STELLA MARIS - CAMOGLI
STELLA MARIS
LA FESTA DELLA GENTE DI MARE E DELLA COSTA
La prima domenica d’agosto, ogni anno si celebra a Camogli la Festa della
Madonna Stella Maris
Le cerimonie religiose che ancora oggi si praticano in tanti porti del Mediterraneo sono incantesimi, perennemente reiterati contro il capriccio delle bufere e delle tempeste. Gli ex voto di marinai scampati al pericolo parlano di quella paura annidata nel cuore degli uomini, che mai si abbandonano a cuor leggero alla perfidia delle onde. E' alla Vergine Maria, "Stella Maris", Stella del Mare, che i marinai dell'occidente raccomandano i loro carichi, e soprattutto i loro corpi e le loro anime.
Fernand Braudel
Punta Chiappa - Camogli. Opera di F. Dal Pozzo dedicata alla Madonna Stella Maris (Stella del Mare)- Il mosaico s’ispira all’antichissimo affresco ritrovato nella chiesa di S.Nicolò.
La ricorrenza fu ideata nel 1924 da Don Nicolò Lavarello, Rettore della Chiesa di San Nicolò di Capodimonte e da allora ogni anno la prima domenica di agosto si ripete.
L’intera giornata è dedicata alla Madonna protettrice di chi va per mare.
Isola di Tinetto – La statua della Stella Maris
Camogli - STELLA MARIS; Giuseppe Bozzo, 2003
olio su tela cm 120 x 80
Maria, come recita un'antico inno, è, specialmente nel mese di Maggio, invocata come "Stella Maris". Perchè la Madonna viene chiamata "Stella del Mare"? Le stelle si presentano come un segnale luminoso e posseggono un loro fascino simpatico e misterioso per tutti noi, ma per quanti operano in mare esse sono sempre state fondamentali per la sicurezza della navigazione.
Quando il cielo era limpido e la notte serena, la loro fiammella era il richiamo rassicurante per il procedere in mare ed in vista della meta desiderata. Ed anche quando il firmamento restava oscurato dalle nuvole, era motivo di fiducia il pensiero che comunque le stelle al di là continuavano ad esistere e non cessavano di mandare la loro flebile luce, anche se momentaneamente non veniva percepita.
Nel mare della vita tutti abbiamo bisogno di avere qualche stella, che ci mandi la sua luce, ci indichi il cammino, ci doni sicurezza. Quando siamo sinceri con noi stessi sentiamo che non si può vivere in una continua oscurità e senza almeno qualche certezza. La notte della mente e del cuore fa paura, suscita ansia, blocca la vita e nessuno può essere talmente masochista da voler vivere in una situazione di perenne confusione e di vuoto interiore.
Abbiamo bisogno di luce spirituale per vivere sereni, vogliamo vedere davanti a noi il cammino da percorrere, desideriamo conoscere la strada del nostro destino e la meta della nostra vita.
Maria può essere quella guida materna che la nostra vita ricerca, si presenta come la stella luminosa del mattino delle nostre giornate, è la voce di quel navigatore spirituale che indica la strada da percorrere.
“Fate quello che Gesù vi dirà”. Ecco la voce della stella, ecco l’indicazione del navigatore. Ha un nome, Maria, e dice una cosa: “Fate quello che Gesù vi dirà”.
Maria è la stella del mare della vita, che manda la sua luce solo a quanti alzano gli occhi verso di lei e sanno mettersi nel silenzio, come quando vogliamo ascoltare il silenzio delle stelle.
Solo chi sa stare in silenzio può percepire la voce dell’altro che parla, riesce ad ascoltare i propri sentimenti, ha la capacità di rispondere agli interrogativi del suo cuore e quindi riesce a dare luce al cammino della propria vita.
La Stella Maris si festeggia la prima domenica di agosto. Questa festa risale al '400 ed è dedicata alla "Stella di Mare", titolo con il quale i marinai e pescatori venerano la Madonna.
La sera in chiusura della festa vengono lasciati in mare da imbarcazioni o a nuoto dai bagnanti migliaia di lumini accesi, che donano uno spettacolo suggestivo e imperdibile.
Ü Dragun incendiato
Durante la festa della Stella Maris, una processione di barche ornate a festa parte dal porticciolo di Camogli per raggiungere Punta Chiappa dove si trova l'altare della Madonna "Stella di Mare".
“Vi è un incanto nei boschi senza sentiero ed è un’estasi sulla spiaggia solitaria vi è un rifugio dove nessun importuno penetra. Accanto alla profondità del mare ed alla musica del suo frangersi riesco ad amare più la natura di quanto ami l’uomo. In questi colloqui riesco a liberarmi da quanto sono o credo di essere stato per essere un’unica cosa con l’universo e sentire quanto non riesco ancora ad esprimere e che non so neppure nascondere.“
Scritto da Lord George Gordon Byron allo Stella Maris nell’anno 1821
Ü Dragun – Sciabecco-Galea simbolo della città di Camogli
Alla processione tra le varie barche partecipa anche Ü Dragun. Una volta raggiunto lo scoglio di Punta Chiappa viene celebrata la Santa Messa.
Significato
Nome composto da Maria e Stella. Maria deriva dall'ebraico Maryàm e vuol dire "principessa, signora", mentre Stella ha origine latina ed il suo significato è "luminosa come un astro". Può comparire anche nelle forme Maria Stella o Maristella. Stella Maris ossia Stella del mare è un antico titolo utilizzato per Maria Vergine, madre di Gesù. L'onomastico può essere festeggiato il 12 settembre giorno dedicato al Santissimo Nome di Maria oppure l'11 maggio in memoria di Santa Stella martire.
L’immagine della STELLA MARIS qui raffigurata è forse la più conosciuta a bordo delle navi
MAESTRA E SIGNORA DEL MARE
Secondo questa interpretazione il nome di Maria deriverebbe da MOREH (ebr. Maestra-Signora) + YAM (=mare): come Maria, la sorella di Mosè, fu maestra delle donne ebree nel passaggio del Mar Rosso e Maestra nel canto di Vittoria (Es 15,20), così "Maria è la Maestra e la Signora del mare di questo secolo, che Ella ci fa attraversare conducendoci al cielo" (S.Ambrogio, Exhort. ad Virgines).
Altri autori antichi che suggeriscono questa interpretazione: Filone, S. Girolamo, S. Epifanio. Questo parallelo tipologico tra Maria sorella di Mosè e Maria, madre di Dio, è ripreso da S. Agostino, che chiama Maria "tympanistria nostra" (Maria sorella di Mosè e la suonatrice di timpano degli Ebrei, Maria SS. è la tympanistria nostra, cioé dei Cristiani: il cantico di Mosè del Nuovo Testamento sarebbe il Magnificat, cantato appunto da Maria: questa interpretazione è sostenuta oggi dal P. Le Deaut, uno dei più grandi conoscitori delle letteratura tergumica ed ebraica in genere: secondo questo autore, S. Luca avrebbe fatto volontariamente questo parallelismo.
LA STELLA MARIS
NELLA POESIA
Quando nel volto di Maria il poeta Giorgio Caproni ricordava con nostalgia inquieta la fede della sua infanzia: "Nel vago della notte, io disperso mi sorprendevo a pregare. Era la stella del mare".
Oggi festeggiamo il nostro destino, che è di vita e non di morte. Maria, assunta in cielo, dice che il miracolo della Resurrezione non è privilegio divino, ma meta per tutti. La Vergine ci precede, e ci mostra la via.
Non a caso una delle metafore più usate dai poeti di ogni tempo è proprio quella di Maria stella del cielo, che indica la rotta ai naviganti.
È un'immagine che usa anche Giorgio Caproni, uno dei massimi lirici del '900. Nella sua poesia Alla Foce, la sera (Frammento su un ricordo d'infanzia), tratto dalla raccolta Il conte di Kevenhuller, si trova una Maria luminosa, che abita il cielo:
La vedevo alta sul mare.
Altissima.
Bella.
All'infinito bella
più d'ogni altra stella.
Bianchissima, mi perforava
l'occhio:
la mente.
Viva.
Più viva della viva punta -
acciaiata - d'un ago.
Ne ignoravo il nome.
Il mare
mi suggeriva Maria.
Era ormai la mia
sola stella.
È, come dice il titolo, un ricordo d'infanzia: Caproni (1912-1990) è stato un poeta in perenne conflitto con il tema di Dio, che non si è risolto in una fede positiva. Eppure la misteriosa assenza di Dio non lo ha mai lasciato tranquillo. Ma da bambino aveva fede, con un particolare affetto per la Madonna:
Nel vago
della notte, io disperso
mi sorprendevo a pregare.
Era la stella del mare.
Caproni stesso racconta della sua devozione mariana in pagine bellissime, raccolte in Il mondo ha bisogno dei poeti. Intervista e autocommenti (1948-1990):
Da bambino, volevo tanto bene alla Madonna che, quando me ne regalarono una - tutta bianca, di gesso, forse una statuina della biancoceleste Madonna di Lourdes- mi venne addirittura voglia di costruirle una chiesuola.
La madonna cantata nella poesia è frutto del pennello di un pittore francese che Caproni bambino conosceva e frequentava: Jean Bourillon, a cui sono dedicati i versi. Un giorno il poeta vide un quadro preparato dall'artista per una festa di mare, con Maria sulle onde. E gli rimase profondamente impresso. Poi la vita gli fece perdere la fede, ma rimase il ricordo di quell'immagine e del suo autore:
La tua stella, Jean,
così remotamente morto
con la mia infanzia, e in una
con tutta la tua opera...
Jean
senza fortuna...
Amico
(in gioia e in disperazione)
dei miei sussulti...
Di me:
della mia diffrazione
nel tempo che ormai mi allontana -
sempre più mi allontana -
dalla nascita e - forse -
(oh Jean!) dalla mia stessa morte...
È esperienza comune: anche in chi ha perso la fede rimane un ricordo, una nostalgia forse, almeno della materna figura della Vergine. È un'eco che non abbandona il cuore dell'uomo.
Non si può guardare a Maria che con affetto e gratitudine:
«Ciao stella del mare» mi sorprendo a dire con voce sommessa. «Ciao mio povero Bourillon, che grazie al tuo quadro, e per virtù del tuo quadro, mi costringi ancora (e te ne sono grato) a salutare Maria, come la salutavo nella mia cameretta di fantolino fidente - bella e protettrice - a capo del mio lettuccio».
LA STELLA MARIS COME EFFIGE DI DEVOZIONE DEI MARINAI NACQUE IN QUESTO EREMO di S. NICOL0’ DI CAPODIMONTE - (foto sotto)
La Chiesa di San Nicolò di Capodimonte del XII secolo è situata a 97 metri sul mare lungo il sentiero che conduce dalla chiesa parrocchiale di San Rocco, 221 metri sul mare alla celebre Punta Chiappa. Qui la vegetazione mediterranea e di macchia raggiunge la sua più intensa espressione: pino silvestre, d’Aleppo, lecci centenari, querce, castagni, ulivi e poi la fragranza dei mirti, corbezzoli, eriche giganti, ginepri, ulivi selvatici, lecci nani, cactus, ginestre, caprifogli, pistacchi, alaterni, citisi, carrubi nani, melograni selvatici, timo, capperi e dovunque spunta la Isca con la quale gli abitanti del luogo fanno corde resistentissime all’acqua salata.
La chiesa romanica fu fondata, secondo la tradizione, nel XII secolo dai monaci di San Rufo nei pressi di una già presente cappella intitolata a san Romolo del 345. Abbandonata dal XV secolo per le frequenti incursioni dei pirati e trasformata in abitazione civile dopo l'editto napoleonico, fu nuovamente riaperta al culto religioso dal 1870. Tra le tracce di affreschi vi è la raffigurazione di una Madonna che protegge un'imbarcazione, la Stella Maris, ripresa nel mosaico di Punta Chiappa e oggetto di venerazione durante le omonime festività religiose.
Tutto il complesso è stato abbandonato nel XV secolo a causa delle ricorrenti invasioni dei pirati saraceni, e trasformato in abitazioni civili durante il periodo napoleonico. Gli interventi di restauro effettuati tra il 1925 e il 1926 hanno restituito alla chiesa l'originale aspetto romanico con facciata in pietra viva e portale strombato con colonnine marmoree.
L'interno è caratterizzato da una pianta a T con tre absidi e unica navata in pietra nera sulla quale sono ancora visibili tracce di affreschi. Tra questi si nota la Madonna che protegge una barca durante una tempesta: è il tema della Stella Maris ripreso sulla stele a mosaico di Punta Chiappa.
Inizio modulo
Per il mio nuovo viaggio lungo le rotte della memoria, non cerco porti idonei alla partenza o ai ritorni; non cerco nave od equipaggio. La terra, la mia, farà da porto e da riparo; e magicamente sarà nave ed equipaggio. Insieme veleggeremo, fatalisticamente sospinti da ataviche maledizioni, da fallaci certezze, da vecchie e nuove paure, alla ricerca di serene spiagge, di gioiosi lidi. Alla Stella del Mare raccomando questo singolare veliero, insieme ai corpi ed alle anime del nostro equipaggio. A mia madre rivolgo pensiero e gratitudine e a lei dedico gli esiti incerti e le possibili conquiste del viaggio; a mia moglie, come ad ogni partenza, la promessa del primo abbraccio del ritorno.
Il comandante
ALBUM FOTOGRAFICO
Uno scorcio suggestivo di Punta Chiappa
Punta Chiappa - Camogli. Opera di F. Dal Pozzo dedicata alla Madonna Stella Maris (Stella del Mare).
Madonna del Tinetto
La statua della Madonna del Tinetto mi ha fatto ricordare un episodio molto vicino al cuore anche per ricordi familiari.
La statua era stata abbattuta da una mareggiata e prima della sua ricostruzione mio figlio, che è un video artista con il nome Masbedo, aveva girato un filmato e scattato delle foto che avevano portato ad aggiudicare a Masbedo il premio nazionale Gairo di fotografia. Il filmato, dal titolo:
"Schegge d'incanto in fondo al dubbio"
trattava della donna nella sua dimensione complessa all'interno della coppia. Per la realizzazione del filmato era servito l'appoggio della Capitaneria per posizionare l'artista sul basamento dove prima c'era la statua e la cosa era stata complicata dal fatto che avevano voluto girare anche con inquadrature di mare mosso.
(Marcello Bedogni)
Camogli nella notte della STELLA MARIS
CARLO GATTI
Rapallo, 21 Luglio 2017
IL MARE INNAMORATO
IL MARE INNAMORATO
Alcuni credono che il mare sia una cosa inanimata: un minerale. lnvece no. E un essere vivo, con un caratterino bizzarro e bizzoso con cui bisogna fare i conti. Se i pescatori gli portano via troppo pesce, se gli uomini lo sporcano troppo con i loro rifiuti o lo soffocano con il loro petrolio, allora si altera, incomincia ad ondeggiare, a sbuffare spruzzi d'acqua e, siccome è enorme, ogni suo movimento provoca danni anche a grande distanza. In un paesino poco conosciuto sulla costa della Liguria, viveva una bambina che amava molto il mare. Era ancora piccolina, ma già brava a camminare e a parlare. Il suo posto preferito per giocare era la spiaggia, anche se sassosa e scomoda. D'estate il suo più grande divertimento era fare il bagno. Ogni volta che arrivava vicino al mare, bagnava la manina, si faceva il segno della croce ripetendo una giaculatoria che le aveva insegnato la nonna: "Ciao Gesù, io ti saluto nel più bello del Creato", poi immergeva di nuovo la mano, assaggiava il sapore del mare e diceva sempre: “Com'è buono”. Infine, se era estate, correva dentro e si lasciava afferrare dall'onda senza paura ed esclamava: “Com'è forte!”. Il mare a furia di sentirsi dire: bello, buono e forte si intenerisce, quando arrivava la bambina, regolava l'onda per non farle male, attirava le correnti per spingere al largo rifiuti e meduse, insomma si faceva più bello per lei. I pescatori locali, come tutti, ascoltavano le previsioni del tempo prima di avventurarsi a pesca e, se erano troppo brutte, se ne stavano a casa a dormire per non rischiar la pelle. Ben presto però si accorsero che, nella loro zona, si verificava un fenomeno strano. La radio annunciava: venti da sud, sud-ovest, mare forza sei, burrasche, facendoli correre a rinforzar gli ormeggi e brontolare per la perdita di guadagno. Il giorno dopo invece, dopo un inizio burrascoso, il mare si quietava, non rispondeva al vento e tutto ritornava tranquillo. “Ehi, Dario, ma hai sentito anche tu le previsioni. Non ci azzeccano proprio”. “Io metto la barca in mare" diceva Piero. Ormai è passata l'ora buona, ma andiamo lo stesso. Non si capisce più niente” rispondeva Dario con un'aria sconsolata.
I poveretti mettevano le barche in mare e per qualche ora tutto filava liscio. Finché la bambina stava sulla spiaggia, il mare faceva per lei il bello e il buono e calmava i suoi furori, ma quando lei rientrava a casa, tornava a imbizzarrirsi e ancor più si infuriava contro quei due o tre pescatori, che avevano osato sfidare la sua potenza.
Il mare vuole rispetto e se lo si prende sottogamba, c'è da pagarla cara. Cosi una volta i poveri Dario, Piero e Simone si trovarono di colpo in balia delle onde.
"Maria santissima, cosa succede?" gridava uno nella radio. L'altro a fatica rispondeva: "Presto, tiriamo su le reti. Cerchiamo di tornare in porto". ll terzo, sopraffatto dall'urlo del vento e dal mugghiar del mare, non riusciva a sentirli e, tra una bestemmia e una preghiera, tagliò la rete per affrettare il ritorno. Meglio perdere la rete che la vita, pensava con le lacrime agli occhi, senza capacitarsi di un cambiamento del tempo così repentino. Uno dopo l'altro ammaccati e grondanti rientrarono in porto, accolti con sollievo dai familiari, ma rimbrottati aspramente dalle autorità marittime, che non capivano come dei professionisti fossero usciti in mare con le previsioni catastrofiche annunciate. Inoltre non era la prima volta che lo facevano. Due sere dopo, passata la burrasca, i tre s'interrogavano ancora, davanti a un bicchiere di vino, sulle avventure vissute, anche se l'ultima era stata la peggiore. “In tanti anni non mi era mai capitato, che il mare cambiasse così improvvisamente” disse Dario. “Previsioni sbagliate, ne ho sentite tante”, riprese Piero, ma nelle realtà una cosa del genere non l'avevo mai vissuta, né sentita raccontare”. "A me è venuta voglia di cambiar mestiere” borbottò Simone, che aveva perso anche la rete. “No, dai non ti scoraggiare;” gli rispose Dario, la rete la ricompriamo con il fondo del Circolo; l'abbiamo fondato apposta per venire incontro alle vittime di incidenti che possono capitare a tutti noi, la cosa importante è che dobbiamo capire cosa è successo per non caderci un'altra volta” riprese pensieroso. “Sai, Agostina, quella bambina che sta vicino a me" disse Simone distrattamente, quando ha saputo quello che è successo, mi ha chiesto: "Perché non hai fatto una carezza al mare? Così si calmava". Beata innocenza. Per Piero fu come una rivelazione. “Accidenti, disse anche le altre volte e andata così. Il mare è brutto, poi ad una certa ora si calma, soltanto qui nel nostro golfo e, dopo qualche ora ricomincia il finimondo. "C'è qualcosa sotto!" concluse. “Cosa intendi con "qualcosa sotto"? gli chiese Dario. “Non lo so, ma dobbiamo indagare, vedere cosa succede in paese, quando il mare si calma. Non è normale”, rispose Piero. Dopo una settimana la situazione si ripeté identica. Previsioni cattive, tutti in porto, ma invece di starsene a casa a dormire, i nostri tre pescatori di divisero i compiti dell'indagine. “Tu Dario vai in chiesa a vedere se fanno qualche funzione Particolare”, disse Piero.” Tu Simone, controlla Agostina, la tua vicina di casa. Io intanto giro un po' per il paese e per il porto e sento cosa si dice” decise Piero. Dario non era un frequentatore abituale della chiesa e ci entrò con un certo imbarazzo. La chiesa era deserta, la luce scarsa penetrava dai vetri colorati in modo uniforme. A tratti però, durante qualche schiarita, la luce si intensificava e si raccoglieva in raggi obliqui, che andavano ad illuminare, come fari, un altare laterale tappezzato di ex-voto, dove era esposta una Madonna. Dario guardò incuriosito le pareti, che circondavano l'altare: i quadretti esposti rappresentavano per lo più scene di mare in burrasca, battelli inclinati con le vele ammainate e marinai imploranti. Sì, i suoi avi ne avevano passato delle belle in mare e nei momenti più bui si erano rivolti alla Madonna per aiuto. Lui non ci credeva molto, ma capiva come potesse essere successo. Così un po' vergognoso accese una candela, accompagnando il gesto con questo pensiero: "Fa' che non succeda più»" Poi se ne uscì senza aver ottenuto le informazioni che cercava. In chiesa non c'era nessuna funzione, anzi non c'era anima viva. Simone era affacciato alla finestra della cucina, quando vide Agostina uscire di casa con secchiello e paletta, accompagnata dalla mamma. “Ma dove andate con questo tempo?” chiese. “Alla spiaggia" rispose Agostina sorridendo. “Non scherzare. Quando il mare è grosso se la mangia la tua spiaggia" insistette Simone. Dove andiamo noi è riparato, intervenne la madre, e poi ad una cert'ora si calma sempre". Simone rimase interdetto. Lì per lì non sapeva se controbattere, se seguire le due vicine o se correre dagli amici araccontare quello che aveva sentito. L'indecisione gli fu fatale, perché nel frattempo le due si erano allontanate e lui non riuscì a ritrovarle. Uscì comunque di casa e si diresse verso il porto, dove incontrò Piero, intento a chiacchierare animatamente con due vecchi pescatori in pensione. Essi sfidavano il brutto tempo pur di non mancare all'abituale appuntamento sul porto, dove erano soliti trascorrere le mattinate rievocando le avventure passate e brontolando sul presente. “Ma come ve lo spiegate voi questo tempo matto?' stava chiedendo Piero al più anziano dei due. “Quando ero giovane io, le mareggiate c'erano solo d'autunno. Quelle sì, che erano mareggiate. L'onda arrivava contro le pareti della chiesa e gli spruzzi bagnavano le vetrate. Così, quando eravamo in chiesa, ci sembrava di essere in barca. Più sicuri, però. Poi hanno costruito questa barriera di scogli per proteggere le fondamenta della chiesa e il mare ha preso un altro giro. Non ci capisco più niente” rispose quello. “lo so” riprese con pazienza Piero "vi ricordate se il mare era così variabile? Agitato, poi quasi calmo e poi di nuovo in burrasca nello stesso giorno?” “No, no, rispose l'altro "se era scirocco durava tre giorni, se era libeccio un giorno e una notte, poi piano piano si calmava. Il maestrale non ci dava tanto fastidio. Bastava stare all'interno del golfo, ma allora si pescava lo stesso. Non come adesso che se non andate al largo, non prendete niente". “E secondo voi, cosa può essere a rendere il mare così matto?”. Chiese ancora Piero. “Eh lo so io, lo so io, rispose il primo. La bomba atomica, gli esperimenti. Ecco cos'è. Dopo la guerra niente è stato più come prima”... concluse scrollando il capo. Intervenne Simone dando di gomito a Piero.
“Vieni al bar" disse "che ti devo raccontare una cosa". Lì, al riparo da orecchie indiscrete, gli disse in quattro e quattr'otto cosa gli avevano detto Agostina e sua madre. A Piero pareva una scemenza e mentre stavano discutendo arrivò anche Dario, che non aveva scoperto niente. Uscirono insieme e guardarono il mare: pareva un agnellino innocente con le sue piccole onde a ricciolo bianco. Uno scherzo. “Un imbroglione" gli urlò Piero vedrai che scopriremo il tuo trucco. Insieme si incamminarono verso le spiagge di levante e lì, in una piccola insenatura protetta dagli scogli, videro Agostina che giocava beatamente con i piedi nell'acqua e sua madre, che faceva la maglia. "Avete un bel coraggio voi due, incominciò Piero "a star sulla spiaggia con questo tempo”. “Vede che il mare si è calmato?" rispose la signora guardando Simone "siamo fortunate. Noi veniamo quasi tutti i giorni alla spiaggia. Quando Agostina andrà a scuola sarà diverso, ma per adesso ce la godiamo". “Buon divertimento allora» risposero i tre allontanandosi, con la testa confusa da pensieri contrastanti. Non ne parlarono più tra loro, per timore di essere presi per creduloni, però, come per un tacito accordo si misero a turno sulle tracce di Agostina. Il fenomeno del mare, che si calmava, quando Agostina era sulla spiaggia, si verificava sempre. Non sapevano che spiegazione dare, non intendevano parlarne ad altri, ma tra loro presero alcune decisioni. “Senti”, disse Piero rivolto a Simone "devi invitare Agostina sulla barca a pescare". Ma mi è d'impiccio, sei matto. Una bambina di quattro anni in barca a pescare, si ribellò Simone. “Cos'hai in mente?, chiese Dario. “Ho pensato che Agostina potrebbe essere il nostro portafortuna”, rispose Piero. Simone, che la conosce meglio, la porta in barca due o tre volte col mare buono, per farle prendere confidenza. Un giorno, quando ci sarà burrasca usciremo tutti e tre sulla barca di Simone con Agostina e magari non ci succede niente. Peschiamo quando tutti gli altri sono in porto. Possiamo vendere al prezzo che vogliamo, se siamo gli unici ad averlo" concluse. “Mi pare un'idea disonesta e pericolosa”, disse Dario. “E anche sciocca, esclamò Simone io non ci sto. Lasciatemi in pace! “Ohi te, che fai il cavaliere” lo rimbrottò Piero. "Ti devi ricomprar la rete. Vorrai mantenere la tua famiglia in qualche modo? Non facciamo niente di male, sfruttiamo solo un segreto, che gli altri non conoscono». In breve Piero vinse la resistenza degli altri due e Agostina fu invitata a pesca. La prima volta la mamma rifiutò, poi cedette alle insistenze del pescatore e della bambina. "Dai mamma, lasciami andare. Deve essere bellissimo stare in mezzo al mare. Anch'io da grande farò la pescatrice" insistette Agostina. “Si, la rana pescatrice" rise la madre. Per due volte Agostina uscì in barca con Simone. Il mare era calmo, i pericoli lontani e la piccolina tornò a casa orgogliosa con qualche pesce in mano. Una sera dopo aver ascoltato alla radio le previsioni del tempo, che annunciavano vento forte e mare agitato i tre si telefonarono. Piero, che era la mente del gruppo, organizzò il lavoro per il giorno dopo. Si accordarono per uscire in mare tutti e tre sulla barca di Simone con Agostina come protezione contro la furia del mare. Naturalmente dovevano ricorrere ad uno stratagemma per ingannare la mamma di Agostina. Questa parte antipatica toccò a Simone. “Buongiorno signora. Oggi è brutto tempo e non si va. Se vuole porto Agostina a fare un giretto, tanto sono disoccupato”. “Perché no?”, rispose la madre, che era indaffarata ad impastar ravioli. “La copra bene, che tira vento”, suggerì il pescatore. Una volta fuori di casa Simone disse ad Agostina: ti confido un segreto, che deve restare tra noi, per non spaventare la mamma. Ti porto in barca anche oggi. Non aver paura. Vedrai che emozione, disse sorridendo, quasi sicuro che il mare si sarebbe calmato, vedendo la barca con Agostina sopra. La bambina non rispose. Gli camminava a fianco in silenzio, preoccupata per la bugia, ma curiosa di vedere il mare in burrasca. Appena la barca con i quattro doppiò il molo del porto, si trovò in difficoltà. il mare era davvero spaventoso: era impossibile calar le reti e difficilissimo timonare. Piero e Dario, a fatica, presero Agostina sotto le ascelle e alzarono le braccia la cielo come per offrirla in voto urlando: ”Mare, mare, calmati. Guarda chi c'è a bordo!”. A quel punto scoppiò il finimondo. Il mare, vedendo che quei pazzi avevano osato sfidarlo usando Agostina come scudo, perse del tutto la ragione e si scagliò con forza contro la barca sballottandola come fosse stata una foglia secca. Agostina era sicura che se avesse potuto mettere la mano in acqua e accarezzare il mare, quello si sarebbe placato, ma lì a prua, tenuta come una polena dai due pescatori, era davvero spaventata. Incominciò a pianger e a invocare la mamma. Piero urlava a Simone: “Vira, vira. Rientriamo”. L'amico aveva difficoltà di manovra, mentre era di fianco, un'ondata più vigorosa delle altre, si abbatté sul battello spaccandolo in due. Era il naufragio, altro che pesca miracolosa. In un attimo, mentre la barca colava a picco, i tre avevano capito il loro errore. Preoccupati per la bambina, cercavano di afferrarla e salvarla, ma il mare aveva già deciso. Un'onda orlata di spuma bianca la rapì dalle loro mani, che annaspavano e la fece sparire alla loro vista. Agostina si trovò a cavallo di quest'onda anomala, che, senza mai infrangersi, galoppava veloce verso la solita spiaggetta dove amorosamente la posò a terra fradicia e piangente. I tre aggrappati ai rottami del battello intanto cercavano di galleggiare, mentre il mare s'infuriava contro di loro. Passarono un quarto d'ora lungo un secolo tra pianti, insulti e preghiere. Agostina a terra si chiedeva che fine avesse fatto il suo amico Simone e gli altri due pazzi, che l'avevano presa e sollevata e chiedeva al mare di salvarli, di avere pietà di loro. Il mare sembrava sordo quel giorno, ma dopo un po' si calmò. Adagio, adagio i tre pescatori avevano raggiunto la riva terrorizzati e ammaccati. Naturalmente non la passarono liscia. Oltre alla perdita della barca, dovettero subire un processo e furono condannati a tre anni di prigione. In prigione ebbero modo di riflettere e decisero di cambiar mestiere, perché avevano intuito che il mare non avrebbe perdonato un'altra mancanza di rispetto. Era già andata bene così.
ADA BOTTINI
17 Luglio 2017
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LA GALLETTA DEL MARINAIO
LA GALLETTA DEL MARINAIO
UN PO’ DI STORIA
Le leggende dei lupi di mare raccontano che la razione giornaliera di acqua era prevista in tre litri a persona. Il cibo era costituito principalmente da patate, legumi secchi, carne salata e stoccafisso. Per anni piatto dei poveri anche sulla terra ferma ed oggi pietanza costosissima dove ti servono scagliette di stoccafisso con una marea di patate, polenta bianca, gialla e birulò e il tutto pepato a più non posso. Come nel “Cundigiun” erano sempre presenti le gallette che venivano conservate in cassoni foderati di zinco per mantenerle lontane dall’umidità, dagli scarafaggi e dai topi ma, ciò nonostante, dopo un paio di mesi di navigazione, spesso le gallette venivano “abitate” da vermi biancastri ma guai a buttarle. Si prendevano e si adagiavano, o meglio, si sbattevano più volte sul tavolo, se non sulla coperta, per esserne liberate dai vermetti e renderle così mangiabili. A bordo erano conservati anche: fagioli, ceci, fave, patate. Non mancavano l’aglio, le cipolle e il lardo che serviva necessari per fare il minestrone.
Velieri e CADRAI nel porto di Genova
Certo che non mancava il pesce pescato fresco sul posto. Cioè in mare. I marinai riuscivano facilmente ad arpionare un delfino; la carne veniva tagliata a strisce ed accatastata in un mastello coperto da dei pesi per far defluire il sangue. Dopo qualche giorno venivano messe in salamoia e poi venivano appese al sole ad essiccare. Dicono si trattasse di una squisitezza. Poi denominata “mosciame” e oggi proibitissimo. Alcuni fanno derivare il termine dal genovese “muscio” ossia persona di gusti difficili o comunque difficile da accontentare, tanto era considerato succulento.
E ora parliamo delle gallette e, nello specifico, delle gallette del marinaio.
La galletta era un prodotto a chilometro zero ma a “miglia” infinite. Era nata, come focaccina secca, quasi immangiabile se non bagnata, ideale sostituto del pane da mettere nelle zuppe e nelle insalate.
Le prime notizie risalgono al 1500 e riguardano l’uso delle gallette sui velieri, sciabecchi, galeoni ecc.
A bordo la galletta era l'unico “pane” per i marinai e si conservava per lunghi periodi. Per prepararla si usava una ricetta semplice: farina, acqua, malto, lievito di birra e sale.
Venivano infornate e cotte e la consistenza finale, era quella di una ciambellotta dura come il marmo. Le gallette a chilometro zero, venivano poi imbarcate per i lunghi viaggi. Prima dell’uso, venivano bagnate con l'acqua di mare, olio d'oliva e acciughe salate e ne veniva fuori una pietanza povera che non richiedeva cottura, non sempre possibile sulle barche dell’epoca e su quelle da pesca.
La galletta si sposava bene anche con il cibo che in contadini consumavano spesso quando si recavano nell’entroterra per falciare e fare provvista di fieno per l’invero. Non vi era casa di ogni frazione che non avesse almeno una bella mucca e il fogliame (fugiacu) e il fieno non poteva mancare in inverno.
LE GALLETTE DEL MARINAIO – OGGI
Panificio Maccarini – San Rocco di Camogli
Le famose gallette “Maccarini” servite calde
Tra gli scenari mozzafiato del Parco Naturale Regionale di Portofino e gli scorci incantevoli di località come Camogli e le sue frazioni, si respira aria di mare, di storia e di tradizione, tutte racchiuse in un unico prodotto della gastronomia locale che evoca l’antica vita di bordo dei naviganti liguri: la Galletta del Marinaio.
Incastonata tra mare e monti lungo la Rivera Ligure di Levante, Camogli sorge in riva al mare in una zona della costa compresa nel Parco Naturale Regionale di Portofino. Lo storico porticciolo e l’antica tradizione marinara contribuiscono ad ammantare di fascino le atmosfere incantate della cittadina ricca di suggestioni e di testimonianze del suo passato glorioso. Gli scorci mozzafiato e la posizione strategica rendono Camogli il punto di partenza ideale per visitare la Riviera di Levante ed i dintorni ricchi di paesaggi incontaminati che spaziano dalle cime innevate alle acque limpide del mar Ligure, e le numerose frazioni pittoresche e ricche di storia. Tra di esse merita una particolare menzione quella di San Rocco, facilmente raggiungibile percorrendo uno dei numerosi sentieri che si snodano dall’abitato di Camogli. Questo piccolo borgo vanta una posizione mozzafiato e si mostra come una splendida terrazza a picco sul mare dominata dalla bellissima chiesa di San Rocco edificata nella seconda metà del XIX secolo dai naviganti di San Rocco al posto della Cappella Campestre, ormai insufficiente ad accogliere tutti gli abitanti della frazione. Proprio lungo la strada per la chiesa, sorge lo storico panificio Maccarini dove si prepara ancora oggi la Galletta del Marinaio, una delle specialità più rappresentative della tradizione locale. Oltre a dedicarsi ai piaceri del palato, vale, però, la pena proseguire anche nell’esplorazione del territorio intraprendendo splendidi itinerari lungo i sentieri che raggiungono le più interessanti località del Monte di Portofino. Proseguendo, infine, verso il Golfo del Tigullio, una delle zone più apprezzate dai turisti di tutto il mondo, si raggiunge un’area caratterizzata dalla natura incontaminata dell’area protetta che lascia immediatamente il posto a località vibranti e vivaci come Portofino, meta prediletta del jet set internazionale, Lavagna, che custodisce uno dei principali porti turistici del Mediterraneo, Rapallo dove storia, arte e scenari da sogno si fondono in tutt’uno dalle suggestioni uniche, e Santa Margherita Ligure che, assieme a Sestri Levante, offre numerose incantevoli insenature in cui immergersi.
L’INGREDIENTE: Sono passati due secoli da quando sulle navi che salpavano dai porti liguri fecero la loro comparsa le Gallette del Marinaio. Erano tempi in cui le imbarcazioni a vela e i loro equipaggi rimanevano in mare per lunghissimi periodi, senza toccare porti, potendo contare soltanto sulle provviste imbarcate alla partenza che dovevano avere, dunque, la prerogativa di mantenersi a lungo. Proprio in quest’ottica nacque la croccante Galletta che a lungo accompagnò i marinai di leudi e pescherecci e che, soprattutto, si manteneva a lungo, anche per diversi mesi. Non è un caso, dunque, che questa croccante specialità sia diventata in breve tempo uno degli alimenti più diffusi tra gli equipaggi che potevano consumarla dopo averla fatta semplicemente rinvenire in acqua, accompagnata generalmente con le acciughe e condita con un poco di olio. Era questo il pasto tipico dei marinai. Una ricetta semplice chiamata Capponadda. Nonostante le necessità a bordo delle navi siano oggi profondamente cambiate e le comodità introdotte consentano una maggiore libertà nella scelta delle provviste da imbarcare, la Galletta non è mai scomparsa ed anzi è diventata un prodotto tipico estremamente rappresentativo della tradizione marinara che può essere gustato nella sua versione originale recandosi nello storico panificio della famiglia Maccarini, probabilmente l’unico che ancora la prepara secondo l’antica ricetta rimasta identica a quella di due secoli fa.
Le lettere di un affezionato cliente, il celebre Vittorio G. Rossi
Qui le Gallette del Marinaio sono una vera istituzione, al punto da aver fatto il giro del mondo e da essere state apprezzate da personalità illustri come Vittorio G. Rossi che ha riservato allo storico negozio dei Maccarini una dedica speciale.
Ricetta e varianti:
La capponadda originale, quella che si mangiava sulle navi, si prepara rompendo le gallette, strofinandoci sopra uno spicchio d’aglio e imbevendole di acqua e aceto per farle rinvenire. A parte bisogna spezzettare dei pomodorini, delle uova sode, e delle acciughe, aggiungendo capperi e olive. Gli ingredienti vanno poi messi in un recipiente largo, insieme al mosciame di tonno sbriciolato (o al tonno in scatola come dignitoso ripiego): a questo punto si uniscono le gallette scolate, rigirando il tutto con una generosa dose di olio d’oliva. Attenzione, gli integralisti della capponadda non tollerano l’uso della bottarga né dei sottaceti, che qualcuno ha provato a infilare nell’insalata.
Nome e nascita incerti:
Antica CAMBUSA
Sull’origine del nome della capponadda ci sono versioni contrastanti. C’è chi sostiene che il termine derivi dal latino caupona (taverna), a rimarcare la provenienza popolare del piatto, e chi suggerisce un’ipotesi più sofisticata: “capón de galea” era il nome ironico che si dava al pane duro dei marinai, richiamando la prelibata carne del cappone, appannaggio solo delle mense dei nobili genovesi. La carta d’identità della capponadda è incerta anche alla voce “luogo di nascita”: vari paesi della riviera di Levante se ne contendono la cittadinanza, neanche si trattasse di Cristoforo Colombo. È possibile che la sua prima apparizione sia avvenuta sui leudi, le imbarcazioni a vela con le quali i pescatori di Camogli andavano a pescare le acciughe in mare aperto. Proprio a San Rocco di Camogli (come a Chiavari del resto), hanno avuto l’idea di allestire una sagra della capponadda.
Una famiglia allargata?
Nonostante il nome, la capponadda non c’entra niente con la caponata di melanzane tipica della Sicilia. Di dubbia legittimità anche la parentela con il cappon magro, piatto tradizionale ligure a base di pesce e verdure con cui condivide l’origine del nome ma, a quanto pare, non della ricetta. Piuttosto, è ravvisabile un legame con la panzanella toscana, un classico “piatto di riciclo”, ideato per non buttare il pane raffermo.
Capponadda d’oltremare
Proprio come facevano i marinai della Repubblica di Genova, la capponadda ha colonizzato e imposto il proprio dominio su un territorio straniero. È infatti un piatto tipico anche di Carloforte, città fondata sull’isola di San Pietro, nella Sardegna sud-occidentale. Il motivo? All’inizio del XVIII secolo una colonia di liguri al seguito dei Lomellini, signori di Pegli, si trasferì sull’isola su invito di Carlo Emanuele III di Savoia (dal quale la città prende il nome), abbandonando l’isola della Tunisia che avevano occupato in precedenza. E sulle loro navi, c’è da scommettere, non mancava la capponadda.
GATTI CARLO
Sabato 8 luglio 2017
MAESTRI D'ASCIA RAPALLINI SUL LAGO DI GINEVRA
MAESTRI D’ASCIA RAPALLINI SUL LAGO DI GINEVRA
(LEMAN-GRAN LAC)
Altitudine 372 s.l.m, Lunghezza 72 km, larghezza 13 km, profondità max 309,7 mt
Lo sapevate che sul lago di Ginevra (lago Lemano) vi fu una presenza di navi da guerra? Nel XIII sec. i Savoia avevano una flotta di galee ormeggiate nei porti di Villeneuve (VD) e di Ripaille (Thonon, F). E’ accertata anche la presenza di Cantieri Navali che le costruivano servendosi di personale altamente specializzato. Le galee genovesi erano, ovviamente, il modello preferito dei Savoia che scelsero, per la loro supremazia navale, maestranze provenienti dai cantieri navali genovesi, non solo, ma é pure accertato che persino Rapallo inviò sulle rive del Lemano numerosi suoi figli tra cui due grandi specialisti: i maestri d’ascia Sacolosi ed Andreani.
Gli attrezzi del Maestro d’Ascia
Il maestro d’ascia é una professionista le cui origini affondano nell’antichità. Purtroppo di questi mitici personaggi, a metà tra l’artigiano e l’artista, ne rimangono pochi e sono introvabili. Costruire uno scafo preciso al millimetro presuppone anni di fatica e tanto amore per la costruzione navale. Esperienza, perizia e competenza sono tutti elementi che maturano nel corso del tempo, sotto la guida di maestri d’ascia più anziani, spesso nonni e padri che tramandano l’abilità nell’adoperare l’ascia da una generazione all’altra.
Vicino a Montreux troneggia il Castello di Chillon (XI Sec) il più visitato della Svizzera: 340.000 turisti/anno. La sua bellezza straordinaria, la sua suggestiva posizione sulla riva del Lago di Ginevra con le montagne a fargli da sfondo e il suo indiscutibile valore artistico affascinano proprio tutti, e non sono rimasti immuni dal suo fascino grandi poeti, letterati e artisti come Rousseau, Delacroix, Lord Byron e Victor Hugo.
Il suo ponte levatoio, i camminamenti che attraversano i bastioni e le torri di avvistamento sul Lago di Ginevra, fanno di Chillon un classico castello in stile medioevale che fu di proprietà prima dei Savoia nel 1200, poi dei Bernesi ed infine dei Vodesi. Costruito su un isolotto roccioso, la facciata rivolta verso il lago era la residenza principesca, mentre quella rivolta verso l’interno era la fortezza. Attraversando le mura del Castello, si ammirano i suoi affreschi risalenti al XIV secolo, le volte sotterranee in stile gotico, le sale di rappresentanza e la stanza da letto conservata al tempo della dominazione bernese decorate con stemmi gentilizi, le cappelle private, le armi antiche, i meravigliosi cortili e l’incredibile vista che si gode dalle torri e dai camminamenti di guardia sul Lago di Ginevra e Montreux.
Nell’archivio del castello di Chillon (nella foto) esistono i libri contabili che riportano molte notizie di questa migrazione specializzata dei nostri avi. Un’autentica sorpresa per noi rapallini un po’ curiosi... alla ricerca di qualche traccia di vecchia memoria, dove il nostro “vecchio amico” archivista descrisse la vita quotidiana militare del Medio-Evo su un lago alpino con le parole e i termini marinari storpiati dal genovese. Infatti, fin dall’inizio, molti termini tecnici utilizzati sui battelli del Lemano venivano usati dalle maestranze genovesi che lavoravano nei cantieri savoiardi. Con il passare degli anni il dialetto “marinaro” ligure prende curiosamente un accento valdese addolcendosi. I matafioni (cordame utilizzato per diminuire la superficie delle vele con vento forte) diventano “metafions” e poi “metafis”.
“Peguola”, il barile del catrame dei calafati (rendevano impermiabile lo scafo) sul Lemano diventa “pègue” e poi nel valdese pèdze.
Nel Castello di Chillon si ammirano molti dipinti di galee che, di primo acchito, destano qualche perplessità nel vederle veleggiare ai piedi di cime altissime ed innevate. Sale quindi la curiosità e si scopre che la prima galea fu varata nel 1287, era del tutto simile a quelle nostrane che combattevano i corsari nel Mediterraneo. La galea aveva lo scafo affusolato, e quando veniva lanciata a “tutti remi” (alla gran puta) mostrava la prora minacciosa come una spada “rostrata” pronta a penetrare nella fiancata del battello nemico per squarciarlo.
Questa meravigliosa galea del Lemano fu la prima di una serie di navi ancora più straordinarie. Fu annotato dal contabile del Castello di Chillon: “quando il vento era favorevole, si issavano le vele latine: due grandi triangoli fregiati delle armi dei Savoia, la mezzana ed il trinchetto e ci volevano ben duecento “aulnes” di stoffa per confezionare queste ali. (quasi trecento metri quadrati)”.
Viene ancora annotato: I costruttori navali, venuti da Genova per dirigere il cantiere, furono probabilmente spaventati dai rigori dell’inverno del Lemano per cui istallarono dei caminetti per scaldare le cabine del battello. I soldati stavano a prua. Dietro loro, una lunga passerella separava le file di rematori: il ritmo della frusta degli aguzzini stimolava lo zelo della ciurma.
La più grande galea della storia del Lemano fu varata intorno al 1300. Poteva imbarcare 380 uomini d’equipaggio: non solo rematori, ma anche arcieri, soldati e ufficiali che vivevano a bordo con tutti i loro domestici. Questa enorme imbarcazione s’allontanava dal porto alla testa di un convoglio di battelli più piccoli che avevano il compito di caricare il frutto del saccheggio di villaggi e di pacifici battelli mercantili.
Nel 1343 un devastante incendio partì dal centro di Villeneuve e il vento caldo (foehn) lo spinse verso la rada investendo la totalità delle navi. In pochissimo tempo avvenne la distruzione di una storica flotta che decretò anche la fine di un periodo storico che vide protagonista la genovesità marinara di quel tempo.
Purtroppo quei meravigliosi libri di contabilità del Castello di Chillon si fermano al 1352. I volumi più recenti sono scomparsi e, a partire da quella data, l’oblio avvolge più o meno la vita dei marinai d’acqua dolce ed i loro superbi battelli. Un oblio che durò fino all’invasione bernese “del Pais de Vaud” a metà del secolo XVI esimo.
Carlo GATTI
Martedì 17 novembre 2015
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L'ULTIMO "PRIGIONIERO" DI RAPALLO
L’ULTIMO “PRIGIONIERO” DI RAPALLO
Qualche giorno fa ho avuto l’occasione di visitare le segrete del castello cinquecentesco di Rapallo che fino ai primi anni ’50 erano adibite a carcere: sei celle in tutto. Improvvisamente, dopo tanti anni di amnesia, mi è venuto in mente quel tragico episodio che mise fine a quel luogo di detenzione umido e triste, una specie di “isola dei reclusi” dal sapore medievale, che ancora oggi emana un’atmosfera di orrore e paura pensando alle fragorose mareggiate invernali che colpiscono la vecchia struttura come colpi di cannoni. Ne parlai con gli amici della mia età e mi accorsi che nessuno di loro ricordava quel tentativo di evasione dell’ultimo prigioniero recluso che diede luogo al ferimento del guardiano. Pare che anche altri anziani rapallini abbiano rimosso quel brutto ricordo, veramente da dimenticare, tuttavia, la mia memoria ha continuato a galoppare fino a quando ho “inquadrato” visivamente un caro amico, la persona giusta e qualificata per riesumare quell’episodio da “Far west” che, a malincuore, fa parte della nostra storia cittadina.
Italo, noto commerciante di Rapallo, è il figlio di Giuseppe Pocorobba, collega del guardiano Rocco Canacari che fu ferito da un detenuto...
Prima di entrare nel vivo della vicenda, come ti spieghi che in quei primi anni ‘50 era ancora in funzione una prigione costruita nel XVI secolo?
L’istituto penitenziale di Rapallo era un “Carcere Mandamentale” ossia quasi dismesso, nel quale erano detenute le persone in attesa di giudizio per reati lievi, oppure condannate a pene fino a sei mesi.
Italo, sono passati tanti anni, so che eri un ragazzino come me, ma che di quell’avvenimento ricordi tutti i dettagli, per ragioni famigliari a te molto vicine. In questo momento penso che tutti i rapallini e rapallesi ti stiano ascoltando. Come si svolsero i fatti? Ce ne vuoi parlare?
Il detenuto usava farsi la barba con un rasoio di sicurezza che Rocco gli concedeva di usare. Fu proprio mentre riponeva il rasoio nella valigetta contenente i suoi effetti personali che si rese conto che, celata sotto la biancheria c’era ancora la sua pistola automatica. Da qui nacque l’idea della fuga… e la sua gravissima messa in opera. Giunse il giorno, in piena estate, in cui il detenuto impugnò l’arma e fece fuoco contro il guardiano con più colpi di pistola automatica. Per fortuna soltanto uno dei tre proiettili andò a segno nella nuca di Rocco Canacari fuoriuscendo dall’occhio destro devastandolo ma risparmiandogli miracolosamente la vita. Rocco, vecchia tempra di ex carabiniere resistette all’aggressore e lo respinse mentre questo lo colpiva alla testa, ancora una volta, ma con il calcio della pistola. Alla fine Rocco, sebbene fosse ferito gravemente, riuscì coraggiosamente a barricarsi nel suo ufficio.
Credeva di morire e con il dito intinto nel proprio sangue, scrisse sul grande registro giornale del carcere un messaggio alla moglie raccomandandole i numerosi figli.
Ancora oggi credo che solo la Madonna di Montallegro abbia potuto mettere la sua mano protettiva sul povero Canacari. Infatti, dopo il terzo sparo del detenuto, la pistola s’inceppò.
Il racconto della seconda parte di questa brutta storia riguarda il “salvataggio” di Rocco. La vicenda é molto meno cruda, ma forse più avvincente perché coinvolse più persone e per fortuna molto in gamba...
L’operazione di salvataggio di Rocco Canacari avvenne grazie alla reazione dei due detenuti che si trovavano nelle rispettive celle che danno sulla passeggiata. Vista la scena e capita la situazione, i due cominciarono a urlare gridando attraverso le finestre a “bocca di lupo” per attirare l’attenzione dei passanti. Fu proprio grazie a queste richieste di aiuto che fu possibile allertare le forze dell’ordine. Fu mandato in bicicletta il vigile Gabbiati a casa nostra per avvertire mio padre che subito si precipitò ad aprire le carceri, fu cos’ possibile soccorrere il povero Canacari.
Ed anche qui la Madonna lo aiutò, perché eravamo in procinto di salire sulla carrozza di “Badin” che ci doveva portare in stazione a prendere il treno per Piazza Armerina (Sicilia), paese natale di mio padre. Eravamo in piena estate ed il viaggio era stato programmato da tempo.
Lo sparatore che aveva sognato la fuga, presto si rese conto che non sarebbe più potuto evadere senza le chiavi (dei tre accessi) alla prigione e, in preda al panico, ritornò quasi subito nella sua segreta lato mare, e cadde nella disperazione più totale. Era consapevole del guaio che aveva combinato, ma ormai era troppo tardi.
A quel punto si doveva salvare Rocco che perdeva sangue copiosamente.
Rocco Canacari fu prelevato senza altri danni. Il coraggioso guardiano si riprese e, nonostante la grave invalidità, continuò il suo lavoro nelle nuove carceri costruite nel frattempo nella ex Casa del Fascio. Lavorò fino alla pensione e visse ancora per molti anni.
Un ricordo personale dell'articolista: quando lo sparatore fu prelevato dal carcere per essere trasferito altrove, dovette fare i conti con una folla inferocita che tentò di linciarlo.
Alcuni cenni storici
La costruzione del castello cinquecentesco
Chi non ha mai sentito ricordare, con un certo brivido, l'assalto di Dragut al nostro borgo? Ebbene, dietro a questo nome, che nei documenti dell'epoca è storpiato in Droguth, Draguto, Dragute, Dorghutto ed in tante altre forme, si delinea la minacciosa figura di quel Torghud che, catturato nel giugno del 1540 da Giannettino Doria nella baia di Giralata presso Aiaccio, era finito incatenato al banco dei rematori a bordo d'una delle galee genovesi del grande ammiraglio Andrea Doria.
Ed in questa miserevole condizione avrebbe certamente terminato le sue avventure se Khair-Ad-Din, il più potente corsaro barbaresco, tristemente noto col nome di 'Barbarossa', non avesse posto fine, dopo qualche anno alla sua prigionia provvedendo al pagamento del cospicuo riscatto.
Così Torghud poté ben presto riprendere ancora più spavaldo a correre il mare sotto il vessillo della mezzaluna, gettando ovunque il terrore, in una travolgente ascesa che, di successo in successo, lo porterà prima ad essere il più temuto pirata tra gli 'infedeli' e poi al governo della città di Tripoli. Una palla di cannone, infine, lo ucciderà il 25 giugno 1565 sotto le mura di Malta da lui assediata.
L'assalto al borgo
Nella primavera del 1549 Torghud "Dragut", tornato libero dalla prigionia per mano di Andrea Doria, è pronto ad iniziare una nuova serie di scorrerie. Alle prime luci dell'alba del 4 luglio 1549, le navi turche, che col favore delle tenebre si erano avvicinate alla costa, puntano rapide al cuore della baia rapallese. Gli uomini, su veloci imbarcazioni, prendono terra in tre punti: presso la Porta Saline, alla Marina delle Barche, al centro del litorale, e nel quartiere della Stella, in Avenaggi. Brandendo le armi, i pirati si gettano assetati di preda sulle abitazioni, dilagando in ogni direzione. La sorpresa è assoluta e non si riesce ad organizzare un tentativo di resistenza in qualche modo efficace. Agli abitanti, quindi, non resta che cercare la salvezza con una fuga disperata. Dai documenti si ha notizia della cattura di oltre ventidue rapallesi che, nell'agosto seguente, verranno sbarcati ad Algeri, iniziando per loro indicibili sofferenze e per i parenti il tormento di tentarne il riscatto a prezzo di enormi sacrifici. Ingenti anche i danni materiali subiti dal nostro borgo per la devastazione delle botteghe, dei laboratori artigianali, delle case.
L'assalto subìto il 4 luglio 1549 da parte del pirata saraceno, determinò i rapallesi a perorare presso il Senato genovese l'erezione di un forte a protezione della spiaggia; una delegazione, guidata da Fruttuoso Vassallo, sottopose la richiesta che, sollecitamente, ottenne l'assenso desiderato. Da quel momento, il Castello costituì, con le fortificazioni di San Michele di Pagana, Santa Margherita Ligure, Paraggi e Portofino, il sistema difensivo del golfo Tigullio.
All'inizio del XIX secolo, il castello, armato di cannoni e presidiato da una decina di soldati, mantiene la sua doppia funzione di carcere-baluardo. Dopo l'unità d'Italia, però, iniziano i grandi cambiamenti: il primo ed il secondo piano vengono trasformati per divenire sede della Guardia di Finanza, mentre il piano celle continua a svolgere il suo compito con pochi rimaneggiamenti. Nel 1958, il Comune di Rapallo diviene proprietario del forte e nel 1963 verrà avviato un primo restauro che porterà il castello ad assumere la funzione di sede espositiva.
Il castello di Rapallo, più che un castello vero e proprio, è un fortino di forma rettangolare, con una massiccia parete curva a Sud Ovest, circondato dal mare ed unito alla costa da una sottile striscia di terra. La struttura è composta da un piano destinato alle carceri, due piani superiori, una torre di coronamento ed una garitta aggrappata alla parete Nord Est. Il paramento esterno è quasi completamente in ciottoli e blocchi di pietra a spacco. Alla base, una scogliera frangiflutti artificiale difende il forte dai colpi di mare. La copertura del corpo principale è in sottili lastre di ardesia, mentre la torre termina con una copertura praticabile piana protetta da un parapetto. L'unico accesso attuale consente di accedere direttamente al primo piano attraverso una scala in muratura.
Carlo GATTI
9 Giugno 2017
A VOI UOMINI DI MARE (Poesia)
A VOI UOMINI DI MARE
A voi coraggiosi
che avete disancorato
le certezze
per indagare
oltre l’orizzonte
in quell’essere
mutevole
minaccioso e accogliente
che riempie gli occhi e il cuore
di meraviglia grata
al Creatore
per un dono così travolgente.
A voi il nostro grazie
la nostra ammirazione
la nostra lieve invidia
per tutte le esperienze
che hanno arricchito
la vostra vita.
ADA BOTTINI
Rapallo, Mercoledì 10 Maggio 2017
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IL SOMMERGIBILE DI PORTOFINO Alla ricerca dell'U455
Il sommergibile di Portofino
Alla ricerca
dell’U455
A cura di Maurizio Brescia – in
collaborazione con
U-Boote 995 C VII e, sullo sfondo, la Marine Ehrenmal
Quest’anno, la sezione della Mostra “Mare Nostrum” dedicata alle unità militari e alla loro storia tratta un argomento di grande impatto tecnico e documentale ma anche (e direi soprattutto) “emozionale” ed avventuroso: il famoso relitto dell’ “U-boot di Portofino”, le cui vicende hanno suscitato, in particolare negli ultimi tempi, un notevole interesse tra il grosso pubblico, non soltanto a livello locale ma anche nazionale.
Come ha sapientemente descritto l’amico Emilio Carta nei suoi libri della serie “Navi e Relitti”, sui fondali della costa ligure sino ubicati numerosi scafi di navi mercantili e militari affondate, appartenenti alle più diverse nazionalità, che – dall’età romana sino ai giorni nostri – testimoniano l’importanza che il Mar Ligure ha sempre avuto, non soltanto per la storia della navigazione ma per la storia tout court. In questo ambito, le vicende della seconda guerra mondiale rivestono un’importanza del tutto particolare per la loro vicinanza nel tempo alla nostra epoca, nonché per l’interesse che suscitano tra gli studiosi, i cultori di “storie di mare” ed i semplici appassionati ai fatti di un periodo storico le cui valenze tragiche hanno riguardato da vicino la Liguria ed il mare antistante le sue coste.
La presenza di un relitto un paio di miglia a Sud Ovest del promontorio di Portofino era nota da diversi anni ai pescatori del Levante: spesso, in quel punto, le reti restavano impigliate in “qualcosa” che giaceva su fondali di oltre 100 metri di profondità, e le testimonianze concordavano tutte sul fatto che si dovesse trattare di uno scafo di dimensioni non piccole, sicuramente non certo una barca da pesca o un altro tipo di unità dalle ridotte dimensioni.
Una decina d’anni fa, le prime immersioni subacquee sul sito contribuirono a far nascere iniziali ipotesi sulla reale natura del relitto, ma solo con le esplorazioni del “sub” professionista Lorenzo Del Veneziano è stato possibile acquisire elementi certi e definitivi (e – in particolare – fotografie e filmati) che, in breve, hanno assunto una visibilità mediatica e una notorietà quasi impensabili.
Kiel, U-Boote-VII C, dello stesso tipo rinvenuto nelle acque di Portofino
Tra il 2005 e il 2008 Lorenzo del Veneziano ha effettuato una quindicina di immersioni sul sito, parecchie delle quali insieme al noto subacqueo e documentarista Roberto Rinaldi di Roma: come vedremo, l’esito di queste attività – altamente professionali – ha permesso di identificare con buona certezza il relitto come quello del sommergibile tedesco U455, appartenente al tipo “VII C” e affondato nei primi giorni del mese di aprile del 1944.
Le immersioni di Lorenzo del Veneziano e di Roberto Rinaldi hanno trovato riscontro in un servizio televisivo, trasmesso su RAI UNO nel 2007 nell’ambito del programma Linea Blu e – più recentemente (luglio 2008) – in un documentario dal titolo Il mistero dell’ultimo U-Boot, realizzato da Roberto Rinaldi per la serie “I tesori del Mediterraneo”, trasmesso sul canale “Yacht and Sail” di SKY TV e al quale chi scrive ha collaborato per la parte storica e documentale.
In precedenza, lo scorso mese di gennaio, nella Sala consiliare del Comune di Rapallo il forum internet www.betasom.it ha organizzato un convegno di studi dedicato proprio alle vicende dell’U455 e – più in generale – a tematiche di storia e tecnica del sommergibilismo.
Oggi, www.betasom.it (le cui attività sono descritte in un’apposita sezione di questo fascicolo) è il “partner” della sezione storica della Mostra “Mare Nostrum 2008” che, come stiamo per esaminare, è dedicata proprio allo “state of art” delle ricerche sul relitto, come pure all’attività operativa dei sommergibili tedeschi nel Mediterraneo durante la seconda guerra mondiale. Un’attività, sicuramente meno nota di quella degli U-boote germanici in Atlantico ma – non per questo – meno ricca risultati e vicende che, su queste pagine, cercheremo di approfondire.
Il relitto – elementi per una sua identificazione
Durante la primavera del 2008, le ricerche effettuate da Roberto Rinaldi e Lorenzo Del Veneziano sono giunte alla loro fase finale: in questo ambito, ho avuto la possibilità – ma soprattutto il piacere e l’onore – di collaborare con questi due autentici professionisti, al fine di coordinare i “parametri di ricerca” di alcune immersioni, indicando quali elementi strutturali del relitto andavano esaminati, filmati e fotografati per consentire, nella fase finale di valutazione delle evidenze documentali, un’identificazione quanto più possibile certa del relitto.
Il relitto del “sommergibile di Portofino” è ubicato su un fondale di circa 120 m di profondità, a un miglio e mezzo per 260° da Punta Chiappa (promontorio di Portofino).
Lo scafo, toccando il fondo, ha assunto una posizione, realmente impressionante per chi si immerge su di esso: tutta la sezione prodiera, dal tagliamare e per una trentina di metri verso poppa, si trova in assetto quasi verticale, inclinata a circa 70° con la prora rivolta verso la superficie. Il battello, evidentemente, è affondato di poppa e – toccando il fondo – tutta la porzione poppiera dell’unità ha subito gravi danni. Mentre l’estrema poppa apparirebbe emergere – sia pure per non più di un paio di metri – dal fondale, la parte dello scafo corrispondente grosso modo ai locali dei motori termici ed elettrici è completamente distrutta, ed è impossibile identificarne gli elementi strutturali dato che i rottami sono, tra l’altro, completamente ricoperti dalla fanghiglia del fondale.
Nel complesso, però, tutta la parte visibile dello scafo appare in ottime condizioni, ancorchè fortemente “colonizzata” dalla flora e dalla fauna sottomarine tipiche di questo tratto di mare: è stato quindi possibile esaminare numerosi elementi costruttivi che concordano, tutti, ad identificare il relitto come appartenente ad un sommergibile tedesco del tipo “VII C”.
La falsatorre del battello (vedi foto) è uno degli elementi meglio conservati e al tempo stesso più facilmente esaminabili dell’intero relitto. In particolare, il suo disegno generale, la presenza del paraspruzzi a mezza altezza e la grossa carenatura anteriore (ove trovava sistemazione la bussola dell’unità) denotano un’esatta coincidenza con questi elementi strutturali degli “U-Boote” tio “VII C”.
Analogamente, la forma dei “fori di deflusso” (ossia – semplificando il concetto – delle aperture da cui entrava e usciva l’acqua dall’intercapedine tra lo scafo resistente e la coperta durante le manovre di immersione ed emersione) e il loro andamento lungo le fiancate sono tipici del tipo “VII C”.
Alle medesime conclusioni porta l’esame dei timoni di profondità prodieri (ancora muniti della caratteristica carenatura di forma arcuata su cui erano incernierati) e di altri fori di deflusso rettangolari, presenti, sulla parte bassa della zona prodiera dello scafo.
Sul bastingaggio di dritta della falsatorre è stato esaminato l’alloggiamento del radar tipo “FuMo61” (installato sui tipi “VII C” nel 1942/43), ed è stato possibile verificare – al suo interno – la presenza dell’antenna.
Il relitto è privo del cannone (sbarcato nella seconda metà del 1943 da pressochè tutti gli “U-Boote” operativi nel mediterraneo) e – per motivi tecnici dovuti alla difficoltà dell’immersione e ai ridotti tempi di permanenza degli operatori subacquei a quelle profondità – non è stato possibile rimuovere una rete da pesca che ricopre la parte posteriore della falsatorre. Tuttavia, l’esame di questa zona del battello ha permesso al subacqueo Lorenzo Del Veneziano di ritenere come abbastanza probabile la presenza di una mitragliera antiaerei sulla piazzola poppiera della falsatorre.
L’esame del relitto permette di accantonare l’ipotesi che si tratti di un battello italiano o di uno britannico (segnatamente un classe “U”, di cui un’unità andò perduta più a Sud, ma il cui affondamento è documentato nelle cronologie ufficiali delle Marine inglese e tedesca). Sulla base di quanto sopra, appare pressochè certo che il “Relitto di Portofino” possa essere quello del sommergibile tedesco U455, l’unico battello tedesco di cui si può ipotizzare la perdita nelle acque liguri.
Si tratta dell’U455?
Il volume di Santoni e Mattesini La partecipazione tedesca alla guerra aeronavale nel Mediterraneo e altre fonti ufficiali riportano la perdita dell’U-455 a seguito di urto contro mina al largo della Spezia il 6 aprile 1944. Le coordinate fornite dall’U-Boot Archiv di Cuxhaven sono invece 44°04’ N – 09°51 E, cioè ca. 14 mg per 173° da Punta Portofino (fondali di 7/800m). L’ultimo messaggio radio dell’U-455 risale al 2 aprile 1944, quando il battello lasciò la sua zona di pattugliamento al largo di Algeri diretto alla Spezia per un ciclo di lavori (era partito da Tolone facendo parte della 29a Flottiglia smg della Kriegsmarine, colà dislocata).
E’ quindi quasi del tutto certo che l’U455 sia affondato durante il rientro da Algeri verso La Spezia e non durante la navigazione da Tolone verso le coste nordafricane. L’ipotesi più probabile sulle cause dell’affondamento è l’urto contro una mina alla deriva o, in alternativa, un’esplosione interna al battello: non esistono rapporti di missione di unità alleate riferiti ad attacchi contro sommergibili, nella zona antistante Portofino, per la prima metà di aprile del 1944.
Mentre partendo dalla Spezia (ma, come abbiamo visto, l’U455 partì da Tolone) è più percorribile una rotta "diretta" verso le coste nordafricane, durante la navigazione di ritorno – con minori necessità del rispetto di tempi e direttive operative – il comando di bordo potrebbe aver deciso per una navigazione più sottocosta nella vicinanza delle coste liguri. Questo, soprattutto nel caso che la navigazione di ritorno si fosse svolta in buona parte in immersione, con conseguente "atterraggio" leggermente a ponente rispetto al previsto (ad esempio davanti a Genova). In questo caso l'U455 potrebbe aver assunto una rotta molto sottocosta, per raggiungere La Spezia, allo scopo di evitare avvistamenti da parte di unità nemiche più al largo.
Per motivi di sicurezza, qualsiasi navigazione di un U-boot dall’Algeria alla Spezia (e/o viceversa) avrebbe dovuto essere effettuata a ponente e non a levante della Corsica. Anche in condizioni di totale “tranquillità”, sarebbe praticamente assurdo seguire una rotta diversa, anche per meri motivi di lunghezza della stessa.
Gli U-Boote tipo “VII C”
Tutti i sommergibili tedeschi che operarono nel Mediterraneo appartenevano al tipo "VII C", ad esclusione di quattro unità (U73, U74, U75 e U83 ) del precedente ma simile tipo "VII B". I battelli del tipo "VII" giocarono, sino al 1943/44, un ruolo primario nelle operazione subacque condotte dalla Kriegsmarine: vennero costruite 705 unità molte delle quali erano ancora in servizio al termine delle ostilità.
Il tipo "VII" derivava dalle linee costruttive dei battelli finlandesi classe "Vetehinen", realizzati in Finlandia su progetto tedesco: a loro volta, i "Vetehinen" traevano origine dai battelli tedeschi tipo "UB III" del 1918.
Con il tipo "VII" fu realizzata un'unità semplice e robusta, adatta ad operare nell'Oceano Atlantico e dalle prestazioni sostanzialmente all'avanguardia: solamente nella seconda metà del 1943 le contro misure antisommergibili alleate iniziarono ad avere ragione di questi altrimenti validissimi battelli.
Agli iniziali "VII A" e "VII B" del 1936/1938 seguì, tra il 1940 e il 1943, il numeroso gruppo dei "VII C" - "VII C-41", questi ultimi contraddistinti da migliorate prestazioni e da una struttura maggiormente rinforzata; la realizzazione di una variante ulteriormente aggiornata, denominata tipo VII C-42, fu annullata per permettere l'entrata in servizio di som- mergibili dalle caratteristiche più moderne di tipo "XXI"). Vennero costruiti anche sei battelli tipo "VII D" (posamine) e quattro "VII F" (equipaggiati per trasportare siluri per il rifornimento di altre unità).
A partire dalla fine del 1943, su numerosi "VII" si procedette all'installazione dello schnorkel e di apparati radar.
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Sommergibili tipo "VII C" - caratteristiche principali:
- Battelli oceanici a semplice scafo con controcarene esterne e casse di immersione principali all'interno dello scafo a pressione-
- Lunghezza: 66,5 m
- Larghezza: 6,2 m
- Pescaggio a sommergibile emerso: 4,74 m
- App. motore: 2 diesel (vari modelli) 2.800/3.200
hp, 2 motori
elettrici (vari modelli) 750 hp
- Velocità max.: 17/17,5 nodi in emersione e 7,6 nodi
in immersione
- Tempo minimo per l'immersione rapida: 25/30 secondi
- Autonomia: 8.500mg a 10 nodi/3.250 mg a 17 nodi
(in emersione) - 130mg a 2 nodi/80mg a 4 nodi
(in immersione)
- Armamento: quattro t.l.s. da 533 mm (dotazione max.
14 siluri); 1 cannone da 88/45, 1 mg. da 20 mm e 1
mg. da 37 mm. A partire dal 1942, incrementando le
dimensioni della falsatorre, l'armamento balistico venne
potenziato dando vita a numerose varianti, tra cui - ad
esempio - 4 mg. da 20 mm (2 x II) e 2 da 37 mm (2 x I)
4 mg. da 37 mm (4 x I), 8 mg. da 20 mm (2 x IV) e 1
da 37 mm (1 x I). Negli ultimi anni di guerra il cannone
da 88 mm fu sbarcato da numerose unità.
- Equipaggio: 44 (4 ufficiali, 4 sottufficiali, 36 sottocapi
e comuni)
Gli U-boote nel Mediterraneo – 1941/1945
Le note che seguono sono presentate per gentile concessione di “STORIA militare” – rivista mensile edita da Albertelli Edizioni Speciali, Parma e diretta da Erminio Bagnasco – e sono tratte dall’articolo di M. Brescia U-Boote in mediterraneo, pubblicato sui numeri 71 e 72 (agosto e settembre 1999) della pubblicazione.
Tra il 1940 e il 1941, l'ammiraglio Karl Dönitz, Comandante in Capo dei sommergibili, ribadì più volte la sua contrarietà all'invio a Est di Gibilterra di alcuni dei non molti battelli all'epoca disponibili poiché la maggior parte del traffico mercantile diretto dall'Inghilterra a Suez seguiva la rotta del Capo di Buona Speranza, più lunga ma anche più sicura. Ancora nel luglio 1941, il Capo di Stato Maggiore della Kriegsmarine, ammiraglio Raeder, riferiva a Hitler che "... non era possibile inviare sommergibili in Mediterraneo perché ciò avrebbe pregiudicato le operazioni in Atlantico".
Peraltro, dopo lo sfortunato esito dell'operazione "Gaudo", il Comando operativo della Kriegsmarine (Seekriegsleitung SKL) iniziò a riconsiderare la necessità di una maggiore presenza navale nel Mediterraneo e, il 26 agosto 1941, Hitler dispose l'invio di sei sommergibili con il compito "ufficiale" di sostenere le operazioni dell'Afrika Korps contrastando il traffico mercantile ed i movimenti navali britannici a Nord della Libia. In realtà, questo cambio di direttive fu anche dovuto alla limitata efficacia dimostrata nel primo anno di guerra dai pur numerosi sommergibili italiani presenti in Mediterraneo. Nonostante il parere sempre contrario di Dönitz, fu dato quindi avvio ad una serie di accordi tra gli alti comandi delle due Marine alleate in seguito ai quali, entro la fine del 1941, ben 27 sommergibili tedeschi avrebbero varcato lo stretto di Gibilterra diretti verso le proprie zone di operazioni nel Mediterraneo. Iniziava così in questo mare la presenza degli U-Boote che, con buoni risultati e senza soluzione di continuità, si sarebbe protratta per quasi tre anni.
Tra il 21 e il 26 settembre 1941 entrarono in Mediterraneo i quattro battelli del Gruppo "Goeben" (U371, U97, U559 e U331), seguiti ad ottobre dall'U75 e dall'U79. Dislocati nel Mediterraneo orientale, U75 e U97 colsero nel mese di ottobre i primi successi affondando due mezzi da sbarco a Nord di Tobruk (U75) nonché la petroliera britannica Pass of Balmaha e il mercantile greco Samos (U97) a Ovest di Alessandria; inoltre, il 21 ottobre, a Nord di Bardia, l’U79 danneggiò gravemente, tanto da non essere più riparata, la cannoniere HMS Gnat. Partendo dalle basi atlantiche francesi e divisi in più gruppi, altri 21 U-Boote raggiunsero il Mediterraneo tra novembre e dicembre, e il concentramento di una consistente aliquota di battelli tedeschi nelle acque del "mare nostrum" portò, in breve tempo, a numerosi affondamenti di unità militari e mercantili britanniche. Il 13 novembre 1941, un solo giorno dopo il suo ingresso in Mediterraneo, l'U81 (al comando dell'Oberleutenant (stv) Guggenberger) silurò a Est di Gibilterra la portaerei britannica Ark Royal. Nonostante fosse stata colpita da una sola arma, l’unità subì notevoli danni; presa a rimorchio, affondò capovolgendosi alle 06.13 del giorno successivo.
Ugualmente significativo risultò l'affondamento della nave da battaglia Barham (25 novembre), colpita sul lato sinistro con tre siluri dall'U331 (Oblt. von Tiesenhausen) mentre si trovava in navigazione tra Creta e la Libia insieme alle similari Valiant e Queen Elizabeth. Le esplosione dei siluri fecero sì che la Barham assumesse quasi immediatamente uno forte sbandamento sulla sinistra, pur continuando a procedere sull'abbrivo. Dopo circa un minuto, continuando ad inclinarsi sempre più sulla sinistra, e, poco prima che l’unità si capovolgesse, si verificò una violenta esplosione che distrusse letteralmente la corazzata. A differenza dell'Ark Royal (a bordo della quale si ebbe un solo caduto), nell'affondamento della Barham scomparvero 862 uomini su un equipaggio di 1.312. Il 14 dicembre, 30 miglia ad Ovest di Alessandria, l'U557 affondò l'incrociatore leggero inglese Galatea; inoltre, entro la fine del 1941, fu distrutto un totale di undici unità mercantili, tra cui il trasporto truppe britannico Shuntien, silurato il 23 dicembre dall'U559.
In quello stesso periodo vanno per contro registrate le due più brevi permanenze di sommergibili tedeschi nel Mediterraneo: l'U433 e l'U95, infatti, furono affondati rispettivamente il 16 e il 28 novembre, ovvero solamente un giorno e due giorni dopo la loro entrata da Gibilterra con rotta a levante. Tra i cinque battelli tedeschi complessivamente perduti nel Mediterraneo tra novembre e dicembre 1941, va ricordato l'U557 che, due giorni dopo aver affondato il Galatea, venne speronato e affondato a Ovest di Creta (nei pressi di Cerigotto) dalla torpediniera italiana Orione: quella silurante, non informata della presenza in zona del sommergibile germanico, lo aveva infatti scambiato per un'analoga unità britannica.
Alla fine del 1941 si trovavano nel Mediterraneo 22 U-Boote suddivisi tra la 23a Flottiglia (con base a Salamina, vicino al Pireo, in Grecia) e la 29a (con base alla Spezia); al comando dei due reparti erano posti, rispettivamente, il c.v. (Kptl) Fritz Frauenheim e il c.c. Franz Becker. Il numero dei battelli era determinato, oltre che dalle pressanti necessità del teatro dell'Atlantico, anche dalle possibilità di carenaggio contemporanee presenti nelle basi navali mediterranee (sette unità alla Spezia, due a Pola e cinque a Salamina): l'invio di ulteriori sommergibili avrebbe infatti causato lunghi periodi di immobilizzazione in attesa dei turni di lavori creando, come conseguenza, un'utilizzazione non ottimale delle unità.
Il 1942 si aprì con l'invio in Mediterraneo dell'U73 e dell'U561, entrati da Gibilterra rispettivamente il 14 e il 15 gennaio; la situazione numerica rimase però invariata poiché, nel corso dello stesso mese, erano stati affondati l'U374 (silurato il 12 dal sommergibile inglese Unbeaten a Est di Capo Spartivento) e l'U577 (il 15), colpito con bombe di profondità a Nord Ovest di Marsa Matruh da uno "Swordfish" appartenente allo Squadron 815 della Fleet Air Arm. Sino ad ottobre non fu possibile dislocare in Mediterraneo ulteriori unità e, alla fine di settembre, solamente sedici battelli risultavano disponibili in seguito alla perdita, tra marzo e agosto, di altri sei; tuttavia, nonostante la riduzione nel numero, durante i primi tre trimestri del 1942 gli U-Boote del Mediterraneo continuarono a costituire una costante e concreta minaccia per le unità britanniche. Il 17 gennaio 1942 l'U133 affondò a Nord di Bardia il cacciatorpediniere inglese Gurkha, mentre l'11 marzo successivo l'incrociatore Naiad venne silurato e affondato 50 miglia a Nord della costa africana tra Marsa Matruh e Sollum dall'U565; simile sorte fu riservata, quindici giorni dopo, al cacciatorpediniere Jaguar, colpito dai siluri dell'U652 (Oblt. Fraatz) a Nord di Sidi Barrani. Il 16 aprile 1942, l'U81 del comandante Guggenberger si rese nuovamente protagonista di un'importante azione, questa volta nel Mediterraneo orientale, nel corso della quale fu affondata la petroliera inglese Caspia. Poche ore dopo, l'U81 colpì con il cannone di bordo la centrale elettrica di Haifa, causando notevoli danni.
Il 16 giugno l'incrociatore HMS Hermione venne affondato a Sud di Creta dall'U205 (Kptl. Reschke) durante lo svolgimento dell'operazione britannica "Vigorous". Alcuni giorni dopo (il 30), a Nord-Est di Alessandria, l'U372 (Kptl. Neumann) affondò la grossa nave appoggio sommergibili HMS Medway, la cui perdita risultò particolarmente grave anche per i novanta siluri che trasportava e di cui quarantasette poterono venire successivamente recuperati.
La portaerei HMS Eagle fu affondata l'11 agosto 1942 dall'U73 (Kptl. Rosenbaum), 65 miglia a Sud di Mallorca nel corso dell'operazione "Pedestal” I quattro siluri lanciati dall'U73 colpirono la Eagle sul lato sinistro e la portaerei, sette minuti dopo, si capovolse e affondò. Il rapido intervento dei caccia Laforey e Lookout, assistiti dal rimorchiatore Jaunty, permise di recuperare 789 naufraghi limitando così le perdite (160 uomini) tra i membri dell'equipaggio.
Nello stesso periodo non mancarono anche numerosi affondamenti di unità mercantili. Tra i sei U-Boote perduti sino ad agosto, l'U133 affondò il 14 marzo, per un errore di navigazione, su uno sbarramento minato tedesco posto a difesa del porto di Salamina. L'U573, danneggiato da aerei, riparò il 2 maggio a Cartagena (Spagna), dove venne internato; il 2 agosto fu venduto alla Marina spagnola e, ridenominato G 7, prestò servizio con l' "Armada" sino alla sua radiazione, avvenuta nel 1971.
Nel contempo, anche per razionalizzare l’impiego dei sommergibili tedeschi nel Mediterraneo, la 23a Flottiglia venne sciolta e i relativi battelli furono trasferiti alla 29a, il cui comando (maggio 1942) passò al c.c. Fritz Frauenheim già responsabile della 23a.
L'invasione anglo-americana del Nord Africa francese, iniziata con gli sbarchi in Marocco e in Algeria dell'8 novembre 1942, non colse del tutto impreparata la componente subacquea tedesca nel Mediterraneo: tra il 9 e l'11 ottobre erano transitati da Gibilterra i quattro battelli del gruppo "Tümmler" (U459, U605, U660 e U593) che, considerando l'affondamento dell'U559 avvenuto il 30 ottobre (in circostanze che consentirono agli inglesi di recuperare alcuni documenti segreti), portavano a diciannove il numero dei sommergibili a Est di Gibilterra. Inoltre, mentre i convogli degli Alleati già si avvicinavano ad Algeri, Orano e Bougie, altri sei sommergibili (U595, U617, U755, U596, U259 e U407) entravano in Mediterraneo tra l'8 e il 10 novembre; altri tre battelli avrebbero infine raggiunto la zona tra il 5 e il 9 dicembre.
Per contrastare gli sbarchi avversari, la Seekriegsleitung predispose il dispiegamento di tre linee difensive subacquee scaglionate tra Orano e Algeri composte, ciascuna, da cinque unità e denominate gruppi "Wal", "Hai" e "Delphin". Questa strategia portò, dal 10 al 13 novembre, all'affondamento di diversi mercantili. L'U431, fu particolarmente attivo contro il naviglio militare avversario e, nel volgere di tre giorni, affondò i cacciatorpediniere Martin (britannico, il 10 novembre) e Isaac Sweers (olandese, il 13).
Nel campo avverso, il dispositivo aeronavale degli Alleati stava progressivamente migliorando le proprie capacità antisom e, tra il 14 e il 17 novembre, cinque U-Boote (di cui quattro per attacco aereo) vennero affondati nello stesso, cruciale tratto di mare (11). Tra questi l'U331 di von Tiesenhausen, il celebre affondatore della Barham, che, recuperato da un idrovolante inglese insieme ad altri sedici sopravvissuti, venne fatto prigioniero.
Alla fine del 1942, con 23 battelli, la Kriegsmarine allineava il più alto numero di unità operative raggiunto sino ad allora nel Mediterraneo e successivamente non più superato. Il 1943 iniziò con un "colpo doppio" realizzato dall'U73: il primo gennaio, il battello tedesco silurò nei pressi di Capo Falcon a Nord di Orano il "Liberty" americano Arthur Middleton che risultò, in tal modo, la prima nave statunitense affondata nel Mediterraneo da un sommergibile germanico. L'esplosione del Middleton, carico di munizioni, causò anche la contemporanea distruzione del grosso mezzo da sbarco LCI21, ormeggiato a fianco del mercantile da cui stava imbarcando munizioni.
Tra gennaio e dicembre del 1943 vennero inviati nel Mediterraneo undici ulteriori U-Boote, ma questi nuovi arrivi poterono solo parzialmente compensare le perdite che, nel corso dell'anno, assommarono a ben venti unità. Va inoltre considerato che il totale dei battelli operativi nell'area, eliminando dal conteggio le unità in trasferimento da e per le zone di agguato e quelle ferme per lavori, fu sempre abbastanza limitato. Il 21 marzo 1943, ad esempio, la situazione era così delineata:
- una unità (U81) in zona di operazioni nel bacino orientale;
- una unità (U593) in rotta di rientro a Salamina dal bacino orientale;
- quattro unità (U77, U380, U431, U561) in zona di operazioni nel bacino occidentale;
- una unità (U375) in rotta di trasferimento, probabilmente da Tolone, verso il bacino occidentale;
- unità in porto o ai lavori: sette alla Spezia (U73, U97, U371, U407, U565, U596, U755), due a Tolone (U458, U602) e due a Pola (U453, U617) (12).
In ogni caso, pur non potendo ormai contrastare efficacemente la sempre più preponderante presenza navale anglo-americana, nei primi sei mesi del 1943 gli U-Boote del Mediterraneo affondarono quattro unità militari e trenta mercantili, a riprova di una combattività mai venuta meno. Il 1° febbraio 1943, 45 miglia a Est di Tobruk, l'U617 (Kptl./t.v. Brandi) affondò il posamine veloce HMS Welshman, protagonista tra l’altro di numerose imprese di rifornimento di Malta e il successivo 22 giugno l'U593, a Nord della costa algerina, distrusse la nave da sbarco per carri armati LST333 dell'U.S. Navy. Nella zona di Capo Tenes, tra Orano e Algeri, vennero affondati numerosi mercantili e anche nel Mediterraneo orientale non mancarono simili successi.
Tra marzo e maggio del 1943, i sommergibili tedeschi affondati risultarono tre (U77, U303 e U602. Alla fine di agosto solamente 14 U-Boote erano presenti nel Mediterraneo e, al momento dello sbarco degli Alleati a Salerno (8/9 settembre), fu possibile inviare da Tolone in quella zona tre sole unità (U565, U593 e U616). In ogni caso, due dei tre battelli riuscirono a cogliere alcuni risultati: il "Liberty" W.W. Gehrard e il dragamine d'altura USS Skill, affondati dall'U593 il 21 e il 25 settembre, e il caccia USS Buck (DD420), il 9 ottobre dall'U616.
Nel secondo semestre del 1943, gli U-Boote affondarono otto unità militari e sedici mercantili, ma, anche in seguito alla mutata situazione strategica derivante dall'uscita dell'Italia dal conflitto, questi risultati non potevano più influire sugli sviluppi delle operazioni militari degli Alleati nonostante i battelli tedeschi iniziassero ad impiegare con successo siluri a guida acustica.
Otto sommergibili furono affondati tra luglio e dicembre del 1943. Sul finire del 1943, l'operatività degli U-Boote nel Mediterraneo centro-orientale risultò, per forza di cose, piuttosto ridotta ma sempre pericolosa. Le azioni più significative non furono molte: l'U453 posò un campo minato a Nord Est di Bari sul quale incappò il cacciatorpediniere inglese Quail che andò poi perduto il 18 novembre; lo stesso giorno, nel Golfo di Taranto, l'U81 silurò il mercantile inglese Empire Dunstan e il 28 novembre, a Nord di Apollonia (Cirenaica), l'U407 colpì con un siluro l'incrociatore inglese HMS Birmingham che, sebbene gravemente danneggiato, riuscì a rientrare ad Alessandria.
I 14 U-Boote presenti in Mediterraneo all'inizio del 1944 fronteggiavano ormai sempre più preponderanti forze aeronavali e la Seekriegsleitung fu quindi costretta a disporre il trasferimento dall'Atlantico di altri battelli che, tra gennaio e aprile, permisero di elevare in qualche misura il numero delle unità disponibili; tuttavia, gli affondamenti di un battello a gennaio e di altri sette tra marzo e aprile vanificarono anche questo sforzo.
Il celebre U81 dell’Ark Royal venne affondato a Pola il 9 gennaio 1944, durante un bombardamento effettuato da un centinaio di quadrimotori B-17 dell'USAAF; una simile sorte fu riservata all'U380 e all'U410 (distrutti a Tolone l'11 marzo nel corso di un altro bombardamento statunitense), nonché all'U421, irreparabilmente danneggiato il 29 aprile, anch'esso a Tolone.
Il 28 gennaio il comando dei sommergibili tedeschi in Mediterraneo passò dall'ammiraglio Kreisch, che sin dal gennaio 1942 dirigeva l'azione degli U-Boote in questo mare, al c.v. Werner Hartmann: quest'ultimo, su insistenza del Maresciallo Kesselring, l'11 febbraio dispose l'invio di alcuni battelli nella zona della testa di ponte di AnzioNettuno, ove venne colto ancora qualche importante successo. Il 15 febbraio l'U410 affondò a Ovest di Napoli la petroliera inglese Fort St. Nicholas e, tre giorni dopo, sempre nella stessa zona, distrusse l'incrociatore HMS Penelope. L'U230, il 16 e il 20 febbraio, silurò davanti ad Anzio le due unità da sbarco inglesi LST418 e LST305, affondandole; lo stesso giorno 20 vide ancora un successo dell'U410, che sempre al largo del litorale laziale distrusse la nave da sbarco americana LST348.
Il 30 marzo, una sessantina di miglia a Nord Est di Palermo, l'U223 affondò il cacciatorpediniere inglese Laforey, che navigava in formazione insieme al caccia Tumult e ai "destroyer escort" Hambledon e Blencathra. Immediatamente sottoposto ad un'intensa azione di caccia antisom da parte di queste ultime tre unità, venne irreparabilmente danneggiato ed affondato con il lancio di numerose bombe di profondità.
Nel frattempo, a partire dalla fine del 1943, le forze navali anglo-americane avevano messo a punto un nuovo metodo di caccia antisom noto come "swamp". La procedura operativa prevedeva che, nell'area ove si sospettava operasse un sommergibile nemico, venissero concentrati numerosi cacciatorpediniere e/o caccia di scorta, appoggiati da velivoli con specifiche capacità antisom: questo complesso di forze iniziava quindi a "battere" sistematicamente la zona al fine di costringere il sommergibile ad emergere per l'esaurimento della carica delle batterie o tentare un allontanamento notturno in superficie. Possibilità, peraltro, che dava poche vie di scampo al battello, sia in considerazione del notevole numero delle unità navali e degli aerei utilizzati per la caccia, sia per i mezzi tecnici (radar, sonar ecc.) sempre più sofisticati a loro disposizione. Nel maggio 1944, gli attacchi "swamp" portarono alla perdita di ben quattro battelli: l'U371 venne affondato a Nord dell'Algeria dai caccia di scorta Pride e Joseph E. Campbell (americani), Blankney (inglese) e Sénegalais (francese); tuttavia, prima di essere distrutto, il battello riuscì a danneggiare con un siluro a guida acustica il Sénegalais; l'U616, dopo aver danneggiato una petroliera americana e un trasporto inglese il 14 maggio, fu individuato, inseguito e ripetutamente attaccato (l'azione durò tre giorni!) da ben sette cacciatorpediniere statunitensi che, coadiuvati da aerei, riuscirono ad affondarlo a Est di Cartagena; analoga fu la sorte dell'U960 e dell'U453 rispettivamente a Nord di Algeri e a Nord Est di Capo Spartivento.
A fronte di queste perdite, ben pochi furono i successi conseguiti dagli U-Boote a partire dalla fine di febbraio 1944: solo quattro mercantili tra marzo e aprile. Nel mese di maggio, infine, i sommergibili della Kriegsmarine colsero gli ultimi tre successi della lunga guerra di attrito da essi sostenuta sin dal settembre 1941: il 5, a Sud dell'isola di Alboran, l'U967 affondò il caccia di scorta statunitense Fetcheler e il 9, nelle acque antistanti Palermo, l'U230 silurò e affondò il cacciasommergibili PC558 dell'U.S. Navy. L'ultimo affondamento in assoluto dovuto all'azione di un battello tedesco nel Mediterraneo fu quello ottenuto dall'U453 che il 19 maggio, due giorni prima di venire a sua volta affondato, silurò il mercantile inglese Fort Missinabie a Sud di Crotone.
Otto degli undici battelli ancora operativi alla fine di maggio erano dislocati a Tolone: cinque vennero gravemente danneggiati o distrutti nel corso di bombardamenti dell'USAAF su questo porto militare il 5 luglio (U586 e U642) e il 6 agosto (U471, U952 e U969). Il solo U471 poté essere recuperato nei primi mesi del dopoguerra ed entrò a far parte della Marine Nationale con il nome di Millé, pretando servizio sotto bandiera francese sino alla sua radiazione, avvenuta nel 1963. Gli ultimi tre U-Boote presenti a Tolone, ma danneggiati nel corso di altri bombardamenti aerei, furono autoaffondati dai loro equipaggi tra l'11 e il 21 agosto, nell'imminenza dell’occupazione della base francese che seguì di un paio di settimane gli sbarchi in Provenza (operazione "AnvilDragoon") del 15 agosto 1944.
Nelle acque dell'Egeo, infine, si consumò l'epilogo dell'attività degli U-Boote nel Mediterraneo. Il 19 settembre 1944 l'U407 venne affondato a Sud dell'isola di Milos dall'azione congiunta dei caccia Troubridge e Terpsichore (inglesi) e Garland (polacco); il 24 settembre, l'U565 e l'U596 ultimi superstiti dei 62 sommergibili tedeschi inviati nel Mediterraneo furono autoaffondati dai loro equipaggi a Skaramanga (Salamina), in seguito ai gravi danni riportati alcuni giorni prima durante un bombardamento aereo statunitense.
Va infine ricordato che numerosi U-Boote destinati al Mediterraneo andarono perduti nel corso del difficile e pericoloso attraversamento dello stretto di Gibilterra o che, più o meno gravemente danneggiati in quelle stesse acque, furono costretti a ritornare nelle basi francesi, abbandonando la missione assegnata.
Nel 1941 due unità vennero affondate nei pressi di Tangeri in dicembre, e altre cinque furono danneggiate in misura tale da dover rinunciare all'ingresso in Mediterraneo (20). Due sommergibili furono costretti a ritornare in Francia nel 1942 ed uno nel 1943, anno in cui due battelli furono affondati, sempre nei pressi di Tangeri, mentre si stavano dirigendo ad Est. Nel 1944, infine, tre ulteriori unità vennero affondate nei pressi di Gibilterra e di Tangeri.
Un consuntivo dell'attività dei sommergibili tedeschi nel Mediterraneo non può non tener conto delle condizioni di questo teatro di operazioni, particolari e del tutto diverse da quelle incontrate nell'Oceano Atlantico.
Le acque più trasparenti e spesso poco profonde, le condizioni meteorologiche decisamente migliori, le notti estive chiare e luminose e la quasi totale assenza di nebbia erano tutti fattori che giocavano decisamente a favore delle forze aeronavali antisom delle Marine anglo-americane creando, nel contempo, severe limitazioni all'operatività dei battelli. Se a ciò si aggiunge che nel Mediterraneo erano dislocate o transitavano aliquote di naviglio mercantile avversario decisamente meno consistenti che nell'Atlantico, riuscirà facile comprendere perché i sommergibilisti della Kriegsmarine non vedessero di buon occhio la destinazione ad Est di Gibilterra.
Cionondimeno, gli equipaggi dei 62 U-Boote destinati in Mediterraneo tra il 1941 e il 1944 conseguirono risultati di tutto rilievo che, in taluni casi (quali, ad esempio, gli affondamenti dell'Ark Royal e della Barham) sono entrati di diritto nel novero degli eventi navali più significativi del secondo conflitto mondiale. Il traffico mercantile degli Alleati, soprattutto nel 1942 e nel 1943, subì pesanti perdite ad opera di un pur ridotto numero di U-Boote che, con la loro sola presenza, resero necessario il mantenimento nel Mediterraneo di consistenti forze aeree e navali anglo-americane, il tutto a detrimento di altri settori operativi.
Tra l'ottobre 1941 e il maggio 1944, i battelli della Kriegsmarine operanti nel Mediterraneo affondarono 52 navi militari (tra cui 2 portaerei, una corazzata, 4 incrociatori e 12 cacciatorpediniere) per complessive 167.780 tonnellate di dislocamento (37 navi per 145.762 t sino all'8 settembre 1943). Nello stesso periodo furono affondate 117 unità mercantili e da pesca per un totale di 460.821 tonnellate di stazza lorda (95 navi per 330.621 tsl sino all'8 settembre 1943). Considerando che, tranne in pochi casi, il numero dei sommergibili effettivamente presenti in zona di operazioni raramente superò le sette/otto unità, tali risultati assumono valenze ancora più rilevanti.
Ulteriori valutazioni potrebbero scaturire dal confronto con l'analoga attività svolta in Mediterraneo dai 147 sommergibili italiani tra il 10 giugno 1940 e l'8 settembre 1943: sino all'armistizio, le unità della Regia Marina affondarono 10 navi militari per 23.356 t e 15 mercantili per 39.337 tsl. Nello stesso periodo, o meglio in oltre un anno in più, un numero più che doppio di battelli italiani affondò quindi oltre l’80 % in meno di navi nemiche rispetto a quelli tedeschi. Va infine osservato che, mentre poco meno della metà dei sommergibili italiani che operarono nel Mediterraneo vennero affondati, tutti i 62 battelli della Kriegsmarine andarono perduti.
Non sarebbe però giusto addossare questa disparità di cifre ai comandanti e agli equipaggi dei sommergibili della Regia Marina che, con mezzi non sempre all'avanguardia, operavano nell'ambito di istruzioni operative che risentivano di una dottrina d’impiego delle forze subacquee ormai superata e che solo nell’ultimo anno di guerra poté essere infine adeguata. I battelli tedeschi del tipo "VII” – in Mediterraneo operarono 4 VII B e 58 VII C - erano inoltre unità di migliori prestazioni e di caratteristiche tecniche più avanzate al confronto di quelle di molti sommergibili italiani dell'epoca. I comandanti degli U-Boote dislocati nel Mediterraneo, infine, "importarono" in questo teatro d’operazioni anche l'esperienza acquisita in Atlantico e più moderne tattiche d'impiego dell'arma subacquea.
Bibliografia
Bagnasco, E.: I sommergibili della seconda guerra mondiale, Albertelli, Parma, 1973
Brown, D.K.: Warship losses of World War Two, Londra, Arms and Armour Press, 1995
Jordan, R., The World's Merchant Fleets 1939, Londra, Chatham Publishing, 1999
Mallmann Showell, J.P.: The German Navy in World War Two, Annapolis, USNI, 1979
Mallmann Showell, J.P.: U-Boats under the Swastika (2nd ed.), Annapolis, USNI, 1987
Rossler, E.: The U-boats, Londra, Arms and Armour Press, 1981
Santoni, A. e Mattesini, F.: La partecipazione tedesca alla guerra aeronavale nel Mediterraneo, Roma, Edizioni dell'Ateneo e Bizzarri, 1980
Tarrant, V.E., The Last year of the Kriegsmarine, Londra, Arms and Armour Press, 1996
Taylor, J.C.: German Warships of World War Two, Londra, Ian Allan, 1977
Westwood, D.: The Type VII U-Boat (serie "Anatomy of the ship"), Londra, Conway, 1982
Risorse internet
http://www.betasom.it
www.betasom.it
Usando un termine di origine navale, www.betasom.it è il “codice di chiamata radio” (ossia l’indirizzo internet) del Forum Sommergibilistico Betasom, fondato nel 2004 da un piccolo gruppo di appassionati di storia e attualità navali, allo scopo di coordinarne le attività nell’ambito dell’organizzazione e dello sviluppo di giochi di simulazione sommergibilistica, con particolare attenzione ai tornei svolti “in rete”.
La denominazione Betasom riprende quella del "Comando Superiore delle Forze Subacquee italiane in Atlantico", costituito a Bordeaux sin dal settembre 1940. Gli accordi tra la Regia Marina e la Marina Tedesca (Kriegsmarine) prevedevano infatti la partecipazione italiana alla guerra sottomarina in Atlantico, e la scelta di Supermarina per una base logistico-operativa per le proprie unità subacquee cadde sul porto fluviale di Bordeaux, posto sul lato sinistro della Garonna a una cinquantina di chilometri a monte della via fluviale d'accesso al Golfo di Biscaglia, originata dalla confluenza della Garonna e della Dordonne nell'ampio estuario della Gironda. Dalla "B" ("Beta"), lettera iniziale di Bordeaux, venne tratta la denominazione di "Betasom" (Bordeaux – Comando sommergibili) che, da allora, non soltanto nei documenti ufficiali – ma anche nell' “immaginario collettivo” – avrebbe contraddistinto la base atlantica dei battelli della Regia Marina.
Negli anni, Betasom è cresciuta dimensionalmente e qualitativamente e il forum ha avuto quindi un grande sviluppo, aprendo numerose nuove sezioni riferite alla storia navale, alla tecnica costruttiva e operativa dei sommergibili, all’attualità delle moderne Forze Navali, al collezionismo, alla pubblicistica specializzata… e molte altre ancora. Oggi, il forum conta quasi 3.000 iscritti!
Di Betasom fanno parte non soltanto appassionati e studiosi della materia, ma anche uomini della Marina Militare Italiana: personale in servizio che costituisce il “valore aggiunto” di questa “Base Atlantica” virtuale e che ne rappresenta l’indispensabile e insostituibile legame con la nostra Marina in generale e la sua componente sommergibilistica in particolare.
Questo legame ha portato, nel tempo, all’organizzazione di visite a Comandi e Unità della Marina Militare per gli iscritti al forum, come pure alla presenza qualificata di Betasom a mostre, eventi e convegni in cui è stata direttamente coinvolta a fianco della Marina e dei Gruppi ANMI.
A questo proposito ricordiamo – solo per il più recente passato – che Betasom ha collaborato alle celebrazioni organizzate a giugno 2008 da Maridipart Ancona per ricordare la figura del c.c. Salvatore Pelosi, decorato con Medaglia d’Oro al Valor Militare per l’eroica azione del sommergibile Torricelli, da lui comandato in Mar Rosso, contro preponderanti forze nemiche, il 23 giugno 1940.
Più recentemente, all’inizio di ottobre 2008, Betasom è stata tra i principali collaboratori nell’organizzazione della Mostra “Sommergibili in Adriatico”, allestita a Ravenna dall’ANMI con il contributo della Marina Militare Italiana per ricordare il centenario della nascita di un’altra Medaglia d’Oro del sommergibilismo italiano, il comandante Luigi Longanesi Cattani che – in Atlantico durante la seconda guerra mondiale – fu tra i sommergibilisti italiani che colsero i migliori risultati nella guerra subacquea al traffico nemico.
Come molti ricorderanno, lo scorso gennaio, www.betasom.it ha tenuto – proprio a Rapallo – il suo primo convegno ove sono stati presentati gli iniziali risultati delle ricerche e delle immersioni sul relitto del “sommergibile di Portofino”: un grande successo per una manifestazione che ha visto partecipare un pubblico di appassionati, composto non soltanto dagli iscritti al forum, ma anche da numerosi “esterni” e studiosi della storia e della tecnica navali.
www.betasom.it partecipa quest’anno, in forma ufficiale, all’organizzazione dell’edizione 2008 della Mostra “Mare Nostrum”, e siamo certi che ciò rappresenti l’inizio di una collaborazione ampia e proficua, destinata a durare negli anni, con lo sviluppo di tematiche e approfondimenti storico-tecnici di sicura qualità.
Maurizio BRESCIA
16 febbraio 2013
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RAPALLO HA DIMENTICATO VITO TONGIANI?
RAPALLO HA DIMENTICATO VITO TONGIANI ?
Artista rapallese
Pittore e scultore vivente. Visse a Rapallo fino all’età di 20 anni.
Qualche tempo fa, parlando con alcuni nuotatori della mia epoca, ci chiedemmo che fine avesse fatto Vito Tongiani. Era sparito da Rapallo senza lasciare traccia. Poco dopo mi venne in mente il suo talento artistico e con grande sorpresa, ma soprattutto gioia, scoprii sul web che Vito era diventato famoso. Nemo propheta in patria???
Conobbi Vito in 4a elementare, era nato a Matteria in Slovenia nel 1940 da una famiglia di coloni italiani di Massa.
Finita la guerra la sua famiglia si trasferì a Rapallo, abitava nella casa cantoniera color rosso pompeiano (in primo piano nella foto) che esiste tuttora sulla Via Aurelia di Levante.
"La piccola fiammiferaia"
...e questo é un disegno di "quel bambino" quando aveva nove anni....Si puo' ancora dire che il sentire l'amore per l'arte non sia innato?
L’indimenticato Maestro Ruffini andava in estasi dinanzi ai disegni di boschi e paesaggi marinari che Vito faceva con incredibile facilità e magia. Si parlava di lui come un autentico talento naturale.
Ci ritrovammo nuotatori nella Chiavari Nuoto sotto il grande Marò. Vito era un ranista eccezionale: per chi sa di queste cose, faceva i 100 metri in 1 minuto e 20 secondi, quando la rana non era ancora delfinata come ai giorni nostri. Era un ragazzo di rara modestia che eccelleva in tutto ciò che faceva. La sua esuberanza sportiva, l’innata goliardia e l’amore per la creatività lo rendevano un AMICO spontaneo e speciale per tutti i ragazzi che avevano la fortuna di conoscerlo. In quegli anni nulla era virtuale, si viveva di poco e con poco, il cuore entrava senza complessi in qualsiasi rapporto umano.
Le nostre strade si divisero nel 1960: io andai per mare e lui andò a Parigi per perfezionare il suo grande talento per la pittura e la scultura.
"Andare a Parigi costituiva il massimo dell’aspirazione di quando ero un giovane di 20 anni. Il sogno si realizzò grazie ad uno zio scultore che già vi abitava, Gigi Guadagnucci". (Vito Tongiani)
Per capire meglio il percorso compiuto da Vito dobbiamo indagare e porci la seguente domanda:
Chi fu il primo maestro di Vito?
Gigi Guadagnucci, all'anagrafe Giuseppe Guadagnucci (nella foto) nacque a Massa il 18 aprile 1915, morì a Massa il 14 settembre 2013. Nel 1936 è costretto a lasciare l'Italia per motivi politici, emigra in Francia, a Grenoble dedicandosi alla scultura e allo studio della Storia dell’Arte.
Allo scoppio della Seconda guerra mondiale aderisce alla Resistenza Francese e terminato il conflitto rientra per alcuni anni in Italia.
Nel 1953 si trasferisce a Parigi dove frequenta gli ultimi scultori di Montparnasse, tra questi Alberto Giacometti e Ossip Zadkine, César e Francois Stahly. Sul finire degli anni cinquanta espone le sue prime opere. Nel 1964 viene scoperto dal critico d'arte Pierre Courthion, in quegli anni realizza sculture monumentali in Francia a Cannes, Strasburgo, Tours, Marsiglia, Grenoble e, nel resto del mondo, a Tokyo per l'Hotel Hilton e per il sultano del Brunei.
A Parigi espone nella prestigiosa galleria di Claude Bernard e successivamente nella Casa di Dante (1952), Galerie Regards a Parigi (1977), all'Istituto Culturale Francese a Roma (1978), Galleria Ferrari a Brescia (1979), Musée Bordelle a Parigi (1979), Convento della Nunziata a Pontremoli (1982), Sede Bayer Italia a Milano (1985), Galleria Arte Borgogna a Milano (1987), Galerie du Manoir a La Chaux de Fonds (1987), Andreas Galleries Washington D.C. (1987), Horti Leonini, San Quirico d’Orcia (1992) Malcesine a Verona (2001), Plazzo dei Diamanti Ferrara (2004) e alla IX Quadriennale di Roma.
Nel 1983 il ministro Jack Lang gli conferisce una delle più importanti onorificenze della Repubblica francese, nominandolo Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres.
Le sue opere sono in numerose collezioni internazionali, tra queste al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris, Hirshorn museum in Washington DC, Musée d'Art moderne et contemporain, Museo Bloch, Collezione privata a Rio de Janeiro, Museo del Marmo a Carrara, Rochester Institute of Technology.
VITO TONGIANI nacque a Matteria (Fiume) nel 1940. Città che fu soggetta alla Zona d’operazioni del Litorale Adriatico (OZAK), tra il settembre 1943 e il maggio 1945. Fin dal giugno 1945, trovandosi a sud-est della Linea Morgan, entrò nella zona ad amministrazione jugoslava e, a seguito del Trattato di Parigi nel 1947, rientrò definitivamente a far parte della Jugoslavia: dal 1991 fa parte della Slovenia.
Vito Tongiani fu definito: l'artista sempre in giro per il mondo: ha vissuto a Rapallo, a Parigi, Torino, Massa, Marrakesh. Ha lavorato ed esposto, in Italia e all’estero: disegni, acquarelli, pastelli, dipinti a olio, statue di marmo e di bronzo.
Vito Tongiani - Autoritratto
Da anni ormai si è stabilito sulle colline di Camaiore, luogo splendido, che gli consente di portare a termine sculture monumentali che gli sono state commissionate, a dipingere e, come dicono gli amici, «a disintossicarsi» dalla routine della quotidianità.
Vito Tongiani a sinistra con lo scultore Lorenzo Rappelli
Le sue Esposizioni Artististiche, come le riportiamo qui di seguito, ci raccontano in modo cronologico della sua frenetica attività, le sue opere che raccogliamo in un album fotografico, ci raccontano invece della sua arte, del suo talento …..
1972 Galleria Davico, Torino
1973 “Fiorino” di Firenze
1974 1° premio “Sperticano” a Bologna
1975 Galleria Forni, Bologna
1976 Galleria 32, Milano
1976 e 1978 Galleria il Gabbiano, Roma
1976 “Nouvelle subjectivitè” al Festival d’Automne di Parigi
1979 Palais des Beaux Arts, Bruxelles
1979 Galleria Documenta, Torino
1979 Galleria Fred Lanzenberg, Bruxelles
1981 Galleria Santa Croce, Firenze
1981 Biennale di Scultura di Carrara
1982 Biennale di Venezia
1985 Galleria Karl Finker, Parigi
1985 Galleria Il Tempietto, Brindisi
1986-1987, Nimes, fontana in bronzo e marmo in collaborazione con Martial Raysse
1988 Galleria Documenta, Torino
1989-1994 Cinque sculture in bronzo per lo stadio “Roland Garros” di Parigi
1993 “Artisiti Italiani per l’Europa” al Museo di Metz
1993 “De Chirico e le conseguenze postmetafisiche” per Artcurial, Parigi
Nel 1993 è stato invitato a partecipare alla mostra “Artisiti Italiani per l’Europa”, realizzata dal Museo di Metz, e sempre nello stesso anno ha inoltre partecipato all’esposizione “De Chirico e le conseguenze postmetafisiche” organizzata a Parigi da Artcurial.1994 Galleria P.Brullè, Parigi
1994 Ha realizzato per la città di Lucca il Monumento di Giacomo Puccini
1995 Biennale di Venezia
1996 “La Forza dell’immagine” il realismo in Europa, Berlino
1996 “La pittura italiana dal 1960 al 1980”, Museo d’Arte Moderna di Osaka
1998 “Pittura come passione”, Palazzo dei Priori Volterra
1998 “Il tempo del Marmo e quello del Bronzo” Museo del Marmo di Carrara
1998 Willy Brandt Haus, Berlino
1998 Oraziana Palazzo Orsini Licenza Roma
1998 Neuchatel Hotel de Ville
1999 Ha partecipato alla Quadriennale di Roma
2003 Villa Bottini, Lucca
2004 Viene inaugurata a Gazoldo degli Ippoliti (MN) il ritratto bronzeo di Steno Marcegaglia.
Nel 2004 viene inaugurata la fontana monumentale “Il trionfo di Afrodite” nel centro storico di Massa e a Roma il Senato della Repubblica inaugura a Palazzo Madama i sei dipinti ad olio acquistati all’artista.
Nel settembre 2004 il presidente della Repubblica Ciampi ha inaugurato il monumento posizionato sulla Linea Gotica a Montignoso (MS).
Nel 2005 viene inaugurato dal sindaco Albertini, a Milano, il monumento a Indro Montanelli che si trova all’interno dei giardini di Via Palestro a Milano e contemporaneamente si teneva la mostra di dipinti al Palazzo dell’Arengario.
2005--“Ilmale”-Stupinigi –
2008 “Viva l’Italia” Perugia
A maggio 2013 viene inaugurata a Gazoldo degli Ippoliti (MN) il ritratto bronzeo di Steno Marcegaglia
Riportiamo alcuni stralci di articoli di famose testate giornalistiche.
Erano in tanti ieri ai giardini Montanelli ad inaugurare il monumento. C'era il sindaco Gabriele Albertini e il suo vice Riccardo De Corato con l'assessore alla Cultura Stefano Zecchi. C'erano i parenti, la nipote Letizia Moizzi, la compagna Marisa Rivolta. C'erano i vecchi e i nuovi amici. Il presidente della Fondazione Montanelli di Fucecchio, Alberto Malvolti, Mario Cervi, Paolo Occhipinti, Alain Elkann, Almerina Buzzati, Natalia Aspesi, Giorgio Forattini, Paolo Pillitteri, l'ex sindaco di Bologna, Giorgo Guazzaloca. Folto lo schieramento del «Corriere della Sera», rappresentato dal condirettore Paolo Ermini.
Tutti a rendere omaggio al più grande dei giornalisti. Legato a quei giardini da un invisibile filo del destino. Qui faceva la sue lunghe passeggiate prima di rientrare in redazione. Qui, a pochi metri dalla statua, fu gambizzato dai brigatisti. Da queste parti si era rifugiato nel giorno dello strappo dal «suo» Giornale, in attesa di fondare La Voce. Il sindaco Albertini ricorda una sua frase scolpita nella pietra. «Devo a Fucecchio quello che sono, devo a Milano quello che sono diventato». Lo invoca come «il patrono laico della nostra città».
Salvo uscire dalla retorica e dalle celebrazioni, mai amate da Montanelli, con una battuta: «Questa mattina Montanelli mi ha chiamato per dirmi "Gabriele hai fatto una bischerata". Ma so che mi perdonerà». Gli amici si sono emozionati nel vedere la scultura di Tongiani. Qualcuno è rimasto sorpreso dall'oro — nitrato di ferro — che la ricopre. «Ci tornerò da sola — ha detto Marisa Rivolta — per me è stata una grande emozione». «È un monumento che restituisce appieno la sua immagine» commenta Elkann. «Avrei preferito vederlo in piedi con il bastone in mano — conclude Giorgio Forattini —. Quando i brigatisti gli spararono Montanelli si aggrappò a queste inferriate che circondano i giardini per morire in piedi».
I BRONZI DI PARIGI
MASSA Una telefonata di Jean Lovera, architetto specializzato nel tennis, mi aveva dato la sorprendente notizia che cinque statue di grandi tennisti erano state commissionate dalla Federazione francese al vincitore di un concorso. Le quattro squadre dei Moschettieri, gli eroi che vinsero sei consecutive Coppe Davis dal 1927 al ' 32 avrebbero trovato posto in una piazzetta, ricavata tra i due campi centrali del Roland Garros. La quinta, la divina Suzanne Lenglen, sarebbe stata issata sopra la porta d' ingresso dello stadio a lei intitolata. Mi ero sopreso, e congratulato in cuor mio, che un presidente come Philippe Chatrier avesse trovato il coraggio, e i denari, per rinnovare un mito nato con i Giochi Olimpici nella Grecia antica. Me n'ero poi dimenticato, sinchè, ancora dalla Francia, un altro amico mi aveva comunicato che il vincitore del concorso era italiano, si chiamava Vito Tongiani. Come non lo conoscevo? Ma se era conosciutissimo, a Parigi! Sono andato allora da un amico gallerista, che mi ha squadernato una serie di cataloghi sorprendenti. Acquarelli che sembrano usciti dalla bisaccia di un viaggiatore settecentesco. Una modella che mi faceva pensare all' Eva di Masaccio, un'altra modella illuminata dallo stesso lampo della Tempesta. E poi due straordinarie sculture. Una immacolata donna di un vivissimo marmo intenta a specchiarsi, indifferente nell' offrire all' occhio dell' autore e del guardone due gambe memorabili: una sorta di monumentalità sensuale da far pensare a Donatello. E un coccodrillo di bronzo, vivo nell' accuratezza di dettagli maniacali, un lavoro accanatissimo di realtà riassemblata, qualcosa che avevo già visto: ma dove? E' a Nimes, sorrideva l'amico gallerista, e solo allora avrei collegato la foto al bronzo situato in una piazza, con le lacrime che escono ogni quattro minuti da occhi semichiusi e crudeli. Capivo in quella di non aver identificato il coccodrillo di Tongiani e quello di Nimes per uno scarto cronologico, per non aver mai immaginato che qualcuno, di questi tempi, potesse pensare a qualcosa di assolutamente rinascimentale. Mi venivano in mente le statue equestri del Gattamelata, del Colleoni. E mi veniva anche una gran paura circa i possibili esiti di un'impresa complessa, come quella di far rivivere i Moschettieri. Nei giardini di Wimbledon Esiste una sola scultura contemporanea di un grande tennista, Fred Perry, nei giardini di Wimbledon. E sarebbe francamente meglio che non ci fosse. Così telefonai a Vito Tongiani, e un bel vocione cordiale mi disse di affrettarmi, Jean Borotra era già stato fuso, mentre René Lacoste si apprestava ad esserlo. Lo scultore mi avrebbe atteso al casello dell'autostrada, all' uscita di Massa. Non fu difficile riconoscerlo, e non solo per la maglia rossoblu da rugby, preannunziata al telefono. Sotto il fittissimo barbone nero si nascondeva un viso incredibilmente attento, due occhi capaci di un'insolita attenzione, in questi bassi tempi di superficialità. Veniva sera, spruzzi di luce sfuggivano a una mareggiata di nubi grigie. Quando vuol vedere Borotra? domanda Tongiani e non si sorprende nel sentirmi rispondere subito. L' hangar dove ci fermiamo confina con una vigna. Tutt' intorno si leva un presidio di orribili manufatti cemeteriali. Il disagio per quei putti e madonne svanisce nell'istante in cui scorgo il corpo bronzeo del grande campione, rovesciato su una barella di legno, abbandonato tra cuscini di paglia. Aiutato da suo fratello, lo scultore gli passa intorno alla vita una cintura di cotone fissata ad un cavo, preme un pulsante e Borotra si alza, raddrizza, rimane a mezz' aria, gli occhi rivolti ad una palla invisibile, come abbacinati dal sole. Rimango a guardare, con attenzione divisa. Non sono certo un esperto d'arte, ma ho conosciuto il grande tennista, addirittura l'ho incontrato su un campo, ormai ultraquarantenne. Il Basque Bondissant è giusto raffigurato in volo, lo slancio verso l'alto parte dalla punta della scarpetta sinistra per spingersi fino all' ovale di una racchetta vuota, priva di corde, l'unico dettaglio dell'opera che non segua un minuzioso riscontro con la realtà. Guardo ancora, e mi accorgo che mi sbaglio, che la fedeltà al modello, una stupenda foto di uno smash è magistralmente alterata. L'intera statua non misura infatti meno di due metri. Gli scarpini sono più piccoli del vero per alleggerire la pesantezza di quei due quintali di bronzo. Il braccio destro, gonfio di muscoli, addirittura ipertrofico è più credibile che se fosse autentico. Su queste sapientissime varianti si accumula una infinita successione di dettagli minimi che seguo ammirato, fino a certe piegoline della flanella di un pantalone, una quasi invisibile cucitura dietro al collo della camicia, le zigrinature delle scarpette da erba, addirittura il numero, l'8 inglese. Indugio con la mano a carezzare lo splendente bronzo dorato, poi mi fermo, come se avessi commesso sacrilegio. Tongiani ride. Toccalo pure, va toccato afferma. Mi viene in mente che molte statue di divinità, o altri simboli religiosi, sono lievemente consunti, spesso lucidati dalle mani dei fedeli. Accadrà anche alla statua di Borotra, a quelle degli altri Moschettieri e dei Suzanne Lenglen? Potrà accadere, me lo auguro sorride Vito. Per questo ho voluto che le statue fossero a portata di mano, a misura d' uomo. Insieme a suo fratello Silvio, mi mostra la pianta del luogo di culto, la piazzetta tra i due stadi. Intorno a noi sono già imballati nella taglia i grigi marmi semicircolari, che faranno corona ai Quattro Moschettieri: Henri Cochet sarà pronto nel 1990, Totò Brugnon sarà terminato nel ' 91. Tongiani mi racconta le molte difficoltà incontrate dal giorno in cui i suoi bozzetti riuscirono a superare quelli di altri, e di un ultimo testa a testa con un artista francese. Continua dicendo che fin dall’inizio del lavoro aveva preso la risoluzione di non incontrare personalmente i vecchissimi Borotra e Lacoste. Un percorso difficile. Avrei dovuto compiere un difficilissimo percorso all'indietro, avrei rischiato la biografia, invece di una verità poetica. Non si deve pensare, tuttavia, ad una semplice interpretazione di quel che fu il grande Borotra. In un armadietto dello studio di Tongiani sono appesi infatti il mitico basco blu, i lunghi calzoni di flanella, la camicia, è accuratamente riposta la racchetta del campione. E, fianco ai cartoni di prova, al modellino in gesso, e ad uno in bronzo, sono appuntate decine di fotografie originali del Basque Bondissant. Mentre mi parla, Vito indugia a passare una mano sul dorso della statua, la carezza e insieme ripulisce di qualche macchiolina di polvere di marmo. D'un tratto manda un grido, quasi un ruggito. Guarda, guarda ripete a me e al fratello. Qui manca, non l'hanno fatto, quei banditi, aveva ragione Caravaggio! Come qualcuno sa, Caravaggio uccise con una coltellata Ranuccio Tommasoni, per una lite seguita ad un match di Gioco di Rachetta, al Muro Torto di Roma. Ma cos'hanno dunque fatto di male, i banditi della fonderia, per sollevare tanto furore? Sotto la cintura di Borotra le dita sensibilissime dello scultore hanno trovato un appiattimento dove doveva esserci una piegolina. Senti, senti! Seguita a ripetere, e mi fa toccare, incredulo che io non riesca a indignarmi come lui. Lo rifaranno, oh se lo rifaranno! Ripete. Nonostante il giorno seguente sia domenica, Vito riuscirà a far aprire la fonderia, a farsi promettere che quella minima imperfezione sarà eliminata. Totalmente rabbonito dal proprietario Giovanni Tesconi vedi caso, un tennista, Vito indugia a mostrare i pezzi di Lacoste, già ricoperti di cera. Per quanto posso vedere, il famoso Crocodile, fissato nel suo infallibile rovescio, lo sguardo di orientale impassibilità sotto l'ala del berretto, è non meno sublime di Borotra. Resterà anche lui nei secoli, Reneé Lacoste, finchè esisterà il tennis. O forse anche oltre.
La statua realizzata dall'artista VITO TONGIANI é stata scoperta dal sindaco Gabriele Albertini nel parco pubblico di via Palestro Milano.
Ieri avrebbe compiuto 97 anni. Ieri, Milano gli ha voluto dedicare una statua nei suoi giardini di via Palestro. Indro Montanelli é diventato un monumento dorato per mano dello scultore Vito Tiongiani. Accoccolato su una pila di giornali, il cappotto con il bavero rialzato, la lettera 24 sulle gambe da fenicottero, l'indice puntato sulla macchina da scrivere. La storica foto di Indro Montanelli al lavoro nei corridoi del "Corriere della sera" si é trasformata in un bronzo. Con una sola differenza: il cappello é stato posto di lato per permettere di intercettare lo sguardo del giornalista: guarda ciò che sta scrivendo ma guarda anche al suo unico "padrone" riconosciuto in vita, il lettore.
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Erano in tanti ieri ai giardini Montanelli ad inaugurare il monumento. C'era il sindaco Gabriele Albertini e il suo vice Riccardo De Corato con l'assessore alla Cultura Stefano Zecchi. C'erano i parenti, la nipote Letizia Moizzi, la compagna Marisa Rivolta. C'erano i vecchi e i nuovi amici. Il presidente della Fondazione Montanelli di Fucecchio, Alberto Malvolti, Mario Cervi, Paolo Occhipinti, Alain Elkann, Almerina Buzzati, Natalia Aspesi, Giorgio Forattini, Paolo Pillitteri, l'ex sindaco di Bologna, Giorgo Guazzaloca. Folto lo schieramento del «Corriere della Sera», rappresentato dal condirettore Paolo Ermini.
Tutti a rendere omaggio al più grande dei giornalisti. Legato a quei giardini da un invisibile filo del destino. Qui faceva le sue lunghe passeggiate prima di rientrare in redazione. Qui, a pochi metri dalla statua, fu gambizzato dai brigatisti. Da queste parti si era rifugiato nel giorno dello strappo dal «suo» Giornale, in attesa di fondare La Voce. Il sindaco Albertini ricorda una sua frase scolpita nella pietra. «Devo a Fucecchio quello che sono, devo a Milano quello che sono diventato». Lo invoca come «il patrono laico della nostra città».
Salvo uscire dalla retorica e dalle celebrazioni, mai amate da Montanelli, con una battuta: «Questa mattina Montanelli mi ha chiamato per dirmi "Gabriele hai fatto una bischerata". Ma so che mi perdonerà». Gli amici si sono emozionati nel vedere la scultura di Tongiani. Qualcuno è rimasto sorpreso dall'oro — nitrato di ferro — che la ricopre. «Ci tornerò da sola — ha detto Marisa Rivolta — per me è stata una grande emozione». «È un monumento che restituisce appieno la sua immagine» commenta Elkann. «Avrei preferito vederlo in piedi con il bastone in mano — conclude Giorgio Forattini — Quando i brigatisti gli spararono Montanelli si aggrappò a queste inferriate che circondano i giardini per morire in piedi».
IL TIRRENO - LIVORNO
Vito Tongiani, lo scultore amato dagli Agnelli «Ma non chiamatemi artista dei vip». Le sue opere alla Vinaccia
CARRARA. E' opera sua, di Vito Tongiani, il grande bassorilievo che sovrasta la camera da letto di Umberto Agnelli: un «ciclopico» lavoro in gesso che rappresenta i due emisferi terrestri, australe e boreale, e le costellazioni. La nipote dell'avvocato più famoso d'Italia, Valentina Nasi, ha voluto nella sua bellissima casa di Milano, progettata dall'architetto Tony Cordero, un camino in bronzo di oltre tre metri, dove viene raffigurato un gioco fra le Nereidi e i Tritoni. Infine, una nobildonna lucchese, ha scelto questo artista di origine massese, il 61enne Vito Tongiani, per un lavoro originale e bellissimo: il bagno della sua villa, un'enorme stanza di cinque metri per sette, è stato completamente affrescato a tempera con i ricordi di un viaggio in India. Un opera durata oltre nove mesi. Queste sono soltanto alcune delle creazioni di uno degli artisti più famosi del panorama italiano che si è conquistato un posto d'onore nel cuore e nei gusti dei personaggi più in vista dell'alta società. Ma Tongiani (che fino al 27 agosto espone cinque suoi dipinti nell'entoeca «La vinaccia», nel cuore di Carrara davanti a palazzo Caselli) non accetta la definzione di artista amato dai vip. «NLn la condivido per nulla, preferisco parlare del mio lavoro e dell'autenticità di uno dei luoghi in cui da qualche anno a questa passo sei mesi l'anno: il Marocco - dichiara Tongiani - Mi piace la voglia di vivere di questo paese, e i colori, il calore che vi si respira. E' un mondo più vicino alla poesia». Tongiani, che è nipote dello scultore Gigi Guadagnucci (per il quale ultimamente ha dipinto un bellissimo ritratto) è conosciuto ed apprezzato oltre che nelle vesti di pittore anche in quelle di scultore. Sono suoi i cinque ritratti in bronzo davanti allo stadio del tennis di Parigi, il Roland Garros. Nella piazza centrale della città di Nimes, nel Sud della Francia, troneggia la sua fontana in bronzo con il coccodrillo incatentato, simbolo del paese.
Alessandra Vivoli 23 agosto 2002 sez.
Da questa modesta RAMPA DI LANCIO che è MARE NOSTRUM - RAPALLO, spero possano giungere a VITO tanti ricordi di Rapallo e dei tanti AMICI che non lo hanno dimenticato!
OPERE DI VITO TONGIANI
SELEZIONE
Il Trionfo di Afrodite - Fiontana nella Piazza del Mercato - Massa
Pescherecci in porto
Ilaria che legge
Seguono le foto della Statua di Indro Montanelli - Milano
"Malgrado tutto il futuro sarà nostro"
Volto di ragazza
I BRONZI DI PARIGI
Scultura - Tennista Lacoste, uno dei quattro mousquetaires
Roland Garros - Parigi
Tennista Brugnon - altro mousquetaire - Roland Garros
Parigi
Tennista Cochet - Roland Garros - Parigi
Tennista Borotra - Roland Garros - Parigi
Ritorno dal fiume
Due dipinti
Monumento a Giacomo Puccini - Lucca
In Blu
"E' tornata la Primavera"
Le due ragazze
Pentesilea morente - Senato della Repubblica
ROMA
La Conversazione
Maria Scassa con Pepe
... gironzolando tra le opere nel suo studio Studio...
CARLO GATTI
Martedì 9 Maggio 2017
SAN PE', L'ULTIMO MARINAIO DEL '900
LA STORIA DI SAN PE'
L’ultimo marinaio del ‘900…
Il Comandante Repetto Giovanni, detto San Pé, nacque a Carloforte, (Isola di S.Pietro) nella Sardegna sud-occidentale ai primi del ‘900. Discendeva da una famiglia di Rapallo che era stata rapita dai corsari magrebini nel corso delle incursioni saracene del ‘500. Nessuno di quella sfortunata stirpe rapallina riuscì a riscattare i Repetto per farli rientrare nel Tigullio. Tuttavia, la storia, a volte é migliore degli uomini che la scrivono… e i discendenti, con quel cognome molto comune dalle nostre parti, dopo secoli di patimenti si ritrovarono a possedere un appezzamento di terra, chiamata “Ciassa da Bobba” che si trova su un leggero altopiano nel centro dello scoglio sardo dove, ancora oggi, si parla il genovese di Pegli.
Bobba – Carloforte – Isola di San Pietro Sardegna
Un po’ di storia:
Grati per la soddisfacente sistemazione, i nuovi abitanti dell’isola eressero una statua in onore del Re Carlo Emanuele III di Savoia nella piazza principale del Paese (U Pàize) che fu chiamato Carloforte come segno di riconoscenza e fedeltà. A San Carlo Borromeo fu invece dedicata la Chiesa parrocchiale. Il Re donò per l'occasione un pregiato quadro raffigurante il Santo Patrono, ancora oggi situato nell'abside della Chiesa. Nel 1770 una seconda comunità di coloni provenienti da Tabarka s’insediò nella vicina Isola di Sant’Antioco, sul lato prospiciente l’Isola di San Pietro, dove fu fondato il paese di Calasetta. Evidentemente, i conti tra i tabarchini e i berberi nord-africani non si erano chiusi definitivamente. Infatti, il 3 settembre 1798, nelle primissime ore del mattino, gli equipaggi di tre navi corsare algerine sbarcarono nel porto di Carloforte e l’isola subì una feroce incursione piratesca. 933 carlofortini (circa la metà degli abitanti dell’isola) furono catturati, deportati e tenuti schiavi a Tunisi per cinque anni, fino al 24 giugno 1803, giorno in cui furono riscattati con una onerosa cifra da Carlo Emanuele IV di Savoia e poterono ritornare in patria.
Durante il quinquennio di schiavitù, il prigioniero Nicola Moretto, un ragazzo che era riuscito a farsi benvolere dal suo padrone e quindi a godere di qualche libertà, rinvenne sulla spiaggia di Nabeul vicino a Tunisi, una statua lignea. Quel pezzo di legno, nonostante fosse consumato dalle burrasche e corroso dalla salsedine, conservava ancora i lineamenti di una Madonna con il Bambino. Il ragazzo, come preso da un incantesimo, la nascose nel suo mantello e la riportò a casa difendendola dalla curiosità degli altri servitori musulmani. Riuscì a fatica a consegnare la statua a don Nicolò Segni, che dopo una sommaria ‘ritoccata’ la pose subito in venerazione.
Il ritrovamento, é facile immaginarlo, fu accolto come un segno tangibile della protezione della Vergine e, improvvisamente, il morale dei deportati passò dalla disperazione alla speranza, e quindi alla fiducia in una prossima liberazione. Fu un evento miracoloso? Quei 933 disperati lo interpretarono, sicuramente, come un segno del cielo che avrebbe dato, prima o poi, i suoi frutti. Da quel fatto ebbe origine il culto della "Madonna dello Schiavo" protettrice dei Tabarkini.
Si tramanda che persino i musulmani, che venerano Maria (Maryam) e credono nella sua eccellenza e verginità, guardarono a quel ritrovamento con profondo rispetto e, da allora in poi, trattarono con maggiore rispetto gli schiavi cristiani.
Metà della sua carriera, il giovane Repetto la svolse come padrone marittimo al comando di piccole navi, poi decise di trasferirsi con la famiglia nel continente… un ritorno nella terra dei “pegioti” che diedero coesione e identità alla comunità genovese che rafforzò nel tempo forti legami con Pegli. Per la verità Sampé non ebbe mai simpatia per i rapallini responsabili, secondo lui, di aver abbandonato i suoi avi nelle mani di un Magistrato del Riscatto genovese che fu a “stato paghe” dei Lomellini che, a sua volta se l’intendeva con i tunisini di Tabarka per via del prezioso commercio del corallo.
San Pé lascia l’isola
La scusa ufficiale di quel rientro in Liguria per parenti e conoscenti era il conseguimento della laurea dei due figli all’Università di Genova, ma c’era anche una verità del tutto personale: fin da ragazzo San Pé aveva sognato di fregiarsi del titolo di Capitano di lungo corso, un titolo a cui aspirava per onorare la memoria dei nonni caphorniers dei quali si parlava ancora “au schéuggio”.
Sampé studiò notte e giorno a bordo delle vecchie carrette nel periodo di bonaccia tra le due guerre, e ci riuscì da privatista ottenendo il diploma al Nautico San Giorgio di Genova. Tuttavia, contro ogni aspettativa di chi era convinto di conoscerlo bene, continuò la sua carriera navigando nel navalpiccolo, come allora si chiamava quel mondo di navi che solcavano soltanto il Mediterraneo. Un piccolo universo che Sampé conosceva meglio di chiunque altro. Fece quella scelta per non rinunciare al grado di Comandante, senza il quale pochi del suo entourage avrebbero capito l’inevitabile retrocessione ad ufficiale di coperta al lungo corso, con scarse possibilità di ripassare al Comando.
San Pé continuò a navigare con il passaporto fino alla veneranda età di settantacinque anni, poi andò in pensione, nel periodo in cui i controlli dello Stato erano evanescenti, sia sulle irregolarità delle navi sia sulla salute dei marittimi. San Pé si ritirò a vita privata, trascorrendo il suo tramonto esistenziale sulla passeggiata di Pegli, su quel lungo “ponte di comando” da cui osservava a levante le petroliere arrivare e partire nel canale del Porto Petroli di Multedo, sotto i passaggi radenti di rumorosi aerei passeggeri e, a ponente, le navi lunghe 400 metri, prendere il pilota e infilarsi tra le gru davanti al centro abitato di Voltri-Prà.
La sua vita movimentata, giunta ormai al traguardo finale, si concluse con la visione extraterrestre di mega-navi comandate da Capitani di lungo corso che avevano la sua stessa cultura marinara. Sampé chiuse gli occhi a 98 anni di età, soddisfatto d’aver dato il suo contributo di marineria a quei cento anni di storia che avevano cambiato il mondo delle navi.
Chi era San Pé?
I suoi ricordi di gioventù risalivano ai primi imbarchi sui leudi che trasportavano i minerali, estratti dalle caverne di Buggerru, al porto di Carloforte dove venivano caricati sui bastimenti a vela..A bordo di quei legni fece le sue prime esperienze venendo a contatto con anziani marinai ormai in disarmo, ma che avevano ancora tanto da raccontare e da insegnare ai giovani di buona volontà. Piano piano il suo orizzonte si allargò in direzione dei quattro venti, ma il suo modo di pensare la navigazione non andò mai oltre quel cerchio che lambiva le sponde del Mare Nostrum di cui conosceva, alla stregua di un pirata del passato, umori, rumori, odori, tane, anfratti, baie e baiette, punte, promotori e insenature. Spesso San Pé nominava quei siti con lo strano linguaggio di chi aveva un improbabile grado di parentela con la “seaspeak” internazionale. Tuttavia, quando per pura curiosità qualcuno di bordo andava a cercarli sulla carta nautica, non ne trovava traccia. Erano nomi di fantasia. Si, proprio come “svalutation” di Adriano Celentano… e, guarda caso, Sampé amava lo “svitato” alla follia. Entrambi avevano la stessa opinione della comunicazione:
“la gente ama sentirsi dire le “belinate” che sa già o che non saprà mai… e ciò l’esime dal farsi scrupoli di coscienza… Intanto lo dice Celentano in TV”!
Amava distribuire pillole di saggezza ai giovani che l’ascoltavano ammirati: “nascondere la propria ignoranza dietro una “buffonata alla Celentano”, è come prendersi la rivincita verso quel mondo che vede nella lingua inglese la soluzione di tutti i problemi della globalizzazione”.
In quella ormai lontana gestione della scienza nautica pre-tecnologica, una plausibile spiegazione a quei “misteriosi” punti geografici imparati a memoria dai vecchi naviganti c’era, ed era questa: essi venivano usati nelle rispettive lingue del Mediterraneo, ma a bordo s’imbastardivano con i dialetti costieri dei nostri marittimi, e tali “suoni” rimanevano storpiati per sempre, nella convinzione che quei nomi fossero “originali” e da preferirsi a quelli stampati sulle carte che erano stati imposti dagli imperialisti inglesi, francesi e americani… (così raccontavano!)
San Pé si difendeva dai ritmi della scienza che avanzava dicendo:
“Noi gli abbiamo sempre chiamati così! Forse con tutti i colpi di stato che ci sono stati nel Nord Africa, qualcuno avrà cambiato i nomi…”
Tuttavia, fin da ragazzo, il suo pensiero era immerso nella dura realtà dei colpi di mare e spesso sosteneva:
“i fatti contano più delle parole, le quali sono usate, spesso, come ami per pescare i “boulagi” (pesci stupidi), cioè i creduloni…”
All’epoca della vela, prima di ogni viaggio, il mozzo San Pé faceva il giro delle bancarelle per recuperare vecchie carte e portolani salvati dalla demolizione o, più spesso di giorno, ma anche di notte…, “salpava” bussole, bozzelli, pulegge ed anche cavi dai relitti spiaggiati sulla costa con lunghe apnee subacquee.
Di lui si racconta che avesse la fissa per la “ruota del timone” alloggiata su ogni ponte di comando presente nel suo raggio d’azione, e che di notte si arrampicasse sulle navi alla fonda per rapinarle, anche in presenza di guardiani o marinai addormentati. Egli stesso raccontava, sotto lo sguardo incredulo dei suoi amici del porto, d’aver rivisto quelle imbarcazioni navigare usando la chiave inglese… al posto della ruota a caviglie.
Quel lavoro gli procurava qualche soldo e molta considerazione da parte dei vecchi padroni marittimi che già intravedevano nel suo coraggio “corsaro”, un futuro da capitano. Infatti, appena i tempi lo consentirono, lo istruirono secondo scienza e coscienza e se lo portarono a bordo con il titolo di “marò contrabbandiere…”.
Un nomignolo affettuoso che spesso veniva assegnato ad un folletto porta fortuna.
Iniziò così, con molta intraprendenza e curiosità, il suo lungo tirocinio fatto di esperienze pratiche alla scuola dei grandi marinai di quel tempo.
All’epoca, sebbene circolassero navi a motore anche grandi e se ne avesse puntualmente notizia, la mentalità dei tanti San Pé considerava la presenza del motore nella pancia di un Leudo, o di un qualsiasi veliero costiero, alla stregua di un infido estraneo che toglieva loro il sonno…
Era impossibile abituarsi a quel rumore senza pause che, oltretutto, faceva scappare anche il cibo fresco di ogni giorno: i pesci azzurri che lasciavano il posto a tavola a quei fumi insopportabili e pericolosi per la salute.
Al contrario, il vento era per i silenziosi marinai dei leudi, il propulsore ideale che la natura forniva senza chiedere nulla in cambio, e per chi lo sapeva catturare, era anche molto più efficace del motore.
Come i pescatori cercavano il pesce per campare, così i marinai dei leudi cercavano il vento per fare miglia su miglia per “sbarca u lunaio”. Purtroppo, quando il motore soppiantò la vela in tutte le statistiche del mondo, iniziò il grande esodo dei vecchi marinai che si portarono i loro segreti del mestiere nell’oltretomba motivando così il loro pensiero:
“Perché passare le consegne ai giovani traditori del vento che scappavano sui bastimenti ad elica?”
E spiegavano:
“Perché regalare i segni delle frustate prese a Capo Horn e nel Leone a gente che domani imbarcherà sui vapori e non farà più i bordi per rimontare il vento? I novelli marinai andranno sempre dritti in cerca di porti dove sbarcare ed imbarcare merce al ritmo di: ‘avanti marineros’. E prenderanno facciate contro il muro del Mistral, della Bora, del Candia e del Meltemi …! Noi invece andavamo sempre in cerca di ridossi per sopravvivere nell’attesa di venti favorevoli. Si navigava e si riposava randeggiando le coste senza sfidare l’ignoto.
Sul “leudo vinacciero” di mio nonno per passare la vela latina da un lato all’altro dello scafo, servivano 4 0 5 marinai svegli, esperti e sincronizzati come un cronometro. Era una manovra difficile e pericolosa, ci volevano braccia allenate e potenti come bighi di forza. Un “mozzo bagascetto inesperto” veniva spedito fuori dai coglioni, perché non sapeva muoversi sulla coperta a schiena d’asino, tra bozzelli che facevano l’altalena da una paratia all’altra... Era meglio una testa di c… in più che un mozzo di meno…”
Un vecchio proverbio ricorda:
- Fa comme o demöa che pè andà a poppa o giâva l’erbo de prua.
- Fare come lo sciocco che per andare a poppa girava l’albero di prua.
San Pé non vede l’ora di descrivermi quella manovra come se la facesse dal vivo...
“Servono quattro o cinque persone. Il timoniere allenta la scotta e mette la barca al vento. Un marinaio allenta la sartia sopravvento ed un altro cazza la cima dell’amante dell’antenna in modo che non scivoli verso prua ed allenta la l’amante della trozza in modo che l’antenna sia più libera. Un altro marinaio tende l’amante della drizza in modo che l’antenna si alzi fino a che il corso superi il capo di banda ed entri dentro la barca. Uno deve togliere l’imbracatura dell’antenna dal dritto di prua e lasca l’orza davanti a quella di poppa. Un marinaio prende la cima della scotta e la sposta dal lato opposto. Un altro marinaio prende la base dell’antenna e la porta alla base dell’albero. In due si mettono alla base dell’albero e fanno girare la base dell’antenna dalla parte opposta mentre un altro marinaio cerca di non far sbattere la vela. Contemporaneamente un altro marinaio è pronto a tendere la trozza. Si tende l’orza davanti e la mura; si abbassa l’amante della drizza fino a far tornare la base dell’antenna al suo posto. Il timoniere fissa la scotta e mette la barca al vento. Su un leudo la manovra dura una trentina di minuti. Si deve tener conto che alcune volte non si fa tutta questa manovra. Non facendola, la vela andrà a sbattere contro l’albero formando quasi una doppia vela. Navigando in questo modo, si ha l’andatura chiamata: a daredosso.
A distanza di oltre 70 anni i peli del mio naso puzzano ancora di bitume, di biacca e di salmastro. Quei ricordi me li porto sulla pelle e su questo nasone che ha fatto ridere il Mediterraneo, specialmente quello arabo ed ebreo che, al contrario del mio, sembrava il tagliamare di un falco pescatore”.
San Pé, un filosofo del mare
- Lascià andà l’aegua inzù
e o vento in sciù.
- Lascia scendere l’acqua e salire il vento (non ti opporre al destino)
Il grande oceano di San Pé si muoveva lunatico e malizioso nella fascia passante da Gibilterra a Suez, ma nulla lo attirava fuori da quei passaggi. La sua storia marinara ignorava, senza pregiudizi e curiosità, le lontane scoperte geografiche con tutte le loro novità…
In quella specie di grande lago, le rotte erano strade da scegliere a seconda delle stagioni e lui avvertiva sulla pelle quando era il momento di avanzare, arretrare o deviare e spesso diceva: “L’importante é arrivare, non quanto ci si mette!”
Aveva una specie di sensore, piazzato chissà dove, che agiva sulla sua pressione sanguigna. Il maltempo gli avvinazzava il naso come un pagliaccio da circo, e funzionava da barometro tendente al brutto per tutto l’equipaggio.
San Pé ripeteva: “Il bollettino del tempo che riceviamo via radio, altro non è che l’opinione di quei “marescialletti” che portano a casa lo stipendio, senza rischiare la pelle come i marinai, quindi: calma e gesso, la burocrazia la lasciamo agli scribacchini, al resto dobbiamo pensarci noi”.
Per San Pé era più facile entrare in sintonia con un gabbiano che con l’addetto al servizio meteo dell’aeronautica che, nei giorni di pioggia, per fare pochi metri di strada, apre l’ombrello per non bagnarsi l’uniforme.
“Cosa abbiamo in comune con loro?” - diceva grattandosi il naso – “neppure l’acqua dei piovaschi, che per noi sa di sale, di sabbia del Sahara, di minio ed è pure diuretica!”
Quando i ochin xeuan in tæra unn-a burriann-a a no l’è lontann-a.
- Quando i gabbiani volano a terra, la burrasca è vicina.
Poi, la sua solitudine diventava romantica:
“Se invece osservi attentamente il comportamento di ogni singolo gabbiano dandogli la stessa importanza che merita un tuo caro amico, lui si esprimerà con gli occhi, con il corpo e con le ali. Se lo sai interpretare, lui è meglio di Civitavecchia Radio che lavora sulla 1888 Kc, è meglio di un drone moderno che lanci a grandi altezze per spiare il cielo.
L’ochin (il gabbiano) é sereno quando naviga sulla tua stessa rotta, mentre sollevi aria calda che lo spinge in alto senza faticare. Ti sta vicino aspettando un po’ di cibo per poterti accompagnare. Anche lui naviga tutto il giorno, ed ha le tue stesse paure, perché deve nutrirsi, veleggiare, riposare ma anche scappare verso terra quando il vento rinforza. Il gabbiano ha i nostri stessi problemi esistenziali: se il tempo peggiora, lui lo sente prima di noi perché abita qui tutto l’anno e da sempre. Vedi? Oggi segue noi; 2000 anni faceva le stesse cose con le navi onerarie dei romani.
L’ochin ogni tanto parte per la tangente e va a volare sopra le nuvole fino a prendersi il suo bollettino personale. Più sale e più riesce a vedere oltre l’orizzonte, ma essendo anche un sensitivo, come spiegano le antiche leggende, capta gli urli striduli dei suoi simili francesi portati dal vento del Leone laggiù, sulle rive di Sète e La Nouvelle, dove la nostra rotta termina e s’infila a “porto cosce”... L’Ochin li sente, li vede e legge le loro ansie nei cerchi che disegnano il cielo tra le raffiche del vento.
Ma in quota il vento è più forte e più freddo, e il gabbiano con una stretta virata ritorna in picchiata sulla nave per avvisarci che il MISTRAL è incazzato con qualcuno, forse con le navi e con i marinai che sporcano e offendono le sue creature. Le burrasche e le tempeste esistono solo perché esistono gli usurpatori del bene di Dio”.
Una nave sta uscendo dal canale di Multedo e San Pé inforca i binocoli ed osserva:
“Il giovane ufficiale che vedi sull’aletta di plancia è distratto e pensa che l’ochin in volo accanto a lui sia soltanto un famelico opportunista… A quel moderno navigatore hanno insegnato a fidarsi soltanto della tecnologia che avanza su un terreno di puttanate chiamate “modelli matematici” che s’illudono di fornire certezze per migliorare la sicurezza del marinaio e della nave.
Chi veu passà per belinon, giudighe ô tempô.
- Chi vuol passare per fesso, giudichi il tempo.
I bollettini del tempo sono ciclici e vengono emessi su determinate frequenze, ma la matematica lavora sul presente che, al momento della trasmissione, appartiene già al “passato”. A noi interessa solo il futuro. Cosa succederà tra qualche ora? I dubbi trasmettono dubbi, mai certezze! Noi che navighiamo pieni di dubbi, possiamo solo rimediare ricorrendo ai ricordi di quelle esperienze vissute sulla nostra pelle.
In mare, per “esperienze” s’intende quella serie di errori che hanno una loro antica etichetta: “comme no pigialo in to cù!
La matematica è difficile da capire, specialmente quella che racconta delle musse…”
Per il comandante San Pé, il volo del gabbiano é il migliore bollettino dell’aeronautica naturale. Ma che vuol dire?
“Ero un ragazzino e finita la scuola m’imbarcavo sui leudi che veleggiavano al largo di Carloforte, non lontano dagli isolotti del Toro e della Vacca, per la pesca delle acciughe. A quel tempo non c’erano le radio portatili e le TV a tenerti compagnia e questi due scogli sembravano distanti un oceano dalla terraferma. Gli anziani di bordo erano l’unica voce di terra, i loro racconti erano la nostra radio. Non si perdeva una parola dei loro racconti di guerra, di mare, dei santi protettori, delle superstizioni, dei pesci di ogni tipo. Il tempo che occorreva per riempire le corbe e rientrare in porto, era pieno di racconti vissuti, non solo, ma anche di favole e tanta fede nella Madonna di Carloforte, in Sant’Erasmo e ai tanti miracoli che sempre dispensavano ai marinai.
Sant’Ermo in cöverta o lava cöverta e corridô.
- Fuochi di Sant’Elmo in coperta preannunciano pioggia a lavare coperta e corridoi.
"Gabbiani" da POESIE
Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro,
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com'essi l'acqua ad acciuffare il cibo.
E come forse anch'essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.
Vincenzo Cardarelli
E i gabbiani? “Già, i gabbiani li avevamo sempre addosso, specialmente quando salpavamo le reti ed erano affamati di pesce fresco. Ma ogni marinaio parlava sempre con lo stesso ochin che gli andava vicino per farsi coccolare: quando poi era sazio, si faceva pure la pennichella. Forse erano gli ochin che ci sceglievano e ci ammaestravano per evitarci guai maggiori. Ma se il tempo peggiorava, il gabbiano lo sentiva anche prima del barometro, diventava nervoso, scrollava spesso le ali e poi partiva improvvisamente, prendeva quota e saliva molto in alto fino a scomparire. Andava a scrutare il cielo, le nuvole e l’orizzonte, il colore del mare e le creste bianche ancora lontane che annunciavano la burrasca. Poi scendeva a cerchi concentrici fino a posarsi sulla coperta in cerca di caldo e del suo amico.
Apriva e chiudeva il becco velocemente per dirgli che aveva visto il tempo gramo all’orizzonte. Era il suo linguaggio e noi avevamo imparato a capirlo.
Quando presi il comando, battezzai col nomignolo Giuan l’amico gabbiano che mi aveva adottato. Era il più attento dell’equipaggio ed era imbarcato senza paga! Man man che la depressione atlantica s’avvicinava, il suo nervosismo era palese e contagioso. Subito sgombravo la coperta dalle cose ballerine, facevo rizzare le ceste del pescato, si toglievano gli attrezzi e approntavamo la vela latina per andarci a cercare un ridosso.
Giuan aveva sempre ragione! Anche il colore del mare ci dava i suoi segnali d’allerta, da verde appena increspato si trasformava in mare lungo che arrivava in abito grigio un po’ striato, lacerato e montagnoso trascinandosi profonde ferite e ricordi di violente burrasche”.
Ecco chi sono i veri lupi di mare: quei marinai che osservano i gabbiani salire per calibrare la densità delle nuvole, e poi scendere penetrando il colore del mare striato dal vento.
I lupi di mare appartengono ad una razza che si è estinta con l’avvento del motore. In terra si odono le favole diffuse sui pontili turistici per quei cazzoni della domenica che sfidano il mare per vantarsene il giorno dopo con i colleghi dietro una scrivania. I veri lupi di mare fiutano le burrasche in arrivo e scappano in tempo per salvare l’equipaggio, il carico e sanno come evitare i danni alla barca.
“Quando il nostro vecchio Capitano spariva per un attimo dalla coperta, gli altri si allarmavano: ‘u comandante u l’è andato a controlla u barometro’.
Quello strumento è una calcolatrice che tira le somme di tutti i segnali percepiti a bordo. Se la sua tendenza è a scendere, la fuga verso il ridosso sarà rapida e sicura”.
- In tempo di tempesta, ogni scoglio è porto.
Questo è il viso tagliato e bruciato dal sole, dal salino e dai colpi di mare di uno dei tanti San Pé che hanno donato la propria vita al Mare Nostrum.
Sampé si è cammallato un testone di capelli neri e ondulati fino a tarda età e spesso ripeteva d’aver coltivato quelle onde per esorcizzare quelle che il Padreterno gli inviava come monito per i suoi peccati. Le orbite quasi sempre gonfie, facevano filtrare dalle palpebre due occhietti neri e sospettosi che nessuno ebbe mai l’occasione di vederli nella sua grandezza e rotondità.
Non rideva spesso per non esibire la maschera ridicola che gli si formava sul volto avvinazzato e involgarito dal quel naso che gli fu schiacciato dalla maldestra rollata di un bozzello penzolo a bordo del leudo “Bastiano” di suo nonno Zeppin.
Ma il più delle volte si “vendeva” quella ‘prua rincagnata’ come un trofeo guadagnato sui ring di mezzo mondo e se qualcuno gli faceva notare che le date non quadravano, rimediava raccontando di una scazzottata coi magrebini in cerca di guai… nell’angiporto di Djerba.
Del pugile, peso mosca, aveva soltanto quel naso minaccioso. Le sue spalle ricordavano un paraegua serou e le braccia magre potevano sollevare si e no un sacco da marinaio già svuotato. Le sue gambe arcuate lo facevano rollare anche quando camminava nella ciassa du pàize: segno evidente di una stabilità più marinara che terrestre.
Piuttosto basso di statura, passava inosservato come quei piccoli gozzi “cornigiotto” del ponente genovese che hanno la prua a rientrare, e li guardi soltanto per la curiosa pernaccia che hanno sul dritto di prora.
Nella sua vita di bordo, San Pé era stato più in mare che a casa, ma la sua famiglia non era l’equipaggio di cui si sentiva un benevolo Capitano, un compagno autorevole di viaggio, ma mai un padre. Sampé non era nato per fare da padre a qualcuno, neppure a quelli del suo sangue che l’aspettavano sulle alture di Pegli, di cui parlava poco, ma si capiva che proprio là si annidavano le uniche persone che gli mancavano di rispetto. Spesso diceva che “la confidenza porta all’irriverenza”.
Maina diffiçile da contentà; quando o lè a bordo ô vô ê a cà, quando ô l’è a cà ô vou êse in mà.
- Il marinaio è difficile da accontentare; quando è a bordo vorrebbe essere a casa e viceversa.
Aveva due figli maschi che pensavano, con una certa crudeltà, che il mare “rimbambisce i marinai e li rende inadatti alla vita di terra!” Anche i nipoti la pensavano ormai allo stesso modo e Sampè glielo leggeva negli occhi, ed era ormai consapevole che a nessuno di loro interessava minimamente ascoltare le sue avventure di mare. Una vita senza senso? Chi lo sa? Forse è il destino che accomuna tanti malati del ferro…
Ma San Pé non reagiva più di tanto, in casa si era ormai identificato nel classico ospite che dopo tre giorni puzza, proprio come il pesce… Infatti, appena il tempo era scaduto, il suo pensiero correva a consolarsi a bordo dei suoi barchi popolati da spiritelli ignoranti, taciturni e di buon comando, che bevevano ogni cazzata espressa dal loro Capitano senza discutere, non per paura del diavoletto con il naso schiacciato, ma perché non gliene fregava un cazzo, come il loro piccolo duce, del mondo riparato, all’asciutto, a ridosso delle dighe, delle montagne, dei preti e di quei politici che non sanno neppure che le navi e i marittimi esistano al largo da Ciassa da Bobba..
In quarantenn-à ö mainà ö sö menn-à.
- In quarantena il marinaio….si annoia.
San Pé si sentiva in qualche modo un privilegiato che poteva comandare – almeno - quando era a bordo… e decideva da solo il da farsi per sopravvivere ed essere considerato per quello che era e faceva, senza gloria e senza onore.
A casa, se c’è il temporale, qualcuno chiude le finestre, magari stacca la corrente e non c’è bisogno di guardare i gabbiani ed il colore del mare per conoscere l’intensità della pioggia in arrivo.
In mare, il Capitano deve prevedere, vedere e provvedere a tutto prima che succeda il casino! Ecco l’ansia che sbarca e poi reimbarca con il marinaio fino alla posa in sicurezza del Libretto di Navigazione tra i cimeli di famiglia…
Avete capito che l’uomo di mare in casa rompe solo le balle perché ha la mania del rispetto degli orari di bordo, precisi nel mangiare, nel dormire e nel passeggiare sull’aletta, che a casa è il classico poggiolo… Ma non sopporta neppure quel telefono che squilla dalla mattina alla sera, e tutto è preceduto da urli e rumori strani che vengono dalla strada, dalle TV dei vicini di casa e dalle pignatte della cucina che sembra quella di un manicomio e poi precisa:
“A bordo si usa il telefono solo per le emergenze: incendio a bordo, uomo in mare, il motore che va fuori giri, lo scafo che fa acqua per una falla ed ogni rumore sospetto ti fa salire il cuore in gola.
In terra ci sono quegli anonimi ospiti che entrano ed escono come se la casa fosse un porto di mare, ma che in realtà è più simile ad un casino di via Pré… Per me la casa è piena di clandestini!
Belin, a bordo il direttore di macchina quando viene sul ponte, chiede il permesso per rispetto, non tanto del Comandante, quanto perché è l’unico luogo sacro della nave! A casa mi svegliano a tutte le ore con quei c… di cellulari, entrano nella stanza senza pensare che sono sbarcato e mi trovo a casa mia, nel mio letto!
Belin! non ne posso ciù!” Se non fossi così vecchio sarei già scappato con la prima nave in partenza da Ponte dei Mille, magari come un clandestino magrebino, e non mi avrebbero più visto”.
Ogni volta che San Pé sbarcava, queste scene si ripetevano ed erano sempre le stesse, nervose e un po’ comiche da cui si capiva che il tempo necessario per ambientarsi in famiglia era sempre troppo breve.
La gente di mare teme solo gli umori del vento che solleva il mondo e glielo rovescia addosso sbattendoli da paratia a paratia come i pesci rondine. Quella valanga di acqua salata gli fa una gran paura! I marinai non volano e non sorvolano le onde come fanno i gabbiani, e sanno che un buon Capitano è l’unica assicurazione che hanno sulla vita. Ecco perché a bordo LUI ha sempre ragione! Ecco perché lo scorbutico San Pé era amato dal suo equipaggio che ripeteva alla noia: “Lui sa sempre come riportarci a casa…”
Persino il direttore di macchina, l’unico che poteva permettersi di contraddirlo, con molta prudenza, gli lasciava sempre l’ultima parola. Se il Capitano era sereno anche la navigazione scivolava via come l’olio e il vento in poppa. Se il tempo s’imbruscava anche San Pé diventava un po’ nervoso ed anche i suoi pensieri cambiavano colore.
San Pé sapeva che la nave era la sua casa, ma ne percepiva chiaramente i confini: viveva in quell’ambiente senza gradi di parentela con l’equipaggio, per lui i marinai erano inquilini in affitto, provvisori e saltuari che avevano un contratto di lavoro da rispettare, ma che occorreva tenere sotto pressione, per farli lavorare. Per lui l’armatore era una vecchia volpe, che non capiva un cazzo di mare ma aveva bisogno che qualcuno navigasse per lui fino alla vecchiaia con navi che erano da demolire alla fine di ogni viaggio in corso. I macchinisti erano infidi perché si occupavano solo della parte bassa del centro nave, come se il resto dello scafo non fosse di loro competenza. Ma qualcuno che facesse girare quell’elica del cazzo ci voleva a bordo. Quegli ometti neri e sporchi di grasso che scendevano e salivano dalla macchina con in mano lo straccetto bianco, bucato e intriso di rumenta li considerava soltanto come operai abusivi imbarcati per caso dai sensali dei caroggi.
San Pé aveva provato il vero amore soltanto sui barchi di legno dei primi decenni del ‘900.
La sua mentalità, ormai lo avete capito, era rimasta ancorata ai leudi ai velieri, ai pinchi, alle paranze… sui quali esisteva un Capitano che interpretava gli ordini del Signore dei cieli, quindi di chi comandava veramente manovrando il vento e il mare per far girare il mondo.
In seguito l’uomo, con l’avvento della tecnica, si è montato la testa, si è sostituito al Padreterno ed ha voluto il bastone del Comando facendosi chiamare Comandante!
Per Sampé avevano diritto di chiamarsi marinai soltanto chi sapeva impiombare i cavi di canapa e d’acciaio, rammendare i cagnari, armare bighi di forza, asciugare le stive a regola d’arte, costruire fardaggi e qualsiasi tipo di tapullo, sostituire draglie, amantigli, pescanti, usare il cemento a pronta presa come un “massacan” di professione, tenere le pitture e pennelli in ordine e manutenere cavi, cime, bozzelli e pastecche come ai tempi della vela.
La nave doveva essere sempre pitturata, anche se vecchia e vicina alla demolizione. Essa doveva essere elegante e pulita come il vestito dell’armatore che dava loro da vivere. Per San Pé era inconcepibile entrare in un porto con la nave “arrumentata”. Non era dignitoso per il Comandante che avrebbe dimostrato al mondo di non saper comandare, ma lo era soprattutto per il suo datore di lavoro che aveva un nome dignitoso da difendere su tutte le “Piazza Banchi” del Mediterraneo.
Il suo sogno ricorrente era la leggendaria epopea della vela popolata da quei fantasmi che si arrampicavano come scimmie sugli alberi inclinati del veliero sotto i colpi di mare gonfiato dal vento “ruggente”. Quando i marinai erano tutti eroi sotto gli occhi di pochi testimoni che gli volavano intorno con le ali plaudenti, oppure gli nuotavano a delfino sotto la prua sbandata a sottovento.
Sant’Antonio Sant’Antonio, t’æ a barba d’öu se ti ne mandi o vento in poppa, ma se no ti t’arregordi de nöi, ti l’æ de stoppa.
- Sant’Antonio, Sant’Antonio hai la barba d’oro se ci mandi il vento in poppa, ma se ti dimentichi di noi, ce l’hai di stoppa.
San Pé era un Capitano la cui autorità gli era conferita dalla sua storia personale. Una specie di “crociato” che correva su tutti i mari con la benedizione di quel Dio supremo che lo avrebbe protetto dalle malefatte del maligno, dalle tempeste di Eolo che non aveva pietà dei marinai.
Per questo ruolo San Pé si era scelto la sua dottrina. Poche idee ma chiare:
In mare non ci sono certezze – Non ti puoi rilassare – Il mare non ascolta le tue debolezze – Il mare non accetta le tue bugie perché ti legge dentro - Il mare non sopporta le sfide.
- Pochi sono gli uomini che possano dare del tu al mare, ma non lo fanno mai! Perché in mare non ci sono taverne e l’unico Tabernacolo dove ripararci, il primo della storia moderna, è il ventre di Maria che fu la prima Chiesa di Cristo. Ecco perché noi dell’Isola adoriamo la Madonna dello Schiavo!
Da millenni e per ogni situazione, il marinaio ha coniato proverbi per il suo vecchio mare, anche per il comandante della Costa Concordia:
“CHI CASCA IN MARE E NON SI BAGNA, PAGA LA PENA”
San Pé, come la maggior parte dei marinai, fin da ragazzo aveva capito quanto la sua vita fosse nelle mani del cielo. Questa era la sua forza! Ma la sua impostazione mentale gli proibiva di chiedere Grazie e Miracoli, non aveva mai chiesto alla Madonna di Carloforte di aiutarlo a salvarsi da una tempesta, lui chiedeva un aiuto per aggirare la tempesta. In questo passaggio c’era tutto il suo modo di interpretare l’Arte della Navigazione, che non era improntata alla paura dell’elemento in cui era nato, ma al raziocinio e alla fede di chi aspira all’umiltà e alla prudenza per partire ed arrivare, sempre!
La sua accortezza aveva quindi una radice mistica!
Sampé portava al collo una catena con un ciondolo molto particolare.
U Sordo
“Ero un ragazzino! Gli uomini erano tutti imbarcati e sull’isola c’erano solo gli anziani pescatori. Spesso andavo a trovare “U Sordo” mentre
rammendava le sue reti all’interno di una profonda nicchia nella roccia che era intasata di attrezzi da pesca, cumoli di reti da riparare e tante conchiglie colorate, valve e bivalve di ogni colore e misura, coralli senza valore, ma anche anfore ancora ben conservate che teneva nascoste e al buio. Barba bianca, cuffia di lana ognitempo, camminava sempre senza scarpe e i pantaloni arrotolati fino alle ginocchia. Quella era la sua uniforme. Le sue mani grandi e nodose non sembravano adatte a maneggiare filo e aghi eppure riparava reti per tutti i giovani pescatori che ogni notte si avventuravano in mare aperto.
La sua grotta emanava odore di alghe e di bitume come il suo maglione frastagliato di posidonia. Quel mitico antro dal sapore antico aveva qualcosa di magico che solo lui, col suo carisma poteva incarnare.
Ogni volta che decidevo d’andarlo a trovare, mi rifornivo di vino e qualche sigarette che “salpavo” in giro… Quello era il sistema migliore per far parlare U Sordo.
Ma quel giorno fu lui a pormi una domanda:
“Vuoi andare a navigare?” Capii che voleva darmi dei consigli raccontandomi qualche sua avventura. Dopo la mia ovvia risposta, posò il guardamano, e lasciò l’ago infilato nella tela olona, mi fissò con quegli occhioni neri da magrebino che erano ricoperti da sopracciglia bianche e folte che formavano una visiera naturale.
“A scuola t’insegneranno a far di conto, ma l’arte del navigare la dovrai imparare da solo! Io affrontavo il Mar di Sardegna a ponente do Paize soltanto con il tempo assicurato e d‘estate, senza mai allargarmi più di due miglia dalla costa. Da quella parte il mare ti frega ed il vento sa come bastonarti. Non ti fidare!
Fin dai tempi delle navi onerarie dei romani, chi si mollava da qui per raggiungere Marsiglia con rotta diretta, ci lasciava la barca e la vita perché prima o dopo faceva in conti con il Mistral. Questo succede ancora oggi dopo 2000 anni. Persino i grossi traghetti della Tirrenia, se hanno dei lupi di mare al comando, passano da levante perché arrivano prima e in sicurezza.
Ho pescato e dragato i fondali di ponente per oltre 60 anni e quello che ti ho detto è tutto scritto sul fondo: un cimitero di navi. Ci sono file lunghe miglia e miglia di anfore gettate in mare per alleggerire la nave, alcune di queste le ho recuperate e le tengo nascoste come monito per mostrarle ai futuri marinai come te. Dai retta a me, passa sempre da levante anche con navi più grandi di un pinco, anche con navi a motore. Se devi andare a Marsiglia, Barcellona, Valencia e Gibilterra, passa da levante. Se c’è il Leone lo senti già nel golfo di Orosei. Arriva fino alle Bocche di Bonifacio e studia bene il vento e le nuvole. Se hai il minimo dubbio prosegui per Capo Corso, se c’è scirocco a levante, prima o dopo fa il giro a libeccio e poi sfonda a Maestrale e lì sei scoperto. Calcola bene e poi buttati sul Tino, se va male lo prendi al “giardinetto” e te ne vai a ridosso finché sfoga girando a tramontana. Quando il vento ha fatto tutto il giro dell’orologio vai a randeggiare le coste dell’intera Liguria tenendoti sotto costa il più possibile. A Marsiglia ci arrivi di sicuro! Le miglia che hai perso facendo il giro, hanno allungato la vita tua e del tuo barco.”
Frastornato da quella confessione… San Pé riprende ammirato il racconto di quel pomeriggio.
“Rimasi silenzioso ed incredulo, ma presto mi convinsi che la saggezza dimorava nell’animo marinaro di quell’uomo che parlava solo per il mio bene.
Quella lezione mi entrò in testa per sempre. Più in là nel tempo capii che U Sordo aveva più esperienza di mare di tanti “diplomati” che in Mediterraneo avrebbero capito quella lezione di navigazione quando ormai era troppo tardi. Il mare si fa amare e si fa odiare perché ti mette sempre alla prova, fino all’ultimo giorno prima della pensione.
Di quell’indimenticabile incontro con U Sordo nella sua tana, mi rimasero due tatuaggi marchiati a fuoco:
- Nei miei oltre 70 anni di navigazione passai a ponente della Sardegna e della Corsica soltanto quando vi fui costretto dalla destinazione del carico. E non me ne sono mai pentito!
- Quel pomeriggio U Sordo mi regalò un antico monile. Se l’era trovato impigliato nella rete. Lo raccolse e se lo appese al collo come una reliquia per sentirsi da quel giorno un anonimo sacerdote del Mediterraneo. Quel pomeriggio me lo volle donare, forse per sigillare la nostra amicizia, o più probabilmente per testimoniare il passaggio di consegna da una vecchia vita di mare ad una nuova, per risorgere lui stesso nel segno della continuità della fede e dell’amore verso il mare.
- Da quel giorno, questo monile lo porto sulla mia pelle, giorno e notte. Quel simbolo era già stato sul torace di un marinaio ai tempi di Gesù Cristo, un cristiano della prima ora che mostrava con orgoglio la propria fede.
Il Chrismon é un antico simbolo religioso cristiano. Esso rappresenta il nome di Cristo, il termine proviene dalle parole latine “Christi Monogramma” che significa monogramma di Cristo. Il simbolo é formato nella sua versione base da due lettere, una X e una P, che in greco corrispondono a “chi” e “rho”, il monogramma di Cristo é denominato pure Labarum, o “Chi Rho”, da cui si deduce facilmente il motivo della scelta delle due lettere X e P. Inoltre le suddette lettere contengono un secondo significato, la P e' impostata in modo tale da somigliare ad un bastone da pastore, e la X una croce, a testimonianza del fatto che Gesu' Cristo e' un buon pastore per il suo gregge, e cioè' per la Chiesa Cattolica.
CARLO GATTI
5 dicembre 2016
RICORDO DI CLAUDIO MOLFINO
RICORDO DI CLAUDIO MOLFINO
Socio fondatore di Mare Nostrum è mancato prematuramente il 4 maggio 2017 all’età di 58 anni.
“Persona tanto buona e brava quanto modesta” – Così definirei Claudio, che non voleva apparire, ma lavorava tanto e bene dietro le quinte. Egli era molto ironico e come tutte le persone intelligenti era anche allegro e sempre di buon umore.
Claudio amava definirsi un appassionato d’arte, ma i suoi scritti sul mensile IL MARE rivelarono ben presto una vasta cultura da vero esperto e critico d’arte; grande era l’amore che esprimeva con la divulgazione delle opere pittoriche e scultoree delle nostre chiese e persino nelle pievi più nascoste della nostra regione.
Nel tempo Claudio ha trasferito il suo talento artistico anche nel settore grafico e nella creazione di opere legate al settore della pubblicità e degli Eventi Culturali, quali Mostre, Rassegne Musicali e Teatrali, Convegni. Egli era membro del FAI e di lui si ricordano le eccezionali mostre allestite e curate non solo nell’Abbazia di San Fruttuoso di Camogli con i suoi affezionatissimi compagni di lavoro: Sandro Bonati, Cristina König e Luciana Sudano della Omnia Service.
Claudio, oltre che essere uno dei soci fondatori, è anche il creatore del logo dell’Associazione “Mare Nostrum”; sua è la firma delle innumerevoli Mostre che l’Associazione ha tenuto nel Castello cinquecentesco di Rapallo da almeno 20 anni a questa parte. Eccellente fotografo professionista, Claudio cercò in ogni occasione di celebrare le nozze tra l’arte e il mare, tra gli uomini di mare e le navi.
Claudio, anche quando non poteva esporre la sua solita mostra per lavori in corso o per inagibilità del suo locale, amava talmente la mostra di Mare Nostrum che la viveva in nostra compagnia dalla apertura sino alla chiusura del cancello, seduto accanto a noi e rinunciando ai suoi numerosi impegni quotidiani. Egli era attratto dalle avventure e vicissitudini degli uomini di mare, da noi raccontate in innumerevoli conferenze, esperienze che lui voleva rivivere attraverso i nostri volti e le nostre parole.
Nel suo animo, Claudio aveva molte “incrostazioni di salino” e si sentiva intimamente un uomo di mare, uno di noi.
Cicerone diceva che “la vita dei morti sta nella memoria dei vivi”. Ebbene, caro Claudio, Tu ci hai lasciato increduli ad affrontare un enorme vuoto, ma abbiamo la certezza che rimarrai sempre nella nostra mente e nei nostri cuori!
Carlo GATTI
Mare Nostrum-Rapallo
5 Maggio 2017
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