QUALI SONO LE NAVI PIU’ DIFFICILI DA MANOVRARE?
QUALI SONO LE NAVI PIU’ DIFFICILI DA MANOVRARE?
PASSANDO IL MOUSE SOPRA LE PAROLE SOTTOLINEATE , APPARE UNA FINESTRA A TENDINA CHE NE SPIEGA IL SIGNIFICATO.
Questa è una delle domande che mi sono sentito rivolgere più spesso, e la risposta non è né semplice né scontata.
Sono troppi i fattori che influenzano una statistica di questo tipo e vanno da quelli psicologici a quelli pratici.
In più di vent’anni di pilotaggio mi è capitato di manovrare una grande varietà di navi, pontoni, scafi particolari (vedi Concordia), manovre sperimentali, velieri, yachts, ecc., in situazioni estremamente diverse.
Tra le variabili più frequenti mi vengono in mente le condizioni meteomarine, i pescaggi, le superfici veliche, gli assetti, i tipi di timone e di propulsori, le avarie, gli equipaggi affidabili e quelli meno, ecc.
Anche le valutazioni soggettive influiscono notevolmente e variano con l’esperienza. Ricordo, per esempio, che i primi anni di pilotaggio arrivavano a Genova due navi Ro-Ro tunisine nuovissime e dalle ottime prestazioni: il Salammbo 7 e l’Ulysse. Nonostante occupassero onorevolmente i primi posti nella lista delle navi affidabili, per me erano sempre “vapori” da manovrare con grande attenzione. Il motivo: prima di diventare pilota navigavo sulle petroliere, le cui caratteristiche erano completamente diverse. Trovarmi su di un Ponte prodiero cambiava i parametri di evoluzione e le differenze nelle proporzioni tra masse e propulsori erano abissali. Intendo dire, che nelle prime esperienze da pilota un peso non trascurabile è dato dalla familiarità che si ha con i mezzi da manovrare.
Ponte di Comando della nave “Salammbo 7”
Vent’anni fa i thrusters erano optional poco diffusi. Ricordo un pilota, ora in pensione, che gli ultimi anni di navigazione, prima di diventare pilota, li aveva trascorsi a bordo delle bettoline per il bunker; risultato: era bravissimo nella manovra delle navi di piccole dimensioni, e un mago in quelle dove un buon uso delle ancore permetteva acrobazie piuttosto complesse.
Bettolina del bunker
E così, almeno per i primi tempi, ognuno ha preferenze che influenzano il metro di giudizio nella scala delle difficoltà di una manovra rispetto a un’altra.
Con il tempo la competenza e l’abilità si livellano; l’esperienza aiuta a riempire la personale cassetta degli attrezzi di strumenti che diventano utili in tutte le occasioni.
A questo punto entrano in campo i fattori caratteriali.
Tutti, prima o poi, raggiungono un livello che permette di operare in una ben definita zona di comfort.
Questo non vuol dire manovrare bene, significa semplicemente aver capito i propri limiti e aver trovato un equilibrio – più o meno forzato – che permette di portare le navi in banchina. Ovviamente c’è chi eccede nelle precauzioni, chi trova un limite più basso degli altri nelle differenti condizioni meteomarine e chi opera con tempi più lunghi.
È normale, fa parte del percorso di formazione. Il fatto diventa negativo quando ci si arresta al traguardo raggiunto, quando si ripetono le stesse manovre senza cercare di migliorare, quando ci si trova ad applicare sempre la stessa procedura senza adeguare il metro di valutazione al progredire dell’esperienza.
Mi rendo conto che, per riuscire a spiegarmi bene, devo precisare alcune cose:
- La teoria studiata sui libri, le manovre provate sui simulatori e i corsi in generale, sono utilissimi per costruire le basi da cui fare decollare in seguito la professionalità spinta dalla pratica e dall’esperienza.
- Le “procedure“, in generale, servono a mitigare i rischi che in questo lavoro non possono essere esclusi, ma devono essere viste come “linee guida”, “suggerimenti operativi” da adattare alle circostanze. Questo perché, come dicevo prima, le situazioni possibili sono infinite e imbrigliarsi in troppe regole può aiutare a scaricare parte delle responsabilità da in lato (se vogliamo dare un peso all’accezione negativa del pensiero burocratico), ma dall’altro condiziona il metro valutativo sulle variabili non previste.
- Uscire dalla “zona di comfort” non deve esser visto come un azzardo, ma piuttosto il passaggio al paragrafo successivo nel testo della preparazione personale.
- Una delle qualità fondamentali, richiesta a un buon pilota, è la capacità di giudicare le situazioni senza lasciarsi condizionare dalle pressioni esterne (commerciali, di traffico, personali, ecc.): se una cosa la si può fare, adottando tutti gli accorgimenti del caso, la si fa, altrimenti no. Facile a dirsi, difficile a farsi. Quando si lavora vicino al limite, il confine tra “il possibile” e “il rischioso” è veramente labile e la valutazione strettamente personale. Anche in questo caso il tempo e l’esperienza diventano gli occhiali che servono a mettere a fuoco un concetto inizialmente sbiadito.
Bene! Ritengo di aver tracciato in maniera efficace i confini entro i quali mi muoverò per rispondere alla domanda iniziale.
Dando quindi per scontata una sufficiente esperienza e preparazione, una maturità di giudizio consapevole e lasciando da parte le variabili eccezionali, elencherò le difficoltà principali per tipologia di nave.
- Navi di piccole dimensioni, senza bow thruster e ad avviamenti, ormai ce ne sono poche. Mi viene da dire “peccato”: erano davvero un’ottima palestra di manovra! Il fatto di avere i problemi ben focalizzati e le risorse ridotte al minimo, permette di concentrarsi sulla gestione di poche cose per volta. Mi spiego meglio. Per “problemi focalizzati”, intendo carenze talmente evidenti da non rivelarsi, al momento meno opportuno, come insidie nascoste, e quindi prevedibili in quanto dichiarate. Vi racconto un episodio di tanti anni fa per trasferire il concetto astratto alla pratica.
“Ero allievo pilota da circa sei mesi e accompagnavo alla partenza di una piccola Ro-Ro il Comandante Veglio. La nave, dotata di bow thruster e due eliche outwards a passo variabile, era ormeggiata sulle ancore con la poppa in banchina (andana).
Un vento di media intensità, circa 15/18 nodi, scivolava da poppa verso prora, rendendo frizzante l’aria mattutina di quella giornata di marzo.
Quel giorno, forte della mia inesperienza, ho inanellato una serie di errori incredibile.
Sulla lavagna dove venivano segnati i lavori, posta nella sala operativa, erano segnate due manovre a poca distanza l’una dall’altra: l’arrivo di una nave di merce varia di media grandezza e la partenza di una Ro-Ro ormeggiata di punta. Il Comandante Veglio mi chiese di andare con lui alla partenza ed io, dopo un breve confronto, acconsentii riluttante.
Pensavo fosse più interessante la manovra d’arrivo.
Mi convinse dicendomi che, seppure stretti con i tempi, probabilmente sarei riuscito a fare sia l’una che l’altra.
Nella mia testa la partenza della Ro-Ro era meno interessante: sarebbe bastato salpare le ancore, fare un po’ di coppia con le macchine, mettere il bow thruster a sinistra e voilá, il gioco era fatto. Con questa idea in testa affrontai la manovra di disormeggio… e poi dovevo fare presto, se volevo finire in tempo per l’arrivo della “merce varia”.
Feci mollare tutti i cavi di poppa e salpare le ancore. Arrivate a tre lunghezze in acqua feci fermare il salpa ancore di sinistra.
Quasi subito il vento, che nella prima fase sembrava non avere alcuna influenza, cominciò a farsi sentire, costringendomi a compensare utilizzando le macchine e il timone. Per farla breve, mi trovai, una volta salpate le ancore, con la nave troppo vicina alla banchina di dritta. Per riuscire a mantenere il controllo aumentai la velocità, con il risultato che mi trovai ad affrontare l’accostata a sinistra per entrare in canale troppo abbrivato, troppo vicino alla banchina di dritta (e quindi senza il giro libero per accostare) e con il vento che mi spingeva verso la diga… Intervenne il Comandante Veglio, che mi tolse la manovra dalle mani e, non senza difficoltà, rimediò a una situazione che – errore dopo errore – avevo portato a un livello di criticità molto alto.
Manovra partenza nave in andana
Questo racconto vuole introdurre un concetto che ho vissuto e che ho riscontrato successivamente tra gli allievi entrati dopo di me:
- L’inesperienza porta a riconoscere, valutare e ad affrontare i problemi uno per volta, mano a mano che si presentano.
Cosa c’è di sbagliato in questo? A volte la soluzione migliore per il primo problema rende più complessa la risoluzione di quello successivo, scatenando una serie di reazioni che possono portare al disastro.
L’atteggiamento giusto è quello di individuare il “nocciolo”, ovvero il punto più delicato della manovra, e costruire la strategia in funzione di quello.
Nel caso della storia che vi ho raccontato, mi sarei dovuto focalizzare sulla necessità di affrontare l’entrata in canale sufficientemente sopravventato e con un’andatura tale da permettermi di conservare una riserva di macchina sufficiente a vincere le forze contrastanti.
Termino qui la prima parte dell’articolo. Nella seconda, che pubblicherò a breve, riporterò considerazioni e racconti sulle altre tipologie di navi. A presto.
di JOHN GATTI
Rapallo, 24 Novembre 2019
LA DARSENA CUORE ANTICO DI GENOVA
LA DARSENA
CUORE ANTICO DI GENOVA
UN PO' DI STORIA
L’aspetto originario del porto è quello coincidente col naturale bacino (oggi cuore del Porto Antico) che risale al all’epoca del Comune, con l’istituzione dei Consoli del Mare, che sovrintendevano al corretto svolgimento di tutte le attività portuali ivi comprese le opere di manutenzione e ampliamento delle infrastrutture.
Il secolo XII vede l’espansione dei commerci genovesi nel Mediterraneo e la città diviene punto di smistamento del traffico di merci di lusso che arrivano dall’Oriente e dalle Fiandre, traffico che genera attività finanziarie e bancarie che nel volgere del tempo vedranno i banchieri genovesi protagonisti in Europa.
Il bottino di guerra derivante dalla sconfitta dell’acerrima nemica Pisa permette poi, sul finire del secolo, la realizzazione della darsena, con l’Arsenale per le costruzioni navali e il rimessaggio, e due bacini: uno destinato alla flotta di galee e l’altro al traffico del vino. Intanto, nel 1260, davanti a SOTTORIPA, viene completato il Palazzo del Mare, sede del Comune. Quello che oggi conosciamo come Palazzo San Giorgio sede dell’Autorità Portuale e che nel ‘400 ospitò l’antesignano di tutti i moderni sistemi bancari, il Banco di S. Giorgio.
Ai primi del ‘300 risale la costruzione della LANTERNA come la conosciamo noi oggi, anche se sappiamo dalle fonti che fin dal 1128 esiste una torre atta all’avvistamento di navi all’orizzonte e già dal 1161 le navi dirette in porto sono tenute a pagare un dazio per il servizio di segnalazione luminosa del faro.
La zona interna al molo vecchio è destinata all’attracco delle imbarcazioni minori e dal loro affollamento simile a quello di una mandria deriva il nome del luogo, detto Mandraccio.
Il nome "mandracchio" deriva dal lat. "mandra", “recinto, ricettacolo” e suo diminutivo lat. "mandraculum", spazio organizzato per non ingombrare e per occupare il minore spazio possibile. In greco esiste la voce corrispondente, mandràki (μανδράκι), prestito mediterraneo come altre parole comuni a varie culture del mare. Otre che ad indicare il mandracchio di Rodi, è anche nome proprio di due centri costieri: Mandràki Nisyrou (Μανδράκι Νισύρου), nell'isola di Nisiro, nel Dodecaneso, e Mandràki Serròn (Μανδράκι Σερρών), nell'unità di Serres, in Macedonia Centrale.
Vi erano altresì numerosi piccoli pontili, ma specialmente ritroviamo nell'iconografia la presenza di tre bacini separati da piccoli moli: la Darsena delle barche o del vino, cioè l'approdo del commercio di cabotaggio; la Darsena delle galere, rifugio delle navi mercantili e da guerra; l'Arsenale o Darsinale, luogo di costruzione delle galere e di deposito del loro armamento. Essi furono costruiti, secondo la tradizione, utilizzando diecimila marchi d'argento del bottino di guerra ottenuto contro i Pisani nella battaglia della Meloria (1284), e successivamente circondati da torri merlate e da mura (1312). Per secoli questi spazi e gli edifici esistenti su di essi hanno identificato il lato tecnico operativo, in chiave marinaresca, dapprima, nel Medioevo, di una politica di espansione commerciale e militare finalizzata alla costruzione di un impero coloniale tra i più importanti del Mediterraneo; successivamente, in Età moderna, della difesa dei confini operativi conquistati, commerciali e finanziari questa volta, con la scelta della neutralità e le arti della diplomazia.
La struttura portuale rimane invariata nei suoi aspetti fondamentali fino al Cinquecento inoltrato: gli interventi maggiori riguardano il Molo (corredato di un faro minore), che viene a più riprese ingrandito fino al 1553, quando a coronamento dei suoi 490 metri di lunghezza viene posta la Porta del Molo (o Porta Siberia) progettata da Galeazzo Alessi. I sei ponti perpendicolari alla Ripa Maris, cioè alla riva, prendono il nome dal tipo di merce che vi si scarica oppure dalle famiglie che hanno residenza nelle vicinanze: in origine interamente in legno, vengono ricostruiti in pietra a partire dal ‘400, contemporaneamente al progressivo potenziamento della darsena e all’escavazione del fondale per permettere l’attracco delle imbarcazioni man mano sempre più grandi.
A conferma dell’importanza del porto per la città, i Padri del Comune, già dal 1363, venivano nominati anche Salvatores Portus et Moduli, cioè Conservatori del Porto e del Molo, con responsabilità dirette nell’amministrazione portuale, dotati di poteri speciali e individuati in base a precise competenze tecniche.
La Darsena, "CUORE" della storia di Genova
Un grande spazio all'interno di quella che ora viene denominata area del Porto Antico era un tempo occupato da importanti infrastrutture al servizio del porto della città capitale della Repubblica di Genova. Vi si trovava il Molo vecchio, la struttura portante dell'approdo, caratterizzato dalla presenza dei "noraxi", cioè le grosse colonne, di marmo o di pietra di Promontorio, a cui le navi legavano gli ormeggi; da un faro, più piccolo della grande Lanterna, che chiudeva invece il bacino ad occidente; da "cannoni", cioè tubature che portavano l'acqua alle navi ancorate.
Sulla sinistra le arcate vecchie per le galee – Cristoforo Grassi Veduta di Genova particolare .
Dalle fonti sappiamo che era nato originariamente come uno degli spazi dell’Arsenale genovese per costruire o per tenere in manutenzione le galee della Repubblica di Genova.
L’edificio, che aveva il nome di Acate Nuove, si contrapponeva alle Arcate Vecchie costruite lungo la riva del mare, lo spazio che si trova tra il museo e la sopraelevata. Le Arcate Vecchie erano una quindicina di scali, disposti a pettine lunghi 50 metri, larghi 8, alte tra i 10 e i 15 metri. Qui le galee venivano costruite e poi scivolando sui tronchi, varate in mare.
Le Arcate Nuove invece, risalgono alla seconda metà del XVI secolo. La Repubblica decide di aumentare il numero di galee della sua flotta, per essere competitiva sul Mediterraneo. Alte e ampie arcate sono progettate per poter costruire e ospitare e al chiuso galee di grandi dimensioni.
Quando però nel ‘600 i lavori sono completati, le situazioni economiche e politiche mutano e le galee della Repubblica diminuiscono: da 25 passano a 15.
Di conseguenza anche gli edifici vengono modificati per avere utilizzi differenti. Le arcate alte nell’800 fanno posto a un edificio di tre piani e diventa magazzino della Dogana. L’area sul dock viene attrezzata allo scopo di carico, scarico e magazzino: gru, binari, scambi ferroviari, che vediamo ancora oggi.
L’edificio viene abbellito da un rivestimento neoclassico, con un torrino sulla facciata e la torre, che vediamo ancora. È in questo periodo che le “Arcate Nuove” prendono il nome di Galata.
Alla caduta della Repubblica Genovese, nel 1797, la Darsena è completamente militarizzata e così rimane, dopo l'annessione al Regno Sardo, fin dopo la metà dell'Ottocento. Durante questo periodo è interrato lo spazio acqueo dell'Arsenale e viene costruito un bacino di carenaggio, per altro ancora oggi esistente, al posto dell'ex bacino delle barche. Bisogna attendere il 1870, con la cessione dal Governo al Comune, perché abbia inizio la trasformazione della Darsena in emporio commerciale.
L’antica Darsena
Calata Simone Vignoso. Notare sullo sfondo gli alberi dei velieri ormeggiati alle “calate Interne”. Sulla sinistra il celebre PONTE REALE che permetteva agli armatori di scendere direttamente in porto.
1916 - Darsena e Ponte Reale
Darsena fine ’88 – Calata Simone Vignoso
Questa foto mostra la Darsena con un grande orologio sopra lo stemma del Comune di Genova.
Quattro navi ormeggiate in Darsena: due a Calata Ansaldo De Mari (calata Orologio) ed altre due a Calata Andalò Di Negro. Una selva di maone sono sotto carico o in attesa.
Porto Vecchio - Genova, primi '900
Chi scrive ricorda d’aver ormeggiato in Darsena (al Cembalo) navi lunghe circa 100 mt. fino alla fine degli Anni ’70.
Darsena - Magazzini Interni
Preziosa foto dei CADRAI che si apprestano alla distribuzione del pasto di mezzogiorno a diverse categorie di portuali, ma soprattutto alle navi in porto.
Uno dei tanti “Maciste” dell’epoca…
Traffico intenso alla Darsena
Calata Ansaldo De Mari
I grandi depositi merci della Darsena
La Darsena fece muro contro l’ondata dei containers fino al 1970, poi andò in disarmo insieme alle sue romantiche navette e, da quel giorno, l’intera zona si consolò con il Diporto. Oggi le sue banchine ospitano il Museo Galata, il sommergibile Nazario Sauro e altre importanti realtà culturali, ma, a quell’antica gente del porto, le calate Orologio, De Mari, Andalò Di Negro e Cembalo parlano ancora di duro lavoro in allegria e di gioventù vissuta in un ghetto dorato, tra tanta merce orientale che, in piccola parte, brilla ancora sui marmi lucidi di tanti comò genovesi…
In un fondaco della Darsena arrivava lo stokke direttamente dalla Norvegia, e in quella tana buia e salmastra, Gian e Charly lo scambiavano con alcune stecche di “bionde americane” che volavano impunite tra bordi, banchine e caruggi aggirando varchi e presidi spesso consenzienti…
Qui, al riparo da tutte le ansie e dai segugi della Finanza, Zanna, cugino di Gian ed eccellente velista dalle mani d’acciaio, faceva il “punto nave” dell’Italia de lungu in crisi e, a mezzogiorno li portava da Pino u frisciolà per un pieno di profumi e specialità genovesi. Era il regno del puro vernacolo celebrato in compagnia dei barillai, ligaballe, carenanti e camalli con gli inseparabili ganci appesi dietro le braghe.
Magazzini e depositi del Porto Franco in Darsena
Dopo l'acquisto della Darsena il Comune predispone infatti un progetto generale di sistemazione (1889) che prevede la costruzione di altri edifici a più piani ad uso magazzino accanto al Famagosta e al Galata, già parte dell'antico Arsenale: il primo costeggiava via Carlo Alberto (l'attuale via Gramsci); il secondo si affacciava sulla calata Ansaldo De Mari ed è stato per lungo tempo adibito a sezione di Deposito franco, utilizzando per la manodopera la Compagnia dei Caravana (di cui ci siamo già occupati su questo sito).
Scena di vita portuale lungo il banchinato di marmo
Anni '50
I nuovi "quartieri" (la denominazione deriva dall'antico Portofranco), anch'essi col nome delle antiche colonie genovesi (Caffa, Metelino, Cembalo, Tabarca e Scio) vengono terminati tra il 1895 e il 1898. Nel ventennio tra il 1879 ed il 1898, la Darsena è destinata, in tutto il suo coordinato complesso, al ricevimento, smistamento e immagazzinamento dei salumi in particolare e dei viveri in generale. Le merci provenivano dai porti nazionali, soprattutto dalla Sicilia e dalla Sardegna, e dai porti della Tunisia, dell'Algeria e del Portogallo; il baccalà arrivava direttamente dai luoghi di pesca e dai porti norvegesi, danesi, tedeschi, svedesi, islandesi. Al 1898 risale, come si è detto, la costruzione del quartiere Scio, il più grande, posto verso il mare, che utilizza, quale sedime del fronte longitudinale a settentrione, parte del molo cinquecentesco che delimitava il bacino dell'Arsenale. Sulla stessa linea di fronte mare il Cembalo, l'unico quartiere della Darsena servito da due gru di banchina atte allo sbarco delle merci a magazzino, adibito successivamente, nel 1916, a "frigorifero", con ventiquattro celle.
I celebri Caravana
I carbunin
Altra figura storica, diversa naturalmente ma non per questo meno importante, è quella del camallo, ossia lo scaricatore portuale, legata imprescindibilmente alla storia del porto fin dai suoi albori. L’organizzazione dei camalli in squadre affonda le radici in tempi remoti: l’atto di nascita della Compagnia dei Caravana, prima associazione di lavoratori portuali, risale al 1340, e si distingue fin da subito per le esclusive che riesce ad ottenere dal Comune riguardo lo scarico delle merci, nonché per le sue caratteristiche di mutuo soccorso, codificate nello Statuto, che prevedono il versamento di una quota del salario dell’associato nelle casse sociali, destinate all’assistenza dei malati e alle esequie di ciascun compagno.
LA DARSENA OGGI
Una nave museo a Genova - Il sottomarino NAZARIO SAURO (S 518)
Calata Ansaldo de Mari, entrata del GALATA MUSEO DEL MARE
PROGRAMMA DI RIQUALIFICAZIONE
ENTRATA IN DARSENA 1950 – IN GRAMSCI E QUARTIERE FAMAGOSTA
Il Programma di Riqualificazione Urbana della Darsena, area a mare di via Gramsci, ma appartenente al "Centro Storico", ha avuto inizio nel 1998 con la stipula dell’Accordo di programma.
Zona Darsena - L’ambito di intervento è la Darsena comunale, un’area di circa 10.000 metri quadri situata nel porto vecchio della città, sul fronte a mare del centro storico, caratterizzata da un insieme di edifici originati nell’antico nucleo dell’Arsenale al servizio del porto. La zona, che nel corso dei secoli è stata continuamente sottoposta a trasformazioni dettate dalle mutate esigenze della città e del porto, in tempi più recenti, venuta meno la funzione portuale a emporio commerciale:
-Con l’insediamento della Facoltà Universitaria di Economia e Commercio nel quartiere Scio e del Museo del Mare nell’edificio Galata, ha assunto un nuovo ruolo urbano connesso al processo di riconversione dell’intero porto storico e recupero dei quartieri Caffa e Metellino.
-Nei magazzini di calata Darsena ha sede l’Istituto Tecnico Nautico di Genova, antica scuola istituita nel 1816 da Vittorio Emanuele I e ancor oggi centro d’avanguardia per la formazione marinara.
-Davanti al Galata si trova la Urban Lab, una chiatta-laboratorio-urbanistico galleggiante, lunga 27 metri, disegnata da Renzo Piano per accogliere il team internazionale di architetti e urbanisti impegnati nel definire le linee del nuovo piano regolatore della città.
-La sistemazione della viabilità pedonale a livello banchina, con la realizzazione di una passeggiata in calata Simone Vignoso e calata Ansaldo De Mari.
-Il recupero di posti auto pubblici.
-La sistemazione della viabilità.
-Il restauro della pavimentazione di calata Dinegro.
-La demolizione e ricostruzione dell’edificio a ponente del bacino di carenaggio denominato "Bacinetto" (in via di progettazione esecutiva).
-La demolizione del quartiere Famagosta con recupero di posti auto.
-La manutenzione straordinaria del quartiere Tabarca.
-La realizzazione di una scuola materna nella nuova struttura edilizia e residenziale del quartiere Cembalo con recupero di spazi commerciali e artigianali.
Mappa della Darsena con i nomi storici delle sue Calate
Ricapitolando, il complesso architettonico della Darsena è stato ricostruito nel 1895 inglobando gli antichi arsenali della Repubblica e adibito allo smistamento e all’immagazzinamento dei viveri provenienti dai porti nazionali e internazionali. Nell’ambito del progetto di riqualificazione del water front della città, l’intera area è stata ridisegnata dagli architetti Enrico Bona e Guillermo Vázquez Consuegra e destinata a nuove funzioni.
Il Programma di Riqualificazione Urbana della Darsena, area a mare di via Gramsci, ma appartenente al "Centro Storico", ha avuto inizio nel 1998 con la stipula dell’Accordo di programma.
Edificio CEMBALO
Calata Andalò di Negro
Darsena - La conclusione dei lavori, il cui costo complessivo è pari a quasi 15 milioni di euro (7 milioni dei quali di provenienza pubblica), in un primo tempo prevista nel mese di novembre 2002, è stata poi prorogata dal Ministero delle Infrastrutture sino al 31/12/2011.
IL CEMBALO –
VEDUTA AEREA -
Nonostante la sua quasi completa trasformazione funzionale vengono conservati intatti il prospetto verso la città e le strutture in muratura, travi di ferro e voltine in mattoni del piano terra, a testimonianza delle tecnologie costruttive caratterizzanti la vecchia darsena di Genova, testimonianza arricchitasi nel corso dei lavori grazie al ritrovamento di antichi paramenti murari sotto il sedime dell’edificio, di cui si è mantenuta la visibilità attraverso le finestre che dai pavimenti del piano terra si affacciano sul molo medievale.
L’edificio CEMBALO
IL NAZARIO SAURO E' ARRIVATO A GENOVA
IL 18 SETTEMBRE 2009
È arrivato in porto a Genova il Nazario Sauro, il sottomarino che sarà musealizzato in acqua, primo in Italia, dal Galata-Museo del Mare.
Il direttore del museo, Pierangelo Campodonico, che ha effettuato il viaggio a bordo del Nazario Sauro, ha ricordato i caduti di Kabul prima di ringraziare la Marina Militare e Fincantieri che, con il museo genovese, hanno portato a termine l’operazione. Il sottomarino, scortato da una motovedetta della Capitaneria di Porto di Genova, verrà portato ai Cantieri Mariotti per gli ultimi ritocchi e poi sarà trasferito nella darsena davanti al Galata per la collocazione definitiva.
9 agosto 2019
– ultime novità –
Presentato il progetto di riorganizzazione che include pescatori, diving center, museo del mare e rimorchiatori riuniti
La nuova sistemazione è stata presentata questa mattina a Calata Vignoso, negli spazi del mercato dei pescatori a km-0 dal sindaco Marco Bucci e dall’assessore all’Urbanistica Simonetta Cenci. Il progetto è stato elaborato e condiviso con la sovrintendenza e i soggetti che ne saranno protagonisti, gli operatori del settore marittimo (Rimorchiatori Riuniti, pescatori, diving center, Galata Museo del Mare).
Gli spazi della Darsena che verranno rinnovati riguardano le Calate Andalò Dinegro, De Mari, Simone Vignoso e il Bacinetto. Tra gli aspetti del piano di sistemazione:
- lo spostamento della chiatta Fincantieri in altra zona del porto antico.
- Quello delle barche dei diving sul lato sud della Darsena in modo da creare, sulla banchina di fronte al museo del mare un’esposizione galleggiante di imbarcazioni storiche.
- I pescatori avranno un chiosco, chiamato “fish lab”, dove potranno tenere laboratori di cucina e altre iniziative, inoltre faranno costruire delle strutture apposite dove tenere le reti oggi ammassate sulla banchina.
- Altra novità è l’apertura al pubblico del molo che circonda il “bacinetto”, il bacino di carenaggio di Rimorchiatori Riuniti.
- L’obbiettivo dell’amministrazione è completare il progetto di risistemazione entro il prossimo mese di marzo.
-SUBACQUEI - La ditta Arco 89 Diving and Sailing Services, operante nel settore dei lavori subacquei ha trovato giusta permanenza in Darsena. Ma la sede è stata spostata al Cembalo e dotata di pontili galleggianti sistemati in prossimità di Calata Andalò Dinegro, tra le imbarcazioni dell’Istituto Nautico e quelle della Polizia di Stato. I nuovi pontili saranno analoghi a quelli già esistenti per quanto riguarda l’uso di materiali, colori e tipo costruttivo in modo da rendere, anche in questo caso, l’intervento coerente con il contesto di appartenenza.
BARCHE STORICHE E MUSEO DEL MARE
Il progetto di riordino prevede lo spostamento della chiatta, oggi davanti al Museo del Mare e ancorata alla Calata De Mari, che ospita l’associazione “Dialogo nel buio” al fine di collocarla in una parte dello specchio acqueo del Porto Antico. La nuova ubicazione consentirà una maggiore visibilità con una condivisione dei visitatori migliorando la sinergia con il sistema di bigliettazione Acquario Village di cui “Dialogo nel buio” fa parte.
GIOCHI BAMBINI E INSTALLAZIONE "BEFORE I DIE"
A Calata De Mari verranno ormeggiate le imbarcazioni storiche al fine di portare a compimento la valorizzazione dell’area in assonanza con il già presente sottomarino “Nazario Sauro” in modo da creare un polo turistico attrattivo antistante il Museo del Mare.
Nelle aree attigue a Calata De Mari, il progetto prevede il trasferimento dell’area giochi bambini in area limitrofa al Museo del Mare in modo da garantire maggiore protezione e sicurezza per i bambini.
In modo analogo a quanto già proposto in molte capitali europee con il progetto Before I Die, verrà realizzata un’installazione temporanea costituita da un allestimento di una parete sul lato del depuratore con funzione di ”lavagna” sulla quale i passanti, invitati a fermarsi e concedersi un attimo per riflettere, potranno scrivere con gessetti colorati un desiderio che vorrebbero realizzare prima di non poterlo più fare o solo lasciare un messaggio….”before I die”.
CHIOSCO FISH LAB PER LA PROMOZIONE ITTICA
Al lato sud-est di Calata Simone Vignoso, il progetto elaborato da un professionista genovese prevede l’inserimento di un manufatto destinato alla creazione di un chiosco Fish-lab in uso a membri dell’Associazione Pescatori Liguri per la lavorazione e la somministrazione dei prodotti del pescato. La forma, le dimensioni, i materiali e le cromie del chiosco riprenderanno e si accorderanno sia con quelli del chiosco già esistente sul lato opposto della Calata, sia del Mercato Ittico.
Il manufatto sarà utilizzato sia per la trasformazione dei prodotti pescati, in particolare per la stagionatura, marinatura ed altre lavorazioni delle acciughe, sia per la somministrazione.
La struttura consentirà di assistere all’attività, fortemente radicata nella cultura degli abitanti del versante marittimo della Liguria, di lavorazione e preparazione delle acciughe, prodotto di antichissima tradizione, e rappresenterà un’attrattiva per i molti turisti e cittadini che frequenteranno la zona della Darsena. Al fine di riqualificare lo spazio pubblico e rendere compatibile la presenza storica dei pescatori e della loro attività con la generale fruizione turistica e di vivibilità della Darsena è prevista l’installazione lungo banchina di alcuni porta reti da pesca, realizzati appositamente e grazie al supporto di RR.
RIMORCHIATORI RIUNITI PORTO DI GENOVA S.R.L. AL BACINETTO
Il progetto prevede la rimozione della chiatta ancorata alla banchina posta in prossimità al bacino di carenaggio della Darsena Vecchia (Bacinetto) che verrà riqualificata e delocalizzata per lasciare posto ad un nuovo attracco dei RR.
Nel Bacinetto, oggi destinato al carenaggio e refitting dei rimorchiatori e delle imbarcazioni private, vengono svolte attività cantieristiche secondo operazioni antiche ancor oggi tradizionalmente in uso.
In particolare la manovra di inversione con tonneggio dei natanti per il posizionamento e la messa in galleggiamento con uscita vengono svolte manualmente da operatori e sommozzatori con una tecnica antica di particolare aspetto scenografico.
Recentemente è stata autorizzata la posa in opera di cartellonistica dedicata che illustra la storia del Bacinetto e delle operazioni che ancor oggi vengono svolte e così divulgate ai frequentatori del Bacinetto attratti dall’antico saper fare genovese in mare.
Il Molo antico verrà riqualificato rimuovendo le incongrue finiture oggi presenti che verranno sostituite con la posa di pavimentazioni possibilmente riutilizzando materiali antichi. Inoltre, verranno installate bitte, colonnine di servizio e parabordi a protezione degli ormeggi.
Il molo potrà essere reso fruibile con visite guidate compatibilmente con le esigenze di sicurezza.
Carlo GATTI
Rapallo, 30 Ottobre 2019
FONTI
- PALAZZO S.GIORGIO: Archivio Storico (1903-1945)
- UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI GENOVA: La Darsena del porto di Genova
- GALATA Museo del Mare
- Guida di Genova.itComune di Genova: La nuova sistemazione della Darsena Municipale. Un museo a cielo aperto del saper fare genovese in mare
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MALEDETTO “EFFETTO COANDA! ” (…)!
MALEDETTO
“EFFETTO COANDA!”
di M. Garipoli – Pilota del Porto di Ravenna
Devo dire la verità: prima di sperimentarlo nella realtà non lo conoscevo… non sono nemmeno sicuro di averlo studiato a scuola. E’ anche vero che molte leggi fisiche o teoremi che ho appreso al Nautico, non sarei in grado di esporli così su due piedi, se non altro senza fare un breve ripasso, ma l’effetto Coanda proprio non ricordo di averlo mai studiato! Eppure un nome così singolare, dovrei ricordarlo…
L’ho invece sperimentato!
Per manovrare le navi in canale, è necessario: in primis studiare la teoria degli effetti idrodinamici; occorre poi sperimentarne l’esistenza nella pratica quotidiana; infine, qualora gli effetti fossero insidiosi per quel tipo di manovra, si devono attuare determinati provvedimenti come – se lo spazio disponibile lo permette – l’allungamento del cavo da rimorchio di quel tanto da rendere ininfluente l’effetto scia contro lo scafo. (come da illustrazione successiva)
Gli effetti più comuni – descritti in molti testi di manovra navale – sono quelli dovuti alle interazioni fra navi e fondali, navi e navi, navi e banchine; si parla quindi di attrazioni e di respingimenti.
Bank Suction e Bank Cushion sono determinati da differenti pressioni, positive o negative, che agiscono sullo scafo della nave.
Pressioni positive respingono, pressioni negative attraggono.
Anche nel nostro libro “A BORDO CON IL PILOTA” affrontiamo l’argomento con spiegazioni dettagliate ed esempi pratici, perché fanno parte del bagaglio che ogni Capitano deve avere con sé.
L’effetto Coanda è meno comune in campo marittimo e sono certo che non tutti i naviganti sanno cos’è. Ne sono certo perchè anche qualche collega, a cui ho rivolto la domanda, non ne conosceva l’esistenza, o meglio, ne riscontravano l’effetto, ma ne ignorava il nome e la teoria.
Immagino che qualcuno leggendo sorriderà.
Il lavoro da Pilota è essenzialmente un lavoro pratico.
Nel travaso di esperienza che avviene durante l’anno di apprendistato, l’allievo Pilota viene istruito e bombardato di nozioni dai suoi futuri colleghi. La formazione prosegue anche oltre, negli anni a seguire. Ogni manovra insegna qualcosa, ed è piuttosto comune la convinzione che “ci vogliono almeno 5 anni per fare un Pilota”.
Ricordi…
Nel periodo in cui io ero allievo Pilota, ricordo che era frequente ormeggiare navi di 150 metri di lunghezza per 25 di larghezza, navigando di poppa in una canaletta larga soli 50 metri.
Passando da Pilota a Pilota potevo confrontare accortezze e “trucchetti” di ognuno e, in base a quelli, forgiare il mio personale stile. Non che ci sia una rosa infinita di tecniche diverse… una stessa manovra si fa in genere in un paio di modi, forse tre, tuttavia le sfumature sono innumerevoli.
In quella circostanza, particolarmente delicata, qualche pilota usava entrambi i rimorchiatori per mantenere il corretto assetto della nave, Mentre altri davano il solo ordine iniziale al “trattore” di poppa di mantenere sempre il centro del canale, utilizzando il solo rimorchiatore di prua per correggere le eventuali sbandate.
Ovviamente i secondi ottenevano una manovra più semplice e meno “lavorata”.
Cosa succedeva ai primi: quando per correggere una deviazione, il rimorchiatore trainante veniva spostato dall’asse del canale, la sua scia si incuneava tra nave e sponda creando una zona di pressione che andava a contrastare l’azione del cavo.
Spesso si dovevano usare ripetutamente macchina e timone per aiutare il rimorchiatore nel suo compito.
E’ questo l’effetto Coanda? Non proprio.
Più propriamente possiamo dare la colpa alla pressione che si genera tra sponda e nave e alla repulsione che ne deriva. Però, se togliendo la canaletta e posizionando la nostra nave in spazi più ampi, notiamo lo stesso fenomeno… beh… sì, allora stiamo sperimentando l’effetto Coanda!
In campo aeronautico Henry Coanda, al pari di Bernoulli e Venturi, è ben conosciuto, chi ha studiato il volo sa bene di chi e di cosa stiamo parlando. La teoria descrive l’effetto Coanda per mezzo della variazione di velocità di un flusso che investe una superficie convessa: “la parte a stretto contatto della superficie rallenta per via dell’attrito, la parte esterna accelera e si genera una riduzione di pressione, ma essendo il fluido coeso molecolarmente questi rimane aderente alla superficie convessa seguendone il profilo generando, contemporaneamente, una zona di bassa pressione”.
Bassa pressione = attrazione.
Così succede che, in certe condizioni e a un determinato angolo di tiro, il rimorchiatore può investire con la sua scia la fiancata della nave e parte del suo flusso può creare, nella fiancata opposta, una forza di attrazione capace di annullare, o addirittura invertire, il senso di rotazione che vogliamo imprimere alla nave stessa.
Immagini estratte dal libro: A bordo con il pilota
Se adesso, finite di leggere queste poche righe, usciamo dalla pagina e cerchiamo “effetto Coanda” su Google, possiamo trovare enormi quantità di informazioni. Tra queste è simpatico e istruttivo l’esempio del cucchiaio sotto il rubinetto.
Io l’ho fatto! Ho preso il cucchiaio, ho aperto il rubinetto e, tenendolo con due dita in modo che fosse libero di oscillare, ho fatto scorrere l‘acqua sulla superficie convessa sperimentando empiricamente l’attrazione che il fluido esercita su di esso.
Dopo questo esperimento, quanto scritto diventa più comprensibile e difficile da scordare.
Alla prossima occasione osservate il comportamento della nave e tra gli effetti che riscontrerete provate a riconoscere quello descritto in questo articolo. Vedrete che, con un po’ di attenzione e affinando la nostra tecnica di manovra, diventerà facile prevenirlo e compensarlo.
Rapallo, 28 Ottobre 2019
CHIATTA ARAGOSTIERA IN CEMENTO - GENOVA
UNA CURIOSITA’
LA CHIATTA ARAGOSTIERA
Costruzione navale in cemento nel porto di Genova
Come unica struttura del genere rimasta, è stata definita d'interesse storico-sociale
Foto della DARSENA scattata dal Galata - Museo del Mare. Nella parte bassa si nota la chiatta ARAGOSTIERA tra due imbarcazioni.
Ecco come si presenta oggi la chiatta aragostiera
Le strutture navali in cemento venivano realizzate con una tecnica di costruzione che si sviluppò per la mancata reperibilità di acciaio e legno, assorbito dal primo conflitto bellico. Intorno agli anni ’20 nacquero cantieri che utilizzavano questa tecnica per la costruzione di rimorchiatori, imbarcazioni da lavoro e successivamente anche barche da diporto sia a vela che a motore. Il maggior tonnellaggio di queste particolari costruzioni si sviluppò soprattutto in America per la realizzazione di navi per il trasporto e di assistenza alla Marina: già nel 1919, infatti, venne costruita una petroliera di 130 metri.
Nel secondo conflitto mondiale le costruzioni in cemento ebbero poi una nuova impennata, sempre a causa della carenza di materiali. In Italia il Cantiere Navale di Muggia si è specializzato in questo tipo di imbarcazioni, utilizzando un particolare cemento additivato con armatura in acciaio molto resistente. Altri cantieri impiegarono il cemento per rispondere alle esigenze di trasporto, costruendo pontoni e chiatte. Utilizzate per un breve periodo, queste strutture sono ormai scomparse e una sola, presumibilmente realizzata a Lavagna negli anni ’40, è arrivata ai giorni nostri.
Interno
Si tratta di una particolare “chiatta aragostiera” di 21 metri per 5.50, particolare perché priva di motorizzazione. A prua e a poppa aveva una riserva di spinta, mentre nella parte centrale si trovavano sei celle di 2 metri x 2 allagate con fori passanti a scafo per il riciclo dell’acqua di mare: in queste celle venivano messe le aragoste, che arrivavano dalla Sardegna e da altre località. La chiatta, che veniva solitamente ormeggiata nelle vicinanze dell’ingresso del porto di Genova, apparteneva alla ditta “Giolfo e Calcagno“, antica società di commercio del pesce degli anni ’50/’60.
Ufficio
Tuttavia, l’evoluzione dei trasporti aerei decretò la fine del suo utilizzo come aragostiera, per essere sfruttata a lungo come pontone dove posizionare le barche dei barcaioli quando dovevano fare la manutenzione. A fine degli anni ’90 poi l’aragostiera venne totalmente trasformata, chiudendo i fori di circolazione dell’acqua e asciugando le celle (che divennero spogliatoi e docce). A questi cambiamenti si aggiunse la creazione di aule, servizi e uffici: l’aragostiera diventò così un centro diving e una scuola nautica.
Nei Paesi nordici le chiatte trasformate in abitazioni o in strutture a uso commerciale sono all’ordine del giorno, mentre a Genova questa conversione destò molto interesse. L’investimento attuato su questo progetto venne ripianato con l’utilizzo e grazie ai costi di manutenzione contenuti, in quanto l’opera viva non necessita di particolari cure. Il cemento infatti non arrugginisce e la crescita della vegetazione sullo scafo ha un proprio ciclo di vita, nascendo e morendo con il cambio della temperatura del mare. Inoltre, i pesci come saraghi e orate, presenti anche nelle acque portuali, in estate banchettano con la vegetazione che cresce quando l’acqua è più calda.
Come unica costruzione navale in cemento rimasta, la chiatta aragostiera è stata definita d’interesse storico-sociale dall’Assoc. inGE, che rivaluta le antiche strutture industriali portuali e che ha inserito la struttura nei percorsi delle visite guidate svolte dall’associazione quando accompagna i turisti nel porto di Genova. Attualmente la chiatta, ormeggiata nello specchio acqueo della darsena di fronte al Museo Galata, viene utilizzata da associazioni senza scopo di lucro per l’assistenza peritale a marittimi e da cittadini che ne stanno rivalutando anche l’aspetto estetico.
Fonte: LIGURIA NAUTICA
A cura di Carlo GATTI
Rapallo, 22 Ottobre 2019
PUO’ IL BOW TRHUSTER SOSTITUIRE IL RIMORCHIATORE?
PUO’ IL BOW TRHUSTER SOSTITUIRE IL RIMORCHIATORE?
di MAURIZIO GARIPOLI – Pilota del porto di Ravenna
Non è raro, durante lo scambio di informazioni preliminari alla manovra – ormeggio o disormeggio – di una nave, che il Comandante rifiuti l’uso del rimorchiatore, o ne voglia diminuire il numero qualora ne serva più d’uno, giustificando la scelta con la frase: “Abbiamo il Bow Thruster…” (Elica trasversale di prora).
La domanda che nasce spontanea è: “Il Bow Thruster sostituisce il rimorchiatore?”
Sì… e no…
Mi spiego meglio.
Nel nostro cammino attraverso i lustri, come uomini e “gente di mare”, cerchiamo di stare al passo con i tempi… e i tempi ci propongono continuamente innovazioni di ogni tipo.
Il Bow Thruster (BT) o elica di manovra prodiera, non si può dire sia l’ultimo ritrovato tecnologico, tuttavia non è nemmeno uno strumento antico. Apparve la prima volta su una nave militare russa (Sverdlov) a fine anni ’50, per poi riproporsi in campo civile attorno agli anni ’80.
E come tutte le innovazioni, che in quel periodo di grande fermento si sono proposte nel mondo nautico, ha faticato a imporsi, soprattutto per via dei costi di produzione e di installazione.
Dagli anni ’80 a oggi, il BT si è notevolmente evoluto; all’aumentare delle potenze e al miglioramento dell’affidabilità è seguita una più ampia diffusione.
Spesso associato a Stern Thrusters, (elica trasversale di poppa), timoni ad alta efficienza p.e. Becker, e Shilling), Shottles, Azipod e via discorrendo, l’elica di prua migliora efficacemente la manovrabilità di ogni imbarcazione.
Ma se per una certa tipologia di navi, di dimensioni contenute o iper-tecnologiche, questi nuovi strumenti limitano (ragionevolmente), l’esigenza di avere un rimorchiatore in assistenza, per molte altre la cosa non è né semplice né scontata.
In campo marittimo si è sempre molto attenti a garantire un livello di sicurezza adeguato alle situazioni da affrontare, spesso in aperto conflitto con l’economia pura.
Durante la manovra in porto, in spazi ristretti e con ostacoli di ogni tipo, questo aspetto è curato in modo particolare.
Se da un lato la massima sicurezza si avrebbe con l’assoluto immobilismo e il massimo pericolo con la totale deregolamentazione, ecco che qualche elemento di armonizzazione deve essere introdotto da un soggetto super partes.
Lo Stato, per mezzo delle Capitanerie di porto, svolge questa importante funzione di regolamentazione.
A loro volta le Capitanerie utilizzano i Servizi Tecnico Nautici per tradurre in pratica le disposizioni elaborate.
Tuttavia, questo lavoro per sua natura non è statico e continua a mutare di giorno in giorno, spinto dalla continua evoluzione tecnologica accompagnata dall’imporsi dell’importante fenomeno del “gigantismo navale”, dove classiche mono-elica, dotate di BT, spingono – non di rado – per una limitazione nell’uso dei rimorchiatori a favore dell’economia di gestione.
A inizio articolo ho scritto Sì… e, in effetti, navi di grandi dimensioni che si comportano bene in manovra e la cui elica prodiera è efficace, indubbiamente esistono.
Staccarsi parallelamente da una banchina con un solo rimorchiatore a sorreggere la poppa, non è quasi mai un problema, così come non lo è manovrare in un bacino di evoluzione od ormeggiare a nave quasi ferma, anzi, spesso la sensazione di potenza pronta all’uso e chiaramente direzionata che si ottiene con un Bow Thruster, porta ad apprezzare oltre modo questa splendida invenzione.
A volte, però, non si tiene nella giusta considerazione la totalità della manovra che una nave compie per attraccare o partire da un porto: atterraggio, imbarco del pilota, navigazione verso l’ormeggio, ormeggio e viceversa.
Durante queste fasi le velocità sono variabili e possono salire e scendere per svariati motivi: affrontare una corrente, un groppo di vento o mantenere il governo, può essere necessario fermarsi in qualche punto del tragitto per incrociare un’altra nave o per gestire un imprevisto. Lo stesso ormeggio, quando sfavorevole all’effetto evolutivo del propulsore principale, può comportare problematiche importanti. (A questo proposito dedicheremo un intero articolo di tecnica di manovra).
Ricordo una manovra notturna… “nave di nazionalità turca prevista ormeggiare con il fianco dritto alla banchina assegnata; monoelica tradizionale con effetto sinistrorso, di medie dimensioni – circa 130 metri di lunghezza – provvista di bow trhuster.
Durante il consueto scambio di informazioni decidiamo di comune accordo con il Comandante, viste le caratteristiche della nave e le ottime condizioni meteorologiche, di procedere per l’ormeggio senza alcun rimorchiatore in assistenza. Verso le ultime fasi di avvicinamento, a una velocità di circa 3 nodi, il motore principale decide di non rispondere più ai comandi del Ponte.
L’impostazione della manovra prevedeva un avvicinamento alla banchina con un ampio angolo per sfruttare l’effetto dell’elica; questo ci ha permesso di continuare l’avvicinamento dando fondo all’ancora di sinistra, usandola come freno. Siamo riusciti a dragarla, e ad arrivare a pochi metri dalla banchina, per poi allascarne un’altra mezza, sufficiente a farle fare testa. In questo modo abbiamo impresso la giusta rotazione alla prora e spento il residuo abbrivio.
Utilissimo il Bow trhuster per mantenere la prora nelle diverse fasi, ma ci saremmo sicuramente sentiti più tranquilli se avessimo avuto il nostro buon rimorchiatore legato a poppa.
Purtroppo prevedere sempre ogni imprevisto non è possibile, sicuramente anche questa esperienza ha fornito interessanti spunti di riflessione.
Il BT è efficace solo sotto una certa velocità. La forza laterale che spinge la prora ha la sua massima espressione a nave ferma. Con moto avanti, l’effetto del propulsore di prua si riduce della metà già a 2 nodi. Con velocità tra 1 e 2 nodi si può arrivare a perdite di efficienza anche del 40%.
L’immersione del Bow Thruster è altrettanto importante: se questo lavora poco immerso può trovarsi a spingere una miscela di acqua e aria, determinando un decadimento della spinta prodotta o dell’efficienza dell’elica, causata dalla cavitazione generata dalla poca pressione del battente d’acqua.
Se quindi è vero che un buon BT è utile a tutte le navi, è altrettanto vero che non lo è “sempre e comunque”.
Per contro, l’utilizzo di un rimorchiatore incrementa la sicurezza proprio quando il rischio aumenta, quando cioè un avaria avviene a nave in movimento.
I rimorchiatori sviluppano potenze difficilmente ottenibili da una singola elica prodiera e possono lavorare su diversi angoli, a tiro o a spinta, risultando particolarmente utili in presenza di venti sostenuti.
Un altro limite del BT è dato dalla sua dipendenza dalla nave e, proprio per questo, un eventuale black out ci priverebbe di questa importante risorsa. In casi come questo il rimorchiatore diventa di vitale importanza.
Immaginiamo sempre lo scenario peggiore e ragioniamo sulle soluzioni che possiamo adottare per prevenire il verificarsi di situazioni ingestibili.
Ricordiamo che a navi grandi corrispondono grandi danni.
Una nave di dimensioni importanti ha meno margine di errore, spazi di arresto maggiori, inerzie enormi e pescaggi che possono vanificare l’uso delle ancore.
Se è vero che un rimorchiatore voltato a poppa può intervenire per rallentare il moto della nave, un rimorchiatore a prora può garantire la stabilità di rotta necessaria a guadagnare tempo e spazio e, questo, soprattutto durante un’emergenza.
Non è poi raro che anche navi di piccole o medie dimensioni, dotate di elica prodiera, si rivelino difficili da manovrare, ciò può essere dovuto alle condizioni meteo-marine in atto, alle doti manovriere intrinseche della nave stessa, alla scarsa potenza sviluppata dall’elica o, ancora, alla posizione errata dell’elica di prua per cattiva progettazione. Nella quasi totalità dei casi il Comandante, profondo conoscitore della propria nave, sa quando può risparmiare o meno sull’uso del rimorchiatore, anche se, a volte, si trova nella condizione di dover mediare tra pressione commerciale e sicurezza.
Quindi, in ultima analisi, la risposta è No!: il BT per quanto comodo, utile e importante non potrà mai sostituire un rimorchiatore o garantire lo stesso standard di sicurezza durante una manovra, a maggior ragione quando si parla di navi di grandi dimensioni.
Rifiutare l’uso del rimorchiatore soltanto perchè “…abbiamo il Bow Thruster…” non è sempre una risposta ragionevole.
Rapallo, 10 Ottobre 2019
LIVINGSTONE USAVA IL SESTANTE IN AFRICA
LIVINGSTONE USAVA IL SESTANTE IN AFRICA!
Com.te ERNANI ANDREATTA (nella foto), é il Fondatore e Curatore del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari. Autore di decine di libri d’argomento storico-marinaro, é anche regista e produttore di qualche migliaio di DVD dello stesso argomento. A lui si deve l’approfondimento sul tema: LIVINGSTONE USAVA IL SESTANTE IN AFRICA! Diamo a lui la parola:
Incredibile! Lo Sapevate che nel 1871 il grande esploratore Scozzese David Livingstone in Africa, per capire dove si trovava usava il Sestante Nautico, cioè il nostro Sestante che ci ha guidato nelle nostre lunghe navigazioni di tanti anni fa? Eccone la prova!
Confessione di Ernani a nome di tutti o quasi…
Chi ha mai usato di noi l’orizzonte artificiale? Credo nessuno o almeno a me non è mai capitato né da Ufficiale né da Comandante. Eppure sarebbe stato utile quando ad esempio si vedevano bene le stelle, ma non si vedeva l’orizzonte a causa della foschia o altro.
Ma chi ci pensava?
Si sarebbe potuto fare il punto nave anche di notte, cioè quando si vedevano benissimo le stelle ma per via del buio non si vedeva l’orizzonte. Nessuno ha mai pensato che da secoli esistevano orizzonti artificiali che nessuno ha mai usato; parlo per me stesso.
A volte penso che l’orizzonte artificiale sia una specie di …. "fake news” … AH AH ... O perlomeno, nessuno al mondo ne ha mai parlato o magari qualche volta se ne parlava ma nessuno lo ha mai messo in pratica nonostante poteva anche essere utilissimo.
Al museo, come dissi, ho un sestante aeronautico dove si usava normalmente l’orizzonte artificiale perché spostandosi l’aereo molto velocemente non si poteva star lì a cercare l'orizzonte vero. Guardando in un oculare si vede la scritta “artificial horizon”, e pertanto esso fa parte integrante dello strumento stesso. Ho provato ad usarlo, ma NU GO CAPIU IN BELIN !
Non è facile. Ecco lo strumento. Se un domani verrete al Museo ve lo farò vedere e provare!
Confermo pertanto la mia ignoranza circa l’orizzonte artificiale dove mi chiedo, ma perchè, noi “Vecchi Naviganti” maestri del sestante non abbiamo mai e poi mai (almeno io) pensato di usarlo. Eppure ci sarebbe stato utile !!!
Com.te NUNZIO CATENA, di guardia sull’aletta con il suo “amato” sestante Plath.
Grazie dell’interessante articolo sull’Esploratore Livingstone che ha usato il sestante per trovare la sua posizione all’interno dell’Africa.
Molto probabilmente in mancanza dell’orizzonte marino, sul quale misurare l’altezza dell’astro, avrà avuto un sestante con orizzonte artificiale, visto che erano già in uso nel 1730.
Com.te ERNANI ANDREATTA
Giustissima osservazione la tua, ma siccome dice che era su un lago probabilmente l’orizzonte era quello del lago che però non hanno fatto vedere. Ma la tua ipotesi che ho pensato anch’io è più che giusta ma capisci che quello del filmato era solo un rifacimento di persone che sicuramente IGNORANO completamente che cosa era un sestante. Ciò non toglie che un grande esploratore come LIVINGSTONE il sestante lo ha usato davvero. E questa è una cosa che mi è piaciuta molto.
Altro che GPS ….
Com.te CARLO GATTI
Molti anni fa acquistai a Londra un piccolo sestante, con la bolla sul retro, adatto per la misurazione degli astri sull’orizzonte artificiale. E’ molto piccolo, quindi tascabile, particolare non trascurabile durante un viaggio terrestre, in particolare nel deserto, così mi fu spiegato dall’antiquario.
Eccovi le misure:
Altezza: 5 cm
Lunghezza: 20 cm con il cannocchiale estratto
Peso: 209 gr.
Fabbrica e data di costruzione: E.R.WATTS & SON- LONDON 1912 – N.314
Lo strumento é di tipo tascabile; per l’epoca questa caratteristica ne rappresentava il pregio maggiore! Mi dissero che era usato dagli inglesi per orientarsi nel deserto.
Ora vi mostro le foto:
Aggiungo un'altra testimonianza:
Il Com.te Vittorio NATILI, nativo di Rapallo e membro della Società Capitani e Macchinisti Navali di Camogli, dopo aver navigato e giunto al Comando di navi petroliere, nei primi Anni ’50 entrò in ALITALIA con il compito di addestrare “NAUTICAMENTE” i Piloti di linea e cargo (si trattava di aerei ad elica). ASTROCUPOLA si chiamava il suo alloggio e consisteva in una piccola cupola trasparente posta sulla fusoliera del velivolo ed era adatta per le osservazioni astronomiche, quindi per la determinazione della posizione del velivolo in un certo istante.
“Disponevamo di diversi sestanti, di vario tipo, tra cui quelli ad orizzonte artificiale per quando si navigava sopra le nuvole”.
Com.te Roberto DONATI
Come la maggior parte dei marittimi vi devo confessare che mai si parlava a bordo di Sestanti con orizzonte artificiale. La domanda venne spontanea con l’uso delle Tavole che usavano in Aviazione per il punto nave. Tavole utilissime che davano la possibilità di trovare le stelle, anche con scarsa visibilità, disponendo di azimut e altezza approssimata. Da quel momento abbiamo cominciato a parlare di orizzonti artificiali e punti nave fatti in aviazione.
Continua il nostro scambio d’idee sull’argomento “Sestante ed orizzonte artificiale” ed il Com.te Nunzio CATENA ci propone un LINK molto interessante per la ricchezza d’immagini.
http://filmatidimare.altervista.org/strumenti-nauticiorizzonte-artificialeartificial-horizon/
che contiene altri spunti interessanti.
Nunzio Catena ribattendo ad Ernani Andreatta:
Come te, mi faccio le stesse domande: perchè a bordo l’Orizzonte Artificiale non lo usava nessuno? Io l’ho visto ed usato solo quando frequentavo il Nautico ad Ortona.., era un sestante Plath con orizzonte artificiale a bolla. Non era molto difficile da usare, bastava centrare la bolla come da figura:
Quando sono andato a bordo siccome non l’ho visto adoperare a nessuno, mi sono adeguato e quando ho avuto la possibilità di comprare un sestante ho scelto quello “marino” senza bolla, come facevano tutti i capitani di mare della nostra epoca. Ho continuato così come da tradizione…
PARATA DI COMANDANTI IN VISITA AL MUSEO TOMMASINO ANDREATTA - CHIAVARI
Cicci Panella, Roberto Donati, Carlo Gatti, Ernani Andreatta ed il compianto Emilio Carta (dx).
CONCLUSIONE:
Nunzio CATENA, cacciatore infallibile di siti su argomenti di mare, segnala per noi e per gli appassionati dell’argomento trattato, un LINK davvero interessante scritto da Cap.Mortola nostro “vicino di casa”, socio come noi della Società Capitani e Macchinisti di Camogli.
http://www.scmncamogli.org/mortola/riftempo.pdf
A cura di Carlo GATTI
Rapallo, 9 Ottobre 2019
CONSIGLI PER IL CONCORSO DA PILOTA DEL PORTO
CONSIGLI PER IL CONCORSO DA PILOTA DEL PORTO
di JOHN GATTI
In tanti mi hanno chiesto consigli per affrontare nella maniera migliore l’esame per diventare Pilota del Porto e, in questo articolo, vi scrivo quello che penso.
Innanzitutto, tengo a sottolineare il fatto che Pilota si diventa dopo aver vinto un concorso e aver passato un anno da allievo a imparare sul campo; è quindi assurdo pretendere dagli esaminati conoscenze che potranno maturare solo con l’esperienza diretta.
Partendo da questo punto, arriviamo ai due principali scopi dell’esame:
- Il primo, e più palese, è quello di verificare il livello di preparazione teorico per le diverse materie previste dal programma.
Come vi ho già detto, nessuno si aspetta che l’esaminato abbia già le conoscenze e l’esperienza di un Pilota effettivo, ma deve sicuramente avere le fondamenta – giuridiche, linguistiche e di manovra – su cui costruire l’impianto tecnico e pratico che poi applicherà durante il lavoro.
È quindi importante studiare bene gli articoli del Codice della Navigazione che si riferiscono al pilotaggio e, per fare questo, è sicuramente utile giocare d’anticipo cominciando a memorizzarli parecchio tempo prima dell’esame.
Con l’inglese le cose si complicano… È una materia che, purtroppo, ha bisogno di tempo e costanza per essere digerita bene.
Personalmente ho provato in tanti modi a migliorare il mio livello: ho studiato cercando di progredire guardando film in lingua originale, leggendo libri in inglese, dialogando più volte alla settimana con professori madrelingua. Ho seguito anche corsi online per molto tempo ma, a essere sincero, il rapporto sforzo/risultato non mi ha mai soddisfatto.
Se uno vuole dare una vera svolta alla conoscenza di questa materia, il modo più efficace è quello di andare direttamente in Inghilterra per un paio di mesi, trovare alloggio presso una famiglia, iscriversi a una scuola e vivere l’esperienza in completa immersione, scordandosi l’italiano e gli italiani. Certo, capisco che organizzare questa avventura nel periodo estivo tra un anno e l’altro di scuola è senz’altro più semplice (non ci sono problemi di lavoro, famiglia, corsi obbligatori da fare) ma in ogni caso, decidere di affrontare di petto lo scoglio dell’inglese nella maniera più efficace, garantisce sicuramente il risultato ed elimina un problema ricorrente nella vita.
Dal punto di vista pratico, basta andare su internet per trovare agenzie che si occupano dell’organizzazione di ogni singolo aspetto. Il sistema ha un costo e richiede sacrifici, ma sicuramente funziona.
La preparazione all’esame di manovra merita qualche riflessione e, in questo caso più che mai, può essere utile cercare di entrare nei panni di chi sta dall’altra parte del tavolo:
Sarete esaminati da due Capi Pilota, uno della corporazione di cui volete fare parte e l’altro di un altro porto; persone che avranno sicuramente migliaia di manovre alle spalle. Questo significa principalmente due cose: primo, che il loro esame sarà “inquinato” da una visione molto pratica; secondo, che la parte teorica, da voi studiata, verrà filtrata e modificata spontaneamente da chi è abituato a mescolarla con l’esperienza diretta. Questo vuol dire che – probabilmente – non sarà un esame puro di teoria della manovra, almeno non completamente.
Entro nello specifico.
Ogni porto ha le sue peculiarità: spazi più o meno ristretti, vento, corrente, nebbia; non tutti i rimorchiatori hanno le stesse caratteristiche o lavorano allo stesso modo; la scuola di pilotaggio di ogni porto è differente, come pure il linguaggio che viene usato.
Quindi, il consiglio che vi dò, è quello di studiare il porto per cui sosterrete l’esame: la sua orografia, le sue caratteristiche, la tipologia di navi che lo frequentano, i venti dominanti. Se ci sono canali dovete scoprire le insidie che nascondono, il linguaggio usato nelle manovre, e così via. Questo per condire le risposte alle domande con elementi famigliari agli esaminatori e per cercare di prevedere quali saranno gli argomenti su cui batteranno di più.
È ovvio che prima di tutto dovrete avere una buona base di teoria della manovra, per cui armatevi di buona volontà, raccogliete un po’ di testi e studiatela bene.
- Il secondo scopo dell’esame, che è anche il più importante, è quello di capire se avete le caratteristiche giuste per svolgere questo mestiere e per collaborare all’interno di un sistema dove il singolo ha un peso notevole.
Avrete un lasso di tempo a vostra disposizione per convincere gli esaminatori che siete preparati, sicuri di voi ma umili, rispettosi ma di carattere, educati e brillanti.
Non è una cosa semplice, e questo a prescindere dalle vostre vere qualità: perché avrete diverse persone davanti a voi che vi faranno delle domande e molta gente alle vostre spalle che ascolterà quello che direte.
È una situazione a cui pochi sono abituati e riuscire a vendersi al massimo del proprio potenziale senza cadere nella soggezione e senza subire le insidie portate dallo stress, non è da tutti, anzi, a dire il vero è proprio da pochi e saranno proprio quei pochi che faranno colpo sulla commissione.
Dovrete vendervi bene!
Questo è il segreto.
E, secondo la mia esperienza, uno dei modi più efficaci per imparare a farlo, è dato dalla frequentazione di un corso specifico di public speaking.
Cercate su internet quello recensito meglio; durano in media quattro giorni, durante i quali vi verranno insegnati i fondamentali sul verbale e il paraverbale, sulle tecniche di gestione dello stato emotivo, sulle cose da fare e su quelle che vanno assolutamente evitate.
Al termine del corso avrete un’arma in più che vi aiuterà ad alzare il valore percepito della vostra persona.
Ovviamente, come ho già accennato, una buona conoscenza della teoria della manovra è imprescindibile: àncora, sistemi di propulsione, di governo, utilizzo dei rimorchiatori, effetti e conseguenze, sono solo alcuni degli argomenti che dovrete approfondire molto bene anche se, per alzare il vostro livello, sarà di aiuto incrociare le conoscenze teoriche acquisite confrontandole con l’esperienza maturata da qualche professionista.
Aiuta sicuramente la visione e lo studio dei video di manovra e degli articoli proposti sul sito www.standbyengine.com
Inizialmente era mia intenzione chiudere l’articolo con queste osservazioni ma, volendo essere sincero fino in fondo, ho deciso di aggiungere ancora una considerazione non proprio “banale”.
Entrare a far parte del Corpo Piloti di un Porto, è paragonabile a sottoscrivere un “contratto di matrimonio”.
Una volta entrati si diventa soci, e questo stato dura per decine di anni.
È evidente che la scelta deve essere attentamente valutata, soprattutto sotto il profilo caratteriale.
Mettetevi nei panni dell’esaminatore, voi cosa fareste?
Tutto sommato l’ambiente dei marittimi è “piccolo” e, pertanto, un paio di telefonate a qualche Capitano d’Armamento, a qualche Comandante e a Piloti di altre corporazioni, aiutano a delineare i profili dei candidati, almeno inizialmente.
Il passaggio successivo prevede un giro sui social e sul web. Già, proprio così: oggigiorno il curriculum vitae è superato. Facebook, Instagram, Linkedin, ma anche eventuali siti web o ricerche su Google, contribuiscono a tracciare i contorni degli aspiranti. Curate maniacalmente anche questi aspetti e ricordatevi che la reputazione lavora per voi ventiquattr’ore su ventiquattro, come ho già scritto in questo articolo.
In genere i concorsi sono per pochissimi posti, contesi, il più delle volte, da molti candidati di altissimo livello.
Conta la preparazione, hanno un peso determinante le qualità soggettive, il peso specifico della carriera conquistata sul mare, ma anche la determinazione e un pizzico di fortuna.
Ne vale la pena? Leggete la risposta in questo articolo.
Ovviamente gli esami non sono tutti uguali, ci sono infatti anche commissioni molto tradizionali ma, in linea di massima, penso che questi suggerimenti saranno utili a molti di voi.
di JOHN GATTI
Rapallo, 20 Settembre 2019
PIONEERING SPIRIT-LA NAVE CHE RIMUOVE PIATTAFORME PETROLIFERE DAL MARE
LA NAVE CHE RIMUOVE PIATTAFORME PETROLIFERE DAL MARE
PIONEERING SPIRIT
CRANE SHIP
CARATTERISTICHE PIONEERING SPIRIT
• Lunghezza fuori tutto (incl. lo stinger): 477 m (1,565 ft)
• Lunghezza fuori tutto (escl. Lo stinger): 382 m (1,253 ft)
• Lunghezza tra le perpendicolari: 370 m (1,214 ft)
• Larghezza 124 m (407 ft)
• Altezza al ponte principale: 30 m (98 ft)
• Capacità sollevamento Moduli piattaforma : 48,000 t
• Capacità sollevamento Jacket : 25,000 t
• Pescaggio operativo : 27 m
• Velocità massima : 14 knots
• Potenza totale installata : 95,000 kW
• Propulsori : 12 x 6050 kW non-retrattili, passo fisso, velocità variabile, tipo azimutale
• Sistema posizionamento: LR DP (AAA), 100% ridondante Kongsberg K-Pos DP-22 and 2 x cJoy system
• Alloggi : 571 persone Helideck: Peso max sopportabile : 12.8 t, adatto x elicotteri Sikorsky S-61 a S-92
• Gru di coperta : Gru x operazioni speciali da 5000 t (11,000 kips)
Gru speciali da 600 t (1300 kips)
3 x gru x trasferimento tubi da 50 t (110 kips)
• Stazioni di lavoro: doppio- giunto (con 5 stazioni + 2 stazioni x
saldature combinate esterne e interne )
Riscaldamento con 6 stazioni per doppi giunti, 1 stazione NDT e 6 stazioni di coibentazione
• Capacità tensionatori : 4 x 500 t (4 x 1100 kips)
• Capacità di carico tubi sul ponte pricipale: 27,000 t
• Diametro tubi : da 2″ a 68″ diametro.esterno
• Classificazioni: 100 A1 Heavy lift and heavy cargo ship, upper deck aft of frame 43 strengthened for load of 15 t/m²; helicopter landing area, LA, *IWS, LI, EP (B, G, N, O, P, S), ice class 1C FS LMC, DP (AAA), PSMR* wcon le seguenti descrizioni : Nave posatubi Shipright (BWMP), prue separate all’ordinata 99
• Porto di registro: Valletta
D.M. PINO SORIO
FONTE: Il Blog di JACOPO RANIERI – Arte . Tecnologia . Scienze Naturali
FOTO: DI PINO SORIO (D.M.)
Oltre la tenebra nel mare delle onde, una torre di metallo giace. C’è stata un’epoca in cui era utile. C’è stato un tempo in cui venne finanziata. Risorse ingenti furono investite, dalla Shell UK nell’ormai remoto 1976, per disporne in serie quattro, più un’altra finalizzata alla logistica, in una linea irregolare lungo il Bacino Est delle isole Shetland, nel Mare del Nord. Come una mostruosa zanzara, il parallelepipedo “Delta” a tre zampe ha quindi conficcato una trivella nel fondale del giacimento Brent, per dissetarsi del petrolio nascosto sotto i granchi e le aragoste. Per decadi, e decadi, si è abbeverato a questa fonte. E ora che non c’è più nulla, tranne il desiderio…. Abbandonata e arrugginita dal 2011, nel silenzio delle circostanze e senza la speranza di un domani, la piattaforma si è cristallizzata come una crisalide dismessa; finché le leggi internazionali, i decreti del governo inglese, o uno di quei rari sprazzi ragionevoli all’interno di una corporation con finalità di profitto, non avessero evocato l’epilogo di questa storia. Cessata la necessità, ciò che abbiamo è solamente il potenziale di un problema. Ma ci sono persone che vengono pagate, per risolvere i problemi.
Se lo scorso 28 aprile del 2017, per uno scherzo inappropriato del destino, qualcuno si fosse trovato ancora a bordo della piattaforma, ciò che avrebbe visto lo avrebbe portato a dubitare della propria stessa sanità mentale. Emergendo all’orizzonte, visibilmente schiarita per l’effetto dell’atmosfera, un’intera città che avanza, con due braccia sovradimensionate tese in avanti. Non era questa un’invasione aliena, o un miraggio sul modello delle fata Morgana, bensì l’inizio di una lotta fra titani, nella quale, in ultima analisi, avrebbe vinto quello dall’imponenza maggiore. Come poteva essere altrimenti? 23,500 Vs. 362.000 tonnellate, spinte innanzi da 12 motori diesel direzionabili da 8.225 cavalli ciascuno. In un universo parallelo, dove non esistono le considerazioni e ragionevolezza, la procedura in questo frangente sarebbe consistita unicamente nell’andargli contro e frantumarla, per poi divorare i pezzi e rigurgitarli nel mare. Mentre l’approccio materiale alla questione, attentamente pianificato per un periodo più che decennale dalla compagnia partner svizzera Allseas, fu ovviamente destinato ad assumere una strategia più ragionevole e risolutiva. Il nome dell’imbarcazione semisommergibile: Pieter Sch…anzi no, Pioneering Spirit. La sua funzione: sradicare cose enormi, quindi sollevarle e trasportarle fino a riva. Oppure metterne di nuove in posizione, per dare i natali a un nuovo capitolo di questa storia. Perché mai, vi chiederete…. Beh, le ragioni sono molte. Smontare una piattaforma petrolifera in alto mare è costoso, difficile e potenzialmente lesivo per l’ambiente. Se possibile, chiunque ne farebbe a meno e non sono in effetti niente affatto pochi, i rimasugli degli antichi giacimenti ancora adesso sparsi per il mondo, in attesa di un Rinascimento energetico che non arriverà mai. A partire dal 2017 quindi l’azienda in questione, principalmente operativa nel settore delle costruzioni marittime e la posa dei tubi sommersi, ha iniziato a concepire una sua personale arma di mercato, talmente inusitata da crearsi l’esclusiva di una nuova mansione.
Quindi, bando ai giri di parole. La Pioneering Spirit è allo stato dei fatti la nave (intesa come battello in grado di muoversi col suo motore) più grande del mondo dal punto di vista di tre criteri: larghezza (123,47 metri) capacità massima di trasporto (900.000 tonnellate) e volume (403,342 gt). Ma non è neanche questa, la ragione che la rende maggiormente originale. Bensì il metodo di funzionamento, ovvero la ragione stessa della sua costruzione…
Originariamente la Pioneering Spirit doveva chiamarsi Pieter Schelte, dal nome del padre della compagnia Allseas. Questo fu però immediatamente cambiato tra le proteste generali, quando fu fatto notare che costui aveva simpatizzato con le SS naziste durante la seconda guerra mondiale, prima di unirsi alla Resistenza olandese nel 1943.
Nonostante l’apparenza ed invero, anche il progetto originario, la Pioneering Spirit non è un catamarano. Negli anni tra il 2000 e il 2004 la Allseas stava infatti valutando il progetto di riconversione di due superpetroliere unite lateralmente, per creare la forma ad U che gli avrebbe permesso di rimuovere o spostare l’intera parte superiore di una piattaforma, quando si rese conto che al mondo semplicemente non esistevano battelli disponibili da acquistare a tal fine. E che se anche ci fossero stati, tale metodo avrebbe portato a spese estremamente proibitive. Fu quindi concepita l’alternativa di un singolo enorme scafo, iniziando nel 2007 a commissionare alla Daewoo Shipbuilding della Corea del Sud la produzione dell’acciaio e del sistema di sollevamento. La Deltamarin finlandese, nel frattempo, ricevette l’appalto ingegneristico dei sistemi.
Per il sopraggiungere della crisi economica mondiale, a quel punto, il progetto subì un ritardo temporaneo, prima di tornare prontamente in carreggiata 2010, con l’attribuzione del mandato principale alla stessa Daewoo. In corso d’opera, venne deciso di ampliare lo scafo dagli originariamente previsti 117 metri, per poter disporre di uno spazio centrale di 59 metri. La nave avrebbe quindi raggiunto la condizione di navigabilità nel 2014, quando fu spostata presso il porto di Rotterdam per assemblare tutti i componenti residui. Soltanto ad agosto del 2016, quindi, sarebbe stata giudicata finalmente operativa, ed inviata verso la sua prima missione nel mare del Nord: la rimozione del MOPU STOR (impianto di stoccaggio) del giacimento petrolifero di Yme, nel bacino norvegese di Egersund, che negli ultimi anni aveva sviluppato alcune preoccupanti crepe nelle sue fondamenta sommersa. A quel punto, la nave avrebbe avuto un costo complessivo di circa 3 miliardi di dollari. Ma ancor più significativi propositi di guadagno…
La rimozione della piattaforma da 13.500 tonnellate del MOPU di Yme, portata a termine il 22 agosto del 2016, avrebbe costituito in quel preciso momento il record mondiale del massimo carico mai sollevato in una sola soluzione. Come da precisa prassi progettuale, la nave colossale si avvicinò da davanti, imbarcando acqua nei suoi galleggianti per abbassare la linea di galleggiamento. Quindi, usando la gru in dotazione, ha posizionato i meccanismi necessari ad effettuare il taglio delle tre zampe della piattaforma, che avrebbe richiesto un’intera giornata di lavoro. Durante questa intera fase, la Pioneering Spirit ha potuto fare affidamento sul suo speciale sistema di stabilizzazione automatica tramite l’impiego dei motori, finalizzato a mantenerla perfettamente immobile anche nel caso di eventuali tempeste in mare. Completata la prima fase, tutto quello che restava era navigare le svariate decine di metri rimanenti fino ad inforcare la grande struttura, esattamente come il dispositivo di un comune carrello elevatore. E scaricare l’acqua, per riportare in alto la nave. Ed a quel punto, come si dice, i giochi sono fatti.
Una volta dimostrata la sua efficacia in questa difficile missione, il carnet della vasta semisommergibile si è riempito di possibili impegni futuri nel campo dell’offshore. Tra cui quello, appena portato a termine e qui sopra descritto, relativo alla rimozione della piattaforma Brent Delta vicino le Shetland, ma anche la possibilità futura di installarne tre del tutto nuove per la Statoil, presso il giacimento Johan Sverdrup nelle acque norvegesi. Una delle massime prerogative di un simile gigante, dopo tutto, è la versatilità. Tanto che durante la navigazione, a seconda dei casi, la nave può essere accompagnata da due battelli di supporto: la Iron Lady, grossa chiatta in grado di caricare e scaricare quanto richiesto nei porti troppo piccoli per permettere l’accesso della controparte; e Bumblebee, uno scafo costruito a misura per rimuovere e custodire lo stinger (palo usato per la posa dei tubi) della Spirit, che costituirebbe un significativo impaccio frontale durante le operazioni di sollevamento.
Assediati dalla preoccupante consapevolezza del progressivo esaurimento dei giacimenti fossili, raramente pensiamo al domani. Quando ogni goccia di carburante sarà preziosa, e simili imprese ingegneristiche, una vista decisamente rara. Verrà un giorno, neppure troppo lontano, in cui l’intera concezione moderna della tecnologia farà la fine di queste piattaforme: un residuato di antiche abbondanze, ormai dimenticate. Sarà ancora possibile, a quel punto, togliere i detriti dal mare? Assai probabilmente… No. Tanto meglio, dunque, iniziare subito a farlo. In quest’ottica, la nave della Allseas non è semplicemente una venture commerciale. Quanto piuttosto, una preziosa risorsa al servizio della (ricca) collettività. Del resto avete mai sentito parlare di una compagnia energetica che non lo fosse abbastanza, da fare almeno un po’ pulizia? (Ricca, intendo.) È semmai l’intenzione, o per meglio dire l’interesse, che tanto spesso viene a mancare!
ALBUM FOTOGRAFICO
PIONEERING SPIRIT
CRANE SHIP
di Pino SORIO
A cura di Carlo GATTI
Rapallo, 19 Settembre 2019
UN SIGNOR COLTELLO
UN SIGNOR COLTELLO
di John GATTI
Il coltello è uno dei primi attrezzi pensati e utilizzati dall’uomo per la sopravvivenza.
Un oggetto semplice eppure specifico, nelle sue differenze, per gli usi più disparati è certamente utile, se non indispensabile, in moltissime situazioni.
Parecchi anni fa con un mio caro amico, inseparabile compagno di pesca subacquea e immersioni, avevamo organizzato un’uscita alla ricerca di qualche rametto di corallo. A quei tempi le procedure, le attrezzature e, più in generale, la sicurezza, erano concetti “pionieristici” molto legati alle esperienze personali e parecchio distanti da quanto oggi insegnato nelle numerose scuole dislocate in tutto il mondo.
Avevamo iniziato la pesca subacquea da bambini, uitlizzando un lenzuolo arrotolato, contenente pietre, assicurato in vita: ottima alternativa alla troppo costosa cintura dei piombi. Come arma usavamo arco e frecce ricavati dalle stecche di vecchi ombrelli. Con il passare degli anni abbiamo imparato sulla nostra pelle i pericoli dell’iperventilazione e l’insidioso rischio della sincope, le trappole letali nascoste nei relitti e nelle grotte, la necessità di tener conto della propria resistenza e dell’umore del mare.
È con questo tipo di formazione, con tanto spirito di avventura e con una buona dose d’incoscienza che organizzammo la nostra giornata da “corallari”.
Serviva parecchia aria e ci attrezzammo con un bibombola da 20 litri e un mono da 18 per uno. Il tempo non era dei migliori: vento discreto da scirocco e mare increspato, condizioni comunque insufficienti per farci desistere. A bordo del nostro fedele Zodiac raggiungemmo il primo punto. Sotto di noi la parete rocciosa scendeva con una leggera inclinazione fino a -58 metri. Lui avrebbe esplorato quella zona, mentre io avrei portato il gommone in una baia più protetta e mi sarei immerso a circa 35 metri di profondità. La mia permanenza in acqua sarebbe stata più breve e, secondo i nostri calcoli, sarei dovuto arrivare sopra di lui in tempo per appendere il bilancino per la decompressione.
Le cose non andarono come previsto.
Il mio amico si immerse e cominciò la discesa. A circa 35 metri trovò i primi rametti di corallo rosso che raccolse e infilò nel retino che portava in cintura. L’acqua era chiara e, sebbene la profondità restituisse visioni di nero e scale di grigio, l’assoluto silenzio, interrotto soltanto dalla ritmica uscita dell’aria dall’erogatore, infondeva calma, serenità e pace. Continuò a scendere quasi in stato di trance fino a quando si rese conto di non essere distante dal fondo. A quel punto, improvvisamente, si spense l’interruttore. Quando aprí nuovamente gli occhi non aveva idea di quanto tempo fosse passato e neanche di cosa fosse successo. Era sdraiato sul fondo a 58 metri di profondità e l’unica cosa che vedeva era una distesa infinita di acqua sopra di lui. Gli ci volle qualche minuto per rimettere insieme i pezzi del puzzle che gli giravano in testa, ma alla fine realizzò di essere stato vittima dell'”ebrezza da profondità”. Cercò, senza successo, di ruotare su se stesso. Ancora confuso decise di dare una pomapata al GAV (giubbotto ad assetto variabile) per staccarsi dal fondo, ma la situazione non cambiava. Immise altra aria nel giubbotto, di nuovo senza alcun risultato. Provò a recuperare la calma e, dopo alcuni istanti, tastò con le mani per vedere cosa gli impediva di muoversi. Trovò quasi subito la lenza madre di un palamito che, agganciato alla rubinetteria del mono, lo teneva bloccato. Senza pensarci troppo su prese il coltello e tagliò il nylon. La partenza dal fondo fu immediata.
Ancora intontito si rese conto di quello che stava succedendo: una pallonata in superficie senza fermarsi alle tappe previste per la decompressione.
Si concentrò sull’aria da espellere per evitare un’embolia traumatica da sovradistensione polmonare, mentre cercava di armeggiare con il tubo corrugato per sgonfiare il GAV. Ma l’azione fu troppo veloce e, in men che non si dica, si trovò in superficie. Niente embolia traumatica, anche se l’embolia gassosa era praticamente garantita. Si guardò intorno alla ricerca del gommone, ma le onde si erano fatte più alte e il suo punto di vista non era dei migliori… Dopo qualche secondo intravide la sagoma di un gozzo non troppo distante, ma il vecchio, alle prese con un segnale da pesca, non lo aveva ancora visto. Il fischietto del mio amico attirò l’attenzione del pescatore che lo raggiunse in pochi minuti. Gli chiese di cercarmi e di dirmi di raggiungerlo perché aveva avuto un problema e di dirmi di aspettare lí la sua emersione. Dopo di che ritornò sott’acqua, raggiunse in diagonale la parete rocciosa e riprese la discesa. Il suo scopo era quello di riportare le bolle gassose che aveva in circolo allo stato liquido.
Raggiunse i 48 metri di profondità, si fermò per qualche minuto e ricominciò una lenta risalita. La prima tappa la fece a 12 metri, la seconda a 9, la terza a 6, dove trovò il bilancino ad attenderlo. La quarta e ultima sosta la fece a 3 metri. Finalmente uscí dall’acqua e, nonostante un lungo periodo di paura e di attenzione ai sintomi, l’avventura si concluse per il meglio.
Lasciando da parte i commenti di disapprovazione – che peraltro condivido – resta il fatto che mi viene facile, in questa storia, legare la buona sorte alla presenza di quel coltello.
Quando vado sott’acqua ho sembre una buona lama affilata assicurata al mio braccio sinistro (personalmente mi trovo bene con il Predator della Cressi); quando vado a fare fuoristrada con la Jeep ho sempre un coltello dotato di tagliacintura e di punta per spaccare il parabrezza; quando vado nei boschi ho sempre con me un coltello a lama fissa (Viper Masai, cui sono affezionato anche per altri motivi che un giorno, forse, racconterò), mentre un multifunzione mi aiuta nei casi più disparati (Wenger Alinghi); al lavoro, invece, ho un fantastico BF2V, della Extrema Ratio, che porto assicurato in cintura.
Mi è stato chiesto qual’é l’oggetto che più degli altri voglio avere con me nello svolgimento del mio lavoro.
Ovviamente non esiste una risposta semplice, perché – a partire dall’abbigliamento fino ad arrivare alle dotazioni di sicurezza – sono numerosi gli accessori utili e quelli indispensabili. Probabilmente dedicherò altri articoli alla descrizioni di alcuni di essi ma, in questo momento, ritengo giusto parlare per primo di quello che, probabilmente, è uno tra i più trascurati: il coltello.
Come scrivevo all’inizio, i coltelli si differenziano moltissimo a seconda della destinazione d’uso. Nei lavori che si svolgono sul mare, bisogna sceglierne uno adatto a sopportare le condizioni più estreme e, nel tempo, ho capito che una buona lama deve avere delle caratteristiche particolari, essere costruito con materiali eccezionali e lavorato con grande maestria. Un attrezzo di questo tipo non è a buon mercato, ma garantisce affidabilità nel momento del bisogno e durata nel tempo.
Dopo tanti anni di utilizzo quotidiano – e tante prove – sono approdato al BF2V della Extrema Ratio.
Perché mi ha convinto?
Prima di tutto perché possiedo altri coltelli della stessa casa e non ho dubbi sulla qualità espressa dal marchio e poi perché, entrando nel dettaglio, la lama è fatta con uno dei migliori acciai presenti sul mercato, l’N690Co, di provenienza austriaca, contiene una quantità doppia di molibdeno rispetto all’AISI 440 C che migliora le caratteristiche di taglio e la resistenza alla corrosione. Anche il valore che indica la sua durezza, 58HRC, garantisce una buona tenuta del filo della lama.
L’impugnatura é eccezionale: bella, ruvida, ergonomica, antiscivolo e curata nei minimi particolari. Persino la clip per assicurarla in cintura è perfetta: stretta al punto giusto, agevole da infilare, lo rende comodo da estrarre ma difficile da perdere. Consiglio comunque l’accessorio di sicurezza che, anche una volta impugnato, lo tiene assicurato alla cintura. È inoltre dotato di ferma vite di regolazione per la chiusura e l’apertura della lama e di una caviglia d’acciaio.
A mio parere un coltello può essere utilissimo in tanti frangenti e dovrebbe essere considerato nelle dotazioni di sicurezza. Vedo, infatti, la sua principale possibilità di utilizzo proprio nella gestione di un imprevisto.
Va anche detto che è un attrezzo estremamente soggettivo che deve aderire perfettamente alle aspettative e alle caratteristiche del proprietario. Questo significa che non esiste il coltello perfetto per tutti, ma il BF2V è sicuramente quello che fa per me.
Rapallo, 23 Agosto 2019
L'ANTICO BACINO DI CARENAGGIO - GENOVA
L’ANTICO BACINO DI CARENAGGIO A GENOVA
Dopo tanto girovagare per il mondo, mi è venuta voglia di illustrare alcuni angoli caratteristici della mia città, una città dalla consolidata vocazione marinara. Mi fa quindi piacere, illustrare l’antico Bacino di carenaggio, collocato nel Porto Antico, nella parte Orientale della vecchia Darsena, situata vicino a Porta dei Vacca.
Bacino di Carenaggio prima dell’accorciamento
Accorciato per fare spazio alla sopraelevata
Il bacino di carenaggio in questione è del tipo in muratura, che è uno tra i più comuni. Come consuetudine, le sue iniziali dimensioni erano ragguardevoli, in quanto dovevano contenere una nave intera. Ubicato nelle vicinanze dello specchio d'acqua dell’antica Darsena, con la quale comunica attraverso il lato corto. Costruttivamente parlando, il bacino è posto al di sotto del livello del mare, in questo modo l'imbarcazione che necessita di operazioni di manutenzione all’opera viva dello scafo, può farvi agevolmente ingresso. La via di comunicazione con lo specchio d'acqua viene quindi chiusa attraverso una speciale paratia a tenuta stagna, denominata “Porta Barca” o “Barca Porta”.
La “barca porta”, è in pratica un grande scatolone di lamiera, che può essere riempito d'acqua e quindi affondare, alloggiandosi nelle guide poste all'estremità del bacino. La tenuta stagna della chiusura è favorita direttamente dalla pressione esercitata dall'acqua esterna sulla superficie della barca porta.
Porta barca con pali per tenerla in verticale
Porta barca in esercizio a chiusura del bacino
Successivamente, si elimina l'acqua dal bacino stesso, attraverso un sistema di pompe collocate nella sala pompe attigua al bacino, e la nave rimane all'asciutto, poggiando sui delle taccate di legno e rimanendo in equilibrio grazie a dei pali in legno che scontrando contro le pareti verticali tengono la nave in posizione verticale e consentendo di lavorare intorno ad essa.
Al termine della riparazione si effettuano le operazioni inverse, estraendo l'acqua dalla barca porta, che diventa così galleggiante (da cui il nome di barca) e può essere trainata in posizione di sgombero per lasciar uscire l'imbarcazione.
Questo bacino di carenaggio, scavato nella pietra e con i gradoni laterali, è il più antico di questo tipo, esistente nel porto di Genova. La sua realizzazione si deve al Re Carlo Alberto, che con decreto del 21 Agosto 1845, approvò la costruzione di questo bacino all’interno del porto di Genova.
Veliero nel secolo scorso nel bacino asciutto
Nave in entrata nel bacino allagato
L’allora comandante della regia marina (Sua Altezza Reale Principe Eugenio di Carignano), affidò la realizzazione del bacino di carenaggio al Deputato Damiano Sauli (mentre copriva l’incarico di Colonnello del Genio), riuscì nell’impresa di realizzare il bacino, in soli 5 anni, iniziando i lavori nel 1847 ed inaugurando il bacino nel 1851, dovendo scavare il duro tufo roccioso fino ad una profondità di 12 metri con le mine, malgrado le notevoli difficoltà e la durata dei lavori, cosa molto rara per i tempi, non fu registrato nessun incidente mortale durante i lavori.
Damiano Sauli, prese ad esempio il bacino di carenaggio costruito a Tolone dall’Ingegnere e Costruttore Navale, Monsieur GROIGNARD, studiando ed avendo cura di eliminarne i principali difetti, dovuti ad una cattiva esecuzione del fondo che causavano ingenti infiltrazioni d’acqua.
Analogamente al suo fratello (tutt’ora operante) situato nel vecchio porto di Villefranche, la destinazione principale del bacino, era quella di essere adibito alla riparazione / manutenzione (carenaggio) delle navi militari della flotta Sabauda.
Successivamente, quando l’arsenale militare fu trasferito a La Spezia, con l’assenza di navi militari da riparare, fu adibito alla riparazione di navi mercantili, subendo nel passare degli anni numerose trasformazioni; l’ultima (la più dolorosa e significativa), fu compiuta negli anni’60, realizzando un significativo accorciamento del bacino, al fine di fare spazio alla nascente e discussa “Sopraelevata”. A causa dell’accorciamento, al fine di potere ospitare navi di lunghezza superiore che necessitavano di riparazione, la parte estrema del bacino fu sagomata come una prua di nave.
Attualmente, il bacino di carenaggio, è gestito dalla società “Rimorchiatori Riuniti”, che lo utilizza principalmente per i lavori di manutenzione e carenaggio dei rimorchiatori della propria flotta.
Rimorchiatore “Danimarca” in bacino asciutto
Parte del bacino sagomata per accomodare prua navi
Al fine di aumentarne l’operabilità ed il periodo di utilizzo, il bacino di carenaggio viene anche utilizzato per la manutenzione di mezzi di servizio del porto come: bettoline, chiatte da lavoro, mezzi speciali, oppure grandi yacht o super yacht.
La società “Rimorchiatori Riuniti”, che opera nel porto sino dal 1922, in collaborazione e con la tutela del Ministero dei Beni Culturali, ha curato le attività di restauro, conservazione ed adeguamento strutturale e funzionale del complesso che comprende non solo il bacino in pietra, ma anche l’attigua sala pompe ed una Gru elettrica su binario degli anni ’30 avente una capacità di sollevamento di 6 (t.).
Sala Pompe con gru elettrica
Portata Gru 6 (t.)
Gru elettrica su binari
Flavio SCOPINICH
Rapallo, 24 Luglio 2019