Il rapallese PINO LEBANO-MAESTRO DI PRESEPI
Il Rapallese
PINO LEBANO
MAESTRO DI PRESEPI
Pino LEBANO rappresenta la quinta generazione di maestri d’arte presepiale di scuola napoletana.
Dal 1995 al 2013 é stato titolare della Tigullio Galleria d’Arte a Rapallo dove risiede da oltre 40 anni. La storia artistica della famiglia Lebano-Visconti risale al 1788 ed é tuttora presente nel campo artistico italiano con le sue rinomate Gallerie d'Arte a Napoli, Roma e Chianciano Terme.
CARLO GATTI
Rapallo, 14 dicembre 2015
I MARINAI LIGURI D'ALTURA ...
I MARINAI LIGURI D'ALTURA
Quante intelligenze di mare sono mute per non essersi mai incontrate con i sentimenti e gli stessi pensieri dei terrestri... Chissà cosa potrebbero raccontare con quello che hanno visto e sofferto nel loro peregrinare negli oceani?
C.G.
Il Pensiero del Comandante Nunzio Catena
Platone disse: "ci sono tre tipi di uomini: i vivi, i morti e quelli che vanno per mare”. Come non pensare che ad ognuna di quelle imbarcazioni corrisponde un equipaggio di anime! I migliori! Costretti dal mare a setacciare ogni giorno sentimenti, affetti e ricordi che un terrestre non fa in tutta la sua vita. In mare si affina una sensibilità diversa e profonda che sublima l'umanità di ciascuno. Certo, non idealizzo, ci sono tanti lestofanti anche tra i naviganti improvvisati, ma lì sono almeno "condannati" a pensare!
Anche il valore della vita di un marittimo è sacro! Per un "uomo in mare" si impegnano a cercarlo navi distanti anche centinaia di miglia, unità che costano migliaia di dollari all'ora.
A terra, invece, ogni giorno ci mostrano immagini di individui che passano sopra il cadavere di un proprio simile, senza neanche fermarsi.
Ognuna di queste navi è un 'microcosmo' governato da regole universali, poche, ma funzionali che mirano solo ad un progetto: partire, viaggiare con un carico ed arrivare a destinazione. Se a terra le cose funzionassero alla stessa maniera, non vedremmo il caos che regna in ogni settore, a cominciare dall’alto…!
Tramontana
Quella mattina invernale era uguale a tante altre. Una fredda tramontana tagliava ogni centimetro di pelle scoperta e tutto rifletteva come fosse di vetro. Genova era quasi sveglia e si gustava ancora per poco il tepore casalingo. Presto si sarebbe specchiata nel suo porto dal sapore nordico. Il Torregrande rientrava veloce da un rimorchio “pesante” all’Italsider. L’equipaggio, assiepato sul ponte di comando, era pronto a divorare la focaccia con la cipolla ancora calda …bagnata dal solito bianchino frizzante.
Testata Ponte Parodi – Anni ’60 - Ormeggio dei Rimorchiatori
Charly tra un viaggio e l’altro in altura, si teneva in allenamento, come Comandante, in questa “università” della manovra portuale che aveva un organico di oltre quattrocento barcaccianti, alle dipendenze della più importante società del Mediterraneo, la “Rimorchiatori Riuniti”.
La caccia ai giovani più dotati, che formassero gli equipaggi d’altomare era sempre aperta. Charly non cercava il “genio marinaro”, ma contava su un volontario con le caratteristiche del lupo di mare: più testa che fegato, un buon carattere, un elevato spirito di corpo e soprattutto uno stomaco d’acciaio.
L’esame finale d’ammissione “all’altura” consisteva nel superamento di un pasto a base di polpi quasi crudi, oppure di trippe alla genovese, condite dal sale di una burrasca forza sette. La sfida di gruppo al dio del mare avveniva in coperta, con il piatto in mano, stivali e incerata da tempesta. Era un’esibizione dal sapore arcaico, un rito fra odio e amore per esorcizzare il pericolo e cementare un legame di solidarietà e reciproca assistenza.
I marinai di un tempo non lontano...
Secondo la leggenda che circola sui bordi, il nostromo é l’uomo rozzo e volgare che conduce la ciurma all’arrembaggio! Da secoli questa definizione arcaica e un po’ romantica conserva un margine di verità anche nel nuovo millennio. Se il moderno capitano marittimo ha assunto, suo malgrado, anche il compito di manager aziendale e quello d’ingegnere elettronico, la figura del nostromo rappresenta tuttora la continuità, la maglia di catena che unisce e dà un senso ai lunghi capitoli della marineria narrata in tutti i continenti. Il suo ruolo é sempre lo stesso: trovare la soluzione ai problemi che il mare propone a getto continuo e in forme sempre più sofisticate. E’ questione di feeling, recita una canzone di Cocciante. Nel nostro caso il mare sceglie i suoi figli migliori e li chiama nostromi.
Il nostromo dei miei tempi “abitava” praticamente a bordo, conosceva ogni bullone della nave, sapeva dove e come mettere le mani per impiombare (unire) due cavi spezzati, sostituiva un’ancora perduta, riparava qualsiasi avaria in coperta, tamponava falle e poi cuciva e rappezzava i cagnari che coprivano le stive, maneggiava le cime (cavi) di ogni calibro con l’arte di un prestigiatore e usava gli aghi, il paramano, le caviglie, il mazzuolo con tanti attrezzi personali avuti in eredità dai vecchi lupi di mare di Camogli, Viareggio, del Giglio, Imperia, Carloforte ecc... Un vero corredo di utensili che portava con sé sull’altare quando sposava la nave. Già, proprio così! Il Nostromo nasceva e moriva con la “sua” nave.
Mare in coperta ...
Zeppin e sua moglie Anna nella “caletta” di Carloforte
Anche il Torregrande aveva fatto la sua scelta: il nostromo Zeppin che rappresentava lo spirito e la continuità, il carattere e la combattività. Tuttavia nel suo personaggio c’era qualcosa di strano e di misterioso: la normalità di Zeppin sulla terraferma, a bordo si trasformava in mito per diventare l’incarnazione di un folletto onnipresente, onnisciente e tanto positivo da diffondere euforia, ottimismo e sicurezza.
Per lui il mondo umano si divideva in poche categorie: quelli di terra che ignorava e quelli di mare che rispettava come compagni di sventura, ma tra questi amava solo gli equipaggi d’altura, già… quelli che si alternavano sul Torregrande e ne ricevevano il suo “imprinting”.
Non era facile conquistare o farsi conquistare da Zeppin. Occorreva innanzitutto mostrare un viscerale e referente rispetto per il Torregrande, che era per lui casa, chiesa e schêggio…
Lo spirito di corpo in lui era innato, come l’insularità della sua terra: (Carloforte - Isola di S.Pietro), alla quale si sentiva unito da un’impiombatura, che lui stesso ogni giorno ripuliva e curava.
La tonnara di Carloforte
Bilancella di Carloforte
Zeppin era duro come i leudi su cui era cresciuto. Diffidente, aveva occhi nerissimi e li roteava vispi, sempre alla ricerca d’improbabili pirati, in agguato su sciabecchi rapiti all’immaginario d’altri tempi. Zeppin era un uomo scaltro che vedeva in modo giovanile e pensava all’antica. Guardava gli strumenti nautici, ma osservava il colore del mare e il volo dei gabbiani; ascoltava i bollettini del tempo, ma scrutava attentamente le nuvole e amava soprattutto storpiare i proverbi dei suoi avi tabarchini e poi rideva…
Zeppin era un uomo senza tempo, un pezzo di mare che poteva scivolare su e giù per qualsiasi coperta, in ogni angolo di mondo macchiato di minio, cordami e bozzelli. Forse era proprio lui il prototipo, il cosiddetto uomo di mare, dolce e premuroso, che volgeva improvvisamente in burrasca, capace di consumare vendette e poi il perdono.
Dopo l’ennesima avventura sulle spiagge romane, uno stato d’animo da miracolati aleggiava ancora in quella saletta, quando arrivò il D.M. Guido che tranquillizzò tutti assicurando che sarebbero stati imbarcati due rinforzi di esperienza: Gian, primo macchinista e Loturco motorista.
Gian, trent’anni, era il più giovane degli ufficiali ed era della zona di Castelletto come Guido e il 1° di coperta Giorgio. Per chi non lo conosceva Gian poteva sembrare una presenza inquietante: di poche parole, di media statura e ben stazzato, aveva un viso duro e butterato da killer, di cui aveva soltanto la passione per le armi. Proveniva da una nota stirpe d’Armaioli di Piazza Banchi, ed ebbe buon gioco nel coinvolgere Charly, discreto tiratore, in molte sparatorie in mare ed in diversi poligoni regionali.
Gian stava maturando velocemente alla scuola di Guido ed aveva fegato da vendere. Sul Torregrande trovò gli stimoli giusti che esaltavano il suo carattere, dotato tra l’altro di un raffinato humor inglese.
Loturco era il secondo motorista, d’origine pugliese aveva trent’anni. Era forse il più regolare del gruppo: silenzioso in mezzo a tanti istrioni, preferiva la seconda fila. Da lui emanava un senso di pace interiore, che ogni tanto riusciva a sbloccare con battute pungenti ma mai cattive.
Era la vigilia di Natale. In quella tarda mattinata, una cappa grigia gravava sulla città ed uno strano scirocco freddo annunciava nevicate sui monti vicini. A bordo fervevano i preparativi per l’imminente viaggio, ma il pensiero dell’equipaggio era rivolto al suo Comandante che tardava a rientrare a bordo con le ultime notizie sulla spedizione.
Dal parabordo di banchina, Charly preferiva saltare direttamente in coperta. Un doppio colpo, secco e rimbombante, richiamò l’attenzione dell’equipaggio che irruppe velocissimo in saletta.
“Ragazzi si parte!” disse Charly con tono distaccato, poi accennò una pausa e aggiunse: “All’alba del 26, rompete le righe!”
Stea é il primo da sinistra
Ne seguì un applauso e gli auguri alle famiglie.
Stefano (Stea), marinaio di 24 anni, alto e ben piantato era una creatura del nostromo Zeppin. Rivierasco come Charly, aveva una carnagione scura ed un taglio obliquo degli occhi che ricordava vagamente un personaggio di Salgari. Era il ritratto giovanile di suo padre, eroe della “resistenza” sui monti della Liguria e del suo vecchio ne perpetuava il coraggio e quella naturale incoscienza giovanile che più volte Charly cercò di contenere… invano!
Per capire il temperamento di Stea occorre raccontare di quella notte in cui infuriò una burrasca tremenda che sorprese il Torregrande alla fonda davanti al porto di Milazzo. Il convoglio, composto dalla vecchissima draga: Rinoceronte, due chiatte ed un rimorchiatore portuale, era destinato a Taranto. Purtroppo, in navigazione nel basso Tirreno, scoperto ai colpi di mare da libeccio, la benna della draga si dissaldò ed iniziò a brandeggiare ad ogni rollata imbarcando acqua di mare a tonnellate.
Charly fu costretto a puggiare a Milazzo, aperta soltanto a grecale, diede fondo l’ancora in rada e si legò i tre natanti ai due lati. Denunciò l’avaria al Tribunale locale e chiamò una ditta per riparare i danni.
Nella serata del giorno dopo, terminarono i lavori di saldatura. Charly fece preparare il convoglio per la partenza e dispose:
“Salpata l’ancora, molleremo man mano le cime d’ormeggio dei rimorchi per farli sfilare di poppa fino a distendersi in fila indiana. Stea, a bordo dello Zodiaco, baderà a sbrogliare gli immancabili grovigli di cavi e catene”.
In piena notte si levò inaspettatamente un forte vento di burrasca che rovesciò piovaschi così intensi da impedire la visibilità a pochi metri di distanza. L’ancora del Torregrande dragò velocemente e nel giro di pochi minuti il convoglio s’ammucchiò sotto la prora di una petroliera, anch’essa in difficoltà mentre scaricava il suo puzzolente prodotto nel Porto Petroli.
Le cime che legavano i natanti al Torregrande si spezzarono. Charly era accecato dagli aghi di sale e schiuma che gli arrivavano in faccia come impercettibili frecce. A nulla giovavano le potenti sciabolate del proiettore che fendeva quel muro d’acqua senza penetrarlo. Zeppin e Stea, coltello al fianco, irruppero sul ponte di comando a dorso nudo e fradici d’acqua:
“Comandante ci tenga d’occhio, prendiamo lo zodiaco e andiamo a radunare quel branco selvaggio…!”
Disse Stea con tono divertito.
“Dai nu menemuse u belin co-u brancu, andemu desgraziou!” (Dai non perdiamo tempo con le bestie, sbrigati disgraziato!) urlò Zeppin infuriato, come se dovesse inseguire dei ladri.
Charly non ebbe il tempo di fermarli. I due sparirono in una nuvola di schiuma impazzita.
Per Charly quei minuti d’attesa sembrarono un’eternità!
Poi, come un fulmine, l’urlo di Stea raggiunse il ponte: “Comandante abbiamo sciolto il grùppo (groviglio), l’elica é libera potete manovrare!”
In quel momento s’affacciò un marinaio dalla prora altissima della petroliera e gridò impaurito: “Chi siete mai? Che vulite a s’tura?”
(Che cosa volete a quest’ora della notte?)
“Ti gh’é un pö de baxaicò, belinn-a?” (ce l’hai un po’ di basilico buon uomo…?) gli urlò Stea divertito.
Stefano Mora (Stea) studiò e diventò un ottimo Comandante, ma per il suo Torregrande diventò anche un bravo pittore ! Oggi é pensionato nella sua Sestri Levante e fa dell'ottimo vino rivierasco! Zeppin é mancato nel 1975 ma é sempre vivo nel ricordo di tutti noi. Anche Giorgio Ghigliotti e Guido Bianchi sono mancati, ma NESSUNO di noi é mai sbarcato dal TORREGRANDE!
Rivisitazione di – QUELLI DEL TORREGRANDE
di Carlo GATTI
Ediz.2001 – Nuova Editrice Genovese (esaurito)
NATALE 2017 dedicato al SANTUARIO DELLA MADONNETTA - GENOVA
NATALE 2017
dedicato al
SANTUARIO DELLA MADONNETTA - GENOVA
IL PRESEPE
Se volete vedere Genova antica visitate i presepi!
Era il 1220 quando Francesco d’Assisi di ritorno dalla Palestina pensò di riprodurre “tridimensionalmente” la scena della natività. Il santo chiese e ottenne l’autorizzazione dal Papa Onorio III e nel 1223 a Greccio diede vita al primo presepe.
La tradizione religiosa presepiale ebbe subito un grande successo e si diffuse per tutta l’Italia dove trovò a Napoli, Bologna e Genova benemeriti artisti che produssero opere tanto preziose che oggi rappresentano un patrimonio artistico fondamentale per il nostro Paese.
Nel 1932 Il sociologo francese Henry Haubert scrisse che “il presepe è il trionfo dei genovesi”. Dal XVI secolo al XIX secolo Genova, insieme a Napoli, rappresentarono le aree in cui si espresse il più alto grado di ingegno nella produzione delle statuine e delle coreografie per i numerosi significati, non solo evangelici, ma anche sociali e comportamentali.
Ogni famiglia nobile, ogni chiesa o pieve che fosse, nel periodo dell’Avvento e del Natale erano invitati a visitare reciprocamente i PRESEPI per raccogliersi in preghiera.
Oggi queste opere miniaturizzate: sculture e statuine in legno intagliate a mano rappresentano la devozione in primis, ma anche una scenografia a volte anche precisa della vita di quei tempi. Si tratta di un’opera didascalica e descrittiva che abbraccia le mode dei vestiti dell’epoca che rispecchiano i diversi strati sociali, come del resto le professioni ed i mestieri ormai dimenticati che all’epoca rappresentavano i veri personaggi intorno ai quali ruotavano le città ed i paesi.
Tutti: nobili e popolani dovevano essere rappresentati per godere della Grazia della “Buona Novella”.
Il santuario di N.S. Assunta di Carbonara è conosciuto come Santuario della Madonnetta
Il Santuario della Madonnetta è una chiesa della città di Genova. Sorge nel quartiere di Castelletto sulla collina di Carbonara, uno sperone alle pendici del Monte Righi, al culmine della creuza che dalla chiesa prende il nome, in una posizione panoramica che domina da 95 metri di altitudine il centro della città, il porto e i monti alle spalle.
I marinai genovesi che arrivano da lontano, prima vedono la LANTERNA per sentirsi a casa poi, con il binocolo, cercano la MADONNETTA nell'anfiteatro che domina il porto per sentirsi in comunione con lo spirito della città!
- Anno 1732 - Il sagrato in pietre bianche e nere (Riseu). Così ci appare l’opera ottagonale in stile rococò, realizzata in un cortile esterno cintato da muri. I sassi sembrano sottomessi alla volontà del pittore come inchiostro sulla carta.
Il santuario della Madonnetta, così denominato per via delle ridotte dimensioni dell'immagine di alabastro (proveniente dalla Sicilia) che vi si venera, fu voluto dalla stessa MADONNA che ne ha ispirato la costruzione al Ven. P. Carlo Giacinto, al secolo Carlo Sanguineti, Agostiniano Scalzo. Si tratta di un simulacro affine alla Madonna di Trapani.
La costruzione del Santuario cominciò sul finire del 1695 e terminò nel 1697 secondo il progetto elaborato da Anton M. Ricca, divenuto religioso agostiniano scalzo. In quindici mesi fu aperto al culto: qui le autorità genovesi giungevano ogni trent'anni per consegnare le chiavi della città. Il Santuario custodisce circa 25.000 reliquie e numerosi tesori d'arte tra cui il Presepe settecentesco opera di autori come il Maragliano, Bissone e Gaggini. La festa titolare è il 15 agosto di ogni anno.
L'interno della chiesa, a navata unica, davvero suggestivo, è a pianta ottagonale irregolare che ricorda il sagrato che abbiamo appena visto.
Sia a destra che a sinistra dell'ingresso si aprono tre cappelle per ogni lato dell'ottagono, ma quella centrale di ogni gruppo è più ampia delle altre, fatto che dà alla chiesa una forma vagamente ovale. Ogni cappella ospita un altare (tutti di Carlo De Marchi, 1737) ed un'opera pittorica. Chiude l'ottagono della pianta un gruppo di tre scalinate: le due laterali salgono verso la zona decisamente sopraelevata del presbiterio con l’altare maggiore e il coro, mentre quella centrale scende verso lo SCUROLO (Cripta)–(termine lombardo di origine popolare che indica un ambiente sotterraneo, spesso localizzato al di sotto della zona presbiterale, con la volta sorretta da colonne. Si tratta di un modello architettonico che si ispira direttamente a quello delle cripte romaniche, le quali già nel medioevo, avevano la particolare funzione di conservare le reliquie o venerate immagini sacre).
Il pavimento della chiesa fu disegnato a raggiera nel 1750 dall’artista genovese Francesco Schiaffino (Ge-1689/Ge-1765); al centro un'apertura consente di vedere in basso i sottostanti locali della cripta e del presepe e in alto la cupola ellittica.
La composizione architettonica, in linea con il gusto tipico del Barocco, spinge lo sguardo verso il presbiterio nel quale è esposto un bel Crocifisso ligneo del tardo XVIII secolo (attribuito al Cambiagio) sopra l’altare in marmi policromi di stile barocco, opera di D. Stella (1715). In una nicchia sul cornicione dell'altare è posta una Madonna di Domenico Bissoni (fine XVI sec.); i simboli mariani sono presenti anche nel retrostante coro ligneo, di autore ignoto.
Le pareti sono interamente ricoperte di marmi; sulla destra una porta conduce ad una piccola cripta funeraria.
· . Prima cappella a destra: La Madonna della cintura e i Santi Agostiniani, di Bartolomeo Guidobono;
· . Seconda cappella a destra: altare dedicato a san Giacomo; quadro Gesù e la madre di San Giacomo e San Giovanni, di Giovanni Battista Paggi, del 1620, proveniente da un oratorio distrutto nella zona di Genova Prè; statua lignea ottocentesca Madonna col Bambino benedicente di Stefano Valle;
· . Terza cappella a destra: L' Annunciazione, tela di Giuseppe Galeotti, 1738;
· . Prima cappella sul lato sinistro: L'Immacolata attribuita a Bartolomeo Guidobono;
· . Seconda cappella a sinistra: Il Crocifisso con la Vergine, San Giovanni e la Maddalena di Giovanni Raffaele Badaracco. Questo dipinto fu donato al santuario nel 1735;
· . Terza cappella a sinistra: Vergine dell'aspettazione del parto, di dubbia attribuzione a Bartolomeo Guidobono.
Il Santuario della Madonnetta, edificato in soli quindici mesi, è una delle più originali e armoniose architetture del barocco ligure. Fa parte della Parrocchia di San Nicola da Tolentino, Vicariato di Castelletto, dell’arcidiocesi di Genova.
“Gli annali del santuario tramandano una promessa della Vergine al fondatore del santuario della Madonnetta - racconta padre Eugenio Cavallari, agostiniano scalzo - fu LEI stessa a chiedere che fosse costruita questa chiesa e a descriverla fin nei minimi particolari. E, quando il 15 agosto 1696 fu consacrata, promise che sarebbe stata fisicamente presente ogni anno, nel giorno dell’Assunta a partire dalle 5 del mattino, da allora fino alla fine del mondo”.
Il fondatore del santuario si chiamava padre Carlo Giacinto Sanguineti dell’ordine degli agostiniani scalzi, un veggente che raccontò di aver avuto dalla Madonna le indicazioni per la costruzione dell’edificio a mezza costa fra Castelletto e il Righi. Per la chiesa è “venerabile” (primo passo sulla strada della beatificazione) e le apparizioni delle quali ha lasciato memoria sarebbero storia e non leggenda: per secoli i frati genovesi hanno, quindi, perpetuato all’interno della loro congregazione religiosa il ricordo di quella promessa.
“Un tempo questo era il santuario ufficiale della Repubblica di Genova - riprende padre Eugenio - e qui veniva rinnovato ogni anno il voto di consacrazione alla Madonna Regina della città, alla presenza di quattro senatori in rappresentanza del Doge”. L’evento, che veniva celebrato la domenica successiva al Ferragosto, era salutato con 21 salve di cannoni sparate dalla batteria del Molo.
Padre Carlo Giacinto aveva una profondissima devozione a Maria che gli ispirò ben presto e vivamente il desiderio di realizzare la costruzione di un Santuario alla Vergine, che dominasse tutta la città.
Lo scurolo è il cuore del Santuario: come la chiesa, ha una pianta ottagonale ed è sormontato da una volta a padiglione, affrescata da Bartolomeo Guidobono negli anni a cavallo fra il XVII e il XVIII secolo con una "Incoronazione della Vergine"; ospita un altare disegnato da Francesco Quadro, arricchito da interventi del Gaggini e portato alla forma attuale nel 1798 da Francesco Schiaffino, che vi pose un tabernacolo intagliato in pietre rare. Sopra l'altare, coronato da quatto colonne di alabastro a tortiglione, si erge la statua della Madonnetta donata al venerabile padre Carlo Giacinto.
Disseminati sulle pareti sia della chiesa che dello scurolo si possono vedere numerosi medaglioni dorati di gusto barocco (opera di Nicolò Pantano, 1715, e di Gaetano Torre, 1757) arricchiti nel XIX secolo da stucchi del Lavarello, nei quali sono conservate migliaia di reliquie provenienti dalle catacombe romane.
Volta dello SCUROLO
PRESBITERIO
Sotto al presbiterio si trova lo Scurolo (Cripta), al quale si scende per mezzo di un ampio scalone di marmo; l'accesso è sovrastato da un cartiglio che reca scritto Convertit rupem in fontes aquarum (LT) traduzione:
ha trasformato la rupe in fonti d’acqua, citazione dal Salmo 114.
Padre Giacinto era direttore spirituale della famiglia Moneglia, in particolare di Eugenia Balbi Moneglia, che nella propria cappella privata aveva fatto collocare una preziosa statua della Madonna col Bambino in alabastro, famosa per aver protetto una navigazione pericolosa: questa statua, alla morte di Eugenia nel 1689, fu donata dalla figlia Isabella al Padre Carlo Giacinto, che la pose nella cappelletta di San Giacomo.
Il luogo divenne meta di pellegrinaggio spontaneo dei fedeli che vi si recavano per rendere omaggio alla sacra immagine, da tutti chiamata la Madonnetta.
Tuttavia il dono della statua fu per il venerabile un segno della ispirazione di Maria e il 4 maggio 1695 finalmente iniziò l'opera di cui Giacinto aveva ricevuto la visione.
Il 15 agosto dell'anno successivo 1696 la costruzione era già terminata: la statua della Madonnetta fu posta nello scurolo sotto l’altare maggiore e la comunità festeggiò l’Assunta nel nuovo Santuario. Nello stesso giorno, nella Cattedrale di San Lorenzo la città di Genova, in seguito a decreto del Senato della Repubblica sollecitato dal Padre Carlo Giacinto, offriva le proprie insegne a Maria Santissima e la Madonnetta divenne il Santuario ufficiale della Repubblica Genovese.
L'architetto che ne aveva curato la realizzazione, l'imperiese Antonio Maria Ricca, a compenso dell'opera chiese ed ottenne l'ammissione all’Ordine di Sant’Agostino, dove fu accolto dal venerabile Carlo Giacinto col nome di Padre Marino.
Il Santuario della Madonnetta, oltre che luogo di pellegrinaggio e di devozione per i genovesi, è stato sito di fondazione o di stretto legame con molte congregazioni religiose della città: le Terziarie Scalze Agostiniane Scalze, le suore Battistine, le suore di Santa Dorotea della Frassinetti, i Figli dell’Immacolata, le Figlie dei SS. Cuori; alla Madonnetta il 30 settembre 1873 è stato anche fondato il quotidiano cattolico IL CITTADINO.
Illustri personaggi sono seppelliti nel Santuario: il venerabile padre Carlo Giacinto, fondatore, inumato nel 1721; il contrammiraglio Francesco Sivori (1771-1830); Girolamo Serra, marchese, politico e storico, autore di importanti opere tra cui una Storia dell'antica Liguria e di Genova; Luigi Tommaso Belgrano, uno dei principali studiosi della storia di Genova; Giorgio Des Geneys, ammiraglio e generale; Ambrogio Multedo, abate e scienziato, rappresentante dell'Italia a Parigi al congresso internazionale per l'adozione del sistema metrico decimale.
Sotto la chiesa una cripta conserva una assai pregevole Pietà lignea di Anton Maria Maragliano (1733).
Un lato del Santuario è occupato dal portone, e sopra di esso dall'organo recentemente restaurato. Lo strumento fu costruito in due tempi: il Grand’Organo da Lorenzo Roccatagliata (S. Margherita Ligure - 1733), l’Organo Positivo da Carlo Giuliani (Genova, 1844). Gli interventi solo parziali nel corso degli anni hanno consentito che esso mantenesse la sua struttura originale. La cassa di prospetto proviene dal convento degli agostiniani scalzi di Albisola Superiore, mentre la cantoria è stata costruita appositamente dall’intagliatore De Negri: ambedue sono riccamente scolpite e indorate.
PRESEPE
Nel Santuario si possono visitare il Presepio permanente (aperto tutto l'anno) che é una delle più interessanti testimonianze della tradizione genovese del presepe. Fu composto nel primo XVIII secolo, poco dopo la costruzione del Santuario, e veniva formato ogni anno per il tempo di Natale sull’altare della cappella dell’Immacolata (la prima a sinistra entrando), ponendo le statuine su un fondale dipinto. Successivamente si trovò una collocazione più adatta al piano sotterraneo, dietro la cripta; nel XX secolo il presepe venne inserito in una scenografia che ricostruisce luoghi e monumenti genovesi, realizzata da Roberto Tagliati ed inaugurata il 24-25 settembre 1977.
Le statuine, in origine quasi 120, oggi sono ridotte a circa 80, di pregiata fattura artigianale, provennero dalle due botteghe dei più rinomati artisti genovesi del tempo: Anton Maria Maragliano e i Gaggini di Bissone.
Alte circa 70 centimetri, riproducono i costumi della Genova settecentesca e raffigurano sia persone del popolino intente ad adempiere alle mansioni quotidiane e ai vari mestieri sia nobili a passeggio.
La loro fattura è di due tipi:
· il gruppo della Natività con i pastori è interamente scolpito in legno e ritenuto opera del Gaggini;
· le altre, della bottega del Maragliano, sono snodabili, in legno ma rifinite con altri materiali, come la terracotta per le mani e la testa, stoffe anche preziose per gli abiti, coralli e filigrana d'argento per i gioielli.
L'insieme, che occupa un'area di un centinaio circa di metri quadri, è suddiviso in cinque scene: idealmente da sinistra si entra in città dalla campagna nella valle del fiume Bisagno, per arrivare al centro storico di Genova, e risalire le alture fino al Santuario della Madonnetta e alla stalla della Natività; nella parte destra l’ultima scena è ambientata a Betlemme, dove da Gerusalemme giungono i Magi.
L'interesse oltre che per la fattura delle sculture risiede anche nella cura dei particolari e nella caratterizzazione delle figurine.
ALBUM FOTOGRAFICO DEL PRESEPE
FIGURE E PANORAMI
La figura centrale dell'immagine rappresenta un marinaio che ha perso una gamba a bordo della sua nave. Non può più navigare ed é costretto a mendicare.
PRIMI PIANI DI FIGURE DEL PRESEPIO
Sullo sfondo la Cattedrale e Porta dei Vacca
Due marinai con il SUDOVEST
Curioso il banchetto a tre piani dove si vendono statuette per il presepio
La Natività
I Magi
CARLO GATTI
Rapallo, 12 Dicembre 2017
RAPALLO, L’IMPRENDITORE “CARLO RIVA” COSTRUI’ IL PRIMO PORTO TURISTICO ITALIANO (1971-’75)
RAPALLO, L’IMPRENDITORE “CARLO RIVA” COSTRUI’ IL PRIMO PORTO TURISTICO ITALIANO (1971-’75)
Carlo Riva é morto nell’aprile 2017 all’età di 95 anni. Ma chi era Carlo Riva?
L’ingegnere, ex patron dei cantieri Riva di Sarnico, sinonimo di motoscafi di lusso nel mondo, é stato definito “un genio che sta alla motonautica come Enzo Ferrari sta alla Formula Uno”. Si parla di personaggi che hanno lasciato tracce indelebili nel nostro Paese e non solo... L’equazione citata é giusta e suggestiva, ma io rimarrei volentieri nell’ambito "salino" suggerendo un'altra considerazione: “Carlo Riva sta alla motonautica mondiale come le linee architettoniche delle navi di linea italiane stanno alla “bellezza” che da sempre solca gli oceani!”
La storia famigliare possiamo sintetizzarla così: sulle rive del lago d'Iseo nasce l'azienda di famiglia: un cantiere navale che presto sarà conosciuto in tutto il mondo come simbolo di eleganza, potenza ed efficienza. La storia dei Riva inizia nel lontano 1842 con il maestro d’ascia Pietro Riva e poi con il figlio Ernesto che introduce il motore a scoppio sulle loro imbarcazioni. Finita la grande guerra Serafino Riva diede un'ulteriore impronta al marchio della famiglia. È l'epoca dei motoscafi da corsa e delle vittorie in Italia e all'estero.
Negli anni '50 Riva fa il salto di qualità. Ed è proprio il giovane Carlo a diventare il protagonista assoluto dell’ascesa ai massimi vertici dell’Azienda famigliare. «L'ingegnere ha insegnato a tutti noi cosa significano visione, creatività e passione. La sua inesauribile energia innovativa ne fa l'indiscusso Maestro della nautica del XX secolo, un uomo le cui straordinarie creazioni appartengono già alla storia» è il ricordo di Alberto Galassi, l'A.D. di Ferretti Group che dal 2000 è il proprietario dell'azienda.
Sotto la direzione di Carlo Riva nascono i modelli Ariston, Tritone, Sebino, Florida, veri simboli di eleganza che si concludono con il the best AQUARAMA (nella foto) che dagli Anni ’60 é l’icona del Cantiere di Sarnico.
Genova ha voluto dedicare a questo grande imprenditore il Salone Nautico di Genova-2017.
“Io, personalmente, perdo un maestro, un esempio di genialità, d'impegno e di amore per il lavoro”, aggiunge ancora Galassi che sottolinea come “le barche di Carlo Riva saranno per sempre le più belle del mondo, fonte d'ispirazione per tutti noi che sentiamo, forte, la responsabilità di custodire e portare nel futuro il più importante marchio della nautica mondiale”.
Torre di controllo del Porto Carlo Riva di Rapallo
Veduta aerea del Porto Riva di Rapallo
Nella sua Sarnico il giorno dei funerali è stato proclamato il lutto cittadino ed anche a Rapallo il grande imprenditore lombardo é stato onorato degnamente. Nel comune rivierasco Carlo Riva ebbe l'intuizione di costruire, tra il 1971 e il 1975, il primo porticciolo turistico in Italia. “Ho lavorato con lui per 30 anni era un grande uomo che ha fatto grande la nautica”, dice Marina Scarpino, la direttrice del porto.
Seguendo l’esempio di Pierre Canto, realizzatore del Porto di Cannes nel lontano 1971, Carlo Riva si entusiasmò all’idea di traslare nel Tigullio una perla della Costa Azzurra. Un progetto ambizioso, degno delle migliori tradizioni nautiche italiane, dettato dalla tenacia, dall’esperienza, ma soprattutto dalla passione e dalla voglia di fare.
Sotto questa spinta imprenditoriale, nacque a Rapallo il primo approdo turistico “privato” italiano.
Come tutte le idee pionieristiche, anche quella del porto si è dovuta scontrare con le resistenze di una realtà locale, a quei tempi restia ad innovazioni e non sorretta da un chiaro riferimento legislativo.
Ma alla fine il Porto Carlo Riva, unanimemente considerato il “salotto buono” della nautica internazionale, da sogno apparentemente impossibile si é trasformato in realtà. Una realtà per 400 imbarcazioni da 6 a 42 metri, oltre ai posti in transito e 500 posti barca realizzati per il porto pubblico.
Il 26 Luglio 1975 felicemente si inaugura il nuovo approdo. Nella foto gallery seguono alcune immagini rappresentative delle fasi di progettazione, costruzione ed inaugurazione del porto.
Carlo Riva presenta il Nuovo Porto turistico di Rapallo
I primi clienti…
Il porto al completo…
Il Porto privato di Rapallo é situato accanto al porto comunale da cui è separato dal molo di sottoflutto (molo Langano). Il porto è protetto da una diga foranea a tre gomiti, interamente banchinata all’interno dello specchio acqueo di 54.129 mq.
Porto Turistico internazionale - Marina privato Rapallo
Latitudine Lat 44° 20' 42'' N Long 9° 13' 50'' E
Email: info@portocarloriva.it - Tel. +39 0185 6891 - Fax +39 0185 63 619
VHF 09 - Sito Web: http://www.portocarloriva.it Indirizzo: Calata Andrea Doria 2
Numeri Utili: Ufficio Locale Marittimo: 0185 50583 ; Carburante: 0185 689311
In omaggio al ricordo di Carlo Riva, riportiamo in una rapida carrellata la situazione dei Posti Barca nei porti principali italiani.
Da 60.000 ormeggi nel 2007 si è arrivati a 83.000 odierni; inoltre bisogna aggiungere gli ormeggi presenti in porti preesistenti che fa arrivare il totale a 161.000 unità.
POSTI BARCA IN LIGURIA
Marina di Chiavari……………………459 Posti barca
Porto Carlo Riva di Rapallo………...401 P.B.
Porto di Varazze…………………………….707 P.B.
Porto Finale Ligure………………………..579 P.B.
Portobello Loano…………………………….474 P.B.
Porto di Alassio……………………………….400 P.B.
Marina di Andora…………………………….825 P.B.
Porto Maurizio…………………………………709 P.B.
Marina Genova Aeroporto………………500 P.B.
Marina Genova Molo Vecchio…………160 P.B.
Porto di Imperia……………………………..709 P.B.
S.Stefano al Mare…………………………..989 P.B. Marina degli Aregai
Porto di Sanremo……………………………806 P.B.
Marina Porto Lotti Spezia……………….516 P.B.
PORTO DI LAVAGNA……………………..1400 P.B.
Per classificare l’ampiezza e l’importanza dei porti turistici italiani si conteggiano, ogni anno, le migliaia di turisti che transitano per quel porto, vengono inclusi anche i passeggeri dei traffici locali, di collegamento con le isole italiane e con località della stessa-regione.
Il primato spetta al Porto di Messina, tra i più grandi ed importanti del Mediterraneo, che comprende una superficie portuale di circa 820.000 m². Segue il Porto di Napoli, dove è attualmente in fase di sviluppo la pedonalizzazione dell’area ed un collegamento metropolitano che comprende la creazione di sottopassi per le auto e, nell’area di fronte il Molo Beverello, la costruzione della stazione Municipio della metropolitana di Napoli. Chiude il podio il Porto di Civitavecchia, conosciuto fin dai tempi antichi come porto di Roma, è stato per molti secoli un importante centro per gli scambi e per i contatti tra i popoli dell’antico Mare Nostrum.
Ecco la classifica completa delle prime 15 posizioni per transito annuo di passeggeri (dati espressi in migliaia):
1. …………Messina-Milazzo: 7.909
2. …………Napoli:............. 7.593
3. …………Piombino:......... 6.015
4. …………Olbia:.............. 4.018
5. ………..Civitavecchia:... 3.809
6. ………..Genova:........... 2.853
7. ………..Livorno: ...........2.660
8. ………..Palermo:...........1.815
9. ………..Venezia:............1.755
10………..Bari:..................1.491
11………..Savona: .............1.379
12………..Ancona:............. 1.010
13………..Salerno:............... 687
14………..La Spezia: ............667
15………..Brindisi:............... 625
PORTI ITALIANI CON DISPONIBILITA’
SUPERIORE AI 500 POSTI BARCA
Porto di Viareggio………………………(2000 P.B.)
Porto Marina di Nettuno (Lazio)…(850 P.B.)
Porto Turistico di Roma……………..(796 P.B.)
Porto S.Nicola L’Arena……………….(800 P.B.) Erice – Sicilia
Porto di Numana–Marche………… (780 P.B.)
Porto Turistico di Jesolo…………….(650 P.B.)
Porto di Alghero ………………………..(918 P.B.)
Marina del Gargano (Puglia)……..(747 P.B.)
Marina di Villasimius (Sardegna).(740 P.B.)
Marina di Scarlino (Toscana)……..(566 P.B.)
Marina Punta Faro Lignano Sab..(1200 P.B)
Marina di Porto Cervo-Sardegna..(720 P.B.)
Marina di Policoro-Basilicata……….(750 P.B.)
Marina di Pescara……………………….(1250 P.B.)
Marina Dorica-Ancona………………..(1200 P.B.)
Marina di Castelsardo…………………..(650 P.B.)
Marina di Carloforte……………………..(600 P.B.)
Marina di Capo Nord-Friuli…………..(650 P.B.)
Marina di Cala del Sole-Licata……..(1500 P.B.)
Darsena Aprilia-Udine………………….(680 P.B.)
Civitanova Marche………………………..(600 P.B.)
Marina Riva di Traiano………………….(1182 P.B.) Civitavecchia
ALBUM FOTOGRAFICO - MODELLI RIVA
1 – AQUARAMA
L’icona, il simbolo, la nascita del mito. È il 1962 quando l’Aquarama viene presentato al terzo Salone Internazionale della Nautica a Milano e diventa immediatamente il sogno di tutti gli appassionati. Il prezzo di vendita era di 10 milioni ed 800 mila lire. Naturalmente un sogno irrealizzabile per molti.
2 - AQUARIVA
Presentato nel 2000, anno in cui la Riva tornò a battere bandiera italiana grazie al Ferretti Group, e lanciato sul mercato nel 2001. Rappresenta uno dei più grandi successi dell’azienda, con oltre 240 esemplari venduti in tredici anni. Il prezzo? 500 mila euro. È uno dei meno cari tra i Riva attualmente in produzione.
3 - ARISTON
«Disegnato con amore, nato forte e puro come un cavallo di razza. Indimenticabile! Il mio signore del mare». Così ne parlava Carlo Riva negli anni ’50, quando l’Ariston si innestò nel mito dell’alta velocità e delle auto da corsa che contraddistingueva gli anni della rinascita industriale post-bellica italiana. Anita Ekberg se ne innamorò e ne volle uno personalizzato con tappezzeria zebrata.
4 – RIVARAMA
Torniamo negli anni 2000 con un motoscafo di media grandezza ma decisamente pensato per un mercato di lusso. Rappresenta un successo con oltre 100 esemplari prodotti.
5 – TRITONE
Nuovamente un salto nel passato, un salto negli eleganti ed esuberanti anni ’50. Il Tritone fu ideato e prodotto sull’onda lunga del successo dell’Arsiton, ma rappresentò un passo avanti ingegneristico importantissimo: è infatti il primo bimotore della Riva.
6 – SUPER FLORIDA
Sono gli anni ’60 e l’America è un mondo lontano che fa sognare tutti grazie alle fantastiche star del cinema. La Riva si lancia così nella produzione del Super Florida, un motoscafo che segue le linee delle imbarcazioni americane in voga in quegli anni, ma con il tocco di classe unico del design italiano.
7 – 86′ DOMINO
E’ il salto nel futuro della Riva il distacco dalla produzione classica che ha creato il mito dell’azienda. 86 piedi (26 metri) d’imbarcazione all’avanguardia, dal design accattivante ed aggressivo. Prodotto nel 2011, i suoi 6 milioni di euro di prezzo di listino lo relegano al mercato dell’extra lusso ma lo hanno immediatamente reso l’oggetto del desiderio di milionari di mezzo mondo.
La ripresa del settore, peraltro, emerge anche dai dati di Assomarinas, l’associazione che raggruppa i porti turistici italiani, divulgati nel corso della IV conferenza sul turismo costiero, svoltasi nell’area del Salone.
“Nella stagione estiva 2017 – ha spiegato il presidente, Roberto Perocchio – il giro d’affari dei porti turistici è aumentato del 4,5% rispetto allo stesso periodo del 2016. Si è trattato, quindi, di un altro anno relativamente buono per gli approdi turistici, che sono in leggera ripresa da tre anni”. Il dato, però, ha aggiunto “deve essere valutato alla luce del fatto che il giro d’affari è ancora al di sotto del 25%, rispetto al periodo pre-crisi”. Negli anni più difficili della nautica, infatti, gli scali turistici avevano perso il 35% del giro d’affari.
Assomarinas ha anche rilevato un incremento dei transiti a +7%, rispetto al 2016. Transiti che comunque, ha detto Perocchio, “non fanno la salute totale di un porto turistico, perché senza l’utenza stanziale la struttura non si regge economicamente”. Questa crescita è da attribuirsi anche al fatto che “per motivi geopolitici l’Italia è diventata molto interessante per le navi da diporto; poi il merito va ai charter, cresciuti quest’anno del 10%, e un contributo va ascritto pure al noleggio nautico, che registra una fase di prosperità”. Resta, comunque, dice Perocchio, “un forte squilibrio tra offerta di posti barca in corso di realizzazione e utenza. Negli ultimi 10 anni, sono stati costruiti ben 21.490 posti barca; inoltre 22.559 sono in costruzione e 51.696 sono in corso di progettazione. Per contro, le immatricolazioni di nuove barche nel 2015 (è dato disponibile più recente, ndr) sono state solo 600”. Fermi restando i dati, Assomarinas sta pensando a un ricorso alla corte di giustizia Ue, contro la norma che decretato l’aumento retroattivo dei canoni demaniali.
INTESA SANPAOLO
Italia vince con il maggior numero dei porti turistici più cari in classifica
Autore: Redazione
11 agosto 2017, 11:27
Ormeggiare una barca nei diversi porti di lusso in Europa può costare tra i 1.000 e 3.000 euro al giorno, a seconda della destinazione.
Secondo le stime dei consulenti immobiliari di lusso Engel & Völkers, il porto di Ibiza è quello che questa estate ha il prezzo più alto: la quota di ormeggio al giorno per uno yacht di 55 metri di lunghezza si aggira sulle 3.025 euro circa.
La seconda città marinara della lista è Capri (Italia) con il suo porto di Marina Grande, il cui prezzo giornaliero raggiunge 2.670 euro al giorno; seguita da Marina di Porto Cervo in Sardegna con i suoi 2.514 euro di tassa di ormeggio quotidiano.
Seguono altri tre porti con prezzi di ormeggio superiori ai 2.000 euro al giorno: Marina di Portofino (Italia) con 2.288 euro; Puerto Banus (Marbella) con 2.068 euro e il Porto di Saint-Tropez (Francia), il cui prezzo è di circa 2.054 euro.
Nella Top 10 dei porti europei più costosi ci sono anche Limassol Marina (che si trova a Cipro), dove la tassa di ormeggio si aggira sui 1.533 euro al giorno (costa la metà rispetto alla quota del porto di Ibiza).
Nella lista sono anche ACI Marina a Spalato (Croazia), al prezzo di 1.320 euro; Porto Ercole a Monte Carlo (l’unico porto in acque profonde di Monaco), con 1.074 euro; e Netsel Marina Marmaris (Turchia), il cui costo giornaliero è di 1.045 euro.
La Spagna e l’Italia conducono la classifica dei porti turistici più esclusivi del Mediterraneo.
Tra le motivazioni aggiunte da Engel & Völkers, si è presa in considerazione la posizione del porto turistico, la domanda elevata e la capacità limitata di questi porti.
Inoltre, influisce molto anche il costo dei servizi aggiuntivi: elettricità, acqua, rifornimento di carburante che variano notevolmente di prezzo da un porto all’altro.
Per quanto riguarda l’aumento annuale, i due porti dove si è avuto un aumento del prezzo di ormeggio del 7% rispetto allo scorso anno, sono Porto Cervo e Aci Marina a Spalato.
Infine, lo studio di Engel & Völkers assicura che le preferenze per un porto o l’altro possono cambiare a seconda del tipo di clienti. Così, mentre i proprietari di yacht optano spesso per le città italiane di Capri, Porto Cervo e Portofino, quelli che affittare le barche scelgono di attraccare a Marmaris, Montecarlo, Marbella, Saint-Tropez o Ibiza.
UNA NOTA NEGATIVA CE LA SEGNALA:
NAUTICA REPORT
I principali porti turistici italiani rischiano il fallimento
I porti turistici davanti alla Corte Costituzionale
- Il 10 gennaio la Corte Costituzionale si pronuncia in merito all’aumento retroattivo dei canoni demaniali che potrà causare ingenti danni economici.
- Stimata una perdita di oltre15.000 ormeggi e un buco di 190 milioni di euro per l’erario a fronte di un ricavo di soli 3,5 milioni.
La sentenza della Suprema Corte, che si riunirà il prossimo 10 gennaio, sarà decisiva per la sopravvivenza di 26 strutture portuali turistiche fra le maggiori del Paese.
Oggetto del contendere è l’applicazione della normativa sulle concessioni turistico-ricreative anche ai porti turistici, che ha modificato a posteriori i termini dei contratti firmati dagli investitori con lo Stato, che prevedevano per i marina una specifica legislazione riconoscendo gli ingenti investimenti connessi alla realizzazione di queste opere e la differente natura dello stesso titolo concessorio rispetto a quello delle concessioni balneari. In particolare la sua applicazione retroattiva ha reso indispensabile il ricorso alla Corte Costituzionale poiché sembra violare le norme costituzionali a difesa della iniziativa economica.
Dopo la tassa Monti – cancellata perché a fronte dei 22 milioni di euro incassati ha prodotto un buco di 800 milioni nelle casse dell’erario causato dalla fuga di 40.000 imbarcazioni – questa rischia di essere una nuova mazzata per tutta la filiera della nautica, che proprio negli ultimi mesi sta uscendo da una grave crisi durata sei anni.
Questa situazione ha causato un contenzioso legale decennale che fino ad ora ha sempre visto vincere i porti turistici – nelle diverse sedi civili e amministrative – e che il Consiglio di Stato, confermando le ragioni dei ricorrenti, ha rinviato alla Corte Costituzionale, la quale si pronuncerà il prossimo 10 gennaio
L’impatto economico
Da un lato c’è un costo stimabile in 3,6 milioni per lo Stato, spiccioli per il bilancio, dall’altro un danno per l’erario di 54 volte maggiore.
Le imprese della portualità turistica che hanno impugnato l’applicazione retroattiva della nuova normativa sui canoni demaniali sono 26 per 15.000 posti barca complessivi: 10 sono le strutture più piccole, da 100 fino a 500 posti barca, 16 quelle maggiori da 501 a 980 posti barca.
Gli aumenti annui dei canoni demaniali vanno da 45.000 a 75.000 euro, per le strutture della fascia minore, e da 100.000 a 250.000 euro annui per le strutture più grandi. Il gettito che l’erario può ottenere è pari a 3.595.000 euro l’anno.
Infatti, secondo i dati dell’Osservatorio Nautico Nazionale (ente di rilevazione, studio e monitoraggio del diporto nautico riconosciuto dal Ministero dei Trasporti), l’indotto economico a rischio è pari a 185 milioni di euro, somma che si ottiene moltiplicando l’indotto medio annuo di 12.300 euro generato da ciascuna unità per i posti barca che sono interessati dalla vicenda.
Inoltre, sempre secondo l’Osservatorio Nautico Nazionale, in media un marina turistico genera un indotto occupazionale di 92 unità, dunque in discussione c’è la sopravvivenza di 2.484 posti di lavoro, che contando il solo l’incasso diretto del fisco valgono circa altri 4 milioni di euro.
I rilievi del Consiglio di Stato
La Legge finanziaria del 2007 (art. 1, comma 252, della legge n. 296 del 2006) ha disposto l’applicazione dei criteri previsti per le concessioni turistico-ricreative anche ai porti turistici, abrogando la precedente normativa applicata ai marina (contenuta nell’art. 10, comma 4, della legge 27 dicembre 1997, n. 449), che prevedeva un meccanismo di calcolo informato a criteri incentivanti per gli investimenti con canoni inversamente proporzionali al valore degli investimenti.
Il Consiglio di Stato ha evidenziato che i rapporti concessori relativi ai porti turistici devono essere regolati dalla concessione, perché il canone è fissato dall’atto concessorio “tenendo conto dell’equilibrio economico-finanziario dell’investimento” e che la concessione:
- dispone il pagamento di un canone “ad aggiornamento annuale ai sensi della vigente normativa”,
- prevede che il concessionario dovrà ultimare l’esecuzione delle opere che è obbligato a costruire entro un periodo determinato,
- prevede investimenti complessivi per decine di milioni di euro, - alla cessazione della concessione, anche per rinuncia, le opere erette, complete di tutti gli accessori e le pertinenze, resteranno “in assoluta proprietà dello Stato senza che al concessionario spetti alcun indennizzo”
- in applicazione della nuova normativa, nella durata della concessione l’importo totale dei canoni a carico del concessionario aumenterebbe di circa cinque volte e, visto il margine complessivo dell’iniziativa previsto dal piano economico-finanziario approvato in sede di rilascio della concessione medesima, ciò renderebbe il margine negativo per diversi milioni di euro.
Nel rilevare la sostanziale diversità tra le concessioni balneari e quelle relative alla realizzazione e gestione di strutture per la nautica da diporto, il Consiglio di Stato ha inoltre evidenziato che:
- le concessioni turistico-ricreative sono in numero molto più elevato e comportano di regola investimenti modesti a carico del concessionario e sono caratterizzate da canoni irrisori, su cui il legislatore è intervenuto nel 2006 per riallinearli con i valori di mercato
- le concessioni per la realizzazione e la gestione di strutture per la nautica da diporto sono in numero molto minore, richiedono investimenti ingenti per la realizzazione delle opere strutturali, che saranno poi acquisite gratuitamente dal demanio, e che, per l’impegno gestionale, richiedono un piano di equilibrio economico-finanziario di lungo periodo
- il criterio di fissazione dell’importo del canone, individuato all’atto della concessione, è un elemento determinante del piano economico-finanziario definito tenendo conto della rilevanza degli investimenti.
- la normativa in questione, applicata alle concessioni in corso, appare violare l’art. 3 della Costituzione per il duplice profilo del trattamento uguale di situazioni disuguali e della lesione del principio della sicurezza giuridica costitutivo di legittimo affidamento.
- c’è anche una possibile violazione del principio del legittimo affidamento ingenerato nei concessionari sulla stabilità dell’equilibrio economico-finanziario di lungo periodo.
- l’applicazione alle concessioni in corso potrebbe ledere il rispetto all’art. 41 della Costituzione relativo alla libertà di iniziativa economica, poiché recante l’effetto irragionevole di frustrare le scelte imprenditoriali modificando gli elementi costitutivi dei relativi rapporti contrattuali in essere.
UCINA Confindustria Nautica
Ufficio stampa Chiara Castellari
Carlo GATTI
Rapallo, 6 dicembre 2017
TIGULLIO: LUNGA VITA AL RIMORCHIATORE MESSICO
LUNGA VITA AL
RIMORCHIATORE MESSICO!
UN MASTINO DEI MARI…
COLUMBIA-CANADA-FRANCIA-MESSICO furono costruiti dai Cantieri Navali Campanella di Savona nel 1956. Tra pochi mesi il MESSICO compirà 62 anni mantenendo il suo primo nome!! Un Record assoluto per una tipologia d’imbarcazioni da lavoro che non si é mai risparmiata… Dei suoi gemelli non ho notizie fresche…Credo siano stati tutti demoliti.
I francesi accompagnano la parola ABEILLE (Ape operaia) al nome del rimorchiatore. Nessuna imbarcazione può vantare un così azzeccato nomignolo che simboleggia l’affidabilità, l’operosità, lo spirito di sacrificio e l’infinita modestia che gli si richiede per rimediare a tutti gli inconvenienti che capitano a causa del cattivo tempo, degli incidenti, e anche degli errori ed orrori che ciclicamente succedono negli ambiti portuali.
Per quasi 20 anni, la classe COLUMBIA fu considerata per i 1300 Cv di potenza installata, la colonna portante della Flotta RR portuale di Genova. I quattro RR furono costruiti in previsione dell’entrata in servizio delle Superpetroliere da 300 metri di lunghezza e delle nascenti Portacontenitori da 200 metri.
Si fecero onore per la manovrabilità, potenza di macchina e peso dello scafo (pescava oltre 5 metri). Per noi fu un vero privilegio averle comandate e aver conosciuto dei "grandi marinai"!!!
Il MESSICO DAVANTI A PUNTA PEDALE (S.M.L.)
Quando ebbe il suo primo refitting per il cambiamento di ruolo: da rimorchiatore a Supply Vessel, il MESSICO subì la trasformazione della sezione poppiera: la coperta diventò una larga piattaforma adatta al trasporto di materiale di ogni tipo, ma in particolare delle PANNE antinquinamento. Gli furono inoltre installate due potenti spingarde antincendio. Oggi appartiene alla Soc. DRAFFINSUB ed opera "ancora" con il suo personale specializzato in lavori di manutenzione e sostituzione di tubi presso il depuratore di Punta Pedale-Santa Margherita Ligure.
IL MESSICO quando ritornava da un faticoso viaggio D’ALTURA… notare la mancanza del paglietto di prora, cioé la bardatura antiurto.
IL MESSICO QUANDO ERA IN SERVIZIO NEL PORTO PETROLI DI MULTEDO. Notare la vicinanza degli scafi.
IL MESSICO QUANDO ASSISTEVA IL SOMMERGIBILE TRITONE IN SERVIZIO TURISTICO NEL TIGULLIO.
La "bugna" che si vede sul tagliamare in tutte le foto, non solo contraddistingue il MESSICO dai suoi gemelli… ma, come un pugile suonato… esibisce il suo “naso rotto” quale simbolo di tante battaglie. Per la verità, quella bugna é il ricordo di un bacio intenso, ma troppo affrettato con una banchina...
Barriere antinquinamento
IL MESSICO EBBE ANCHE UN LUNGO TRASCORSO DI LAVORO ANTINCENDIO ED ANTINQUINAMENTO NEL PORTO DI GENOVA.
Il MESSICO si distinse, come gli altri rimorchiatori della sua classe, in tante operazioni di salvataggio, incendio, inquinamento ed emergenze varie, ne ricordiamo soltanto alcune:
Incendio ANGELINA LAURO il 28 agosto 1965
Naufragio LONDON VALOUR il 9 aprile 1970
Incendio ACHILLE LAURO il 19 maggio 1972
Incendio KARADENIZ il 14 luglio 1973
Esplosione HAKUYOH MARU il 12.luglio 1981
LUNGA VITA A QUESTO INDOMITO GUERRIERO ed un caro abbraccio ai Colleghi ed Amici che sono diventati uomini su quelle lamiere!!!
ALCUNE CARTOLINE DALLA RIVIERA DI LEVANTE
L’incantevole PARAGGI
Portofino sullo sfondo a destra
Il Pino di Aleppo, sul piccolo faraglione la "CAREGA", cresce sempre…
M/n ARETUSA
26 Ottobre 2017 - Santa Margherita L.
E' arrivata questa mattina alle 08 e riparte questa sera alle 20
Vedendola completamente surclassata dalle altre navi, che frequentano il Tigullio, verrebbe spontaneo sottovalutare la nave ARETHUSA con i suoi 60 metri, e considerarla come uno yacht dalla forma strana, ma in realtà è la prima classificata nel settore delle piccole navi da crociera.
Costruita nel 2008, naviga attualmente sotto bandiera di Malta. Ha una lunghezza totale di 60 mt. e larghezza massima di 11 mt. La stazza lorda è di 1206 tonnellate. Porta 52 passeggeri.
Plaudiamo al risveglio di certi operatori … ed ovviamente a coloro che ne approfittano!
Carlo GATTI
Rapallo, 26 Ottobre 2017
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BATTISTA BAVESTRELLO-IL CAMPANARO di RAPALLO
“Personaggi di Rapallo”
Battista Bavestrello
IL CAMPANARO
20 Apr.2017-Sala Consiliare Comune-Rapallo: presentato il 57° Raduno dei Suonatori di Campane. Battista Bavestrello é il secondo da sinistra. Il sindaco in carica, Carlo Bagnasco é il secondo da destra.
COME SI COSTRUISCE UNA CAMPANA?
L'articolazione compiuta del suono delle campane è però tanto complessa quanto la realizzazione della campana stessa. Mediamente occorrono da trenta a novanta giorni per la fabbricazione della campana. Con una sagoma di legno e ferro e con una struttura di mattoni, si dà forma all'"anima", che corrisponde all'interno della campana. Questa si copre con strati di argilla sui quali si applicano le iscrizioni e le figure in cera che formeranno la "falsa campana". Con l'applicazione di un nuovo strato di argilla si ottiene il "mantello". Mediante i carboni ardenti inseriti nell'anima si raggiunge l'essiccazione del mantello nel quale rimangono impresse al negativo le iscrizioni e i fregi (cera persa). A questo punto si solleva il mantello, si elimina la falsa campana e si ricolloca il mantello sull'anima. Il bronzo - ottenuto con il 78% di rame e il 22% di stagno - viene colato a circa 1150° in quello spazio. Si procede così alla ripulitura della campana così realizzata, prima di sottoporla alle verifiche della tonalità. Questo procedimento è affidato a sapienti artigiani depositari di antiche tecniche tramandate di padre in figlio. Le botteghe dei Marinelli ad Agnone (fin dall'anno mille), dei Clocchiatti a Campoformido, dei Picasso ad Avegno, dei Colbachini a Saccolongo e di altri artigiani veterani dell'arte campanaria, restituiscono vitalità ad una memoria pressochè dimenticata. Tradizione che non trova terreno fertile nelle nuove generazioni proiettate verso un futuro che non deve mai trascurare la tradizione.
IL SUONO DELLE CAMPANE
Testo DI F. DE GREGORI - Musica di M. LOCASCIULLI
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Ho visto uomini discutere su chi doveva sparare per primo
Uomini tirare a sorte il nome dell'assassino
E ho visto uomini in fila indiana nella notte di Natale
Aspettavano fumando il suono delle campane
Il suono delle campane
Aspettavano sognando...
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Gli uomini avvertono da sempre il fascino spettacolare sprigionato dalle campane, le cui onde sonore vibrano per le vie dei cieli e della terra da secoli e secoli. Dai rudimentali campanelli dei tempi antichi fino alle enormi fusioni usate come elemento celebrativo, quel suono ha assunto nel tempo un duplice ruolo: religioso e sociale. Lo stesso progresso sociale è scandito dall'evoluzione del loro suono. Nella liturgia cristiana, l’uso delle campane compare nel VI secolo, assumendo un ruolo centrale nelle funzioni e un'importanza architettonica e artistica nelle chiese, nei conventi e nei monasteri. Indicative sono le iscrizioni che appaiono incise nel bronzo delle campane: "Vox mea, vox vitae", "Voco vos ad sacra, venite!" (La mia voce è voce di vita-Vi chiamo agli uffici sacri, venite!)
La campana è uno strumento tanto semplice quanto carico di suggestioni, i suoi rintocchi hanno ispirato grandi compositori con il fascino di quelle note sole e pure, ma la sua forma d’arte è stata capace di suscitare elevati sentimenti e grandi emozioni anche e soprattutto nella gente comune. Da questo mondo popolare provengono i nostri maestri campanari che eseguono concerti secondo i riti e la tradizione locale: ligure, bolognese, ambrosiano e veronese che sono le più radicate nel nostro Paese.
Era l’inverno del 1982 e buona parte degli italiani si riunivano davanti al televisore per seguire in diretta la trasmissione di successo “Portobello”, che era condotta da Enzo Tortora. I rapallesi, in particolare, erano in trepidante attesa della comparsa in scena di Battista Bavestrello, conosciuto in città col nomignolo di “Bacci” il campanaro, il talentuoso musicista autodidatta che era in grado di esibirsi in solitario, in un vero e proprio concerto di dodici campane.
“Bacci” Bavestrello, al centro della foto, con Enzo Tortora durante la trasmissione televisiva Portobello
Maestro, ci parli un po’ di lei.
Sono nato a Rapallo nel 1933, ed ho iniziato a suonare le campane quando avevo poco più di venti anni. Ho fatto a lungo la “gavetta” allenandomi con le vecchie campane della Chiesa di Santa Maria del Campo, dove mio zio s’ingegnava a “suonare a cordette”, creando la giusta atmosfera di gioia e allegria durante le feste.
Quando è nata la sua attività di campanaro-concertista?
Dopo qualche anno, quelle quattro “stanche” campane furono sostituite con dodici nuove provenienti dalla ditta Picasso e, una volta appresa la tecnica del maneggio, imparai quanto di musica mi serviva per esibirmi in concerto ed anche per comporre motivi, attorno ai quali, ancora oggi, lavoro cercando per loro la forma migliore. La tecnica da me usata è quella a campane ferme: “carrilon” oppure “organo di campane a tastiera genovese”.
Prima d’ogni concerto mi alleno quattro ore il giorno per oltre un mese.
Fidenza 1988. Il campanaro rapallese “Bacci” Bavestrello, dedicò il concerto più importante della sua carriera a Papa Wojtyla.
In cinquanta anni di carriera, il mio repertorio musicale, costituito da motivi sacri e profani, è cresciuto notevolmente e lo eseguo a memoria senza spartiti. Di molti brani, come dicevo, sono anche l’autore.
Ho suonato parecchio in giro per l'Italia e amo ricordare non solo la mia partecipazione in TV nel 1982, che lei ha già menzionato e che mi ha dato una certa popolarità, ma soprattutto mi riempie tuttora d’orgoglio il ricordo di quando fui scelto, tra tanti bravi colleghi campanari, per eseguire un concerto durante la visita del Papa Karol Wojtyla a Fidenza nel 1988.
In seguito ho eseguito numerosi altri concerti in molte altre città: Chiavari, Rapallo, Genova, La Spezia, Monreale, Nicolosi, nella Repubblica di San Marino, Firenze, Milano, San Remo, Arenzano, Aosta, Rovigo, Trento, Bolzano, Ventimiglia, Reggio Emilia, Bellaria, Pioltello (MI), Vertemate con Minoprio (CO), Bovisio Masciago, Brianza, Mondovì (CN), Busca (CN) ecc.). L’ultima esibizione l’ho tenuta recentemente al Conservatorio di Genova con altri cinque colleghi.
Nel 2004 ho recitato come attore, nei panni di un campanaro e in quella di un medico nel film "L'Apprendista", un cortometraggio scritto e diretto da Giacomo Gatti.
Può descriverci la tecnica campanaria più diffusa in Liguria?
Tra le varie tecniche campanarie esistenti, una delle più antiche e diffuse in Liguria è senza dubbio quella cosiddetta ”a corde” ed è strutturata in questo modo: una catena (o corda in qualche caso) è fissata con un gancio ad una parete opposta alla campana da collegare; dalla parte opposta, tramite un altro gancio, avvicina il battaglio alla superficie interna della campana, alla metà circa di questa catena è fissata una corda che, sollecitata in senso verticale, avvicina il battaglio alla campana permettendo la percussione e quindi la produzione del suono. Secondo la maggiore o minore forza applicata, il suono sarà più o meno intenso, inoltre se il battaglio, dopo la percussione, tornerà nella posizione di partenza, la vibrazione della campana non cesserà; viceversa, se esso sarà mantenuto nella posizione di percussione, il suono sarà smorzato, ossia la vibrazione della campana si estinguerà molto presto. Grazie a questi accorgimenti, molto più difficili da applicare ad altre tecniche di percussione, il campanaro sarà quindi in grado di esprimere successioni e colori sonori differenti.
In questa istantanea di “Bacci” in concerto, si può notare l’insieme dei collegamenti che uniscono i battagli delle campane alla tastiera genovese.
Perchè lei ha adottato la tecnica a tastiera?
Mediante questa tecnica ho la possibilità di attivare un numero maggiore di note e di eseguire melodie d’ambito più esteso che non nella tecnica “tradizionale”, avendo davanti agli occhi le campane in successione e disposte chiaramente su un piano, anziché sparse nello spazio della cella campanaria. Con questa tecnica, è tuttavia più difficile eseguire accordi composti di più di due suoni o adottare accorgimenti come lo smorzato in velocità.
Può descriverci l’impianto?
Al sistema meccanico a “corde” appena descritto, è applicata una tastiera solitamente in ferro ed è fissata al pavimento. Essa presenta un numero variabile di tasti corrispondenti al numero delle campane; soltanto quando queste raggiungono il numero di dodici, si può parlare di “concerto di campane”. Per allenarmi (senza campane), uso la stessa tastiera, ma ad ogni tasto è applicato un tubo verticale di lunghezza variabile, il quale può essere costruito in legno (xilofono) oppure in metallo (vibrafono).
Cosa si prova a suonare in solitudine nella cella campanaria di una chiesa?
Il campanile è il luogo dove l’arte prende forma grazie alle melodie e di conseguenza all’arte del campanaro. Salire verso l’alto è già poesia. Le porte, le rampe di scale, l’orologio, le corde campanarie, sono l’introduzione al concerto e ultima fonte d’ispirazione. Quest’ambiente riveste quindi particolare importanza nell’elaborazione musicale. Appena chiudo la porta d’accesso al campanile, entro - per così dire - in un altro mondo, fatto oltre che di materia, anche d’odori e di colori unici. Ogni modifica di quest’ambiente da parte dell’uomo porta, a volte, ad una conseguente alterazione dell’aspetto musicale. Il richiamo dell’Angelus al calare del sole, per esempio, subisce con l’automazione le variazioni d'orario del tramonto.
Altri esempi di tali modifiche sono davanti agli occhi e nelle orecchie di tutti: si va dai campanili “virtuali”, in cui le campane registrate altrove sono diffuse con altoparlanti, alle campane automatizzate il cui sistema a telebattente, percuote la campana dall’esterno anziché con il battaglio dall’interno ed è unito, spesso, al sistema motorizzato delle ruote per il suono a distesa, per finire con la soppressione delle rampe d’accesso alla cella.
Siamo giunti al termine di quest’interessante conversazione e mi viene spontanea una domanda: è in pericolo l’antica tradizione campanaria?
Tutto ciò che ha un sapore antico, a mio avviso, è in pericolo. I giovani sono attratti dal moderno e quindi guardano nella direzione opposta alla nostra. Io credo che la nostra tradizione esisterà finché ci saranno buoni parroci che sapranno attrarre bravi giovani con la voglia di sacrificarsi per imparare, dai noi anziani, un’arte che purtroppo è faticosa, povera e in via d’estinzione. Tuttavia, devo dire che il problema mi trova più amareggiato che pessimista, infatti, noi campanari ci sentiamo un po’ abbandonati a noi stessi. Personalmente finché ho potuto ho suonato le campane con tanta fede e passione rimettendoci, il più delle volte, tempo e denaro. Oggi, da pensionato sono costretto a coltivare il mio orto per sopravvivere e, purtroppo, di sera sono stanco e non posso dedicare che pochissimo tempo al mio vibrafono (d’allenamento) che tengo in cantina.
So che il Comune di Rapallo le ha concesso un locale presso l'ex convento delle Clarisse, proprio per tramandare l’insegnamento della musica sul vibrafono ai giovani allievi, affinché l'arte campanaria non si perda. Ma se ho ben capito, lei sta dicendo che intende lasciare la sua attività?
Si! Purtroppo è così! “Picchiare” con i pestelli sulla tastiera delle campane è un esercizio ginnico duro, per il quale occorre molto allenamento da intervallare a molto riposo. Purtroppo la mia modesta economia non mi concede tempo né per l’allenamento né per il riposo. Mi creda, non spetta a me soltanto pensare a come mantenere in vita la tradizione dell’arte campanaria, tuttavia, spero che questo “messaggio” arrivi alle sensibili orecchie di chi ama veramente le nostre tradizioni. Mi creda! Fin da ragazzo mi porto addosso le nostre tradizioni come una seconda pelle, e qualora fossi un po’ aiutato, potrei ancora lottare per tenerle in vita, almeno fino a quando potrò passare il testimone a qualche giovane di talento e di buona volontà.
GATTI CARLO
Rapallo 25 Settembre 2017
CANCARONE E VINO NAVIGATO
CANCARONE E VINO NAVIGATO
Quando nel 1956 feci il mio primo imbarco da mozzo su una piccola vinacciera, sentii che l’equipaggio chiamava sia il vino di bordo sia quello trasportato, con un nome curioso e suggestivo: CANCARONE. Ma nessuno a bordo conosceva l’origine di quel nome che mi ricordava i profumi della darsena e dell’angiporto di Genova. Ero un ragazzo, ma con un ramo di parentela nel basso Piemonte… per cui mi accorsi subito quanto fosse imbevibile quel liquido che non sembrava ricavato dalla fermentazione del mosto d’uva.
Mio cugino Francesco Fidanza dal Venezuela mi telefona: "alcuni gorni fa mi e’ venuto in mente: la parola CANCARONE che a bordo veniva servito nella classica caraffa di vetro, la raffinatezza era che veniva servito ‘freddo di frigorífero'. Nonostante tutto, si svuotava... e si poteva vedere la macchia rosso scura che lasciava quel liquido chiamato Cancarone. Poi, gli armatori meno spilorci, il giovedi e la domenica ci donavano il vino in bottiglia (con il tappo di sughero ) che era la versione di LUSSO dello stesso cancarone, in effetti se ne bevevi due gotti, ti veniva il mal di testa..."
L'amico Nunzio C. ricorda che alla fine degli anni '40, prima dell'avvento in Italia della Penna a sfera (la famosa biro), molti marittimi usavano il CANCARONE come inchiostro per scrivere a casa...
“La colpa é del mare mosso e delle vibrazioni del motore – mi spiegavano – che non permettono il deposito delle 300 sostanze di cui é composto il vino”.
Per una volta tanto la famiglia caino di bordo: “il cambusiere”, veniva assolto insieme ai suoi collaboratori della sezione cucina.
Tempo addietro trovai persino la definizione di questo strano nome: VINO CANCARONE
CANCARONE
Non è un tipo di vino né un nome. Si usa soprattutto in Liguria, la dizione si rifà ad un brano del celebre scrittore sanremese Italo Calvino per indicare un vino scadente, che costa poco e vale meno.
In certi ambienti viene usato anche un altro nome:
TRAGLIA
Qualcosa di scarsa qualità, generalmente riferita a vino o alcolici in generale. In un impeto di internazionalizzazione è stato anche sostituito con l’inglesismo "cancaron".
Espressioni collegate: "E’ una traglia" - "Che vino molto “cancaroni!"
Sono proposte di Max (Kroy), area genovese in particolare di Rapallo.
Nel novembre del 1932, entrò il linea il CONTE DI SAVOIA che fu il primo piroscafo a essere dotato di enormi giroscopi stabilizzatori per diminuire il rollio ed il beccheggio in caso di maltempo. Da quel giorno anche i SOMMELIER DA CANCARUN fecero un salto di qualità...
LA NOVITA’
Dopo tanti anni di oblio, é ritornata di moda un’altra definizione che però certifica un’altra tipologia di vini, questa volta di buona qualità:
VINO NAVIGATO
Albenga: La sezione di archeologia sottomarina, ospitata nel Palazzo Peloso Cepolla, pregevole edificio del primo Seicento, è sorta nel 1950 in seguito al ritrovamento, sui fondali dell'isola Gallinara, di una nave oneraria degli inizi del 1 sec. a.C. Nel Museo, in corso di risistemazione, sono esposti resti dello scafo, e materiali recuperati durante le varie campagne di scavo, e soprattutto un gran numero di anfore vinarie, collocate secondo la disposizione originaria del carico.
L’interno dell’anfora da vino era impermeabilizzato con pece e resine, da cui il termine "vino resinato", mentre l’imboccatura veniva chiusa con un tappo di sughero spalmato di pece ma anche da appositi tappi di ceramica sigillati con calce o pozzolana.
Portofino/Santa Margherita Ligure. Quelle anfore pescate il 27 maggio 2016, alla fine hanno condotto al vero tesoro: una nave da carico romana del II – I secolo a. C., affondata al largo di Portofino. Le anfore, riportanti i bolli del generale Lucio Domizio Enobarbo indicano con esattezza la loro provenienza, la fornace e lo schiavo che le aveva realizzate. Vista la loro grandezza, da subito si era ipotizzato che facessero parte di un grosso carico di vino di una nave di notevoli dimensioni.
Questi reperti archeologici della nostra regione, dimostrano che la storia del Vino Navigato si perde nella notte dei tempi e ci raccontano di quel vino ligure che viaggiava tra le sponde del Mediterraneo sulle navi onerarie romane e non solo, quando una su tre affondava a causa del Mistral, e le sopravvissute naufragavano prima o poi sulle coste della Riviera a causa del libeccio. Non é quindi un caso, che in seguito a questi naufragi esistano tante anfore recuperate che oggi rivivono nei nostri musei.
Non solo anfore potremmo dire, ma anche qualche segreto che oggi riemerge in forma direi turistica e commerciale.
Ma di cosa si tratta?
Si dice che furono i “marangoni genovesi” (sommozzatori e palombari, provetti nuotatori di superficie e in apnea, famosi fin dal 1300) a localizzare numerosi relitti romani recuperando le anfore che erano rimaste indenni dalle mareggiate. I nostri avi che erano più interessati al contenuto che alle anfore-container dell’epoca, fecero una interessante scoperta: quel vino navigato e invecchiato per un destino avverso… era migliore di quello di terra. Ma come spesso succede in questa terra ligure un po’ arcigna e impregnata dei “si dice…manaman”, certi segreti rimasero sepolti sul bagnasciuga dei porticcioli, forse all’interno di qualche calata privata e protetta, tana e patrimonio di pochi fortunati intenditori! Tuttavia qualche fuga di notizie ci fu nella lunga e variegata storia locale che poi si é tramandata attraverso piccoli cunicoli fino ai giorni nostri!
Ecco, improvvisamente rispuntare i primi esperimenti di vino, (anche champagne pregiato, si dice…), che viene affondato ad oltre 50 metri di profondità per essere conservato, anche un anno intero, in gabbie opportunamente ancorate e accarezzate dall’acqua di mare pulita e mai mossa, con poca luce e tanti profumi sconosciuti tra i mortali che vivono in superficie.
E’ inutile girarci intorno… Oggi il termine Vino Navigato, é abusato e copiato per ovvi scopi pubblicitari e turistici, ma non vanno dimenticati i secoli di fatica, sudore e rischi di navigazione: unici elementi che conferivano, in maniera naturale, un gusto davvero speciale al vino. Sulla scia di quanto detto, il nostro pensiero corre innanzitutto al RICORDO dei nostri Leudi, ai quali abbiamo già dedicato un’ampia rassegna di saggi e articoli sul Sito di Mare Nostrum Rapallo.
L’ultimo Leudo di Sestri Levante: Nuovo Aiuto di Dio
RICORDI di quando il vino era una specie di santo “pellegrino” che viaggiava via mare in botti di rovere sui Leudi, una tipologia di imbarcazioni in uso in tutto il Mediterraneo fino alla fine del Novecento.
Il LEUDO fa parte della nostra storia e della nostra tradizione. Quest'imbarcazione aveva il compito di trasportare tutti i generi di prima necessità, a partire soprattutto dal vino.
Tradizionali erano gli scambi con l'Isola d'Elba, ma anche con la Sicilia e la Corsica.
L’ultimo Leudo rimasto è il "Nuovo aiuto di Dio" di proprietà del dottor Gian Renzo Traversaro presidente dell'Associazione "Amici del Leudo" che è stato restaurato e ha potuto riprendere il mare nel 2011.
Sul "Nuovo aiuto di Dio" imbarcò Agostino Ghio "Giustinin" (Ancora d'Oro nel 1961) che fu anche timoniere di Guglielmo Marconi sulla celebre Elettra.
“Nel 2012 – racconta il dott. Traversaro - in una delle riunioni invernali per le opere da eseguire, mi è balenata un'idea, forse pazza, ma interessante: riprendere i commerci con il Leudo ed in particolare quello del vino con l'Isola d'Elba e l'isola del Giglio”.
Una bella notizia di questi ultimi anni riguarda quindi il ritorno al passato… Da questa antica tradizione, il vino Navigato riprende le vie del mare nostrum a bordo della bombata coperta del primo LEUDO restaurato da appassionati privati. Ascoltiamone il racconto di un anonimo testimone:
“Quel vino rischiava di non essere prodotto a causa del mancato varo del Leudo Nuovo Aiuto di Dio determinato da problemi tecnici, ma un gesto di solidarietà ed amicizia, tipica delle buone tradizioni marinare, ha salvato la situazione! È stato il Leudo Zigoela, capitanato dal patron della Compagnia delle Vele Latine, Roberto Bertonati, a trasportare il prezioso nettare degli dei. Il ricavato della vendita del vino, apprezzato da consumatori ed esperti, servirà per rimettere in sesto il Nuovo Aiuto di Dio.
Così il 29 settembre 2014 il benemerito Leudo Zigoela è salpato dal golfo di La Spezia alla volta di Vernazza, nelle Cinque Terre, custodendo nel suo ventre il vino della Cantina Sassarini.
Dopo aver preso contatti con alcune cantine produttrici dell’Isola d’Elba, abbiamo trovato due bottifici ancora attivi a Marsala che ci hanno fornito le botti per il trasporto. Ad attendere l’arrivo delle botti, non solo presenziava il sindaco Vincenzo Resasco, ma anche i ‘vinacceri’ Andrea e Daniele Ballarini e i rappresentanti dell’ Associazione Amici del Leudo Ugo Rocca e Giordano Veroni. Nel Settembre del 2012, quarantaquattro anni dopo l’ultimo viaggio commerciale che fu appannaggio proprio del Nuovo Aiuto di Dio, è stata riaperta “La Via Dei Leudi”.
Andrea Ballarini, imprenditore, ristoratore e socio degli amici del Leudo ci informa che: i progetti per il Vino Navigato di quest’anno sono ambiziosi. Alla “Stella Maris”, che farà affinamento in botte immersa nelle acque del nostro mare, si affiancheranno due nuovi prodotti che vedranno la luce grazie ad una collaborazione con il Museo di Sestri nella persona del direttore Fabrizio Benente.
STELLA MARIS IL VINO DEL LEUDO “NUOVO AIUTO DI DIO”
L’armatore Gian Renzo Traversaro parlandoci del naufragio del Leudo predecessore il "Nuovo Aiuto di Dio", avvenuto all’altezza delle secche di Vada, ci disse che durante quel triste epilogo, si seppe di anfore e botti di imbarcazioni affondate che avevano perfettamente mantenuto, se non addirittura migliorato il gusto de loro prezioso carico. Nacque un’idea. Ce la può raccontare?
“Certamente! Con un attento studio sulle botti e sui tempi abbiamo voluto creare una cosa unica immergendo in mare per sei mesi una serie di botti in una località segreta a Sestri Levante.
Il legno agendo da membrana osmotica ha poi regalato al vino altre note preziose facendolo acquistare in struttura e sapidità.
Fu scelto un nome speciale: “Stella Maris” un punto cardinale della devozione dei nostri marinai fin dall'antichità; in ebraico antico significa anche “goccia di mare”.
Ma per avere contezza del tempo che passa, andiamo ancora un po’ indietro e leggiamo che nel 1876 Bartolomeo Bregante iniziò a commercializzare il cosiddetto "vino navigato" lungo le rotte del Mediterraneo con una piccola flotta di Leudi.
Il Maestro d’Ascia Antonio Muzio detto anche “Tunin Capetta”
Di nuovo messo in secco nel 2013 per lavori all'albero maestro il leudo, costruito dai maestri d'ascia sestresi nel 1923, e' tornato a veleggiare. 'Il nuovo aiuto di Dio' che trasportava vino tra la Sardegna e l’Elba fino alla fine degli anni '50, in estate raggiungerà il porto di Marciana Marina (Elba) seguendo l'antica rotta dei vinacceri.
Dimensioni principali del “NUOVO AIUTO DI DIO”
Lunghezza fra le Pp. ................................................................ | mt. 14,670 |
Lunghezza fuori tutto ............................................................. | mt. 15,320 |
Larghezza massima fuori Fasciame Ponte Coperta ............ | mt. 4,680 |
Larghezza massima fuori Ossatura Ponte Coperta ............. | mt. 4,550 |
Larghezza massima fuori Fasciame Orlo Impavesata......... | mt. 5,300 |
Altezza P. Coperta dalla L.C. alla Retta Baglio .................. | mt. 1,050 |
Bolzone ..................................................................................... | mt. 0,750 |
Immersione massima dalla L.C. sulla Pp. AV. .................... | mt. 0,850 |
Immersione massima dalla L.C. sulla Pp. AD. .................... | mt. 0,930 |
Di ritorno a Sestri, il vino veniva trasportato in botti di legno della capacità di 600/800 litri e veniva caricato sia nelle stive che in coperta.
Prima delle mareggiate invernali i Leudi venivano tirati a riva. Oltre all’equipaggio partecipavano a questa manovra anche i passanti ed i turisti.
Unico esemplare esistente di ‘Argano a mano’ per virare il Leudo a riva.
(Museo Marinaro Tommasino-Andreatta. Foto C.Gatti)
I Leudi normalmente trasportavano fino ad un massimo di 300/500 botti che venivano gettate in mare con la stessa tecnica di sempre: spinte verso terra, tra lo stupore dei turisti festanti, da qui venivano rotolate sulla spiaggia per essere caricate e destinate all’imbottigliamento.
Il vino così prodotto e maneggiato in questo microcosmo costiero delle nostre parti, prese il nome di NAVIGATO in quanto assunse caratteristiche importanti nei gusti, dovute alla salsedine ed al "legno" della botte che, assieme ai continui movimenti durante il trasporto, ne definiscono in maniera unica ed antica il sapore. Un prodotto difficile, ma sicuramente unico in tutto.
Quando un Leudo era carico, la linea di galleggiamento era molto bassa.
Il Leudo era una imbarcazione molto stabile ma non era veloce. Era preferibile navigare con il vento a favore perché cambiare il bordo della vela era una manovra complicata.
CARLO GATTI
Rapallo, 7 Settembre 2017
IL GIGLIO DI MARE
IL GIGLIO DI MARE
IL RE DELLE DUNE
Sulle spiagge crescono e sbocciano i fiori??
La spiaggia, non è solo una distesa di sabbia o ciottoli, ma un complesso ecosistema, in cui vive una vegetazione testimone di raffinate strategie adottate dalla vita per occupare tutti gli spazi possibili anche i più ostili. A questo tipo di vegetazione appartiene il Giglio di mare (nome scientifico Pancratium maritimum) tra le piante più ornamentali e belle da ammirare sui litorali sabbiosi. Il suo areale di distribuzione è esteso a tutte le regioni del mediterraneo ma in Italia è una specie rara, o è divenuta tale, a causa della rarefazione continua del suo habitat. In Liguria, la fascia di terra che progressivamente portava alla fine della spiaggia chiamata duna non esiste più, ora ci sono gli stabilimenti balneari, la passeggiata, le strade, le case e i parcheggi.
All’incirca sino al dopoguerra su quasi tutte le spiagge della costa ligure si poteva ancora ammirare la fioritura dei gigli di mare, una testimonianza la possiamo trovare negli scritti di Camillo Sbarbaro risalenti al maggio del 1945 a Spotorno: “E’ fiorito sulla spiaggia il giglio di mare; scendo a coglierne; dalla strada un passante mi grida lì tutto è minato”.
Alcuni esemplari hanno tentato o sono riusciti a rifugiarsi in zone più protette o dove per alcuni fattori le caratteristiche di naturalità necessarie alla loro sopravvivenza si sono mantenute.
Il giglio di mare il cui nome in greco significa tutta forza, faticosamente cerca di resistere come dimostrato da studi condotti dall’Università di Genova, in tre siti in Liguria: a Cavi di Lavagna (sembrerebbe piantato da Lord George C. Byron) a Varigotti e tra Ceriale e Albenga.
IL GIGLIO DI MARE
Il giglio della sabbia, lo conosci?
fragile più di ogni altro,
s'alza solo dove il tempo s'arresta,
lì, presso la scogliera immensa,
più d'un giorno non dura,
breve come il miraggio
della maga anche lei sola,
le bestie la cerchiano e le rupi,
brune ancelle nella sosta
tra il gioco della palla e i panni stesi
del fiore e di parole riempirono i canestri,
anche al naufrago appare
e lo consola.
Umberto Piersanti
L'albero delle Nebbie
Credevo di essere un uomo di mare a tutto campo per l’interesse che ho sempre sentito per tutto ciò che si muove in mare e sulla costa, ma la mia presunzione ha subito un duro colpo quando ho ricevuto questa fotografia dal mio amico Nunzio Catena di Ortona.
Giglio di mare (Pancratium maritimum)
Pancratium maritimum è una pianta profumatissima, perenne bulbosa, con fusto alto sino a 40 cm e ampie foglie lineari. I fiori, da 3 a 15, bianchi e lunghi fino a 15 cm, sono riuniti in infiorescenze ad ombrella; si aprono tra luglio e ottobre. I fiori hanno un profumo intenso e persistente di giglio, che diventa percepibile principalmente durante le notti d'estate senza vento. E’ facilmente coltivabile, ma richiede una posizione molto soleggiata e un terreno sabbioso molto ben drenato. Ha bisogno di estati calde per indurre la fioritura, mentre una fioritura timida può avvenire in climi più freschi. Tollera temperature fino a circa -5°. La propagazione avviene per seme o divisione dopo la fioritura. Piantine possono fiorire nel loro terzo o quarto anno di vita.
Il frutto é una capsula contenente semi neri lucidi di forma irregolare. I semi galleggiano, cosicché la disseminazione avviene anche tramite le correnti marine!
Cresce sui litorali sabbiosi del Mar Mediterraneo e del Mar Nero, dal Portogallo, Marocco e lee Isole Canarie fino a est in Turchia, Siria, Israele e Caucaso. Può essere osservato anche nella Bulgaria meridionale e nel nord della Turchia e sulle coste della Georgia nel Mar Nero, dove la specie è minacciata di estinzione
In Italia lo si può osservare sulle dune costiere di Veneto, Liguria di Ponente, Emilia-Romagna, Toscana, Lazio, Abruzzo, Puglia, Calabria, Sicilia e Sardegna.
Progetto Giglio di Mare
Il suo habitat ideale è sulle dune sabbiose, in posizione retrodunale. Pianta protetta a rischio di estinzione per la scomparsa dei siti idonei per il suo ciclo vitale, per il calpestio estivo dovuto al turismo, per la recisione del fiore. Dichiarata specie vegetale protetta ai sensi della Legge Regionale n°56/2000 che ne vieta il danneggiamento, l’estirpazione, la distruzione e la raccolta.
UN PROTOCOLLO PER LA CONSERVAZIONE DEL GIGLIO MARINO.
Il giorno 19 Ottobre 2012 tra il CRISBA (Centro Ricerche Strumenti Biotecnici nel settore Agricolo-forestale) dell’ISIS “Leopoldo II di Lorena” e l’Associazione “Terramare”, è stato firmato un protocollo d’intesa fra i due soggetti per la raccolta di alcuni campioni di seme di Pancratium maritimum finalizzata alla propagazione della specie in modo tale da produrre un numero sempre più consistente di piante da destinare alla messa a dimora nelle aree dunali maremmane.
Il CRISBA ha attivo ormai da alcuni anni un programma di propagazione da seme autoctono di questa specie, finalizzato alla reintroduzione in ambiente delle piante ottenute; ad oggi sono state effettuate molteplici piantumazioni nelle dune del territorio provinciale con alte percentuali di attecchimento delle piante messe a dimora. L’Associazione Terramare collabora a queste progetto e ne ha ampliato le finalità attivando con il CRISBA un piano di monitoraggio e mappatura del Giglio di mare nel nostro territorio.
Si tratta di un’iniziativa, svolta in collaborazione anche con Treart Srl, ISIS “Leopoldo II di Lorena” e Provincia di Grosseto, alla quale ciascuno di voi può partecipare segnalando l’avvistamento di uno o più esemplari di Giglio di mare nelle nostre dune!
I dati raccolti, una volta verificati, arricchiranno una mappa satellitare interattiva che consente di monitorare la diffusione della specie vegetale in Maremma e di conoscere lo stato di salute delle nostre dune.
Riporto una interessante spunto dal web:
Caro……
il Pancratium maritimum produce centinaia di semi, molto ben visibili perché grandi come un fagiolo. Se sei talmente preoccupato per la possibile scomparsa di questa specie, puoi attivarti andando a raccoglierne in buona quantità, prima che si secchino al sole inutilmente, e cominci a sotterrarli nella sabbia nei punti chiave come da tempo faccio anch'io. Ci sarà quindi chi ruba le piante e chi la andrà a ripiantare.....
E' molto semplice quindi poter fare qualcosa per aiutare la natura nel suo difficile cammino di sopravvivenza, basta muovere le gambine e spremersi un po' di sudore....
Una rimarchevole inziativa:
21 Apr 2017
Chiavari: la colonizzazione del Giglio Marino
Questa mattina ha preso l’avvio il progetto di colonizzazione del giglio marino, con la piantumazione delle specie in via di estinzione sul litorale chiavarese.
Il Comune di Chiavari, in attuazione del “Progetto di Utilizzo Comunale delle Aree Demaniali Marittime”, approvato nel 2015, in accordo con le previsioni del Piano di Tutela dell’Ambiente Marino e Costiero e secondo le indicazioni della D.G.R. 129/2011 del Settore Ecosistema Costiero della Regione Liguria, sta favorendo la rinascita della vegetazione spontanea costituita da psammo-alofile (da psammos e alos che significano sabbia e sale), cioè di quelle piante esclusive o quasi degli ambienti marini, ormai estinte sui nostri litorali (tra le quali il bellissimo Giglio Marino (Pancratium Maritimun), nella spiaggia posta in aderenza al Porto Turistico, e sottostante la passeggiata a mare Lungo Porto Don Giussani, in particolare nella fascia più prossima al mare del sistema dunale.
A tale fine, l’Amministrazione Comunale ha realizzato due aiuole (di mq. 300 e mq. 375 ciascuna) che hanno uno scopo dimostrativo, teso a diffondere la conoscenza della biodiversità e il rispetto per la natura.
In particolare, le aree riservate alla vegetazione psammofila spontanea sono state realizzate con materiale prelevato dalla spiaggia originaria o proveniente dalle operazioni di dragaggio per la realizzazione della nuova darsena, comunque evitando ghiaie e materiale grossolano.
Sono state leggermente rialzate rispetto al piano spiaggia e compartimentate mediante fascinature in modo che favoriscano la stabilizzazione del materiale, e creino artificialmente una duna embrionale nella quale possa insediarsi la vegetazione pioniera, e al contempo delimitino e segnalino l’area.
Verranno posti, per ciascuna aree, dei cartelloni esplicativi indicanti gli obbiettivi di salvaguardia e i divieti vigenti.
Una volta realizzate le aree verranno individuate graficamente su cartografia almeno in scala 1:2000 e detto inquadramento cartografico, ed ogni successivo aggiornamento, verrà inviato al Settore Ecosistema Costiero della Regione Liguria.
L’area verrà costantemente mantenuta attraverso interventi di ripristino della delimitazione in fascinatura e della cartellonistica e soprattutto attraverso un costante servizio di pulizia manuale da eventuali rifiuti e vegetazione infestante.
Il Comune eseguirà un monitoraggio delle aree, consistente almeno in un reportage fotografico da realizzarsi una volta l’anno nel periodo da maggio a settembre.
Collaborazione con l’Università di Genova
Volendo accelerare il processo di colonizzazione della vegetazione in maniera attiva, il Comune di Chiavari ha instaurato una collaborazione di tipo scientifico per il monitoraggio botanico dell’area con il DISTAV, (Dipartimento di Scienze della Terra, dell’Ambiente e della Vita), presso l’Università degli Studi di Genova, rappresentata dal Prof. Mauro Mariotti, per la conservazione dei fiori di spiaggia, per la specifica consulenza scientifica, il supporto al reperimento del materiale e la predisposizione di specifici indirizzi per la gestione.
Progetto con le scuole
Questa mattina, il progetto ha preso avvio mediante la piantumazione delle prime specie da parte di Studio Gardenstudio e dei giardinieri comunali, con la partecipazione degli studenti delle scuole di Chiavari.
Questo è stato possibile grazie alla collaborazione con Il Laboratorio Territoriale Tigullio (gestito dalla Cooperativa Terramare), che ha realizzato un percorso didattico sviluppato con le Scuole secondarie di primo grado del Comune di Chiavari, con il coinvolgimento di due classi.
Presenti alle operazioni di piantumazione l’Assessore all’Ambiente Nicola Orecchia, la Dott.ssa Isabella De Benedetti e Nicolò Mora dell’Ufficio Demanio Marittimo del Comune di Chiavari, il Prof. Mauro Mariotti dell’Università degli Studi di Genova (DISTAV) la Dott.ssa Elena Montepagano del Settore Ecosistema Costiero e Acque, Dipartimento Territorio, Ambiente, Infrastrutture e Trasporti della Regione Liguria, nonché gli studenti e le insegnati delle classi IE della Scuola Secondaria di Primo Grado Ilaria Alpi Istituto Comprensivo Chiavari II e la IIB della Scuola Secondaria di Primo Grado “Della Torre” Istituto Comprensivo Chiavari I, ed il Dott. Giacomo Goria, dello Studio Sciandra & Associati.
Così dichiara l’Assessore Orecchia: “Siamo molto soddisfatti di questo progetto ambientale che si prefigge di diffondere la conoscenza della biodiversità ed il rispetto per la natura, con una particolare attenzione alle specie di vegetazione marina spontanea delle psammofile, ormai estinte sul nostro litorale, cui appartiene, ad esempio, il bellissimo Giglio Marino, che vorremmo potesse tornare ad abbellire le nostre coste. Ringraziamo per la preziosa collaborazione tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questa iniziativa…
- La modernità ha fallito. Bisogna costruire un nuovo umanesimo altrimenti il pianeta non si salva.
(Albert Einstein)
Credo che avere la terra e non rovinarla sia la più bella forma d’arte che si possa desiderare.
(Andy Warhol)
Grazie a Dio gli uomini non possono volare e devastare il cielo come hanno fatto con la terra.
(Henry David Thoreau)
Su questa spiaggia di Ortona (Abruzzo) oggi, 31 luglio 2019, é stata scattata la fotografia che tutta Italia e, forse tutto il mondo, sogna di poter avere sotto i propri occhi: una prateria di profumatissimi e rari GIGLI DI MARE.
Si dà il caso, che proprio in questo periodo, e proprio per questa spiaggia, verrà decisa la sorte di questo magnifico RE DELLE DUNE. Sul suo destino incombono richieste d’impianti balneari che ne decreterebbero l’estinzione.
La ridente località abbruzzese ha una grande responsabilità:
vincere una guerra di civiltà!
Tutta Italia é con voi!
Carlo GATTI
Rapallo, 11 Agosto 2017
GIUSEPPE PETTAZZI UN RAPALLESE DA RICORDARE!
Ing. GIUSEPPE PETTAZZI
Un rapallese da ricordare
L'INGEGNER GIUSEPPE PETTAZZI REALIZZO’ NEL 1938 LA STAZIONE DI SERVIZIO FIAT, OGGI SIMBOLO UNESCO
Sopra: l’inaugurazione della Fiat Tagliero ad Asmara il 28 Ottobre 1938. Presenti le massime autorità gerarchiche del tempo. A sinistra, in completo scuro, si riconosce il Duca Amedeo di Savoia-Aosta, l’Eroe dell’Amba Alagi, che il 3 Marzo 1942 morirà a Nairobi, prigioniero degli Inglesi. Medaglia al Valor Militare.
La Rai nazionale si è interessata alla Fiat Tagliero di Giuseppe Pettazzi con due filmati tratti da due trasmissioni della Grande Storia di Paolo Mieli e Massimo Bernardini. Altri edifici di quel tempo, sempre in Eritrea sono fotografati in altre località come “Dire-Daua”, “Dessiè”, “Gondar”, “Mogadiscio”, “Adis Abeba”. Sono altresì rappresentate tramite fotografie panoramiche, le “Torri Balilla al mare e sulle Alpi” che vengono proposte come colonie Fiat per bambini con slogan come: “attraverso le miriadi e miriadi dei vostri figli si ha la certezza assoluta della continuità nei secoli della nostra “Patria”.
Per quest’ultimo edificio, la rassomiglianza con la nostra Colonia Fara di Chiavari è straordinaria, non solo nella struttura centrale ma anche nelle due terrazze laterali. L'accostamento tra la Ex Colonia Fara e le nuove costruzioni nell'Ex Cantiere Navale, è giustificato dalle architetture razionaliste e variegate della zona Preli, e anche molto criticate, come riportato dalla stampa locale.
Sopra: da ”Il Corriere della Sera” del 12 Luglio 2017, articolo di Guido Santevecchi
Progettazione della Fiat Tagliero, con i timbri originali degli uffici asmarini
Luigi Frugone
... e parte della sua libreria
Sono sotto gli occhi di tutti gli arrotondamenti dei terrazzi per creare una architettura "razionalista" simi- lare a quella della “Torre Fara”, e avendo conosciuto una persona che ha moltissimi libri di Futurismo, Art Decò e Razionalismo cioè il Signor Luigi Frugone chiederemo a lui un suo giudizio ed un commento da profondo e appassionato conoscitore dell'argomento.
Questa nuova conoscenza è straordinariamente significativa ed emozionante per aver riportato di attualità l'opera della Fiat Tagliero di Giuseppe Pettazzi. Pensate .... due persone che in parallelo si interessano della stessa cosa per anni e si appassionano all'argomento ma che non si conoscono affatto, anche se uno sapeva che l'altro esisteva e viceversa. Ma l'incontro ad una cena degli "Amici del Monte" ha creato il contatto. Ecco che Frugone, con una immagine straordinaria presenta subito una inedita Colonia Fara e uno ZEPPELIN che gli sorvola intorno!!! Naturalmente lo Zeppelin non è mai passato a Chiavari, ma “Photo-shop” sì.
Dopo questa emozionante presentazione, nel totale disinteresse, si sono scambiati subito i propri “ritrovamenti”. Frugone aveva disegni inediti con timbri colorati originali che ha ottenuto dal Municipio di Asmara .... e dall'Ufficio Storico del Museo Fiat di Torino, senza sapere, per anni, che i figli di Pettazzi erano a 50 metri dai suoi innumerevoli libri di futurismo. Chissà cosa ne avrebbe pensato Filippo Tommaso Marinetti, il fondatore del Futurismo che fu la prima avanguardia storica italiana del Novecento.
Filippo Tommaso Marinetti
Una foto da lui proposta della Colonia Fara
Inoltre Andreatta aveva una serie di foto avute dalla famiglia Pettazzi che Frugone non possedeva. E' stato uno scambio disinteressato e assolutamente culturale! E' storia recente che, gli autorevoli quotidiani nazionali e locali hanno finalmente portato alla luce lo straordinario lavoro degli Architetti e degli Ingegneri Italiani che progettarono un’urbanistica citata come “esempio mondiale di architettura modernista”. Si viene altresì a sapere che il Politecnico di Milano formerà tecnici eritrei per il restauro del patrimonio culturale e architettonico di Asmara, nell’ambito di un progetto finanziato con quasi 300.000 euro dall’Unione Europea. Lo ha precisato l’architetta Susanna Bortolotto dell’ateneo milanese, contattata da askanews dopo che l’Unione Europea ha riferito del coinvolgimento del Politecnico nel progetto intitolato “Capacity building for safeguarding Asmara’s historic urban environment”. Bruxelles ha infatti annunciato di recente il via libera a un finanziamento di 297.721,87 euro per le attività di valorizzazione e tutela del patrimonio di Asmara, “unico al mondo”, che fa della capitale eritrea la “città modernista del continente africano” candidata a diventare patrimonio Unesco. Ed infatti l'Unesco, nella sua sessione annuale in corso a Cracovia nel Giugno 2017, ha dichiarato Asmara Patrimonio dell'Umanità, inserendola nella lista World Heritage. La capitale dell'Eritrea è il primo sito del Paese africano a entrare nel Patrimonio, come "città modernista d'Africa", in riferimento alla sua struttura urbanistica, che porta la firma degli architetti italiani della fine dell'Ottocento e soprattutto del Ventennio.
Il progetto, presentato dall’Asmara Heritage Project e dalla municipalità di Asmara, prevede il completamento del “Con- servation Master Plan” della città e un corso per la conservazione, tutela e valorizzazione del patrimonio edilizio e attività che incentivino la consapevolezza e il coinvolgimento dell’opinione pubblica. L’Asmara Heritage Project implementerà parte del progetto in collaborazione con il Politecnico di Milano”, si legge nella nota diffusa dall’Unione Europea. “L’affascinante capitale dell’Eritrea – ha concluso Bruxelles – con un perimetro storico di circa 4.300 edifici censiti all’interno di un’area di 480 ettari, potrebbe anche diventare presto il primo sito Unesco Patrimonio dell’umanità dell’Eritrea”. E naturalmente quale sarà il simbolo di questo progetto, senza dubbio la Fiat Tagliero dell’Ingegner Giuseppe Pettazzi.
Ed ancora.... ricevo un Email da Luigi Frugone in cui ci parla di una mostra a Parigi presso l'Ambasciata Eritrea per perorare la causa di Asmara e delle sue architetture come “patrimonio dell'Umanità” con la Stazione di Servizio Fiat Tagliero, naturalmente, come simbolo più significativo. L'esposizione art deco di Asmara è stata inaugurata a Parigi all'ambasciata dell'Eritrea. Sua Eccellenza Hanna Simon, ambasciatrice dell'Eritrea in Francia, ha aperto l'esposizione. L' Ambasciata ha dichiarato che l'esposizione si svolge con il tema "Asmara: la città dei sogni". Questa mostra vuole attirare l'attenzione internazionale e le persone di cultura per visitare questa città e aiutarla a preservarne l'eredità. L' esposizione vuole contribuire al dibattito sulla valutazione del modernismo classico, la globalizzazione dell'architettura moderna, il suo valore storico e gli effetti sull'urbanistica.
Tuttavia, Asmara è l'unica grande città al mondo dove tutta una varietà di movimenti architettonici sono riuniti insieme. Pertanto, Fiat Tagliero, ideata e costruita da Giuseppe Pettazzi è diventata un pò il simbolo di Asmara e di tutta l'Eritrea, e vediamo la sua immagine riportata sulle magliette e sulle borse per farla conoscere al mondo. L'immagine di questa modella è stata fornita da Lugi Frugone, così come una serie di Magliette che arriveranno al più presto dall'Asmara con corriere internazionale. Riportiamo qui di seguito gli articoli dei quotidiani La Repubblica, Il Corriere della Sera, Il Giornale, Il Secolo XIX e il Nuovo Levante.
La famiglia Pettazzi è certamente grata a questi quotidiani che hanno voluto portare alla luce una storia ormai dimenticata, ma che andava certamente ricordata anche in memoria di chi ha perso la vita e di chi, al di la di ogni convinzione politica ha così tanto sofferto in certi periodi della propria esistenza. Perchè sono principalmente quelle ali di cemento che hanno fatto volare Asmara, capitale dell'Eritrea, fino al riconoscimento più alto, quello del patrimonio dell'UNESCO.
E se non fosse stato per questa improvvisa notorietà globale che ha travolto Asmara, di certo pochi si ricorderebbero di Giuseppe Pettazzi, Ingegnere di origine piemontese che dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, scelse Rapallo in Liguria come rifugio in cui custodire e conservare il passato, nel tentativo, dopo cinque anni di prigionia in India, di ricostruirsi un futuro.
S.E. Hanna Simon, ambasciatrice eritrea in Francia, che ha aperto l’esposizione Art Decò di Asmara, inaugurata a Parigi all’ambasciata eritrea.
Progetto World Heritage. Asmara “città modernista d’Africa
Alcuni gadget per l’evento Unesco
Nella zona dove stanno sorgendo le nuove costruzioni della Società “Gli Scogli Srl”, il cantiere navale Gotuzzo vi costruì e varò oltre 125 velieri oceanici. Per comprendere come appariva il litorale all’epoca eroica della vela possiamo guardare il dipinto di Amedeo Devoto riportato qui sotto, raffigurante la stessa zona, nel 1919, quando ben cinque velieri erano contemporaneamente in costruzione. Sulla destra, il Cantiere Navale dei Gotuzzo, edificato nel 1912, dopo oltre cinquant’anni di lungaggini burocratiche, con uno stile assolutamente armonico rispetto al territorio.
Sotto: da “La Repubblica” del 17 Luglio, articolo di Massimo Minnella.
VITA E COERENZA DI GIUSEPPE PETTAZZI
“FORTUNATO SOPRAVVISSUTO” - “RAPALLINO DI ADOZIONE”
PARTECIPÒ NEL 1941 ALL'EROICA DIFESA DI CHEREN IN A.O.I. NEL BATTAGLIONE "UORK AMBA"
Giovanna Calissano, nata ad Alba conobbe Giuseppe Pettazzi a Rocchetta Tanaro. Soltanto dopo la guerra, nel 1947 si unirono in matrimonio. Rapallo diventò la loro residenza.
Giuseppe Pettazzi, ingegnere civile, nato a Milano, era di origine piemontese.
Durante la guerra in Africa Orientale (A.O.I.) era Sottotenente degli Alpini.
Le origini piemontesi
Giuseppe Pettazzi, di professione ingegnere civile, allo scoppio della seconda guerra mondiale si trovava in Africa Orientale Italiana e fu uno dei pochi sopravvissuti del Battaglione Alpino “UORK AMBA” durante la presa di Cheren in Eritrea da parte degli Inglesi.
Proveniente da una famiglia medio borghese di origine piemontese, era nato a Milano il 3 Maggio 1907. Dopo la guerra, nel 1947, diventa Rapallino di adozione. E’ uno dei tanti che, negli anni 30, ha dovuto fare delle scelte fondamentali e spesso si è trovato coinvolto in avvenimenti o battaglie sanguinose o situazioni di prigionia faticosamente vissute e sopportate, a volte assurde, specie se viste con gli occhi di oggi. Pettazzi, nonostante tutto, può ritenersi un “fortunato sopravvissuto”.
Aveva un carattere estremamente equilibrato, di grande livello etico e morale e certamente pacifico e sicuramente era un uomo coerente. Ma si trovò, dai trenta ai quarant’anni, a vivere un decennio di spaventosi cambiamenti e tragedie, e così, nell’età in cui un uomo è nel pieno delle sue capacità fisiche e professionali, venne coinvolto in quel momento che viene ora definito come il “Colonialismo Italiano”.
Dopo la maturità classica che consegue nel 1925, Pettazzi si iscrive alla facoltà di ingegneria di Torino dove ne esce laureato nel 1931 dopo aver interrotto gli studi per il servizio militare nel ‘28 a Bra dove frequenta il Corso Allievi Ufficiali per Alpini e ne esce Sottotenente, in caso di richiamo.
Il primo impiego, come ingegnere civile, è presso l’impresa ing. Sapelli di Ciriè, specializzata nei calcoli del cemento armato, con lavori in loco in industrie locali, e per il genio militare, alla frontiera Francese, Cesana, Sestriere, e galleria di Monte Rotta presso Bardonecchia. Nel 1935 lavora con l’impresa Zolla di Milano che ha depositi di carburanti a Gozzano e quindi con l’impresa Carlo Grasso di Torino sempre nel settore per il quale si era laureato e cioè ingegneria e progettazione civile.
Sotto: Giuseppe Pettazzi all’Asmara, con la sua “Balilla” quando era titolare dell’impresa di costruzione omonima. In pochi anni, ad Asmara, prima della tragedia scatenata da Mussolini con la perdita dell'A.O.I., aveva già progettato e costruito molti importanti edifici e strade.
Africa Orientale Italiana – L’Italia Decò
A questo punto nella vita di Pettazzi c’è una svolta che condizionerà molta parte del suo futuro. Come Ingegnere civile verso la fine del 1936 va a lavorare in Africa Orientale, in Eritrea, per cercare di avere un miglior futuro professionale sull’onda del grande esodo verso questi possedimenti del regime di allora. In quegli anni le colonie Italiane rappresentano per molti professionisti e non solo, uno sbocco importante di lavoro. Per molti giovani sono una strada aperta verso nuovi orizzonti di grandi speranze che si concretizzano presto con il grande bisogno di infrastrutture, come vengono ora chiamate, le strade, i ponti, gli acquedotti, le fognature ecc. in un paese dove non c’era nulla di tutto questo.
Un Esempio dell’archittetura “decò” di Asmara
Da un giornale del dopoguerra del 2007: la Fiat Tagliero progettata da Pettazzi é ancora in piedi.
Sotto: Una sfilata delle Giovani Italiane a Rapallo. Con la camicia bianca si nota Giovanna Calissano che prima della guerra era già residente a Rapallo.
Sotto: Una immagine del 1952 dei coniugi Pettazzi ormai Rapallini di adozione e non più “furesti”
In Eritrea, all’Asmara, esercita la libera professione proprio nel settore dell’ingegneria civile e le sue doti di progettista anticipano e interpretano perfettamente quella tendenza che potremmo chiamare “l’Italia Decò” in terra d’Africa. E’ giovane e lo spirito imprenditoriale come le capacità professionali non gli mancano e così attraverso una propria impresa di costruzioni si tiene al passo con il grande sviluppo urbanistico della città coloniale probabilmente anche favorito dall’impulso imposto dal regime di allora. Tra i progetti da lui portati a termine, uno di questi, la stazione di Servizio della Fiat Tagliero lascerà un’impronta particolare sia per la sua architettura innovativa e moderna che per una leggenda ancora adesso tramandata di generazione in generazione dagli Eritrei dell’Asmara.
Una rivista d’arte e cultura del 2007, “Luoghi dell’infinito” parlando di un viaggio all’Asmara nel 1991 in un articolo riporta testualmente: La guerra trentennale era finita. (proprio in quell’anno infatti era caduto il potere dittatoriale comunista di Menghistù). Il paese era libero e Asmara si risvegliava nella sua tranquilla e sorprendente bellezza. Fuori dall’aeroporo i Taxi in attesa di quei primi viaggiatori erano ancora Fiat 1100 dal colore azzurro arrugginito. Per strada vedevi circolare improbabili Balilla grigie che andavano a passo d’uomo. Ci fermammo al primo bar aperto: si chiamava Duca d’Aosta e il tassista mi offrì un cappuccino e una pasta. Il barista aveva i capelli bianchi: “Benvenuto”, disse in Italiano. La macchina scivolò poi davanti ad un distributore di benzina che assomigliava ad un ae- roplano. “Fiat-Tagliero” annunciava con orgoglio la scritta rosso sbiadita che sovrastava la torretta centrale.
Fiat Tagliero all’Asmara Autostazione Aeroplano
Mi raccontarono, è Andrea Semplici che scrive autore di queste righe, che l’ingegnere che aveva avuto l’ardire di progettare nel 1938, quel garage futurista dovette puntare una pistola alla testa del capomastro per convincerlo a togliere le impalcature che sorreggevano gli oltre 16 metri delle “ali”. Chissà se Giuseppe Pettazzi, il progettista, lo fece davvero! Quel che è certo che “l’Autostazione-Aeroplano” sembra, dopo oltre settant’anni dall’inaugurazione, ancora pronta al decollo. E continuando: l’Italia fascista aveva cancellato dalla geografia politica l’Etiopia, unico paese libero dell’Africa, e Mussolini voleva trasformare il volto di quelle terre. Asmara, fino al 1935 era una tranquilla città di una lontana provincia coloniale sulle coste del Mar Rosso. Ma alla vigilia dell’invasione dell’Etiopia conobbe un sussulto. Vi arrivò di tutto, “oltre che a bravi professionisti come Pettazzi” approdarono anche migliaia di soldati, coloni, avventurieri, braccianti, operai, poveri d’Italia. Era la retrovia della guerra che Mussolini avrebbe scatenato alla fine del 1935.
Sotto: Dal libro “Gli Alpini” – Storia –Reparti – Adunate- Eroi – 2014 e 2015- Edizione Gribaudo. Proprio per la sua breve vita il Battaglione UORK AMBA é poco conosciuto. Dal numero dei caduti, come leggiamo, é certamente uno tra i più eroici proprio per la straordinaria difesa di Cheren. Giuseppe Pettazzi, col grado di Sottotenente si può definire un “fortunato sopravvissuto” perché pochi giorni prima della resa di Cheren era stato ricoverato in ospedale ad Addis Abeba per una ferita alla mano che si era infettata. Durante la battaglia fu anche lievemente ferito alla testa.
“Divina geometria”
In meno di sei anni divenne il teatro di ogni possibile e radicale sperimentazione architettonica e urbanistica. Divenne la palestra in libertà dell’”Art Decò” delle linee futuriste, del modernismo. Il risultato? “Una divina geometria” azzardò anni fa Eugenio Lo Sardo, ispettore del Ministero dei beni culturali e ricercatore pignolo di quella stagione urbanistica. “Gli Italiani crearono un capolavoro dell’Art Decò. Asmara possiede la maggior concentrazione al mondo di architetture anni trenta. Gli Italiani hanno costruito con eleganza e stile. Hanno modellato una capitale abbagliante, moderna, internazionale. Sono più di quattrocento gli edifici asmarini censiti come piccoli capolavori del Decò. (foto sotto)
Negli anni a seguire, dopo la seconda guerra mondiale, l’edificio della Fiat Tagliero è stato più volte sulle pagine di giornali specializzati o settimanali o quotidiani. E’ interessante citarne alcuni per capire l’ambiente “urbanistico” in cui si viveva in questa colonia Italiana. Ma è il supplemento “Venerdi”, del quotidiano “La Repubblica” del 5 Dicembre 2003, in un articolo di Marc Lacey, che, è proprio il caso di dirlo, scatena le “ire” di Giovanna Pettazzi, ora scomparsa, con una lettera indirizzata al direttore Dott. Ezio Mauro dove si definisce, in questa accorata precisazione, “ottantaquattrenne, vedova dell’Ingegner Giuseppe Pettazzi deceduto nel 2001 all’età di novantaquattro anni”. Ne riportiamo volentieri alcuni commoventi “frammenti”: “la prigionia per sei lunghi anni in India, scrive, riferendosi al marito, posero temine alla sua attività svolta per troppo breve tempo in Asmara dove tuttavia rimane la Stazione di Servizio FIAT TAGLIERO che fu inaugurata nel 1938 dal Duca Amedeo D’Aosta, chiamata e conosciuta come “l’aeroplano” per la struttura a sbalzo con due ali tese di un’apertura di sedici metri (NON di tre metri, come legge inorridita sull’inserto) nuovo particolare questo, “tanto pietoso, quanto assurdo”!
Mio marito mai dovette ricorrere alla minaccia delle armi!
E continua rimarcando che da altri giornali come il Touring è stata definita come una costruzione “unica al mondo”! ma dice anche che: “mio marito mai dovette ricorrere alla minaccia delle armi (!!!) per persuadere gli operai a togliere le impalcature fatte per sostenere la massa di cemento in attesa che si solidificasse.... ............Poi parla del rapporto di affezione che c’era tra suo marito anche con la manovalanza indigena ... concludendo: quindi la citazione della minaccia delle armi (pistola o quant’altro) è falsa e pretestuosa!
Mio marito continua era “un puro, un onesto, mite, ma fiero”, che mai avrebbe commesso una azione così riprovevole nei con- fronti di chicchessia, tanto meno di una manovalanza che stimava, a cui era sinceramente affezionato. E quando lesse questa affermazione rimase profondamente indignata.
Firmato Giovanna Calissano vedova Ingegner Pettazzi.
Sotto: Le torri Balilla al mare e sulle Alpi. Per quest’ultimo edificio, la rassomiglianza con la nostra Colonia Fara di Chiavari é straordinaria, non solo nella struttura centrale ma anche nelle terrazze laterali.
Le opere del giovane Ingegner Pettazzi all’Asmara sono naturalmente riprodotte sui giornali del regime di allora come nel “Bianco e Rosso”, giornale del dopolavoro aziendale n. 5 del Maggio 1939, dove nella pagina ”La Fiat nell’Impero” in un disegno stilizzato viene rappresentata la Stazione Fiat dei Fratelli Tagliero in veduta prospettica da due differenti lati. In entrambi i casi è chiaramente indicato: “progetto e direzione lavori Dr. Ing. Giuseppe Pettazzi, Impresa Costruzioni Asmara”.
Altri edifici di quel tempo, sempre in Eritrea sono fotografati in altre località come “Dire-Daua”, “Dessiè”, “Gondar”, “Mogadiscio”, “Adis Abeba”. Sono altresì rappresentate tramite fotografie panoramiche, le “Torri Balilla al mare e sulle Alpi” che vengono proposte come colonie Fiat per bambini con slogan come: “attraverso le miriadi e miriadi dei vostri figli si ha la certezza assoluta della continuità nei secoli della nostra “Patria”.
Per quest’ultimo edificio, la rassomiglianza con la nostra Colonia Fara di Chiavari è straordinaria, non solo nella struttura centrale ma anche nelle due terrazze laterali. Dopo l’8 Settembre 1943 continua e si aggrava la tragedia italiana per mancanza totale di ordini e disposizioni con il conseguente sfascio del già debole apparato difensivo e offensivo. Nel dopoguerra, con la loro scellerata amministrazione, ci pensano gli Inglesi a portare via tutto. Selassiè trasferisce in Etiopia quanto rimasto e Menghistù (che era Etiope) con la nazionalizzazione dà il colpo mortale. E l’articolista aggiunge: in questo ultimo mezzo secolo l’Eritrea è stata la cenerentola del mondo, dimenticata da tutti anche da quegli Italiani che si gloriavano della loro “colonia primogenita”.
Forse dimentica che proprio gli Italiani sono tornati da quei posti o da altre Colonie come anche la Libia, spogliati di tutto o scusando la licenza, “con una mano davanti e una di dietro” ! Non parliamo poi di quelli che anche se “fortunosamente sopravvissuti” sono tornati a casa dopo 5 anni di prigionia come l’Ing. Pettazzi catturato dagli Inglese a Cheren nel 1941 e rimpatriato nel Dicembre del 1946 dopo che la guerra per l’Italia era finita il 25 Aprile del 1945. Nel 1997 l’Italia è stato il primo paese a riconoscere lo stato Eritreo con l’unico ministro degli esteri presente il giorno della dichiarazione di indipendenza il quale dichiara: “al di là delle sofferenze del colonialismo, l’Italia ha lasciato una grande impronta del suo lavoro, della sua presenza, della sua civiltà”.
Sotto: Giuseppe Pettazzi all’Asmara in divisa da Sottotenente degli Alpini appena richiamato dopo l’inizio del conflitto della Seconda guerra mondiale. Da lì a poco, in Africa Orientale Italiana, verrà scatenata una cruenta battaglia con la perdita totale di questa colonia. Cheren e l’Amba Alagi furono gli ultimi baluardi della resistenza italiana.
Altre opere dell’Ing. Pettazzi all’Asmara
Giuseppe Pettazzi, nei suoi pochi anni di permanenza all’Asmara partecipa, per quello che è dato di sapere, anche ad altri importanti lavori come progettista. Ne citiamo alcuni: oltre all’edificio già descritto della Stazione di Servizio Fiat dei Fratelli Tagliero, con le “sue ali da airone”, progetta e costruisce l’officina riparazione e magazzino ricambi sempre Fiat e si occupa anche di importanti lavori stradali come la strada di arroccamento di “Adigrat”, nel primo tronco “Adigrat-Passo Alequà”.
Quindi progetta e porta a termine per la ditta Berti la Tagliero alimentari e per Leopoldo Belli i saloni di vendita della Upim-Rinascente. Da notare che la stazione di servizio Fiat-Tagliero viene inaugurata alla presenza del Duca Amedeo D’Aosta, l’eroe, di lì a pochi anni dell’Amba Alagi.
Si arriva così al 15 Agosto 1939 quando Pettazzi si concede una licenza in Italia e parte da Asmara con viaggio in aereo e tappe a Kartoum – Tripoli – Bengasi – Roma per giungere a Rocchetta Tanaro (AT) che era la casa dei suoi genitori, Ubaldo e Maria.
Giusto per sedersi al tavolo della vittoria Mussolini porta l’Italia allo sfascio totale. Di lì a pochi giorni, il 3 Settembre 1939, Hitler scatena, con l’invasione della Polonia quella che sarà una tra le più sanguinose e spietate guerre della storia che, sulla terra, sui mari e nei cieli, coinvolgerà tutto il mondo. L’Italia, per decisione di un solo uomo, nell’affannosa e assurda rincorsa di gloria, e “per sedersi al tavolo della vittoria” come più volte raccontato a giustificazione di quella disastrosa guerra, per sua parte, pagherà un prezzo altissimo trascinandosi anche in una cruenta guerra civile con il grande dilemma di ogni Italiano che era quello, dopo l’8 Settembre 43, da quale parte schierarsi, o meglio se rimanere coerenti cioè fedeli al regime oppure tradire, cioè “badogliare”. Giuseppe Pettazzi, proprio nel settembre del 1939, viene richiamato dalla sorella Franca che era giunta in Asmara pochi mesi prima, non pensando che la guerra avrebbe avuto poi quegli sviluppi disastrosi anche per le colonie Italiane. Ma proprio nel Settembre del 39, mentre sta per ripartire dall’Italia diretto in Eritrea, accade un altro fatto che avrà una influenza importante per la sua futura esistenza.
I lavori di costruzione per la strada di collegamento tra “Adigrat e Passo Alequà” in Africa Orientale italiana diretti dall’Ing. Pettazzi. Durante i 56 giorni di combattimenti per la conquista di Cheren da parte degli Inglesi, questa strada, nella gola di Dongolas fu ostruita da pesanti massi fatti crollare dall’esercito italiano per impedire l’ingresso a Cheren.
Una cartina della zona di Cheren tenuta sin quasi all’annientamento da parte del Battaglione UORK AMBA che scrisse una delle ultime e più tormentate pagine della nostra storia coloniale. La maggior parte dei caduti sono sepolti, spesso senza nome, nel bianco cimitero di Cheren che conserva anche le spoglie di molti amici di Pettazzi caduti in battaglia.
La bussola originale usata dall’Ing. Pettazzi che faceva parte della sua attrezzatura in Asmara che é ancora utilizzata da suo figlio Ubaldo per le gite in montagna. E l’orologio che Guido Rovaro Brizzi, suo compagno di prigionia, gli donò in punto di morte pregandolo di portarlo ai suoi genitori. Cosa che fece al suo ritorno in patria, ma i genitori di Brizzi vollero che Pettazzi lo conservasse in ricordo del loro figlio. Alla morte di suo marito, Giovanna Calissano disse ai figli: “ed io continuo a caricarlo… fatelo anche voi…”.
Sotto: L’ingresso del Paese di Rocchetta Tanaro dove Giuseppe Pettazzi si conobbe con Giovanna Calissano. Le loro tombe sono uno vicino all’altra nel riposo eterno.
L’incontro sulla diligenza con Giovanna Calissano
Sulla diligenza chiamata del “Giaun” davanti alla casa della “Rita”, proprio a Rocchetta Tanaro, incontra con lo sguardo ... una persona. Uno di quegli sguardi che rimangono impressi per sempre. Occhi che si incontrano e che in qualche modo si promettono! Sono diretti entrambi alla stazione, lui per prendere a Torino il biglietto dell’aereo che lo avrebbe riportato all’Asmara dalla sorella, e lei per andare a Rapallo. Gli occhi che incontra, splendenti, chiari, verdi, sono di Giovanna Calissano, quella che poi nel 1947 diventerà sua moglie che era originaria di Alba. Ma i suoi genitori avevano delle terre a Rocchetta Tanaro per questo il destino fu complice! E li fece incontare. Nelle sue memorie scritte a mano in un piccolo diario, con quella meravigliosa calligrafia di un tempo, lei, racconta così quell’incontro: Vedo tutto Papà, bello, sorridente col suo spolverino color sabbia, saltare sul predellino della diligenza già al completo. Da allora si accese nel cielo la stella del nostro destino che ci riservava silenziosamente l’una per l’altro, per sette lunghi anni di tacite speranze e di sogni che apparivano irrealizzabili..... Non è dato di sapere se in quell’incontro si “dichiarano”, ma sicuramente si parlano e soprattutto si penseranno l’un l’altra per “sette lunghi anni”. Non è approccio retorico, a quel tempo si usava così!
Nel Maggio del 1940, Pettazzi, che si trova in Eritrea, viene richiamato in servizio militare come Sergente allievo e poi Ufficiale al ventunesimo battaglione fanteria di Asmara. Deve abbandonare tutto, sogni, progetti e azienda di costruzioni. Più tardi lascerà la procura dell’azienda a sua sorella Franca. Verso la fine di Maggio il suo gruppo viene trasferito ad Adis Abeba e prende posizione sulla prima linea difensiva del Campo di Aviazione di Adis Abeba.
Viene incaricato dal Comando Difesa di rilevare questa prima linea difensiva. Lavoro che viene eseguito con i pochi strumenti tecnici di allora, principalmente con una bussola graduata gonio- metricamente, ancora conservata e usata dal figlio Ubaldo per le sue gite col CAI–Club Alpino Italiano e una rolletta decametro. Suoi aiutanti sono tre soldati del suo stesso gruppo.
Sottotenente degli alpini per la difesa di Cheren – Una pallottola gli attraversa il cappello Nel Dicembre 1940 viene nominato Sottotenente e così, acquista, cioè compra con i suoi soldi, il suo cappello da Alpino all’Unione Militare di Adis Abeba. Lo stesso cappello di Alpino che orgogliosamente riuscirà a portare a casa anche dopo la prigionia in India, attraversato, durante i combattimenti, da una pallottola che gli provocò una leggera ferita. Il buco, rammendato, con “ago e spago” è ancora visibile nella parte alta del cappello. Lo stesso cappello, che non abbandonerà mai, altrettanto orgogliosamente, con dignitosa fierezza, lo indosserà nei raduni degli Alpini ai quali non mancava mai, dopo la guerra, per tanti anni, sino alla sua scomparsa che, ricordiamo, è avvenuta all’età di 94 anni nel 2001. Non solo, organizzerà, all’interno di questi raduni, il 24 e il 25 Maggio 1967 in quella che è ormai diventata ormai la “sua Rapallo” una grande adunata dei Reduci di Cheren riportata dai giornali dell’epoca.
Sotto: Dopo l’8 settembre 1943 per la scissione tra “collaboratori e non cooperatori” Pettazzi viene trasferito al campo 25 riservato ai “non cooperatori”. Sul suo cappello di alpino sono cucite le targhette metalliche di appartenenza al campo 25 e una medaglietta coniata dopo la prigionia con la seguente scritta: “L’ONORE HA PER TESTIMONIO LA PROPRIA COSCIENZA E PER DIFENSORE IL CORAGGIO” – SALO’ 1952 – CAMPO 25 – NON COOPERATORI. La sua coscienza, evidentemente non venne mai meno né durante la prigionia, né dopo.
Sotto: Il cappello daAlpino del Sottotenente Giuseppe Pettazzi. Lo indossava in Africa Orientale Italiana per la difesa di Cheren. E’ ancora evidente (particolare in alto a destra) la cucitura fatta con lo spago in seguito ad una pallottola che gli provocò una lieve ferita alla testa. Fino alla sua scomparsa lo indossò sempre con orgoglio specialmente nei raduni del dopoguerra.
Sotto: Il villaggio di Cheren teatro, nel 1941, di una sanguinosa battaglia con intorno tutti i morti dove era attestato il battaglione UORK AMBA. Fu l’ultimo baluardo prima della perdita dell’A.O.I. Giuseppe Pettazzi, dopo i cinque anni di prigionia in India mal volentieri ricordava quei momenti terribili specie subito dopo la liberazione. Nomi inconsueti come Cima Forcuta, Dologorodoc, Dekameré, Adi Ugri, Omo Bottego, Nolisò, Gimma e infine Cheren e Amba Alagi…
Il battaglione Uork Amba (montagna d’oro)
Col grado di sottotenente, Giuseppe Pettazzi, viene assegnato al Battaglione UORK AMBA schierato sull’Omo Bottego con il comando a Nolisò sulla strada per Gimma. Gimma, sarà l’ultimissimo caposaldo Italiano a cadere in mano agli Inglesi addirittura anche dopo l’Amba Alagi. Ma è anche giusto ricordare che quei “poveri soldati Italiani”, già male equipaggiati con armi antiquate della prima guerra mondiale, e senza mezzi, erano dei dimenticati da Dio e dalla Patria, senza appoggio aereo, senza rifornimenti, non solo di armi e munizioni, ma anche di viveri, acqua, medicinali e quant’altro poteva servire in una guerra senza tregua.
Il 26 marzo del 41, il Comando Supremo Italiano è costretto a porre fine alla resistenza nella zona di Cheren. Tre medaglie d’oro, 500 morti e centinaia di feriti attestano il sacrificio del battaglione sulla cima Forcuta e sul Dologorodoc. I resti del “Uork Amba”, un centinaio di uomini e due ufficiali, per sottrarsi alla cattura percorsero 100 Kilometri di zona montana per arrivare ad Asmara. Da qui proseguirono su Massaua dove combattono ..... l’ultima battaglia.
È il primo di Aprile 1941. Su una forza complessiva di 1000 uomini, dopo due mesi di combattimenti ne rimasero incolumi solo 130 mentre oltre 300 furono i caduti.
Giovanna Calissano ricorda... gli amici di Papŕ Citiamo alcuni valorosi Alpini dell’ “Uork Amba” per ricordarne la memoria, come leggiamo nelle note di Giovanna Calissano che è un po’ la nostra guida storica e cronologica: Tenente Colonnello Peluselli, ......... . il Capitano Romeo, .......... il Tenente Luciano Orlando, .......... il Tenente Marcello Bressan, .......... Smaniotto, .......... poi aggiunge.......... le diapositive da noi viste in casa di Romeo a Belgirate sono ora in mano di Bressan, ricorda.
Ci è sembrato giusto ricordare alcuni pezzi di storia di quella eroica e sanguinosa, “ultima battaglia”, per la difesa dell’Africa Orientale Italiana con postazioni strategiche prima perdute, poi riconquistate e poi perdute definitivamente.
Tra il 24 febbraio e il 4 marzo gli alpini dell’Uork Amba tennero sia le Cime Biforcute che il monte Panettone. Il 28 febbraio Cheren, Dekameré e Adi Ugri vennero sconvolte dal terrificante bombardamento di tre successive ondate di aerei, e il 4 marzo le truppe d’assalto inglesi occuparono il monte Tetri di dove, nel corso della successiva notte, vennero ricacciati dai carabinieri e dal battaglione Uork Amba che vi era stato prontamente inviato. E il 15 marzo iniziò la nuova terrificante battaglia che vide il sacrificio e l’eroismo degli alpini dell’Uork Amba come pure dei bersaglieri, dei carabinieri, degli artiglieri, granatieri e cavalleggeri, dei genieri e dei fedelissimi ascari. Sui nostri reparti piovvero, in poche ore, oltre 32 mila granate; il combattimento che seguì durò quindici ore, ininterrottamente. Il successivo giorno, 16 marzo, la lotta continuò furibonda e tutti i nostri reparti furono superiori ad ogni elogio. L’Uork Amba, attestato sul Samanna, fu ancora ammirevole. Il sottotenente Bortolo Castellani, da Belluno, cadde meritandosi la medaglia d’oro al valore militare. Anche Pettazzi è nel mezzo di questa bolgia infernale e partecipa a questa impari lotta! Le condizioni di vita durante queste battaglie erano inumane, specialmente per il tanfo e la puzza emanata dai cadaveri dei soldati caduti e dagli animali putrefatti. Il terreno roccioso e il caldo insopportabile non consentivano di scavare delle fosse per seppellirli.
L’articolo del Secolo XIX con la foto del Labaro della sezione di Rapallo dei reduci di Cheren. Era presente tra gli altri la vedova della medaglia d’oro Bruno Brusco. Un telegramma della duchessa Anna d’Aosta, vedova di Amedeo, l’eroe dell’Amba Alagi ricordava la loro inalterata fedeltà e riconoscenza alla memoria del marito.
Sotto: Il sacrario dei Caduti della divisione Cunense al Colle di Nava con la targa dedicata a Pio Viale ucciso in prigionia dagli Inglesi. Uno dei tanti amici che Giuseppe Pettazzi ha perduto durante la guerra in A.O.I. per la difesa di Cheren.
Una ferita alla mano che si infetta salva la vita a Giuseppe Pettazzi
Chissà, viene da domandarsi, se a questo punto prese in mano... “quella pistola” !!! Giuseppe Pettazzi, intorno al 20 Marzo, pochi giorni prima della perdita di Cheren, riporta una ferita alla mano che, invece di guarire, per le disastrose condizioni igieniche, si trasforma in una dolorosa piaga tropicale. Viene trasferito agli ospedali di Elabereth e assistito dal dott. Vandelli e da Zio Miro, che era il Dott. Casimiro Simonetti,
suo cognato avendo sposato la sorella Franca, già in Asmara e a quel tempo crocerossina. all’ospedale di Asmara. Il 17 marzo era caduto il generale Orlando Lorenzini mentre, col cappello
d’alpino in testa, dirigeva l’azione contro il Dologorodoc; alla sua memoria venne conferita la medaglia d’oro. Gli eroismi furono innumerevoli e sovrumani, ma all’alba del 27 marzo i reparti italiani, con l’Uork Amba in retroguardia, lasciarono Cheren:
Cheren era perduta .... per sempre ... . era l’inizio della fine! Dopo 56 giorni di combattimenti i no- stri soldati tra Italiani ed Ascari Eritrei a Cheren erano 45 mila e ne morirono 12.147;
21.700 riportarono ferite e mutilazioni; non vi fu un solo disertore italiano né eritreo. Gli alpini dell’Uork Amba erano 916. Dei 21 ufficiali, 5 sono morti e 14 gli spedalizzati; tra i 55 sottufficiali i morti furono 18 e i feriti spedalizzati 26; degli 840 uomini di truppa ne morirono 300; ne vennero ricoverati per ferite 420.
In totale le perdite furono di 783 su 916: l’86 per cento! Dopo essersi attestati ad Ad Teclesan, i pochi alpini rimasti validi raggiunsero Zàzega e, il 31 marzo, l’Asmara; il primo di Aprile passarono per Nefasit e Ghinda e infine a Massaua dove combatterono fino all’8 aprile per la disperata difesa di quella città; i sopravvissuti proseguirono per Decameré ed Agordat per concludere sull’Amba Alagi a fianco degli altri magnifici soldati del Duca d’Aosta.
La vita del Battaglione alpino «Uork Amba», era durata soltanto cinque anni ma rimarrà indelebile nella storia d’Italia. il battaglione aveva lasciato sul terreno, tra morti e feriti, 783 uomini su 916; questo gli valse due medaglie d’oro al valor mi- litare. Con la fine del conflitto in Africa il battaglione fu sciolto.
Per l’esercito inglese fu un grande successo. Nei tre mesi di guerra fece prigionieri oltre 230.000 uomini, anche se in alcune zone la resistenza italiana continuò nei mesi seguenti. In Italia, il bollettino di guerra n.348 del 19 maggio diede la notizia della caduta dell’Amba Alagi e della cattura del Duca d’Aosta e del suo seguito dopo “una resistenza oltre ogni limite”.
Ancora caduti, tutti amici di Pettazzi
Nell’ultima decade di Marzo cadono sulla linea di difesa di Cheren, quota Forcuta, i Sottotenenti Brusco, medaglia d’oro, ..... Bortolo Castellani, medaglia d’oro, ...... De Maria, ...... Giuseppe Masocco di Agliano d’Asti, ...... ..Trealdi, tutti amici di Pettazzi ricordati dalla moglie nel suo piccolo diario che continua, raccontandoci altri preziosi momenti di quelle tragedie.
Dei sei Sottotenenti in linea di combattimento Pettazzi è stato l’unico superstite e si salvò perché ricoverato in ospedale. Il 1 Aprile 1941 cade l’Asmara e il Sottotenente Pettazzi viene fatto prigioniero dagli inglesi nella stessa data. Nonostante tutto, come ripetiamo potè rite- nersi “un fortunato sopravvissuto”.
La guerra per lui è finita e forse dovrà ringraziare quella ferita alla mano, addirittura quella piaga tropicale e il successivo ricovero in ospedale, se ha potuto uscire vivo da quell’inferno!
Sotto: Il cimitero di Cheren dove é sepolto e identificato Bruno Brusco anche lui sottotenente degli Alpini come Pettazzi. Nelladifesa di Cheren, Pettazzi fu l’unico a salvarsi dei sei sottotenenti del Battaglione UORK AMBA.
Sotto: I poco veritieri giornali del Regime Fascista, riportavano spesso notizie del tutto infondate sulla reale situazione in Africa Orientale e non solo. Ma in realtà la difesa di Cheren fu un capitolo di straordinario eroismo da parte del Battaglione UORK AMBA. Il battaglione aveva lasciato sul terreno tra morti e feriti 738 uomini su 916. Questo gli valse due medaglie d’oro al valor militare.
Cinque anni di prigionia in India
I primi quattro o cinque mesi da prigioniero degli Inglesi li passa a Kartoum, località Ondurman sul Nilo. Poi viene trasportato in India a Bophal, località bassopiano di Bairahar: campo di stoppie con pioggia, fango, poca acqua. Gli alloggi sono poche tende malconce e strappate piene di buchi. La località di Bophal nel 1984 sarà teatro di una spaventosa tragedia provocata dall’Union Carbide India Ltd filiale indiana dei giganti della chimica americana per una accidentale fuoriuscita di gas altamente tossico. I morti furono tra otto- mila e diecimila secondo il Centro di ricerca medica indiana, oltre venticinquemila, secondo Amnesty International.
L’uccisione di Pio Viale ricordato nel Sacrario di Nava
Quella sera in particolare, nel campo 28, mentre cantavano in gruppo nei pressi dei reticolati, le guardie Inglesi spararono, uccidendo, il Capitano Pio Viale. Nel sacrario dei caduti a Nava, vicino a Pieve di Teco, c’è anche il suo nome, e del Capitano Cesare Rossi. Pettazzi nell’attiguo campo 25 sentì le fucilate e il mattino seguente seppe la notizia. Il cimitero dei campi era a Darham-Salam una località poco lontano.
Fino a tutto il 1943 il sottotenente Pettazzi rimane prigioniero nel campo 28; i campi erano quattro: 25, 26, 27. 28 di 2500 prigionieri ciascuno.
La malaria curata con “pork & soia”
Cinque anni di prigionia in India
I primi quattro o cinque mesi da prigioniero degli Inglesi li passa a Kartoum, località Ondurman sul Nilo. Poi viene trasportato in India a Bophal, località bassopiano di Bairaghar: campo di stoppie con pioggia, fango, poca acqua. Gli alloggi sono poche tende malconce e strappate piene di buchi. La località di Bophal nel 1984 sarà teatro di una spaventosa tragedia provocata dall’Union Carbide India Ltd filiale indiana dei giganti della chimica americana per una accidentale fuoriuscita di gas altamente tossico. I morti furono tra otto- mila e diecimila secondo il Centro di ricerca medica indiana, oltre venticinquemila, secondo Amnesty International.
L’uccisione di Pio Viale ricordato nel Sacrario di Nava
Quella sera in particolare, nel campo 28, mentre cantavano in gruppo nei pressi dei reticolati, le guardie Inglesi spararono, uccidendo, il Capitano Pio Viale. Nel sacrario dei caduti a Nava, vicino a Pieve di Teco, c’è anche il suo nome, e del Capitano Cesare Rossi. Pettazzi nell’attiguo campo 25 sentì le fucilate e il mattino seguente seppe la notizia. Il cimitero dei campi era a Darham-Salam una località poco lontano.
Fino a tutto il 1943 il sottotenente Pettazzi rimane prigioniero nel campo 28; i campi erano quattro: 25, 26, 27. 28 di 2500 prigionieri ciascuno.
La malaria curata con “pork & soia”
Un’altra immagine del Battaglione UORK AMBA al quale l’alpino Pettazzi era molto legato. UORK AMBA in lingua eritrea significa “Montagna d’oro”
L’8 Settembre 43 Pettazzi è a letto con la febbre per la malaria, e conseguente dissenteria bacillare curata con “pork and soia”. Dopo l’otto settembre 1943 per la scissione tra “collaboratori e non cooperatori” Pettazzi viene trasferito al campo 25 riservato ai “non cooperatori”. Sul suo cappello di alpino sono cucite le targhette metalliche di appartenenza al campo 25 e una medaglietta coniata dopo la prigionia con la seguente scritta: “L’ONORE HA PER TESTIMONIO LA PROPRIA COSCIENZA E PER DIFENSORE IL CORAGGIO” - SALO’ 1952 – CAMPO 25 – NON COOPERATORI”. La sua coerenza, evidentemente non venne mai meno né durante la prigionia, né dopo.
La vita è molto dura in India, non ultima l’inedia del prigioniero che vive soltanto nella speranza della fine della guerra e della conseguente liberazione. E’ una debilitazione morale spa- ventosa oltre che fisica per la scarsità di cibo, di acqua, di confort e non meno importante di affetti.
La guerra finisce in Europa il 25 aprile 1945 ma per quei prigionieri di liberazione non se ne parla. Eppure con una radio clandestina, ascoltata di nascosto, i prigionieri lo sanno che la guerra è finita. Ma le proteste sono inutili. Nel 1946, Pettazzi e le altre migliaia di Italiani sono ancora prigionieri anche se le restrizioni vengono un po’ allentate. Evidentemente quei prigionieri sono dimenticati dal governo italiano che stenta a riprendere le fila della normalità anche in patria. Il 25 Aprile 1946, ad un anno esatto della fine della guerra, per un’ultima volta gli viene ancora ostinatamente richiesta la firma se confermava “fedeltà alla monarchia o ai badogliani o alla Repubblica Sociale”.
Tutto il campo 25 restò fedele alla Repubblica Sociale Italiana mentre chi non le confermava fedeltà, le cosidette “maddalene”, passarono nei campi “badogliani”, in una parola, nel campo dei traditori. Gli americani, dopo l’otto Settembre del 43 coniarono addirittura un nuovo verbo: “to badogliate” col significato di “tradire e tergiversare, in una parola essere inaffidabile”. Il riferimento ai comportamenti del Maresciallo Badoglio era più che evidente.
25 Dicembre 1946 – Il prigioniero di guerra n. 87.418 torna a casa
Finalmente, ai primi di Dicembre del 1946 viene comunicato che il rimpatrio sarà effettuato tra pochi giorni. Il 13 Di- cembre 1946, finalmente, trasferimento a Bombay dove avvenne la partenza su una nave trasporto truppa il “Tamaroa”. Navigazione da Bombay a Napoli con vitto di broda e gallette; qualche cipolla elargita dagli indiani, alloggiamenti qualche amaca, brande a castello, per i più il nudo pavimento.
Tutti vengono sbarcati a Napoli il 22 Dicembre 1946. Poi trasferiti a Roma il 23 in pantaloni di tela e cappotto verde- violento con una toppa romboidale nera sulla schiena per indicare la posizione dell’individuo che la portava, cioè il “prigioniero di guerra”. Il “darry”, parola indiana che era il nome di un piccolo stuoino, dove venivano raccolti anche gli effetti personali, più una piccola cassetta di legno con nome, cognome e “P.O.W.” cioè:
Prisoner of war “prigioniero di guerra numero 87.418” - Altezza 1,87 - Peso 50 Kg.
A Roma subisce poi l’interrogatorio per le generalità di appartenenza al reparto e altre notizie sulle circostanze della cattura da parte degli Inglesi e conseguente prigionia. Viaggio da Roma a Rocchetta Tanaro nei disastrati treni di quel tempo. Finalmente, il 25 dicembre 1946 arriva a casa. Era alto un metro e ottantacinque cm. e pesava soltanto 50 Kilogrammi!
Dopo un po’ di giorni di ambientamento e di buona cucina piemontese, sotto lo stretto controllo alimentare del dottor Casimiro Simonetti, di Zio Miro, quel sogno che lo aveva accompagnato per tanti anni finalmente si realizza. Giovanna Calissano, già viveva a Rapallo dove insegnava lettere al Collegio delle suore Orsoline, che era lo stesso istituto che aveva frequentato da bambina.
Il coronamento di un sogno
Sabato 25 Gennaio 1947, Giuseppe Pettazzi “finalmente”, si incontra con Giovanna Calissano proprio a Rapallo, che diventerà la loro città di adozione. ...dopo avermi scritto una lettera ai primi dello stesso mese... annota lei! Il 3 Settembre 1947 Giuseppe Pettazzi e Giovanna Calissano si sposano a Rapallo nella stessa Chiesa delle Suore Orsoline. Il matrimonio viene celebrato dal Cardinale Siri di Genova che era stato professore di Religione e preparatore spirituale di Giovanna durante tutti gli anni dell’Università. Il cardinale fu ben lieto di celebrare il matrimonio, ma come unica condizione aveva richiesto che fosse officiato in forma strettamente privata alle ore sette del mattino. Sempre dal piccolo diario leggiamo .....raggiungimento di un sogno lungamente e segretamente accarezzato...
Un orologio .... da caricare sempre .....
E’ sempre Giovanna Calissano che scrive: Guido Rovaro Brizzi, geometra che lavorò con Papà, prima di morire in ospedale durante la prigionia volle consegnare a Papà il suo orologio pregandolo di portarlo ai suoi genitori. Appena tornato in patria Papà li cercò e andò a consegnare l’orologio: ma essi vollero che lo conservasse lui. E Papà lo portò sempre al polso.... Ed io continuo a caricarlo....fatelo anche voi....rivolgendosi ovviamente ai figli.....
Rapallini di adozione .... Non più “foresti”
Giuseppe Pettazzi e Giovanna Calissano riprendono faticosamente la vita normale e diventano entrambi Rapallini di adozione. A Nava vicino a Pieve di Teco, hanno la loro casa di campagna che sarà la meta estiva, per tanti anni, di felicissime e indimenticabili vacanze con i figli piccoli ai quali cerca di insegnare certi valori e soprattutto l’amore per la montagna perché dentro, è rimasto un .... “Alpino”, Un alpino del Battaglione UORK AMBA.
Rimangono sposati per ben 54 anni. Nel dopoguerra, col suo cappello da Alpino acquistato in Adis Abeba, lacerato da una pallottola il cui strappo è stato malamente rammendato, Giuseppe Pettazzi non manca mai alle adunate annuali del suo corpo. Anzi nel 1965 organizza a Rapallo una riunione dei “Reduci di Cheren” e così continuerà a portare rispetto alla sua Bandiera e al corpo degli Alpini. Con orgoglio sfila per le vie delle città nei raduni che si susseguono in tutta Italia, ogni anno. A Vicenza nel 1991 durante il 64mo raduno il Battaglione UORK AMBA sfila per la città con un suo striscione in ricordo soprattutto dei caduti e di quei valori di Patria che lui non ha mai dimenticato. Pettazzi è là, nel mezzo, il più alto tra tutti, a reggere questo ultimo lembo di storia, di valori, di eroismo.
Sotto: la casa di campagna al Colle di Nava, a circa 1000 metri di altitudine, sarà per molti anni meta di felici e indimenticabili vacanze dei coniugi Pettazzi con i quattro figli piccoli. Il secondogenito Ubaldo ne continua la cura e la manutenzione, molto impegnativa, data anche la notevole estensione del terreno circostante.
I reduci di Cheren sfilano a Vicenza nel Maggio del 1991. Giuseppe Pettazzi é al centro, il quinto da destra che con orgoglio indossa ancora il suo cappello da Alpino.
BATTAGLIONE ALPINI UORK AMBA: Avendo in programma la guerra d'Etiopia, il 31 dicembre del 1935 il Comando Generale dell'esercito costituì la 5a Divisione Alpina Pusteria, formata da due reggimenti alpini, uno di artiglieria e due battaglioni strutturati, oltre a una compagnia mista genio. L'anno dopo, nel corso della battaglia del Tembien, il 7° Battaglione, guidato dal tenente colonnello Ferdinando Casa, ebbe un ruolo di primordine nella conquista del massiccio dell'Uork Amba ("Montagna d’oro") e da allora fu chiamato “Battaglione Alpini Uork Amba”. Alla fine delle ostilità, i componenti del battaglione prolungarono la ferma e furono integrati con altri complementi provenienti dall'ltalia: fu l’unica unità alpina in Africa Orientale. Con la fine del conflitto in Africa il battaglione fu sciolto.
Dal matrimonio sono nati 4 Figli: Cecilia (nata nel 1948), Ubaldo (nel 1950), Simonetta (nel 1954) e Metella (nel 1959). Poi nasceranno anche ben 8 nipoti: Francesco e Matteo, Chiara e Federica, Alessandro, Letizia, Raffaele e Laura. Giuseppe Pettazzi scompare a Rapallo l’8 di Ottobre 2001. La moglie, Giovanna Calissano lo segue l’8 di gennaio 2007. Entrambi sono sepolti a Rocchetta Tanaro; sono tornati là dove si erano in contrati tanto tempo prima, nel 1939, là dove era nato, in pochi attimi, un sentimento che durò tutta una vita. Era bastato uno sguardo! Per tanti anni si erano scritti e moltissime lettere non arrivarono mai a destinazione ma molte recuperate furono sempre conservate e custodite come un prezioso tesoro: sulla busta che le conteneva c’era scritto ...“nostro lungo quotidiano epistolario che sarà con noi e solo per noi per sempre”!... Giovanna Calissano in Pettazzi è stata sepolta con le “sue lettere” raccolte in una “bustina rossa” .... Entrambi ora, riposano in pace .... uniti per sempre... Nella documentazione, il cui contenuto, mal destramente cerchiamo di consegnare a chi gli ha voluto bene e perché no, alla storia, troviamo spesso dei bigliettini scritti dalla signora Giovanna Calissano in Pettazzi .... perchè i miei figli ricordino!
Sotto: La famiglia di Giuseppe Pettazzi e Giovanna Calissano, al completo con i quattro figli, nel giorno della prima comunione di Simonetta. Da sinistra Ubaldo, Simonetta, Giovanna Calissano, il vescovo di Chiavari Francesco Marchesani con davanti Metella, Franca Pettazzi, Giuseppe Pettazzi, Cecilia e un comunicando compagno di Simonetta. Franca Pettazzi, sorella di Giuseppe, 1939 si recò come crocerossina, dove conobbe e sposò il dottore Casimiro Simonetti (zio Miro), medico radiologo.
In punta di piedi, con rispetto, speriamo di avere esaudito il suo desiderio.
Ernani Andreatta con la consulenza di Simonetta Pettazzi Immagini di Famiglia Pettazzi, Ernani Andreatta e Luigi Frugone Bibliografia: Documentazione fornita dalla Famiglia Pettazzi
Sulla vita di Giuseppe Pettazzi sono disponibili anche due DVD del Museo Marinaro “Tommasino-Andreatta” di Chiavari con filmati storici dell’epoca e le voci narranti di: Stefano Schiappacasse, Barbara Bernabò e Nicola De Gregorio.
DAL VOLUME DI ARRIGO PETACCO
“QUELLI CHE DISSERO NO” (Ed. Mondadori)
Per informazioni: andreattaernani@libero.it - tel. 335 392.601
L'8 settembre 1943, quando dopo 1201 giorni di guerra il maresciallo Pietro Badoglio annunciò la firma dell'armistizio con gli Alleati, circa seicentomila soldati italiani si trovavano rinchiusi nei campi di prigionia che inglesi e americani avevano allestito in varie nazioni del mondo, dall'Egitto all'Algeria, dalla Palestina al Kenya, dal Sudafrica all'India, e persino alle Hawaii.
"Ma tu con chi stai, con il duce o con il re?" Fu il dilemma di fronte al quale si trovarono i nostri soldati, colti di sorpresa dall'annuncio della resa senza condizioni accettata dall'Italia e dalla conseguente fuga di Vittorio Emanuele III a Brindisi: dopo avere combattuto per anni contro un nemico preciso e riconosciuto, bisognava scegliere, all'improvviso, se passare o no dall'altra parte della trincea. Di questa massa enorme di giovani una cospicua minoranza scelse di non "tradire", ma gli storici, sia per la scarsità delle fonti ufficiali sia per la "delicatezza" politica dell'argomento, non se ne sono occupati che in maniera superficiale: ancora oggi, gran parte delle notizie utili a una ricostruzione di quegli anni ci giungono da pagine autobiografiche o dai resoconti memorialistici dei protagonisti. Molti dei quali, avendo risposto di no al- l'appello di Badoglio a rientrare in patria, anche per non subire odiose discriminazioni, preferirono il silenzio.
Pochissimi libri restituiscono voce e memoria ad alcuni di loro. Uno di questi uomini che dissero "no" fu Giuseppe Pettazzi che noi abbiamo voluto ricordare raccontandone la storia e le circostanze in cui si trovò coinvolto.
ERNANI ANDREATTA - Simonetta Pettazzi e famiglia
Rapallo, 4 Agosto 2017
webmaster Carlo Gatti
1494 - LA GUERRA DI RAPALLO
Settembre 1494 – LA GUERRA DI RAPALLO
L’ANTEFATTO
Papa Innocenzo VIII, in conflitto con Ferdinando I di Napoli a causa del mancato pagamento di quest'ultimo delle “decime ecclesiastiche”, aveva scomunicato il Re di Napoli con una Bolla dell’11 settembre 1489, offrendo il regno al sovrano francese Carlo VIII; nonostante nel 1492 Innocenzo, in punto di morte, avesse assolto Ferdinando, il regno rimase un “pomo della discordia” lanciato nelle politiche italiane. A questo si aggiunse la morte, quello stesso anno, di Lorenzo de’ Medici, Signore di Firenze e perno della stabilità politica tra gli stati regionali. Pacificati i rapporti con le potenze europee, Carlo VIII, che vantava attraverso la nonna paterna, Maria d’Angiò, un lontano diritto ereditario alla corona del Regno di Napoli, indirizzò le risorse della Francia verso la conquista di quel reame, incoraggiato da Ludovico Sforza, detto Il Moro (che ancora non era duca di Milano, ma ne era solo reggente).
QUADRO STORICO
Con la Prima guerra italiana (1494-1495) di Carlo VIII ebbe inizio la fase di apertura delle Guerre d’Italia del XVI secolo. Il conflitto vide da una parte Carlo VIII (Re di Francia dal 1483 al 1498)
ALLEATI:
Ducato di Milano
Repubblica di Genova
AVVERSARI:
Sacro Romano Impero
Spagna
- Alleanza dei maggiori stati italiani guidata da Papa Alessandro I, Repubblica di Venezia, lo Stato Pontificio, il Regno di Napoli ed il Ducato di Milano.
La riconquista del Sud della Penisola, già governato dalla Casata degli Angioini durante il secolo XIII, non comprendeva, nei progetti, anche la Sicilia. Quest'ultimo fatto depone a favore della tesi secondo la quale Carlo VIII non intendeva accrescere semplicemente i domini della sua Casata, ambizione comune a molte case regnanti di area mitteleuropea o anglosassone, ma farne piuttosto la base di partenza per quelle Crociate la cui eco era rinvigorita dalla cacciata degli arabi dall'ultimo possedimento spagnolo, il Regno di Granada (1492), avvenuta proprio in quegli anni. Il progetto politico della Res Publica Christiana Pro Recuperanda Terra Sancta aveva ancora presa nelle classi dirigenti europee nonostante la fine rovinosa cui andarono incontro sia la maggior parte di quel progetto stesso, sia coloro che intesero realizzarlo ben prima, intorno alla metà del Duecento.
LA BATTAGLIA DI RAPALLO
PIANA DI VALLE CRISTI
5 settembre 1494
Un evento poco conosciuto
Nell'ambito della Guerra d’Italia del 1494-1498, Carlo VIII discese in Italia il 3 settembre 1494 con un esercito di circa 30.000 effettivi dei quali 5.000 erano mercenari svizzeri, dotato di un'artiglieria moderna.
La battaglia di Rapallo fu combattuta:
- fra mercenari svizzeri, coi loro alleati genovesi e milanesi guidati da Luigi d’Orleans
- contro forze napoletane-aragonesi guidate da Giulio Orsini
In quel giorno la città di Rapallo venne invasa dalla flotta navale aragonese che sbarcò con 4.000 soldati comandati da Giulio Orsini, Obietto Fieschi e Fregosino Campofregoso per sollevare la popolazione rapallese contro Genova che era dedita alla signoria sforzesca. Tre giorni dopo (8 settembre) in città giunsero inoltre circa 2.500 soldati svizzeri che diedero vita ad uno scontro armato contro gli aragonesi presso il ponte sulle saline: tra le violenze generali e i saccheggi, si assistette all'uccisione di cinquanta malati ricoverati all'ospedale di Sant'Antonio (attuale sede del municipio) da parte degli elvetici.
MILANO, FRANCIA,NAPOLI - FUORIUSCITI GENOVA
Gaspare da San Severino Carlo di Brillac
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Obietto Fieschi
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Antonio Maria da San Severino Guido di Louviers
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Giulio Orsini P
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Galeazzo da San Severino Bravo
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Fregosino Fregoso FP
|
Giovanni Adorno Onofrio Calabrese
|
Orlandino Fregoso P
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Luigi d’Orléans Tommaso da Fermo
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Gianluigi Fieschi Avanzino Cassiana
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Francesco Fregoso P
|
Riccardo Bevilacqua
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Paolo Battista Fregoso P
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Antonio di Baissay
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Angelo da Potenza
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Francesco Nardo
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Piennes
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Giovanni di Lagrange
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Francesi/sforzeschi:
1000 fanti svizzeri, fanti italiani;
Aragonesi: 40 uomini d’arme, balestrieri a cavallo, 3000 fanti. Attacco ad una testa di ponte aragonese portato da terra e dal mare; fallimento del contrattacco aragonese.
- I napoletani perdono circa 200 uomini, mentre altri 250 sono feriti. Gli svizzeri uccidono 60 fanti rifugiatisi nell’ospedale di San Lazzaro. Per il Floro nel combattimento restano uccisi d’ambo le parti 500 uomini.
-
Porta delle Saline. All'estremità occidentale del Lungomare Vittorio Veneto si trova la "Porta delle Saline", che delimita e divide dal mare la zona pedonale del centro storico. E' l'unica sopravvissuta delle cinque porte dell'antico "borgo murato", e deve il suo nome alla vicinanza con le Saline, di cui la famiglia genovese dei Doria aveva il monopolio, che furono in attività per molti secoli nella zona pianeggiante presso la spiaggia al centro del golfo. Nella parte che si affaccia verso il centro storico, è abbellita da un altare barocco che accoglie una riproduzione della celebre icona della Madonna di Montallegro. Ha evitato la demolizione grazie a successivi restauri, al contrario delle altre porte del vecchio borgo che, nel tempo, sono state demolite.
Flotta Navale d’Aragona
La flotta franco-genovese aveva stabilito una base a Rapallo, in Liguria, per assicurare gli approvvigionamenti all'esercito di Carlo VIII e soprattutto il trasporto delle pesantissime artiglierie. In quell'occasione i mercenari svizzeri al soldo del re di Francia avevano dato prova di una brutalità inusitata quanto inutile, saccheggiando la cittadina subito dopo uno scontro con le forze aragonesi. I francesi avevano avuto quindi modo di suscitare le ire dei rapallesi e con loro dei genovesi stessi, che si sarebbero vendicati l'anno seguente.
Resisi conto, nel giro di pochi mesi, di aver fatto un pessimo affare, i principi italiani decisero di coalizzarsi, il Moro incluso, ma disponevano, tra tutti, di un esercito inadeguato quanto a dimensioni e a organizzazione. Per fortuna le Marine italiane, costantemente impegnate in duri pattugliamenti nel corso della propria lotta plurisecolare contro i pirati barbareschi, erano di ben altra pasta.
Infatti, il 2 maggio 1495, la flotta francese (sette galere, due fuste e due galeoni), comandata dal Sire de Molans si scontrò con la squadra genovese di Francesco Spinola e di Fabrizio Giustiniani, (otto galere, due saettie e una caracca).
Lo scontro avvenne all'alba, e fu una sconfitta totale per i francesi: tutte le navi vennero catturate, e, contemporaneamente, a terra, un contingente di truppe sbarcate dalla flotta genovese al comando di Gian Ludovico Fieschi e Giovanni Adorno, aiutati dai Rapallini, sbaragliarono i transalpini rimasti a terra prendendo il controllo dell'abitato. Furono così liberate trecento donne, rapite in Campania a titolo di ostaggi, mettendo altresì le mani su un fantastico bottino utilizzato, in seguito, per costruire la sontuosa chiesa dell’Annunziata, a Genova.
Il successo ottenuto venne incrementato pochi giorni dopo quando un convoglio di dodici velieri venne catturato nelle acque di Sestri Levante.
Nel bilancio della battaglia si devono considerare poi le ingenti ricchezze trasportate dalle navi dei transalpini, che comprendevano, tra l'altro, diverse donne e monache partenopee, e le porte bronzee di Castel Nuovo di Napoli. Porte che poco dopo vennero restituite, e che recano ancora, sul retro, i segni della battaglia di RAPALLO. Il resto del bottino fu distribuito tra i marinai, i soldati e i comandanti, e in parte venne usato per erigere la chiesa di Santa Maria Annunziata a Genova.
Dopo questa sconfitta la flotta francese cessò virtualmente di esistere per molti e molti anni. Ciò inoltre rese molto più precaria la situazione di Carlo VIII, che si vide costretto a ritirarsi dal momento che non poteva più contare né su vie di terra, (ora che non aveva più appoggi negli stati italiani), né su rotte di mare per i contatti con la Francia, l'approvvigionamento e la spedizione del bottino fatto in Italia, senza contare l'assenza di navi per trasportare la sua tanto poderosa quanto pesante e lenta artiglieria.
Per pura curiosità segnaliamo che in quei giorni di grande tensione nella sua Liguria, Cristoforo Colombo impegnato nel suo Secondo Viaggio nel NUOVO MONDO, si convinse che Cuba fosse un continente. Il 12 giugno 1494 si trovò di fronte all'isola di San Giovanni evangelista, a 100 miglia dalla fine dell'isola. Colombo fece firmare ad ognuno dei componenti delle caravelle un giuramento con il quale si affermava che si era giunti nelle Indie, nel continente. Nei giorni della Battaglia di Rapallo il grande Ammiraglio si ammalò e tornò a Isabela il 29 settembre 1494.
Carlo GATTI
Rapallo 20 luglio 2017