ROSE
1. L’indipendenza idrica – l’isola era indipendente dal punto di vista idrico, viene infatti individuata una falda di acqua potabile a 280 mt di profondità.
2. Le attività già avviate: al momento dell’occupazione sulla piattaforma erano presenti un bar, un negozio di souvenir, un ufficio postale (il timbro) e una banca.
3. Gli abitanti – sull’isola hanno vissuto una coppia di riminesi che ne gestivano il bar e un uomo di Città di Castello che faceva da custode. I tre avevano affittato la piattaforma e avevano il mandato di gestire le attività dell’Isola.
4. La mostra a Vancouver – nel 2008 un museo canadese ha realizzato un’installazione in cui l’Isola delle Rose veniva paragonata all’Isola Utopia di Tommaso Moro.
5. I resti – nel 2009 sono stati ritrovati resti di muri e della struttura metallica che ha sorretto l’Isola delle Rose.
LA CRONOLOGIA DELLA STORIA DELL’ISOLA DELLE ROSE
- 1960 – l’azienda guidata da Rosa e sua moglie presenta alla Capitaneria di Rimini la richiesta per effettuare delle sperimentazioni in mare. I sopralluoghi vengono fatti direttamente da Giorgio Rosa.
- 1964 – comincia la costruzione della piattaforma. Vengono impiegati operai riminesi, mentre il primo traliccio è stato costruito a Pesaro. Ci sono voluti 2 anni solo per gettare le basi e creare gli attracchi della piattaforma.
- 1965 – una mareggiata porta via il primo traliccio posato ma non ancorato e quel poco di piattaforma che era stata già posata.
- 20 Agosto 1967 – l’Isola è pronta per essere aperta al pubblico.
- 1 maggio 1968 – Giorgio Rosa dichiara l’indipendenza dell’isola.
- 25 Giugno 1968 – la piattaforma viene occupata militarmente dalle forze dell’ordine italiane.
- 5 Luglio 1968 – viene fatta la prima interrogazione parlamentare al Ministro dell’Interno per sapere quale fosse l’atteggiamento dello Stato italiano nei confronti della piattaforma.
- 7 Agosto 1968 – il tribunale di Bologna decide per la distruzione della piattaforma.
- 11 e 13 febbraio 1969 – la piattaforma viene abbattuta con 2 tonnellate di esplosivo.
- 26 Febbraio 1969 – una mareggiata fece inabissare quello che restava dell’Isola delle Rose.
IL FASCINO DELLA STORIA CHE ORA DIVENTA UN FILM
La storia dell’Isola delle Rose è talmente assurda da sembrare un film, eppure è una storia realmente accaduta al largo di Rimini. Uno stato indipendente sorto e crollato nell’arco di 55 giorni. Di questa storia incredibile e del suo geniale quanto folle costruttore è stato girato un film, diretto da Sydney Sibilia e disponibile su Netflix dal 9 dicembre.
L'incredibile storia dell'Isola delle Rose, costruita in mezzo al mare Adriatico al largo delle coste di Rimini dall'ingegnere bolognese Giorgio Rosa è la storia del sogno visionario di un ingegnere bolognese, che ha trasformato un’utopia in realtà, anche se per soli 55 giorni, attirando l’attenzione del governo italiano e non solo. Si tratta di una storia molto particolare e poco conosciuta in Italia, riportata all’attenzione del grande pubblico grazie a un nuovo film targato Netflix, diretto dal regista Sidney Sibilia (già dietro la macchina da presa per la trilogia di “Smetto quando voglio”) e con protagonista l’attore Elio Germano.
Il film disponibile dal 9 dicembre 2021 è stato presentato così da Netflix: “Se non conoscete Giorgio Rosa, rimediamo subito: è un ingegnere che nel 1968 ha costruito un’isola in mezzo al mare e l’ha dichiarata indipendente, sfidando lo stato italiano”.
La storia non finisce qui, perché nonostante le cariche di dinamite l’Isola delle Rose si ostinò a rimanere in piedi. Servì un’imponente burrasca, che ebbe luogo il 26 febbraio 1969, a farla inabissare e a decretare definitivamente la sua morte. Pian piano vennero raccolti tutti i materiali abbandonati sul fondale, e la storia dell’Isola delle Rose venne dimenticata.
Il regista Sydney Sibilia ha portato sui nostri schermi la versione cinematografica dedicata proprio alla micro-nazione che nacque e morì al largo delle coste di Rimini. L’incredibile storia dell’Isola delle Rose vanta un cast notevole, con Elio Germano ad interpretare l’ingegnere Giorgio Rosa, affiancato da grandi attori quali Luca Zingaretti, Matilda De Angelis e Fabrizio Bentivoglio.
Impossibile rimanere indifferenti a una storia tanto affascinante quanto poco conosciuta. Negli ultimi anni, infatti, è diventata oggetto di un documentario di Stefano Biasulli e Roberto Naccari e del citato libro di Veltroni, edito nel 2012.
- Nome: Insulo de la Rozoj
- Status politico: Micronazione
- Fondatore: Ingegnere Giorgio Rosa
- Anno di nascita: 1 maggio 1968, la piattaforma viene dichiarata “stato indipendente”
- Anno di morte: 11-13 Febbraio 1969, l’isola viene abbattuta con 2 tonnellate di esplosivo
- Numero di abitanti: 3 abitanti
- Grandezza: 400 mq
- Distanza dalla terraferma: 11.612 km dalla costa di Rimini, 500 mt fuori dalle acque nazionali
- Organi Politici presenti: Presidenza del Consiglio dei Dipartimenti, 5 Dipartimenti (Presidenza, Finanze, Affari Interni, Industria e Commercio, Relazioni).
- Bandiera: di colore arancione con tre rose rosse su uno scudo sannitico bianco
- Moneta: Mills, cambio con la Lira 1:1. Non vennero mai prodotte
- Francobolli: da 30 Mills, ne sono state emesse 5 serie
C costo dell’affitto: 1.350 mila lire l’anno
- Lingua Parlata: esperanto
- Durata dell’indipendenza: 55 giorni
@
Il 10 dicembre 2020 - L’amico Fabio Pozzo ha scritto sulla STAMPA:
"Giorgio Rosa ha vissuto sino a 92 anni, nella sua Bologna (è morto nel marzo 2017). L’uomo che si è fatto Stato ha pensato fino all’ultimo alla sua isola. «La mia storia dimostra che un uomo normale non può farsi un’isola», scherzava l’ingegnere. Fondò la Repubblica Esperantista dell’Isola delle Rose («Io non parlavo l’esperanto, ma era un modo per rimarcare la diversità dell’isola, per esaltarne la libertà»), una superficie di circa 400 metri quadrati ricavata su una piattaforma artificiale da lui costruita (e brevettata), ancorandola a quasi 12 km da Rimini, 500 metri oltre le acque territoriali italiane, nel 1968, in piena rivoluzione sociale. «Ma io non avevo tempo per queste cose», diceva. Gli hanno dato anche del fascista, ex repubblichino, missino. “Ho votato solo due volte dal 1945. Per Guazzaloca sindaco di Bologna e per il primo Berlusconi. Ma mi sono pentito», aveva replicato.
Emise francobolli (ricercatissimi dai collezionisti; «Spedivamo lettere che venivano regolarmente sottoposte ad annullo postale in Italia») e si dotò di una divisa monetaria, il Mills, mai battuta. La bandiera era costituita da tre rose rosse con il gambo verde, su un campo bianco di uno scudo su sfondo arancione. Per l’inno fu preso un passo dell’Olandese volante di Richard Wagner. Vi aprì un bar-ristorante, pensava a negozi. In Romagna stava appunto sbocciando il turismo, l’isola strana diventò un’attrazione. Ci si andava in barca, amministratori e operatori a terra apprezzavano".
Carlo GATTI
Rapallo, 19 Gennaio 2021
MANOVRE E METEO: ANCHE L'OCCHIO VUOLE LA SUA PARTE
Ph: J.Gatti
MANOVRE E METEO: ANCHE L’OCCHIO VUOLE LA SUA PARTE
by JOHN GATTI • 25 NOVEMBRE 2020•11 MINUTI
Le previsioni metereologiche interessano tutti ma, per alcuni, l’informazione relativa all’evoluzione dei fenomeni atmosferici – il più possibile precisa – è uno degli ingredienti fondamentali del piano strategico a breve e a lunga distanza.
Abbiamo parlato del gigantismo navale in questi articoli (Una manovra a lieto fine) (MSC Istanbul. La prima nave da 400 metri a Genova) (L’arrivo delle grandi navi) e di quanto l’intensità del vento e la forza del mare influenzino la loro possibilità di gestione.
In quest’altro articolo abbiamo visto come il Tavolo Tecnico, che si riunisce quotidianamente per studiare le previsioni dei movimenti portuali del giorno successivo, ponga particolare attenzione alle condi-meteo.
In effetti, il vento e il mare dettano le regole del gioco.
Nella visione d’insieme occorre valutare la normalità:
- numero di navi in arrivo e in partenza, movimenti portuali,
- manovre contemporanee e particolari
Ogni situazione descritta ha bisogno, o meno, di piloti, rimorchiatori e ormeggiatori. La corretta programmazione consente un’ottimizzazione dei tempi – che si traduce in risparmio di soldi per l’utenza – nel contenimento dei rischi e in un’efficienza generale.
La “normalità”, descritta sopra, può essere attaccata da vari fattori, quali:
- gestione di navi di grandi dimensioni in contemporanea;
- manovre particolari che prevedono l’impegno per lungo tempo dei servizi tecnico nautici;
· ma - condizioni meteomarine negative; ecc...
In questo caso, occorre valutare accuratamente le armi che si hanno a disposizione per affrontare eventuali imprevisti o un peggioramento delle condizioni.
Se si attende vento molto forte, per esempio, in base al numero disponibile di rimorchiatori, di eventuali shore-tension, agli ormeggi assegnati e alle dimensioni, si pianifica il numero di navi che possono stare contemporaneamente in una determinata banchina, la sequenza delle manovre e la strategia d’intervento.
La "Concordia" nel suo ultimo trasferimento da Prà a Genova.
Fin qui siamo nell’ordinario.
Le cose cambiano quando la sfera di cristallo si rompe…
Era una tranquilla notte d’estate e, con un collega, uscivamo in pilotina incontro a due navi: una portacontenitori lunga 140 metri per lui e una piccola ro-ro di 90 metri per me.
Mare piatto e assenza di vento; tutte e due erano navi che scalavano frequentemente il nostro porto; comandanti simpatici. Ingredienti non indispensabili, ma che contribuivano a un clima sereno e rilassato.
La Norlandia era una nave “vecchietta”, dotata di due macchine, senza thrusters, di poco pescaggio e, spremendo i pochi cavalli che aveva, riusciva a raggiungere a malapena la velocità di 8/9 nodi.
Mentre passavo il traverso del rosso dell’imboccatura, sentii al VHF il mio collega che chiamava il solito rimorchiatore previsto per la sua manovra.
Stavo chiacchierando tranquillamente con il comandante quando mi accorsi che poco più avanti, nell’area dell’avamporto, la superficie del mare non specchiava più: una brezza leggera disegnava strisce alterne di chiaro/scuro tremolanti sullo sfondo delle luci portuali.
Niente di grave, un po’ di aria fresca che scivolava dai monti ci avrebbe solo rinfrescato dalla calura estiva, almeno così pensavo fino a quel momento.
Dieci minuti più tardi cominciai a preoccuparmi; vedevo distintamente una nube di carbone, illuminata dalle torri faro presenti in una banchina, spostarsi verso sud: la brezza si era trasformata in vento e, da quello che percepivo, soffiava ad almeno 20 nodi.
Chiamai per radio il mio collega per avvisarlo ma, ovviamente, anche dove si trovava lui la situazione stava cambiando velocemente.
Tenete presente che non era ancora assolutamente un’emergenza. Si trattava, se così si può dire, di un innalzamento dell’attenzione, di una manovra che, da facile, stava diventando via via più impegnativa. Ero convinto che il vento avesse raggiunto il suo picco; d’altra parte era estate, le previsioni erano di tempo ottimo e fino a qualche minuto prima era calma piatta.
I dieci minuti successivi procedemmo a ridosso di alcune ostruzioni portuali e, di conseguenza, il vento calò notevolmente, ma il fumo quasi orizzontale di una ciminiera, posta parecchio più a ponente, rivelava la persistenza di una situazione da non sottovalutare.
Terminata la parte di canale protetta, il vento ci investì nuovamente e dovetti aumentare la macchina per contenere lo scarroccio verso la diga. Raggiungemmo un equilibrio con 8 nodi di velocità e un’andatura di bolina.
Non c’era tempo per chiamare un rimorchiatore e, contando sempre sull’errata convinzione che il vento non sarebbe aumentato ulteriormente, proseguii.
Anche perché ormai eravamo quasi arrivati al punto di evoluzione.
30 nodi.
Cominciavo a essere preoccupato.
A quel punto mi restavano due possibilità: non evoluire, mettere la prua al vento, dare fondo e aspettare l’arrivo del rimorchiatore, oppure continuare come da programma.
La nave era vecchiotta e tutt’altro che potente, ma era piccola – e quindi avevo un discreto spazio a disposizione – due macchine – che mi avrebbero aiutato nella rotazione facendo coppia – ed ero riuscito a sopravventarmi per bene.
Optai per la seconda soluzione.
Puntai la prora sullo spigolo di ponente della prima banchina, velocità 7 nodi. Contavo sul ridosso della testata per guadagnare ancora qualche metro sul vento.
Misi le macchine indietro tutta.
Quando la velocità scese a 5 nodi fermai la sinistra e, poco dopo, la direzione della prora si spostò liberando lo spigolo. Un minuto dopo persi il ridosso e il vento, picchiando sulla prua, mi aiutò nell’evoluzione… questo fino a quando tutta la nave non uscì allo scoperto, perché a quel punto iniziò uno scarroccio deciso, anzi, molto deciso.
Aspettai che la prora cadesse meglio e, per aiutarla, utilizzai un colpetto avanti con la dritta e tutto il timone a sinistra.
Dovevo portare la poppa al vento nonostante il timore di non avere sufficiente potenza di macchina per arrestare la corsa verso il cemento della diga.
Finalmente arrivò il momento di rimettere le macchine indietro tutta.
La nave rallentò, in maniera costante ma molto lenta.
Ci fermammo a pochi metri dalle ostruzioni restando in posizione di stallo per alcuni interminabili minuti.
Poi, finalmente, cominciammo a risalire il vento.
Non fu facile arrivare in banchina, anche perché, senza thruster e con poca potenza di macchina, il vento ci impediva di tenere sotto controllo la direzione, facendoci cadere ora da una parte e ora dall’altra.
È stata una manovra che con il comandante abbiamo ricordato numerose volte negli anni a seguire. A nessuno dei due era mai capitato di trovarsi in mezzo a un cambiamento così repentino della situazione meteo.
Ph: J.Gatti
Cosa ci portiamo a casa da questa esperienza?
In realtà molte cose, ma oggi voglio mettere l’accento sull’importanza di cogliere i segnali.
Un’occhio attento – e quello di chi manovra lo deve essere sempre in modo particolare – deve saper cogliere i segnali che arrivano dall’ambiente in cui opera.
L’anemometro, presente su quasi tutte le navi, indica la forza e la direzione del vento in quel momento e in quella precisa posizione.
La situazione, presente qualche centinaio di metri più avanti, potrebbe essere completamente diversa.
Propongo un elenco dei modi in cui possiamo ottenere le informazioni che ci interessano:
. Al primo posto abbiamo un’accurata previsione meteo; sono molte le possibilità di schiarirsi le idee, reperendo quanto d’interesse dai numerosi siti disponibili e, per esigenze più approfondite, esistono realtà consolidate, di grande esperienza e affidabilità come, per esempio, navimeteo.com, l’applicazione LaMMA Meteo, e diverse altre che forniscono dati molto personalizzati a seconda delle esigenze e delle preferenze.
. Al secondo posto metto le stazioni meteo dislocate nell’area di interesse: quelle curate dalle Autorità di Sistema, quelle presenti nei terminal, nei vari aeroporti, fino ad arrivare agli anemometri di cui sono dotate le gru di banchina. Di solito, cercando bene, si ottiene una buona copertura della situazione del vento;
. Il terzo posto, ma non per questo meno importante, lo dedico agli indicatori naturali. Un’occhiata alle navi alla fonda ci può far capire se siamo in presenza di corrente e se questa vince sul vento; il fumo, di qualsiasi tipo, ci offre un’indicazione abbastanza precisa di intensità e direzione; la superficie del mare, piatta, appena segnata, striata di bianco, la presenza di “pecorelle” o addirittura di moto ondoso all’interno di acque ridossate, sono segnali molto precisi.
Il progetto della nuova Torre Piloti, uscito dalla matita dell’architetto Renzo Piano – una persona dalle qualità umane e professionali incredibili – prevede un lungo e sottile palo, somigliante a un’antenna, sulla sua sommità. I suoi movimenti di flessione offriranno un’indicazione istantanea della forza e dell’intensità del vento alle navi che imboccano il porto.
Ricordiamoci che l’orografia generale cambia la situazione radicalmente, anche a distanza di poche decine di metri, per questo motivo è importante avere più indicatori possibili e, soprattutto, non sottovalutarli mai.
Presentazione del progetto "Torre Piloti"
Amm. Melone, Arch. Piano, Pres. Merlo, C.P. Gatti
Visitate il sito www.standbyengine.com
troverete interessanti articoli che parlano di mare.
IL VENTO (in manovra)
IL VENTO
BY JOHN GATTI • 17 NOVEMBRE 2020•11 MINUTI
Ogni porto presenta difficoltà differenti.
Per alcuni è la nebbia a complicare le cose, per altri sono il vento, la corrente, gli spazi ristretti, i bassi fondali, ecc.
Per altri ancora può essere la combinazione di più elementi a elevare il rischio nella manovra delle navi.
Oggi parliamo del vento.
Se talvolta può essere d’aiuto, quando è particolarmente teso occorre fare valutazioni accurate, o il rischio di non riuscire a gestire questa forza può metterci realmente in difficoltà.
Ho detto “talvolta può essere utile”. Mi riferisco, ad esempio, a quelle situazioni in cui un vento leggero aiuta ad allargarci dalla banchina durante un disormeggio; oppure, analogamente, quando una brezza leggera ci accompagna dolcemente in banchina. Un vento che soffia dalla giusta direzione, e una lunghezza di catena data fondo, ci possono permettere di ruotare la nave su sé stessa senza l’ausilio della macchina o dei thruster; o ancora, un vento calcolato bene, rispetto alla sagoma della superficie velica, può agevolare un’accostata o un’evoluzione.
Un altro aspetto poco considerato, e anche un po’ curioso, è che spesso il vento aiuta il pilota anche nella “preparazione” della manovra. Infatti, nella fase di discussione con il comandante della nave, uno dei passaggi più delicati resta quello legato al numero eventuale di rimorchiatori da impiegare durante l’operazione. Le insidie del vento e della corrente sono spesso paragonabili, ma il vento è percepibile e visibile, mentre la corrente, più subdola, può essere anche accompagnata da condizioni meteo ottimali. Va da sé che convincere il comandante, quando sente il vento fischiare e vede il mare striato di bianco, è molto più facile rispetto a quando si discute di un pericolo non visibile che si nasconde sotto la superficie del mare.
A questo proposito mi viene in mente un fatto accaduto diversi anni fa:
Ph: J.Gatti
Quattro giornate di forte scirocco, accompagnate da cielo coperto e rovesci di pioggia, lasciarono il posto, dal punto di vista meteomarino, a una serie di giornate perfette: cielo limpido, mare calmo e assenza di vento.
Da noi le brezze che soffiano da levante e da sud-est portano corrente in canale, e più giorni insistono più la corrente diventa forte.
Quella volta, in particolare, il fiume d’acqua che imboccava a levante per sfogare a ponente, fu particolarmente impetuoso. Corrente forte, ma comunque prevedibile per i primi due giorni… l’anomalia fu nel fatto che anche il terzo e quarto giorno, seppure il tempo continuasse ad essere ottimale, l’impetuosità di questa forza continuava vigorosa, e invisibile all’occhio, sotto la superficie del mare.
Il difficile era convincere i comandanti della necessità di usare rimorchiatori per contrastare la situazione.
A quei tempi, la pressione esercitata da molti armatori per contenere le spese, portava i comandanti a cercare di risparmiare “sempre e comunque” e per contro i piloti a gonfiare un po’ la gravità della situazione sparando alto per “ottenere almeno qualcosa”.
Ma quella volta la situazione raggiunse il limite: il comandante vedeva una bella giornata e non c’erano parole che lo potessero convincere della pericolosità della situazione. D’altra parte noi stessi ci aspettavamo l’usuale ridimensionamento della corrente nel giro di poco tempo.
Per farla breve, nell’arco di tre giorni tre navi in manovra andarono a urtare la stessa nave passivamente e sfortunatamente ormeggiata sottocorrente rispetto al punto di evoluzione.
Io mi trovai sulla quarta il quarto giorno…
Era un’ottima nave: 150 metri di lunghezza, due macchine e un bow thruster. Si trovava in una condizione di “mezzo carico”, ideale per la manovra. Il comandante era un habitué del porto; veniva due volte alla settimana da anni ed era, quindi, molto pratico delle “dinamiche e delle situazioni”.
Appena salii a bordo lo misi a conoscenza degli incidenti dei giorni precedenti e dell’anomala presenza di questa forte corrente. Uno sguardo di sufficienza fu l’immaginabile reazione. Provai a insistere, ma le argomentazioni con cui rispose avevano delle solide fondamenta:
· la nave manovrava bene;
· il comandante, buon conoscitore del porto e di grande esperienza, si faceva la manovra e, di solito, la faceva anche bene;
· era il quarto giorno di buon tempo e la corrente doveva per forza essere meno forte di quando erano avvenuti gli altri incidenti.
Non ero per niente convinto, ma non riuscii comunque a impormi, anche perché, in fondo in fondo, pensavo anch’io che, se la manovra veniva impostata bene, si sarebbe potuta gestire la situazione.
Il confronto, dal punto di vista psicologico, non terminò bene. Da una parte c’ero io, pilota, che difendevo la mia posizione e dall’altra c’era il comandante che moriva dalla voglia di dimostrarmi quanto fosse bravo anche in quella difficile situazione. In pratica non era stato raggiunto un punto di vista comune che sarebbe stata la base per una manovra condivisa.
In condizioni normali, si arrivava al punto di evoluzione con una discreta velocità, si fermavano le macchine per tempo, si metteva decisamente indietro la sinistra, il bow a sinistra e si ruotava quasi in derapata. Al momento giusto si metteva indietro anche la macchina di dritta e il gioco era fatto.
Quella volta, complice il difetto psicologico del nostro confronto, per dimostrare la sua bravura arrivammo in fondo al canale con una velocità ancora più alta del solito; e più gli dicevo che con quella corrente andavamo troppo veloci, più lui mi lanciava messaggi con gli occhi a voler dire “ora ti faccio vedere io come si fa”.
Tutto sembrava procedere per il meglio fino a tre quarti dell’evoluzione, ma quando l’opera viva del fianco sinistro della nave cominciò a chiudere fino a trovarsi al traverso della corrente, la situazione precipitò.
La nave cominciò a cadere velocemente di pancia.
Nell’attimo di esitazione del comandante intervenni suggerendo di mettere le macchine indietro tutta e il thruster a sinistra. Lo scopo era quello di urtare da fermi per non provocare aperture nello scafo. Picchiammo per ben tre volte, recuperando ogni volta spazio indietro sul rimbalzo. Giocammo sulle macchine per appoggiarci il più delicatamente possibile e sempre da fermi. Alla fine riuscimmo a toglierci dalla corrente e a raggiungere l’ormeggio.
Il danno materiale non fu particolarmente grave, ma quello nel mio orgoglio, per non essere riuscito a impormi, e in quello del comandante, per le conseguenze della sua presunzione, ci lasciarono il segno per un bel po’ di tempo.
Ph: J.Gatti
Ma torniamo al vento.
Anche in questo caso l’esperienza ha un peso importante.
Le differenze tra le navi non si limitano alla classificazione per tipologie, e neanche alle dimensioni. La stessa nave, infatti, ha caratteristiche completamente differenti a seconda del pescaggio o del carico che ha in coperta; e la stessa manovra, con la stessa nave, a parità di condizioni, può essere influenzata da improvvisi ostacoli o da diverse condizioni meteomarine.
L’esperienza porta a un’analisi automatica inconscia di numerose variabili che dà, come risultato, la consapevolezza delle accortezze necessarie allo svolgimento di una manovra.
Ovviamente occorre mantenere un margine di sicurezza assolutamente soddisfacente.
Laddove questo margine viene intaccato o quando l’esperienza non è sufficiente, diventa necessario supportare le sensazioni con la matematica. In questo senso ci vengono in aiuto numerose formule, più o meno pratiche, per stabilire la forza del vento in tonnellate.
Ve ne sono alcune che offrono la possibilità di calcolare tale forza in base all’angolo d’incidenza del vento, altre che tengono conto anche della densità dell’aria, qui vi propongo una formula di semplice applicazione che offre risultati comunque attendibili:
Forza del vento (Ton) = Velocità del vento al quadrato in metri al secondo, diviso 18, per la superficie velica esposta in metri quadrati.
Consideriamo, ad esempio, una portacontenitori lunga 366 metri, con un bordo libero di 11 metri, caricata con cinque file di contenitori per tutta la sua lunghezza. Che forza avrà il vento, in tonnellate, soffiando al suo traverso con 25 nodi?
25 nodi corrispondono (più o meno) a 12,5 m/s
La superficie di ogni container è: 2,4 m x 5 = 12 m
Quindi, la superficie velica totale è:
(11+12) x 366 = 8418 mq
Forza del v. a 25 kn= (12,5×12,5)x(8418):18 = 73 Ton circa
Se per la manovra si hanno a disposizione rimorchiatori di ultima generazione da 70 ton, in queste condizioni è consigliabile utilizzarne almeno tre.
Mi fermo qui, consapevole che l’argomento meriterebbe di essere approfondito molto di più.
È comunque nei nostri programmi dedicare un intero video (e un eBook) al vento e ai suoi segreti.
Ph: J.Gatti
NELLA MANOVRA, SAPER MANOVRARE E’ TUTTO?
NELLA MANOVRA, SAPER MANOVRARE E’ TUTTO?
by JOHN GATTI•23 OTTOBRE 2020•13 MINUTI
Apro uno spiraglio su un momento particolare della manovra:
Voltiamo il rimorchiatore!
Portare una nave in banchina, o disormeggiarla per poi accompagnarla fuori dalle ostruzioni portuali, significa pianificare un’operazione.
Un po’ come guardare la figura per intero, scegliere i pezzi del puzzle, predisporli nel giusto ordine e fare attenzione affinché combacino bene.
Legare, incocciare o voltare un rimorchiatore – il termine usato varia da porto a porto – è un’operazione delicata.
Cerchiamo di capire quali sono le procedure più corrette per evitare di correre rischi inutili e rendere l’operazione fluida ed efficace.
Nel tempo sono successi numerosi incidenti che hanno visto coinvolti rimorchiatori che operavano nelle vicinanze di navi in movimento.
Nella maggior parte dei casi è stata individuata come causa principale di questi sinistri, la velocità! A seguire abbiamo l’errore umano, l’inesperienza e il tipo di rimorchiatore utilizzato.
In realtà c’è un altro aspetto da considerare che, in qualche modo, emerge soprattutto dai ricordi, visto che io stesso ho passato quella fase.
Mi riferisco alla naturale compartimentazione delle competenze.
Per diventare piloti si segue un percorso preciso che matura in una professionalità specifica e approfondita.
Una visione abbastanza completa la si raggiunge solo dopo esperienze maturate in molti anni di problemi risolti.
Nella prima fase si tende a concentrarsi sul “nocciolo” della manovra, sulla tecnica e sulla buona riuscita del contratto affrontato; obiettivo comunque ampio e impegnativo.
È solo quando si raggiunge un certo grado di tranquillità nello svolgimento del lavoro che si riesce a considerare, con interesse ed efficacia, anche il contorno del nocciolo: l’estetica della manovra, la fluidità, l’equilibrio obiettivo delle decisioni e dei consigli e, cosa molto importante, il ruolo e la dinamica degli altri soggetti più strettamente coinvolti. Mi riferisco al comandante della nave con il suo equipaggio, agli ormeggiatori e ai rimorchiatori.
Non basta sapere che ci sono, bisogna riuscire a guardare le cose dal loro punto di vista, capire i loro problemi, le loro necessità e i loro punti forti. Solo così si riuscirà a lavorare meglio e più in sicurezza.
Non è scontato che un pilota sappia le caratteristiche del rimorchiatore che volterà a prora, come non è scontato che sia perfettamente conscio delle difficoltà che, il comandante del rimorchiatore, potrebbe incontrare per quel nodo di velocità in piú della nave, o i possibili effetti di un cavo mollato troppo velocemente a poppa.
Come ho già detto è un aspetto importante, che sale la classifica delle priorità solo dopo che altri aspetti della manovra diventano talmente da familiari da non essere considerati più come problemi prioritari.
Ci vuole tempo.
Ph:J.Gatti
È in questa ottica che voglio affrontare, in maniera leggera e discorsiva, i punti che necessitano di un passaggio mentale condiviso.
Prima di entrare nel vivo però, dobbiamo parlare brevemente delle forze e degli effetti a cui è soggetto un rimorchiatore quando naviga in prossimità di una nave in movimento.
Queste forze aumentano con l’incremento della velocità della nave e con la diminuzione della distanza nave-rimorchiatore: più è alta la velocità e minore è la distanza, maggiori sono le forze di interazione che intervengono tra i due scafi. Oltre a questi due fattori, ad aumentare gli effetti concorrono anche le forme delle opere vive, l’underkeel clearance, l’assetto della nave, il pescaggio, ecc.
Le zone maggiormente interessate sono quelle vicine alla prora, molto meno quelle prossime al centro nave – questo è principalmente dovuto alla forma dello scafo – e risultano particolarmente insidiose quando il rimorchiatore si avvicina per essere voltato.
In quella fase, sapere esattamente a cosa si va incontro è praticamente impossibile. Come già detto, gli effetti subiscono numerose influenze e l’esperienza del comandante del rimorchiatore, unita a buone capacità di manovra del mezzo, incide molto sul livello generale di sicurezza dell’operazione, ma la cosa certa è che:
diminuendo la velocità diminuiscono anche gli effetti di interazione
Volendo rimandare l’approfondimento di un argomento che merita ben più di poche righe, semplifico citando solo alcuni dei rimorchiatori più utilizzati al mondo: quelli convenzionali, gli azimuth stern drive o ASD e i Tractor Tugs, o ATD, così chiamati perché hanno i propulsori posizionati verso prora.
Ph: M.Garipoli
Ho già detto che l’area più soggetta a queste forze d’interazione è quella prodiera e il rimorchiatore che viene voltato a prora si trova necessariamente a operare molto vicino allo scafo. In questo caso, quelli che hanno i propulsori vicini al bulbo della nave, se si trovassero nella necessità di doversi disimpegnare velocemente da una situazione potenzialmente pericolosa, si troverebbero a utilizzare timoni o propulsori in un’area soggetta a forze imprevedibili e non lineari, che contrasterebbero l’esecuzione della manovra. Questo è il motivo per cui la maggior parte degli incidenti si registra con il rimorchiatore che deve voltare a prua e dotato di propulsione poppiera.
Sarebbe quindi meglio, potendo scegliere, utilizzare a prora i Tractor Tugs.
In ogni caso, due regole che andrebbero sempre rispettate sono le seguenti:
· se a prora vengono presi più rimorchiatori, voltare per primo sempre quello al centro perché, in caso di emergenza (blackout, avaria, ecc.) avrebbe libere le vie di fuga laterali;
· in caso di utilizzo di più rimorchiatori, voltare prima quello a poppa; in questo modo potrà intervenire, in caso di necessità, aiutando il controllo della nave o rallentandone la velocità, mentre si cerca di voltare il rimorchiatore a prora.
Per quanto riguarda la procedura di avvicinamento del rimorchiatore alla prua della nave in movimento, ritengo pericoloso quasiasi approccio frontale, sia che il rimorchiatore aspetti la nave lungo la sua rotta per poi anticiparla una volta raggiunto, sia che – ancora peggio – il rimorchiatore vada incontro alla prora in controcorsa. In caso di avaria ai propulsori o agli organi di governo l’impatto sarebbe probabilmente inevitabile.
La soluzione che preferisco è quella che vede il rimorchiatore affiancare la nave in una rotta parallela, sorpassarla e, restando laterale alla prua dal lato sottovento, prende l’heaving line e inizia le operazioni di incoccio completamente libero.
Ph: J.Gatti
Parliamo ora di velocità. Argomento delicato e influenzato da diverse variabili.
· se parliamo di ASD da voltare a prora, o comunque di rimorchiatore tradizionale con i propulsori a poppa, minore è la velocità e meglio è; direi che un buon limite massimo potrebbe essere quello dei 6 nodi;
· se utilizziamo un Tractor Tug, allora andrebbe considerata anche la velocità massima del rimorchiatore e l’esperienza del suo comandante, ma direi che 6/7 nodi sarebbero accettabilissimi (per esperienza personale, e ascoltando il parere di diversi comandanti di rimorchiatori, direi che sono accettabili anche velocità superiori);
· quando il rimorchiatore deve essere voltato a poppa o lateralmente, il problema “sicurezza” assume un peso diverso e, di conseguenza, anche la velocità ha diversa rilevanza; 6/8 nodi possono andare bene.
È necessario sottolineare come, per un comandante di rimorchiatori, l’esperienza, l’abilità personale e la conoscenza del proprio mezzo influenzino enormemente il fattore “sicurezza”.
Anche in questo caso, come in quasi tutte le situazioni, conoscere e ammettere i propri limiti, dimostrando equilibrio e oggettività, contribuisce non poco al contenimento dei rischi e, di conseguenza, degli incidenti.
Facciamo ora qualche considerazione che interessa il lato “nave”.
È di uso comune, e lo ritengo anche corretto, utilizzare la lingua locale durante le comunicazioni con i rimorchiatori. Questo perché nella manovra sono coinvolti anche gli ormeggiatori e, a volte, personale di terra ed è meglio che tutti siano al corrente e comprendano quello che succede. D’altra parte è necessario mettere a conoscenza di tutti gli sviluppi anche il comandante, perciò è buona norma tradurre per lui tutte le comunicazioni che interessano la manovra.
Durante lo scambio di informazioni con il comandante della nave, è importante chiedergli l’SWL della bitta a cui verrà dato volta il cavo del rimorchiatore, informarlo sulla necessità dell’uso di un idoneo heaving line, di avvisare il personale al posto di manovra di stare lontani dal cavo in lavoro, chiedere di essere informati sulle varie fasi di aggancio dei rimorchiatori e su qualsiasi cosa di rilievo che li riguardi. Occorre, inoltre, informare il comandante su come si intendono utilizzare i rimorchiatori nei vari steps della manovra.
Al momento di mollare il cavo, in particolare quello di poppa, avvisare il personale al posto di manovra di lascarlo piano piano per evitare che possa finire nei propulsori del rimorchiatore.
Ph: M.Scarrone
Il comandante del rimorchiatore deve essere informato:
– sulla SWL della bitta che useranno per voltarlo;
· sulle condizioni della nave (pescaggio, velocità minima, eventuali problemi);
· sull’ormeggio assegnato alla nave e la manovra che si intende effettuare.
Uno dei problemi che talvolta si riscontrano, riguarda il tempismo degli attori in campo: è molto importante che il rimorchiatore arrivi puntuale e, nel caso ciò non fosse possibile, che avvisi in tempo per permettere al pilota di regolare la velocità di conseguenza.
Allo stesso modo, al fine di evitare situazioni pericolose, l’equipaggio della nave deve essere pronto all’arrivo del rimorchiatore.
È infatti un rischio inutile per il rimorchiatore restare sotto la prua più tempo dello stretto necessario.
Quando si volta il rimorchiatore, inoltre, è importante che la nave mantenga rotta e velocità costanti ed è comunque buona norma avvisare sempre di eventuali variazioni.
Una cosa che il comandante del rimorchiatore, a mio avviso, deve tenere conto, è del fatto che il pilota, molto spesso, non ha piena coscienza delle caratteristiche dei loro mezzi. Questo vuol dire che non deve farsi problemi a suggerire variazioni di pianificazione, se queste sono più funzionali al lavoro da svolgere.
Come ho anticipato all’inizio dell’articolo, quello che ho scritto non è altro che un “assaggio” di una delle tante fasi delicate della manovra.
In futuro toccheremo altri argomenti sottolineando l’aspetto dell’efficacia, della coordinazione delle parti, della professionalità, della gestione degli imprevisti e, soprattutto, della sicurezza.
Leggi altri articoli nella sezione blog.
Ph: J.Gatti
Rapallo, 31 Ottobre 2020
QUANTO E’ SLEGATA L’ANCORA DALL’ELICA E DAL TIMONE
QUANTO E’ SLEGATA L’ANCORA DALL’ELICA E DAL TIMONE
BY JOHN GATTI •6 OTTOBRE 2020•13 MINUTI
Nel corso degli anni l’ancora come ausilio alla manovra, ha ceduto il posto – in ordine d’importanza – al passo variabile e ai thrusters.
Non molti anni fa era normale impostare una manovra di affiancamento a una banchina, con il lato nave non favorevole all’effetto dell’elica, prevedendo l’uso dell’ancora.
A questo proposito voglio riportare una piccola esperienza, maturata nel mio periodo da allievo, tratta dal libro “A bordo con il Pilota“:
“Il pilota che mi seguiva nella manovra aveva molta esperienza e il coraggio/pazienza di far continuare la gestione all’allievo fin quasi al “punto di non ritorno”. Questo è positivo, perché l’adrenalina provocata da un “quasi impatto” salvato il più tardi possibile lascia un segno indimenticabile e vale più di molta teoria.
Eravamo a bordo di una nave lunga cento metri che pescava sette metri e mezzo, monoelica a passo fisso sinistrorsa, timone tradizionale e senza elica di prora.
Dovevamo percorrere circa due miglia di canale per poi accostare di novanta gradi a dritta e affiancare in banchina con il fianco sinistro, senza evoluzione.
Poco dopo aver imboccato il canale, un altro pilota imbarcato su una nave in partenza ci chiese di aumentare la velocità per permettergli di mollare gli ormeggi.
Il mio ragionamento spiccio si limitava a considerare che ero a bordo di una nave piccola, che per me equivaleva a “piccoli problemi”.
Portai la macchina ad Avanti Mezza e passammo la metà del canale a setteno di di velocità. Una volta liberato il transito per l’altra nave, ridussi ad Avanti Adagio, ma la velocità scese solo di un nodo e, per farlo, ci mise parecchio tempo, ma dentro di me ero tranquillo perché continuavo a pensare che “la nave era piccola”…
A qualche centinaio di metri dall’accostata di novanta gradi scesi ad Avanti Molto Adagio.
Per farla breve, realizzai di avere un’elevata velocità, relativa alla situazione contingente, troppo tardi.
Fermai la macchina, ma la nave carica era troppo pesante e lenta nelle risposte.
Cominciai a sudare freddo: mi vedevo già contro la nave ormeggiata di fronte a noi.
Rimisi in moto la macchina, ma con il Molto Adagio la velocità di accostata era sempre troppo lenta e fui costretto ad aumentare fino ad Avanti Mezza. Il timone riprese a rispondere bene a scapito di una velocità che riprese a salire.
Lo scenario che si presentava ai nostri occhi era il seguente: una nave ormeggiata a sinistra e la nostra destinazione cento metri più avanti, duecentocinquanta metri di fronte finiva tutto: solo cemento.
Per chiudere il cerchio posso dire che avevamo a che fare con una velocità prossima ai sei nodi e a un effetto dell’elica che, a marcia indietro, ci avrebbe fatto dare una pruata in banchina…
Ormai ero in panico.
Intervenne il pilota.
Diede subito tutto il timone a dritta e, non appena la nave cominciò ad accostare, mise la macchina Indietro Tutta e il timone in mezzo: l’effetto dell’elica fermò l’evoluzione e chiamò la prua a sinistra; a quel punto diede fondo all’ancora di dritta. Una lunghezza e mezza in acqua, fece agguantare e poi filare un’altra mezza lunghezza.
Risultato: dopo qualche minuto eravamo ormeggiati in banchina, perfettamente in posizione.
Considerazioni:
- la prima cosa che risulta evidente è la differenza tra il limite dell’allievo e quella del pilota, dovuta a una questione di abitudine alla reazione nelle situazioni critiche affrontata nelle migliaia di manovre già effettuate. Aggiungo l’abitudine all’uso disinvolto dell’ancora che elimina le esitazioni.
- La teoria è la base imprescindibile, ma la pratica concretizza le parole incidendo l’esperienza nella memoria.
- La velocità non è un valore assoluto, ma relativo alla situazione contingente.
- Anche la grandezza della nave è spesso relativa: solitamente gli ausili alla manovra sono proporzionati alla stazza e il pescaggio può rendere una piccola nave molto difficile da governare.
- La sicurezza della manovra in cui si è impegnati è la cosa più importante. Nel caso specifico, far aspettare qualche minuto in più il pilota in partenza non avrebbe portato nessuna conseguenza, mentre aumentare la velocità ha creato una situazione di potenziale pericolo.
- L’errore più grave è stato quello di non prevedere i passaggi successivi, arrivando al punto di accostata in prossimità dell’ormeggio senza la possibilità di ridurre la velocità.
- La giusta sequenza avrebbe previsto una riduzione progressiva della velocità, in modo di arrivare al punto di accostata con circa due nodi, per poi accelerare nell’evoluzione assicurandosi un maggior controllo. Terminata la rotazione si doveva stabilizzare la rotta, fermare la macchina e dare fondo per poi continuare dragando l’ancora.
In questo racconto sono stati messi in evidenza diversi punti, tra i quali troviamo la pianificazione dell’uso dell’ancora.
In questo racconto sono stati messi in evidenza diversi punti, tra i quali troviamo la pianificazione dell’uso dell’ancora.
In effetti, per una questione di “allenamento del gesto” al fine di renderlo fluido in caso di necessità, non sarebbe sbagliato utilizzare, di tanto in tanto, l’ancora anche solo per esercizio.
Purtroppo la reale efficacia di questo strumento, oggigiorno, la si apprezza soprattutto nelle emergenze. Situazioni in cui la rapidità d’intervento è il fattore che, il più delle volte, determina il controllo degli eventi o l’inevitabile impatto.
In generale i vantaggi nel suo utilizzo sono numerosi:
- controllo della caduta della prora in banchina;
- arresto della nave con uso minimo della macchina;
- gestione della rotta con l’ancora a dragare;
- posizionamento dell’ancora come aiuto per il successivo disormeggio;
- e così via.
Passo variabile ed eliche di manovra hanno semplificato le cose…
Come ben sappiamo, e senza entrare troppo nei particolari, le eliche a passo fisso hanno le pale solidali al mozzo e non è possibile agire sul loro orientamento. Questo comporta tutta una serie di limiti di cui è necessario tenere conto:
- per invertire la direzione di moto, si deve fermare il motore e riavviarlo con l’asse accoppiato in senso inverso. Ogni volta occorre un nuovo avviamento, che ha bisogno d’aria, che non è infinita…
- a seconda del timone di cui sarà dotata la nave che stiamo manovrando, avrà una sua velocità minima di governo. Alcune, dotate di timone dall’ampia superficie manovrano fino a velocità molto basse, altre meno. In ogni caso tutte hanno un limite.
Va da sé che, per pareggiare i conti in queste condizioni, l’ancora è la soluzione ideale.
Abbiamo detto che l’avvento delle eliche a passo variabile e delle eliche di manovra ha cambiato la situazione.
Vediamo perché.
Per prima cosa rinfreschiamo la memoria definendo
il passo dell’elica: che è la distanza teoricamente percorsa in un giro completo dall’elica, trascurando la cedevolezza del fluido, che corrisponde alla distanza che la stessa percorrerebbe se si muovesse all’interno di un corpo solido. (Approfondimenti nel video “Le eliche“)
Si deve proprio alla possibilità di variare a piacimento il passo dell’elica una delle rivoluzioni avvenuta nelle impostazioni delle manovre, discorso che vale, in particolar modo, per le navi medio/piccole. Quelle cioè, dove spesso l’ancora sostituiva egregiamente il lavoro dell’eventuale rimorchiatore.
Le eliche a passo variabile ruotano sempre nello stesso senso a giri costanti.
Niente più problemi di avviamenti e facilità a regolare la velocità a seconda dell’esigenza.
Questo sistema porta con sé anche diversi difetti, come la difficoltà a mantenere la rotta a passo zero, dovuta alla continua rotazione dell’asse; la resa a marcia indietro generalmente scarsa e accompagnata da un forte effetto dell’elica; e diversi altri che in questo contesto non andiamo ad affrontare.
Sta di fatto che la possibilità di poter agire sul passo per regolare la velocità, permette di avere un controllo maggiore sulla manovra; se poi aggiungiamo un’elica di prora, allora l’ancora diventa veramente una cosa di cui, in queste condizioni, si può fare a meno.
Ma l’ancora, nonostante la frequenza del suo utilizzo sia diminuita considerevolmente negli ultimi anni, resta una delle carte più importanti del mazzo.
Mi è capitato solo una quindicina di volte, in più di vent’anni da pilota, di doverle utilizzare in situazioni d’emergenza, ma vi assicuro che se in quelle occasioni non avessi avuto “familiarità” nell’utilizzo di questo ausilio, il conto in soldi dei danni che ne sarebbero derivati sarebbe stato veramente alto.
Consiglio, per chi non l’avesse ancora fatto, di dare un’occhiata anche all’articolo “Ancore: quelli a prua non sono orecchini!”
Per approfondimenti sulle ancore e il loro utilizzo: “Il punto sulle ancore“.
JOHN CARLO GATTI
Rapallo, 8 Ottobre 2020
LA MANOVRABILITA' DI UNA NAVE
LA MANOVRABILITA' DI UNA NAVE
BY JOHN GATTI• Rapallo, 12 SETTEMBRE 2020•7 MINUTI
Ogni qualvolta agiamo sul timone, otteniamo i seguenti effetti sulla nave:
– una rotazione (accostata) attorno all’asse verticale PP (Pivot Point);
– uno spostamento laterale (movimento di deriva) dalla parte opposta
rispetto all’accostata;
– una diminuzione di velocità;
– uno sbandamento iniziale (detto “di saluto”) dalla stessa parte
dell’accostata;
– un’immersione della prora.
Le componenti del timone durante il suo utilizzo come mostrato in figura
CT = centro asse timone
CP = centro di pressione
angolo alfa (α) = Angolo di attacco del timone alla banda
FL = Portanza
P = forza normale all’asse del timone
D = Resistenza del timone parallela e contraria alla direzione del moto
della nave
A = forza assiale
R = forza risultante
K = distanza di FL dal centro di Gravità G
Mettendo il timone alla banda, si ottiene uno spostamento più veloce della poppa rispetto a quello della prora.
Come già detto, durante il moto avanti il Pivot Point si sposta più o meno a 1/3 della lunghezza della nave partendo da prora; di conseguenza durante l’accostata il centro di gravità si sposta dal lato opposto dell’accostata in modo proporzionale alla velocità di rotazione.
Più il Pivot Point si trasferisce avanti, più aumenta il movimento di traslazione rispetto alla velocità di rotazione.
Anche l’assetto della nave influenza lo spostamento del Pivot Point durante l’evoluzione: se la nave è appruata si sposta più a prora, in caso contrario si sposta più a poppa.
L’aumento dei giri della macchina durante l’evoluzione fa crescere l’effetto traslatorio rispetto alla velocità di rotazione; in caso di diminuzione dei giri, accade il contrario.
Si deve considerare anche l’Under Keel Clearance, perché in acque più profonde lo scarroccio è maggiore in conseguenza alla minore resistenza esercitata dal fondale durante il movimento laterale.
La manovrabilità è la risultante di una serie di caratteristiche della nave stessa e di una serie di fattori che agiscono su di essa.
Sono quindi dati oggettivi: la forma dello scafo, il pescaggio, la superficie velica, il dimensionamento degli organi di governo, ecc. – sono invece variabili da ponderare di volta in volta le cause esterne come: il vento, la corrente, il moto ondoso, il basso fondo, le sponde dei canali e cosi via.
Effetti evolutivi del timone
Due importanti aspetti della manovrabilità sono la prontezza di risposta al timone, che indica la facilità con cui la nave cambia rotta quando si mette il timone alla banda e l’abilità evolutiva, cioè la capacità di evoluire in spazi ristretti.
Quando la nave percorre una rotta rettilinea in acque calme, il complesso delle forze trasversali che agiscono sulla carena e sul timone non sono apprezzabili e non si manifestano effetti quali imbardate o deriva se non in presenza di vento o corrente. Queste forze agiscono invece quando il timone interviene ruotando sul proprio asse. Per effetto di questa rotazione i filetti fluidi investono un lato della pala sviluppando una forza trasversale P inclinata rispetto al piano diametrale della nave di un certo angolo. Questa forza cambia la traiettoria della nave e la fa accostare.
Con P sen α e P cos α abbiamo evidenziato le componenti che generano la forza risultante P. La prima forza è orientata nel senso opposto al moto ed è responsabile del calo di velocità che si verifica durante le accostate. La seconda, è posta nella direzione normale al piano diametrale, orientata nella direzione opposta al lato in cui è stato orientato il timone ed è responsabile del moto di deriva della nave.
Ogni nave ha le sue caratteristiche e la stessa nave si comporta in modo diverso a seconda delle forze esterne a cui è sottoposta. È difficile immaginare ogni scenario possibile per ogni nave, l’abilità di chi manovra sta nell’individuare le caratteristiche principali di ognuna e agire con la giusta sensibilità sfruttando o contrastando le forze che si presentano, anticipandone o ritardane gli effetti.
RIFLESSIONI PER CHI HA ANCORA TEMPO
RIFLESSIONI PER CHI HA ANCORA TEMPO
BY JOHN GATTI• Rapallo, 5 SETTEMBRE 2020•7 MINUTI
La carriera a bordo delle navi è legata a una crescita continua, dove il compito più arduo, quello della selezione, dell’infarinatura, della formazione dei primi schemi che accompagneranno negli anni, spetta alla scuola.
Molti ragazzi scelgono il nautico più per esclusione che per vocazione e, spesso, con un’idea poco aderente alla realtà proposta dalla strada che stanno per imboccare.
Terminata questa fase si entra nel mondo del lavoro.
Un passaggio abbastanza traumatico, soprattutto per la netta svolta della vita che porta ad affacciarsi su di un nuovo scenario: ridimensionamento delle proprie certezze e necessità di costruire nuovi piloni a sostegno della propria identità.
Fino a pochi anni fa, questo passaggio era ammortizzato dal periodo di leva obbligatorio. L’ambiente militare preparava alla disciplina, alla gerarchia e all’ordine, educava alla civiltà e al rispetto e, cosa molto importante, tagliava il cordone ombelicale che univa il ragazzo alla famiglia. Era la perfetta transizione tra “casa” e “mondo del lavoro”, aiutava a creare la propria indipendenza, rendeva più fluido il passaggio dalla terra alle navi per chi progettava un futuro da marittimo.
L’abolizione del servizio di leva obbligatorio ha reso più difficile il distacco con il periodo adolescienziale, ma ci sono altri due fattori che hanno contribuito a ostacolare il raggiungimento dell’importantissima indipendenza: i corsi obbligatori a carico degli allievi e la mancanza di uno stipendio minimo adeguato.
Facendo sempre riferimento a non molti anni fa, viene spontaneo un confronto che lascia perplessi: un tempo l’allievo era pagato adeguatamente e i corsi erano a carico della compagnia per cui navigava.
I marittimi erano considerati una risorsa su cui investire.
Questa sufficiente sicurezza economica permetteva ai ragazzi di cominciare una vita propria senza dover gravare sulla famiglia.
Oggi le cose sono profondamente cambiate e i ragazzi trovano difficoltà nel passaggio al livello superiore. A volte si sentono un peso che li porta a ritardare la fase dell’indipendenza strettamente legata alla formazione del carattere.
Fare le vele a seconda del vento.
Un adagio che, saggiamente, indica la necessità di una presa di coscienza sullo stato dei fatti e invita a un cambio di atteggiamento per far fronte alla situazione.
Il primo imbarco deve rappresentare comunque un taglio con la vita precedente. Occorre cercare nuovi equilibri.
E qui arriviamo alla fase studio/formazione.
È un po’ come andare all’università. Devi studiare e dipendi ancora dai genitori. Quello che puoi fare è impegnarti al massimo affinché questo periodo sia il più breve possibile. Questo significa pianificare gli obiettivi, ottimizzare i tempi, programmare lo studio e la formazione personale lavorando sui punti deboli.
“Cercare nuovi equilibri”. Nella fase precedente, le ore erano scandite da esigenze naturali proprie di quella fascia di età: amici, ragazze/ragazzi, divertimento, studio, famiglia, sport, ecc; il tutto rimbalzava in una stanza dalle pareti morbide, dove i colpi potenzialmente pericolosi venivano soffocati da sistemi sociali di protezione rodati, legati all’età e alle blande aspettative proporzionate al grado di maturità. Nella ricerca di “nuovi equilibri” occorre salire di livello, accettare il fatto che le morbide pareti sono diventate più dure e che pretendono una maggiore consapevolezza.
Non dovete perdere tempo. Tracciate la rotta verso i vostri obiettivi, e seguitela.
Se il vostro sogno è quello di diventare piloti, allora cominciate il prima possibile a dedicare, regolarmente, parte del vostro tempo allo studio degli argomenti che potrebbero diventare il vostro pane quotidiano. Perché leggere libri e guardare video, quando il tempo stringe e l’esame si avvicina, sposta il focus e la finalizzazione delle azioni, sull’esame stesso; mentre la manovra, il pilotaggio, l’atteggiamento mentale, per essere profondamente capiti, devono diventare una passione, la ricerca dell’informazione per il gusto di sapere.
È un concetto che vale un po’ per tutto, dove il risultato varia a seconda del metodo: fare perchè si deve fare o fare perché si vuole fare. Una differenza spesso dettata dal tempo che decidiamo di concederci.
Una buona strategia va disegnata nei dettagli e corretta nel percorso, con calma, altrimenti ci si trova costretti a fare con quello che si ha, abbassando la qualità del risultato.
NAVI A ROTORE * FLETTNER SHIP
NAVI A ROTORE * FLETTNER SHIP
di Maurizio GARIPOLI
Per introdurre questo tipo di nave, conoscere l’“effetto Magnus” è importante e imprescindibile, ma tratterò l’argomento in forma semplificata, con lo scopo di incuriosire, più che di spiegare.
Immaginiamo un calciatore che colpisce il pallone di punta e cerchiamo di visualizzare la palla percorrere la sua traiettoria a parabola fino alle braccia del portiere. Figuriamoci ora lo stesso pallone colpito con un calcio ad “effetto”: il calciatore gli imprime una rotazione più o meno accentuata per deviarlo dalla sua traiettoria e sorprendere il portiere.
Il risultato lo ottiene per la differenza di pressione che si crea tra le due facce dell’oggetto in rotazione.
Questa differenza di pressione genera un vettore di forza capace, in questo caso, di spostare il pallone dalla traiettoria naturale durante il tragitto verso la porta.
Il giocatore sa che, a seconda della velocità di rotazione che imprime al pallone, questo avrà una deviazione più o meno marcata; anche se non tutti i calciatori sanno che il risultato ottenuto è dovuto al cosiddetto “effetto Magnus”.
L’ingegnere aeronautico tedesco Anton Fletner, basandosi su questo principio, inventò un rotore cilindrico, che ha avuto negli anni diversi utilizzi, e non solo in campo aeronautico. Il rotore è stato impiegato per costruire aerei, timoni navali ad alta efficienza e… propulsori navali.
Oggi parliamo, sinteticamente, di queste navi a rotore.
In effetti non se ne vedono molte, tuttavia esistono e stanno solcando i mari proprio in questo momento.
La prima nave a utilizzare questo sistema fu costruita proprio da Flettner nel 1924 ed era dotata di due cilindri larghi 3 metri e alti 15 che sfruttavano un piccolo motore e il vento per generare questa forza. Questo sistema ai tempi non fu ritenuto molto efficiente, almeno rispetto alla propulsione convenzionale, e venne abbandonato per un lungo periodo, tuttavia l’idea rimase latente fino agli anni ’80, quando fu pensata come un ausilio al propulsore principale per ridurre i costi del carburante via via crescente.
Ma come funzionano i rotori?
I rotori Flettner sono dei grossi cilindri che salgono in verticale dalla coperta della nave e sono meccanicamente collegati al propulsore, che poi è la loro principale fonte di energia. Funzionano come delle vele e in effetti il loro secondo nome è vele a rotore. Il vento, che colpisce i cilindri in rotazione, genera una forza perpendicolare che segue la legge dell’effetto Magnus:
Un corpo in rotazione in un fluido in movimento genera una forza perpendicolare sia all’asse del corpo che alla direzione del fluido.
Graficamente la possiamo vedere così:
Quando il vento colpisce la nave al traverso, genera una forza che aiuta l’elica principale a spingere la nave in avanti. Se la rotta della nave cambia, il senso di rotazione del rotore può essere invertito per non creare una forza contraria al moto. Contribuendo alla propulsione, le vele a rotore abbattono i consumi che poi, in effetti, è il loro scopo primario.
Nell’Estate del 2010 compí il suo primo viaggio l’E-Ship1, una nave da carico con ponte a prua di 130 metri di lunghezza e circa 13.000 tsl, adibita al trasporto di turbine eoliche, dotata di bow e stern trhuster, due eliche e quattro rotori Flettner alti 27 metri e larghi 4.
La E-Ship1 veniva spinta da due motori Diesel marini e, in parte, dai rotori, fino alla velocità massima di 17,5 nodi, ottenendo un risparmio di carburante pari al 10% rispetto a una propulsione a elica esclusiva.
Per alcune compagnie questi risultati valgono l’investimento e, proprio per questo, stiamo assistendo a un lento ma costante incremento del sistema nella flotta mondiale.
Nel 2015 due rotori vengono installati sulla Ro/Ro Estraden.
Nel 2018 un rotore viene installato a prua della nave da carico Fehn Pollux.
Nel 2018 viene installato un rotore alla nave passeggeri Viking Grace.
Nel 2018 quattro rotori mobili vengono installati sulla nave Afros di 199 metri e 36452 tsl.
La particolarità dei rotori mobili permette alla nave di svolgere più agevolmente le operazioni commerciali per poi utilizzare i rotori in navigazione:
https://www.youtube.com/watch?v=X8xysiW4S9Y&feature=emb_logo
Sempre nel 2018 vengono installati due rotori alti 30 metri e larghi 5, sulla petroliera Maersk Pelican – nel video che segue possiamo vederne l’installazione – nonché molti altri particolari del sistema:
https://www.youtube.com/watch?time_continue=19&v=Nrw_FPGsfA4&feature=emb_logo
Ognuna di queste navi dichiara consumi diminuiti dal 10 al 20% e minori emissioni inquinanti. La tecnologia e i materiali moderni hanno fatto abbattere i costi e ottimizzato le prestazioni, portando i rotori a essere sempre più leggeri e performanti.
Il potenziale per un ulteriore sviluppo esiste!
Se per mare vi capita di incontrare una di queste navi, fatecelo sapere e mandateci una foto! La pubblicheremo col Vostro commento.
CARLO GATTI
WEBMASTER
Rapallo, mercoledì 10 Giugno - 2020
22 MAGGIO 2020-GIORNATA DI PREGHIERA E MEMORIA PER TUTTI I MARINAI E PER IL POPOLO DEL MARE
AGENZIA D'INFORMAZIONE
22 MAGGIO 2020
NEGLI STATI UNITI SI CELEBRA OGGI LA GIORNATA DI PREGHIERA E MEMORIA PER TUTTI I MARINAI E PER IL POPOLO DEL MARE
In questo momento 18 milioni tra navi maggiori e minori navigano sui mari di tutto il mondo
Nel 1933, il Congresso dichiarò la Giornata marittima nazionale per commemorare il viaggio a vapore americano della SAVANNAGH dagli Stati Uniti all'Inghilterra, segnando la prima traversata di successo dell'Oceano Atlantico con propulsione a vapore.
Afferma l'Amministrazione Marittima degli Stati Uniti sul suo sito web:
"Durante la seconda guerra mondiale oltre 250.000 membri della marina mercantile americana hanno servito il loro paese, con oltre 6.700 persone che hanno dato la vita, centinaia sono stati arrestati come prigionieri di guerra e più di 800 navi mercantili statunitensi sono state affondate o danneggiate".
Come parte della tradizione, ogni anno il Presidente degli Stati Uniti offre un annuncio in riconoscimento della festività e dell'importanza della Marina mercantile degli Stati Uniti.
Si celebra oggi in tutti gli Stati Uniti la Giornata nazionale di preghiera e di memoria per tutti i marinai e per il popolo del mare.
Istituita nel 1933 dal presidente Roosvelt per celebrare l’arrivo a Liverpool della prima nave a vapore SAVANNAH partita proprio il 22 maggio da Savannah in Giorgia, la celebrazione voleva onorare la Marina mercantile americana e oggi ricorda tutti coloro che lavorano sui mercantili e i benefici apportati dall’industria marittima alle nostre società. Brendan J. Cahill, vescovo della diocesi di Victoria, in Texas e responsabile dell’Apostolato del Mare (Aos), ha celebrato una messa sabato 19 maggio nel santuario nazionale dell’Immacolata Concezione a Washington DC e ha incoraggiato ogni diocesi a ricordare, il 22 maggio, tutti gli uomini e le donne del mare sia nel corso delle omelie che con preghiere speciali.
L’Apostolato del Mare (Apostleship of the Sea – Aos) è un organismo della Chiesa cattolica che accompagna nella loro particolare vita di fede, i marittimi, i pescatori, le loro famiglie, il personale portuale e tutti coloro che lavorano o viaggiano in alto mare per lunghi mesi, indipendentemente dalla razza, dal colore o dal credo.
Negli Stati Uniti, l’Aos è presente in 53 porti marittimi di 26 Stati e in 48 diocesi. Cappellani sacerdoti, diaconi, religiosi e laici offrono attraverso questo servizio una “casa a chi è lontano da casa” per i marittimi attraverso la messa, la comunione, la confessione e altri sacramenti. A questo si aggiunge l’assistenza ai marittimi in difficoltà, le visite alle navi, piccoli centri sulla terraferma, con connessione internet, telefoni cellulari e schede telefoniche che facilitino i contatti con le famiglie. Durante le celebrazioni si è ricordato anche il messaggio che il cardinal Turkson, prefetto del Dicastero per lo sviluppo umano integrale, aveva inviato lo scorso anno ricordando che “il lavoro duro di oltre 1,5 milioni di marittimi, che trasportano quasi il 90% dei beni da noi utilizzati, ci consente di vivere una vita confortevole”. L’otto luglio prossimo, in occasione della giornata mondiale del mare, anche la Chiesa statunitense proporrà iniziative e celebrazioni per i marittimi.
U.S. Celebrates National Maritime Day
Giornata marittima nazionale!
Ogni anno, il 22 maggio, gli Stati Uniti celebrano la Giornata marittima nazionale, una festa in osservanza dei contributi degli uomini e delle donne della Marina Mercantile Americana, nonché dell'industria marittima degli Stati Uniti e dei benefici che porta al paese in termini di trasporti, posti di lavoro, merci, attività ricreative e sicurezza nazionale.
La data del 22 maggio è significativa perché segna il giorno in cui la SS Savannah nel 1819 partì per il primo viaggio riuscito da parte di una nave a vapore attraverso l'Atlantico, scatenando silenziosamente una nuova era di viaggi e trasporti marittimi.
La Giornata marittima nazionale fu dichiarata per la prima volta dal Congresso nel 1933, ma la festività assunse un significato speciale nella seconda guerra mondiale quando i membri della Marina mercantile degli Stati Uniti trasportarono le truppe e i servizi necessari alle truppe all'estero, il tutto subendo un tasso di perdite straordinario.
IMO
(Organizzazione marittima internazionale)
celebra la Giornata del Marittimo il 25 giugno
Con la sua campagna di sensibilizzazione “I AmOnBoard” nei confronti di un lavoro svolto sul mare, ma anche per il mare e con il mare, al di là del ”genere”. Per tutto il 2019, c’è una forte enfasi nel mondo marittimo sull’importanza e il valore delle donne all’interno dei ranghi professionali. Tutto è iniziato con la Giornata mondiale del
Mare (Empowering Women in the Maritime Community)
che ha portato una risonanza molto forte e di vasta portata. Sicuramente, le tantissime donne che lavorano sul mare e a bordo di navi in navigazione, meritano una giusta attenzione.
È un’opportunità per le donne in una vasta area di carriere e professioni marittime, ma che occorre focalizzare i tanti aspetti che i marittimi in genere soffrono, a partire dai contratti di lavoro che riguardano solo i periodi d’imbarco e per finire ai tanti certificati (STCW) per poter svolgere la professione di “gente di mare”.
In particolare, contestiamo la deriva culturale dei Nautici italiani in professionali dei trasporti; la rivoluzione culturale che non esistono più ”Comandanti e o Capitani” – della via in mare – ma solo conduttori di un mezzo, su vie stabilite e pianificate dall’economia e non dalla navigazione, chiamato ancora nave. Per l’Italia dei marittimi e portuali il problema è ancora più complesso, visto che ancora non si riesce a ristabilire un Ministero del Mare e della marina Mercantile, e che la maggior parte dei marittimi non si riconoscono “ferrovieri e camionisti”.
“E’ chiaro che nella categoria dei marittimi vi sono tutti i lavoratori che operano si sul mare, ma anche per e con il mare. Anche quest’anno si può partecipare sui social media “ # IAmOnBoard” per mostrare la propria solidarietà per l’uguaglianza di genere nella marineria, sia su Twitter, Facebook e Instagram. Buon vento in poppa e mare calmo a prua.
Leggi anche:
25 giugno, Giornata mondiale del Marittimo, Uiltrasporti: che sia dedicata ai familiari dei marittimi morti sul lavoro.
Bacardi Cup Invitational Regatta: Calvi Network finisce ancora una volta sul podio
2 Giugno, ad Ostia si celebra il VelaDay
25 GIUGNO: GIORNATA MONDIALE DEL MARITTIMO ACNL
25 Giugno 2012: Giornata Internazionale del marittimo
Argomenti:
Persone ed Enti:
CONFERENZA EPISCOPALE STATUNITENSE
Luoghi
Carlo GATTI - Nunzio CATENA
Rapallo, 22 Maggio 2020