IL PASSATO DI RAPALLO SUL MARE

Il passato di Rapallo sul mare

del Comandante Antonio Calegari, tratto dalla rivista "Il Mare" dell'11 Luglio 1954

Rapallo, spandorata lungo la spiaggia col suo pavese alberghiero e balneario, non conserva più alcuna tradizione marinara. Tutte le memorie d’un notevole passato marinaro sono sparite. Eppure in ogni tempo, salvo il presente, i rapallesi si dedicarono alla navigazione, ai traffici marittimi, affrontando spesso duri combattimenti sul mare. Fin dall’epoca romana Rapallo svolse notevole attività marittima specialmente quando si trovò collegata con la via Aurelia. Esistevano già infatti i suoi due portixeu, quello situato alla foce del “Boate” (che poi divenne il porto del Langano) e l’altro, a levante, dove sbocca il torrente “San Francesco”. Dopo un oscuro periodo, è in pieno medioevo che le cronache cominciano a parlare frequentemente del borgo di Rapallo e della sua marina. Rapallo, coinvolta nella generale distruzione compiuta da Rotari nel 641, risorge e ben presto raggiunge sicuramente una certa prosperità, se è fatta segno a ripetuti e violenti saccheggi. Così nel maggio 1087 i pisani vi piombano sopra “viriliter” (come scrisse l’Unghelli) smantellando il castello, incendiando la Chiesa e facendo schiavi uomini e donne. Così nel 1284 è duramente provata dalla flotta veneto-pisana, comandata da Alberto Morosini e da Loto Donoratico, figlio quest’ultimo del ben noto conte Ugolino. Pisa è la nemica di Rapallo, la quale arma alcune galere per contrastarne le forze, sempre in unione alla flotta genovese. Fin dal 1229 Rapallo si è volontariamente assoggettata a Genova.

Infatti nell’anno 1274 navi rapallesi partecipano valorosamente alla famosa battaglia della Meloria nella quale i pisani subirono così dura sconfitta.

Ma negli anni precedenti si ha notizia di galere rapallesi; nel 1232, quando Rapallo invia una galera a Genova per essere incorporata nella flotta destinata ad aiutare i cristiani di Ceuta minacciati dai saraceni; ed in seguito negli anni 1258, 1262, 1265, 1270, numerosi legni da guerra si affiancano alle navi di San Giorgio nella lotta contro i comuni nemici. Parallelamente nei secoli XIII e XIV, quei di Rapallo sviluppano una rilevante attività commerciale-marittima, soprattutto col Levante, a quanto è lecito supporre, per esempio, dalla numerosa colonia rapallese dislocata a Cipro. In essa emergono, come naviganti, armatori e commercianti, i nomi della casata dei Ruisecco e dei Pastene. Un Domenico Pastene (fine del ‘300) diventa il più grande commerciante dell’isola, viaggia molti anni in Egitto, Siria, Asia Minore, Mar Nero, sino al golfo Persico, inviando interessanti relazioni diplomatico-commerciali alla Repubblica di Genova, lasciando infine tutte le sue ricchezze al Banco di San Giorgio. E Rapallo manda persino sulle rive del Lemano alcuni suoi figli, un Sacolosi ed un Andreani, quali maestri d’ascia per la costruzione di galee sabaude. Pure alla fine del ‘300 un Antonio Colombo di Rapallo è comandante di galee.

L’Ammiraglio Biagio Assereto

Durante il 1400 Rapallo è ancora fatta segno a disastrosi saccheggi; la prima volta da 22 galere venete; poi è messa a ferro e a fuoco, in sul finire del secolo dalle truppe svizzere, sbarcate da navi francesi in conflitto cogli aragonesi (Genova reagisce con la legge del taglione). Intanto un rapallese è consacrato alla storia quale esperto comandante di armate navali: è l’ammiraglio Biagio Assereto, vincitore della battaglia di Ponza, la più grande del secolo XV. Tra gli uomini illustri assume particolare rilievo Giovan Battista Pastene, Almirante del re di Spagna, Pilota Major do Mar do Sud, fondatore di Valparaiso (1544). A questo punto si devono ricordare: Bartolomeo Canessa, capitano di galeazza con Patente di corsa della Repubblica Genovese; Agostino Canevale, comandante della galea Lomellina alla battaglia di Lepanto e Gio Bernardo Molfino, capitano della fregata Il Cacciatore, che a metà del ‘600 corseggiava nei mari del Levante. Pressappoco alla medesima epoca, gli abitanti del Capitanato di Rapallo largiscono una forte somma per la costruzione di una nuova galea, da incorporarsi col nome di Santa Maria del Monte Allegro, nella flotta genovese.

Rapallo contribuisce così alla sua difesa, ancor memore del furioso assalto compiuto un secolo prima dal celebre corsaro Dragut. Nei secoli XVI e XVII gli annali e le cronache parlano con decisa frequenza di Rapallo e della sua importanza nel campo marittimo.

A. Giustiniani ricorda che i borghesi di Rapallo sono “gente assai civile, mercadanti e marinai, quali hanno parecchi navili”; dal “Registro di Carattate” (1531) si rileva che “de tutti doi, barche piccole da mine 30 in 60, di cento incirca, la maggior parte da piscare”; in altre fonti sono menzionati legni rapallesi trafficanti in tutto il Mediterraneo, specie col Levante e la Spagna. Gerolamo De Martini scrive (1655); “Rapallum vero vicus est insignis mercatoribus nautisque frequens”. Padre Ludovico d’Amerio con uno slancio lirico, conferma il passato della nostra città, ricordando “… il lustro di segnalate imprese di mare” mentre il noto padre Antonio Bresciani dice che Rapallo “… ha popolo numeroso ed attivo in opere di navigare”. Anche dal “Codice diplomatico Rapallese” si ricavano importanti notizie a Rapallo ed alle sue imprese durante il colera che infierì a Genova nel 1650. Meriterebbe ben più lungo cenno il rapallese Visconte Maggiolo “maestro delle carte da navigare”, vera gloria nazionale, famoso iniziatore di una grande scuola cartografica. Pure degno di ricordo l’antica fiorente confraternita dei Marinai che già esisteva nel 1720 sotto il patronato di Sant’Erasmo.

Al principio del secolo scorso molti padroni di barca erano dediti alla pesca delle spugne; battevano i fondali delle acque dell’arcipelago greco. Molti altri, sfidando la minaccia dei pirati barbareschi che spesso li traevano schiavi, andavano alla pesca del corallo lungo la costa africana. Declinando l’industria corallina (1840-1860) ed al sopravvenire della decadenza della vela, buon nerbo di capitani e naviganti rapallesi emigrarono nel Sud America, specialmente nel Perù e nell’Argentina, continuando naturalmente la loro professione. Oggi si ricordano ancora parecchi piloti del Rio de La Plata oriundi di Rapallo, i cui nomi corrispondono ai vari Castagneto, Solari, Macchiavello, Arata, Sanguineti, ecc. Il nostromo Antonio Castagneto si ingaggiò, anzi, come “pilota major” nella marina da guerra del governo rivoluzionario colombiano, eroicamente battendosi a bordo di navi armate in corsa.

Durante il periodo velico di maggior splendore, Rapallo diede figure eminenti di Capitani di Lungo Corso, da Emanuele a Giacomo Bontà, a Pietro Felugo e a Cap. Agostino Solari, da Agostino G. B. Macchiavello a Valentino Canessa e a Biagio Arata (comandante di grandi velieri in lunghe navigazioni oceaniche), tutti valenti navigatori sulle rotte oceaniche mondiali. Parecchi rapallesi si contavano anche fra gli equipaggi della Real Marina Sarda.

L'antica Porta delle Saline

Rapalllo ebbe anche una buona e frequentata scuola nautica che esisteva nel 1865, diretta dal matematico Salviati (vicino alla porta delle Saline n.d.r.).


Lungo l’odierna passeggiata a mare, dove questa è allietata dai giardinetti, prima di arrivare al monumento di Colombo, sorgeva un cantiere navale che nel 1865 raggiunse una notevole importanza. Vi si costruirono non solo tartane, golette e scune, ma anche grossi bastimenti di oltre 1000 tonnellate, quali l’Iside, l’Espresso, il Genovese, il Ferdinando, il Siffredi, il Giuseppe Emanuele ed il maestoso Caccin di 1500 tonnellate, sotto la direzione di grandi costruttori navali come G. Merello, Graviotto ed Agostino Briasco.

Antonio CALEGARI

Foto Carlo GATTI

*Arturo Ferretto

(Rapall o, 21 aprile 1867 – Genova, 18 ottobre 1928 è stato uno storic o e archivista italiano . Pubblicò a soli ventidue anni un significativo opuscolo, Rapallo - spigolature storiche, cui seguirono numerosi importanti contributi di storia ligure, fra cui si segnalano Codice diplomatico de l Santuario di Monte Allegro (1557-1897) , Codice diplomatico delle relazioni tra la Liguria , l a Toscana e l a Lunigiana ai tempi d i Dante (1265-1281) (1901), Annali storici d i Sestri Ponente e delle sue famiglie ( 1904).

Si interessò anche di studi danteschi. Impiegato quale "ufficiale" presso il Regio Archivio di Stato di Genova , nel 1909 sposò a Chiavari Livia Oneto, da cui ebbe una figlia, Fortunata, e un figlio, Virgilio; in seguito risiedette a Genova. Collaborò intensamente ai periodici "Il Cittadino", "Il Caffaro" e, dal 1909, a "Il Mare"; su quest'ultimo dedicò 716 documentatissimi articoli a Rapallo e circondario. Ancora nel 1928 dava alle stampe Il distretto di Chiavari preromano, romano e medioevale, opera fondamentale per l'archeologia del Golfo del Tigullio Una strada di Rapallo ed una sita nel quartiere genovese di San Fruttuoso portano il suo nome.

3 Aprile 2013

Foto a cura del webmaster.

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LOCARNO-Conferenza sullo spiaggiamento a Rapallo

SPIAGGIAMENTO DEL P.FO LOCARNO A RAPALLO

Sintesi della Conferenza tenuta a Palazzo DUCALE - Genova

Dal comandante Carlo Gatti e dal giornalista Emilio Carta

29 gennaio 2013

La LOCARNO in un dipinto di Amedeo Devoto

LOCARNO - dati nave:

Stazza Lorda = 3.862 tons
Lunghezza = 109,8 metri – Larghezza = 15,2 metri
Data di Costruzione = 1929
Costruita a Dunsley nel 1929 Cantiere Thompson-Southwick-UK
Materiale = Acciaio
Motore = Macch. Alternativa a triplice espansione Vapore di 2700 CV
Velocità = 10 nodi
Bandiera = Panama
Equipaggio = 22
Comandante = C.L.C. Vittorio Sallustro
Data perdita = 3.1.1961
Luogo = Rapallo (Italy)
Primo Armatore = Headlam & Sons (1929-1954)
Secondo Armatore = Società Marittima S.Rocco – Genova (1954-1961)
Sosta a Rapallo ai lavori per renderla navigabile = 43 giorni
Rimorchiata a Spezia per la Demolizione = 15.2.1961 dalla Società Rimorchiatori Riuniti di Genova

Owned by S. Tuillier. Wrecked at Rapallo and BU (broken up) Spezia 15/2/61
Sito= http:p//www.wrecksite.eu/wreck.aspx?159352

LA CRONACA

Il 20 dicembre 1960 la Locarno arriva a Genova proveniente da Lubecca, ormeggia a Ponte Rubattino e sbarca 6.000 tonn. di lingotti di ferro.

Il 3 gennaio 1961 la Locarno parte da Genova diretta a Follonica (Toscana) che dista: 118 miglia. Al momento della partenza la Nave é in zavorra. Il gavone di prua, quello di poppa e i doppifondi sono pieni di acqua.

TESTIMONIANZA

Ricevute le regolari SPEDIZIONI dalla Capitaneria, la LOCARNO chiama il pilota portuale di turno L.A. per essere messa in partenza alle 08.00.

Il pilota giunge sottobordo alla nave ormeggiata a Ponte Rubattino Levante, e nota che lo scalandrone, lato terra, é già stato virato a bordo ed é rizzato. La biscaglina é appesa fuori bordo, lato mare. Per gli addetti ai lavori, questi preparativi indicano che il Comandante ha premura di partire...

Giunto sul ponte di Comando, il pilota lo informa della situazione meteo: “Comandante c’é in corso una forte Burrasca da Libeccio forza 6/7, le consiglio vivamente di rinviare la partenza di qualche ora. La nave é vuota “a pallone” e i bollettini del tempo non danno alcun miglioramento per almeno 12 ore”.

Ma il comandante Vittorio Sallustro é determinato a partire e risponde:

“Il viaggio é breve, soltanto 10-12 ore di navigazione per arrivare a Follonica. Questa nave resiste bene alle burrasche; da quando siamo partiti da Lubecca siamo passati da una burrasca all’altra pestando fino a Genova: prima lo Skagerrack, poi il Mare del Nord, la Manica, il Golfo di Biscaglia, il Golfo del Leone. Pilota stia tranquillo! Se vedo che ci sono problemi, ritorno indietro e vi chiamo!”

Magari lo avesse fatto! Il mio ex collega L.A. mi raccontò, dopo alcuni anni, che appena la LOCARNO uscì in mare aperto, le rollate erano così ampie e profonde che le lance di salvataggio lambivano le onde.

“La seguii a lungo con preoccupazione perché la vedevo scarrocciare verso la costa. Per fortuna il Comandante, ad un certo punto, si rese conto del pericolo e accostò a dritta riuscendo a prendere il mare sul mascone di dritta. Si allargò a sufficienza dalla costa, mi tranquillizzai e rientrai in torretta”.

EMILIO CARTA domanda:

a) - “Che stabilità aveva la nave essendo scarica e a “pallone”?

b) - “Può la Capitaneria di Porto impedire ad una nave di partire per ragioni di sicurezza meteo-marine-nautiche?”

CARLO GATTI risponde:

a) - “Quando la nave superò le burrasche nordiche e mediterranee, era carica di lingotti di ferro, quindi aveva una stabilità  addirittura eccessiva, il massimo pescaggio le assicurava il massimo rendimento dell'elica e del timone. Nella situazione attuale: con nave completamente vacante, scarsa stabilità, poca superficie immersa, non ci sono le condizioni per contrastare l'effetto deriva prodotto dal forte vento di libeccio al traverso della sua rotta. Inoltre, lo scarso pescaggio in quelle condizioni di mare in burrasca, rende minima la forza propulsiva dell'elica, in quanto il forte beccheggio ne provoca la continua fuoriuscita dall'acqua, (cavitazione) con la conseguente scarsa governabilità da parte del timone”.

b) - “Fino a tutto il 2000, il NOSTROMO DI BANCHINA (di zona), mitica figura della Capitaneria, controllava che la nave, al momento della partenza, avesse: i bighi abbassati e rizzati, gli oblò eventualmente chiusi e corazzati, l’elica immersa, che non fosse sbandata, che non ci fossero sversamenti di liquidi sospetti ecc... Il sottufficiale controllava meticolosamente che tutto fosse in ordine secondo la prassi della buona marineria! Pertanto sono certo che la nave, al momento della partenza, era in ordine.

Il CRITERIO usato dalla AUTORITA’ MARITTIMA e/o PORTUALE per una nave in partenza o comunque in manovra, é quella di salvaguardare sia LE OPERE PORTUALI che la SICUREZZA di tutte le navi in manovra in quella determinata zona. Tuttavia, quando é possibile, la A.M. evita di incidere, sugli interessi privati della nave/armatori: interferenze sulle entrate, uscite che potrebbero ritardare le operazioni commerciali e “toccare” eventuali aspetti economici. In genere, per salvaguardare la SICUREZZA delle operazioni, ad un Comandante di nave in difficoltà, viene consigliato, (a volte lo si obbliga), ad attaccare uno o più rimorchiatori sulla base dei rischi in corso”.

RIPRENDE IL RACCONTO:

Poco prima delle 10 la LOCARNO giunge al traverso del faro di Portofino e il Comandante si rende conto che i forti movimenti di beccheggio e rollio rendono la navigazione pericolosa, se non impossibile, e solo allora decide di entrare nel Golfo Tigullio per cercare ridosso dal libeccio. Poco dopo, la nave viene vista manovrare davanti a Punta Pedale (Santa Margherita) e, poco dopo, dare fondo l’ancora. Alcuni testimoni oculari riferiscono che la LOCARNO si trova in buona posizione, ridossata e stabile alla fonda. Il Comandante rimane nell’attesa che il vento giri a TRAMONTANA per poter riprendere il viaggio.

Emilio Carta domanda:

Erano affidabili i Bollettini del tempo degli anni ’60?

Carlo Gatti risponde:

Occorre innanzitutto ricordare la dinamica di una depressione atlantica che investe il Mediterraneo occidentale: all’inizio si presenta con Vento da Scirocco, mano a mano che avanza, il vento gira a Libeccio rinforzando, poi passa a Maestrale aumentando ancora d’intensità, poi gira a Tramontana-Grecale e si allontana verso levante. Vi sono quindi due SEGNALI che l’uomo di mare tiene sotto controllo:

a)- La Direzione del Vento. A bordo, un tempo, veniva costantemente rilevato al ‘grafometro’ e successivamente alla ‘ripetitrice esterna’ della girobussola.

b)- L’Andamento del Barometro – Finché il barometro scende la depressione si trova a ponente dell’osservatore. Quando il Barometro interrompe la caduta e riprende a salire, significa che il centro della depressione sta passando e presto la Tramontana spianerà il mare. I bollettini del tempo dell’epoca erano basati sulle osservazioni locali delle Stazioni Meteorologiche dell’Aeronautica. Non c’erano ancora i satelliti-meteo con l’attuale diffusione a pioggia di bollettini. Pertanto le previsioni erano basate sulle indicazioni visive degli osservatori di terra, ma soprattutto sull’esperienza personale dei naviganti.

RIPRENDE IL RACCONTO

Purtroppo, quel 3 gennaio 1961, la situazione Meteo-Marina é molto più complessa del previsto: il vento, infatti, non va a completare il suo giro nel senso orario appena descritto, ma ritorna indietro sotto l’impulso di un’altra depressione che é già pronta a subentrare e a colpire alle spalle della precedente.

Il comandante Sallustro, quando pensa ormai d’averla scampata, s’accorge che il vento é improvvisamente girato a Scirocco sollevando altissimi marosi di prora (da Sud-Est). Decide immediatamente di salpare, scappare e mettersi alla ‘cappa’, (con la prora al mare) e prepararsi a passare una brutta notte in mare aperto.

Da questo momento comincia la fase più drammatica.

Per contrastare la forza crescente del vento, il Comandante avvia la macchina avanti e, quando l’ancora entra in cubia, mette ‘avanti a tutta forza’ per allontanarsi dagli scogli di poppa tentando di guadagnare il mare aperto.

La LOCARNO, purtroppo, ha una grande Superficie Velica e una potenza di macchina del tutto insufficiente per vincere il vento. La manovra non riesce e la nave si traversa al vento diventandone preda. Per mettersi in filo allo scirocco sarebbe necessario il tiro di un rimorchiatore di 3.000 cavalli di potenza, eventualmente posizionato di prora a dritta.

Il Comandante prova e riprova a raddrizzarsi con violente smacchinate:

avanti tutta-indietro tutta, ma non c’é nulla da fare. La nave scarroccia verso il centro dell’imbuto che porta a Rapallo sotto la spinta violenta del vento di scirocco in piena burrasca.

Emilio Carta domanda:

“A questo punto risulta che il Comandante abbia chiamato i rimorchiatori di Genova via radio. Un po’ tardi forse?”

Carlo Gatti risponde:

Certamente ormai é tardi! I Rimorchiatori di Genova, avendo lo scirocco in prua, impiegherebbero non meno di 2 ore a compiere le 11 miglia che separano la Lanterna dal Monte di Portofino. Inoltre, c’é da aggiungere un altro elemento contrario: la corrente marina. Con la bonaccia di vento, la corrente marina sale da sud-est e lambisce le coste italiane viaggiando ad una velocità intorno al mezzo nodo, con la burrasca da scirocco, la sua spinta può arrivare e superare i 5 nodi di velocità”.

La nave comincia a scarrocciare “traversata” sottovento agli elementi. Il comandante si prepara a dare fondo le due ancore per tentare di frenare la corsa verso gli ostacoli di terra che si avvicinano ancora più minacciosi per l’imminente oscurità. Un urlo al megafono: “FONDO LE ANCORE”. L’ultima speranza del Comandante é riposta in questa massa di ferro che può significare salvezza oppure naufragio, la vita oppure la morte. La nave si orienta con la prua al mare. Il Comandante tira un sospiro di sollievo: “le ancore tengono”! Ma il vento al tramonto rinforza quasi sempre e la burrasca sembra aumentare ancora di più la sua forza. Le ancore tengono per alcune ore. Poi cominciano ad arare lentamente, ma inesorabilmente. Il fondale é sabbioso e, mano a mano che decresce, diventa più scivoloso, le ancore non mordono più. Il destino sembra segnato. La nave si avvicina lentamente al Molo di Langano. Il comandante avvia molte volte la ‘macchina avanti’ per allegerire lo sforzo sulle ancore. Con queste ripetute manovre, la nave resiste e mantiene quella posizione fin quasi alla mezzanotte.

Il vento non vuole mollare, le luci della passeggiata ormai vicina, vibrano e spandono scie luminose, sembrano allegri fantasmi che ballano con i marosi che frangono sugli scogli di protezione e proiettano spruzzi surreali, fosforescenti che danno vita ad una macabra festa di ballo.

In questa fotografia della LOCARNO si nota la mancanza della catena dell’ancora di dritta

Tutto ha un limite. Improvvisamente la catena dell’ancora di dritta che reggeva fino a quel momento lo sforzo, si spezza con uno schianto. La prua comincia a cadere e si capisce che l’ancora di sinistra non agguanta il fondale. Al comandante non rimane che tentare l’unica manovra possibile: smacchinare avanti e indietro nel tentativo di tenersi ad una distanza equidistante tra gli scogli della passeggiata a mare, il Molo del porticciolo e il cinquecentesco castello che sporge dalla spiaggia come un’isolotto. Gli scogli sono dappertutto. Ma c’é un altro pericolo, forse ancora più grave: si tratta del basso fondale. La nave, che in qualche modo era riuscita per molte ore a tenersi con la prua al vento, persa ormai l’ancora di dritta, e con quella di sinistra che non morde più il fondo, si traversa al vento e al mare e scarroccia più rapidamente verso la passeggiata. Il vento e le onde battenti sul fianco dritto la spingono verso il basso fondale e la inclinano. Quando lo scafo toccherà il fondale potrebbe anche rovesciarsi. Qui entra in gioco l’abilità e la freddezza, ma anche la fortuna del Comandante. Come abbiamo già detto, l’uomo ha a disposizione soltanto la motrice, che per fortuna non ha limitazione di avviamenti. Infatti, a riesce a correggere la posizione nello spazio libero, molto ristretto della baia e a farsi portare dal vento e dal mare ad appoggiarsi, con la prora a levante, contro il moletto dei Primeri, proprio a centro nave: un “punteruolo” che fuoriesce a 90° dall’asse della passeggiata a mare.

La LOCARNO sfiora tutti gli ostacoli e si va ad ormeggiare sulla più bella passeggiata della Riviera SENZA TOCCARE NULLA.

EMILIO CARTA domanda: I rimorchiatori arrivano ma si tengono al largo. Quali sono le ragioni per cui non possono tentare alcuna operazione di salvataggio.

CARLO GATTI risponde: Nel 1960 la maggior parte dei rimorchiatori di Genova erano a vapore, avevano un grande scafo di oltre 30 metri di lunghezza ed avevano un pescaggio di 5-6 metri. Il doppio della LOCARNO, che stimo potesse avere circa 3-3,5 metri. La loro potenza di 600/800 cavalli non gli consentiva di fare acrobazie o grandi colpi di mano. Quindi, i Rimorchiatori di Genova temevano di finire, a loro volta, nei bassi fondali della baia. La BATIMETRICA  dei 5 metri unisce il vecchio molo di Langano con Villa Porticciolo. Internamente a questa linea il fondale decresce fino alla passeggiata.

Nella notte fonda tra il 3 ed il 4 gennaio 1961, sulla passeggiata a mare di Rapallo, si conclude uno dei più “spettacolari” drammi del mare: non solo la nave non si rovescia, ma le onde molto alte sollevarono la LOCARNO e la consegnarono quasi intatta tra le braccia ad anfiteatro della cittadina. L’equipaggio ne uscì incolume nonostante  i molti brividi.

Emilio Carta riprende il racconto dell’incaglio della LOCARNO nel momento in cui la nave si é perfettamente ormeggiata a Rapallo anzichè a Follonica....

Sono ancora tanti i “rapallini” che ricordano il 3 e poi il 4 gennaio 1961.

Quel “maledetto” quattro gennaio millenovecentosessantuno - precisano marinai e pescatori del borgo - quando, a causa di una fortissima libecciata, quel piccolo mercantile di 3.897 tonnellate, la Locarno, come una balena ferita a morte, si incagliò sulla scogliera del litorale rapallese.

A provocare tanto sconquasso non cera il mitico comandante Achab ma, più prosaicamente, un capitano di lungo corso, il quarantenne Vittorio Sallustro da Torre del Greco, che rivisse chissà quante volte, come in un incubo, quella notte di tregenda.

A bordo, con lui, c’erano ventidue uomini di equipaggio, molti dei quali genovesi, ed un abissino. L’ennesima tragedia del mare, che per fortuna non fece vittime, portò il nome della cittadina rapallese sulle prime pagine e sugli schermi di mezzo mondo e venne accompagnata da una serie di iniziative umanitarie e promozionali che oggi, probabilmente - non dimentichiamo che all’epoca correva l’anno 1961 - farebbero sorridere. Riuscii a filmare i momenti più drammatici della nave in preda alla tempesta con una piccola cinepresa ad otto millimetri - racconta il rapallese Mauro Mancini - Ricordo come fosse oggi che qualche settimana più tardi, i negozi di souvenirs avevano già in vendita le cartoline illustrate che mostravano la Locarno in mille pose, come una fotomodella, con la prua che sbatteva sulla scogliera del lungomare Vittorio Veneto.

Fu ancor più simpatica l’iniziativa dei vigili urbani rapallesi - aggiunge Mancini - I “cantunè” offrirono all’equipaggio i pandolci e lo spumante che avevano avuto in dono dagli automobilisti rapallesi per la caratteristica “Befana dei vigili”, un’usanza che in quegli anni si ripeteva un po’ dappertutto.

Il cargo, battente bandiera panamense, era giunto nel porto di Genova il 20 dicembre proveniente da Lubecca e, dopo aver ormeggiato al molo Rubattino, sotto l’occhio vigile della Lanterna, aveva scaricato seimila tonnellate di lingotti di ferro. Per l’equipaggio, insomma, era stato un Natale sereno, con la veglia di mezzanotte in cattedrale ed i piedi ben piantati sotto la tavola, come tradizione vuole, per tutte le feste comandate.

Il tre gennaio la nave aveva però lasciato molo Rubattino ed era ripartita con le stive vuote ma con i gavoni di prua e di poppa pieni d’acqua per zavorrare e stabilizzare il mercantile, diretto verso Follonica, in Toscana, per caricare minerale ferroso da trasferire in Germania.

Ma a quell’approdo la Locarno non arrivò mai perché la sua odissea, iniziata davanti al Monte di Portofino, si concluse proprio nelle acque del golfo Tigullio.

Alle dieci del mattino, infatti, il cargo venne avvistato al traverso di Santa Margherita Ligure, a circa un miglio dalla terraferma, dando l’impressione di essere in difficoltà. Alle sedici il mercantile, lungo centoquattordici metri ed appartenente alla Società Marittima Genovese “San Rocco”, arrivò davanti a Rapallo, all’altezza dell’Excelsior Palace Hotel.

Era ormai in uno stato di ingovernabilità che agli occhi esperti dei marinai - che da terra ne seguivano “a vista” la navigazione - appariva sempre più chiaro.

Il mare lo spingeva alla deriva e, per di più, a causa della forza del mare e del vento, le ancore aravano il fondo sabbioso, senza frenare a sufficienza quella folle corsa verso gli scogli, mentre da bordo gli uomini erano in trepida attesa dell’arrivo dei rimorchiatori.

Alle sedici e trenta il cargo era ormai a meno di trenta metri dal castello sul mare, mentre mezzora più tardi la nave si spostò leggermente verso ponente, a nemmeno cinquanta metri dalla balaustra in ferro della passeggiata a mare.

La situazione a quel punto precipitò e la lenta agonia della nave giunse al culmine: la distanza dagli scogli diminuiva progressivamente a venti metri, poi a dieci, a sette, a cinque.

Il mercantile infine si coricò leggermente sul fondo sabbioso arenandosi con la prua - alta fuori dell’onda quanto una casa di tre piani - sui macigni posti a protezione del lungomare.

«Fu una scena infernale alla quale assistettero migliaia di persone assiepate sull’asfalto della passeggiata a mare - ricordava anni dopo il rapallese Andrea Pietracaprina - Intanto, a bordo della Locarno, gli uomini d’equipaggio, flagellati dal vento e dalle onde che spazzavano il ponte, apparivano e scomparivano da una parte all’altra della coperta, riconoscibili solo dal luccichio degli impermeabili, per cercare di porre rimedio ad una situazione che appariva ormai senza speranza».

Alcuni rimorchiatori, provenienti dallo spezzino e da Genova non riuscirono ad agganciare lo scafo prima che la situazione precipitasse definitivamente e, per la Locarno, fu la fine.

Alle diciannove e venti i vigili del fuoco genovesi, alla luce di potenti fari, provarono con successo a sparare una sagola a bordo: ad essa, avvolto in un sacchetto di plastica, venne legato un messaggio con la richiesta di conoscere le condizioni dell’equipaggio.

Da bordo utilizzando lo stesso mezzo, il comandante rispose che non vi erano feriti.

Era impossibile comunicare “a vista” anche se vi provarono ripetutamente con i megafoni - raccontava alcuni anni dopo il barcaiolo rapallese Vittorio Pietracaprina - Il frastuono delle onde e del vento, unito allo sfregamento delle lamiere della nave sugli scogli rendeva vano ogni tentativo.

Rammento che prima del lancio della sagola a bordo, un radiotelegrafista, da terra, utilizzò il clacson di un’auto appositamente posizionata a poca distanza dal moletto normalmente riservato ai battelli turistici. Cercò di comunicare con l’ufficiale marconista di bordo attraverso l’alfabeto morse e a bordo ricevettero il messaggio anche se nessuno fu in grado di rispondere.

La buona sorte, infine, aprì la propria bisaccia: la Locarno virò di circa novanta gradi distendendosi in senso longitudinale lungo l’asse della passeggiata a mare, con la prua rivolta in direzione levante.

La fiancata andò provvidenzialmente  a toccare il moletto d’ormeggio dei “primeri” ed alle quattro del mattino l’equipaggio potè finalmente scendere a terra con l’ausilio di una biscaglina.

A terra li attendevano coperte ed un pasto caldo.

Mentre i Vigili del fuoco riponevano cavi e fari, utilizzati sino a qual momento per illuminare a giorno la scena, sulla torretta del castello si spegneva anche la grande stella cometa natalizia.

I tecnici si ponevano intanto i primi interrogativi sulle cause che avevano provocato l’incaglio della nave. Il comandante aveva escluso, infatti, qualsiasi avaria alle caldaie o alla macchina del timone. Priva di carico, e quindi meno resistente alla forza del vento e del mare, la nave, in preda al maltempo, probabilmente non era più riuscita a governare ed aveva cominciato ad andare inesorabilmente alla deriva.

A terra, ovviamente, iniziava il business “made anni Sessanta”, mentre il pittore Nerone Uselli, spalle alle nave e fiasco di vino accanto alla tavolozza, in sommo disprezzo per tutto ciò che era acqua, dipingeva  in un celebre quadro l’apocalittica scena”.

Al termine del Convegno, il pubblico rivolge molte domande. Riportiamo le più interessanti con le risposte dei conferenzieri.

a)- Perché il comandante della LOCARNO partì da Genova, nonostante il tempo fosse proibitivo?

b)- Il breve viaggio Genova-Follonica forse ha spinto il Comandante ad osare...?

c)- Forse l’Armatore può aver spinto il Comandante a partire?

d)- Le navi a vapore non hanno limiti di avviamenti, ma forse hanno altri limiti tecnici?

a) – Le Condi-meteo erano proibitive. La Burrasca da Libeccio, oltre ad essere stata regolarmente annunciata, era già in corso, sotto gli occhi di tutti.

b) - Doveva ascoltare il consiglio del Pilota. Il Pilota é pagato dall’Armatore della nave. E’ un ex comandante, “esperto” conoscitore di tutte le situazioni meteo-nautiche locali e le mette a disposizione dei comandanti di navi. Spesso accade anche il contrario, cioé che il Comandante si rifiuti di partire dicendo: “ME LO HA CONSIGLIATO IL PILOTA PER RAGIONI DI SICUREZZA”E tutti se ne fanno una ragione!

c) - La Nave non doveva lasciare il porto - Ogni comandante deve conoscere i limiti della propria nave che, nel caso della Locarno, aveva ben 31 anni di anzianità.

Il comandante disse al pilota che la LOCARNO aveva superato tutte le burrasche che la tormentarono per tutto il viaggio, dalla partenza all’arrivo. Tuttavia faccio osservare quanto segue:

- La nave superò le burrasche nordiche perché era carica di lingotti di ferro.

- La nave possedeva una stabilità addirittura eccessiva.

- La nave era alla “marca”, cioé al massimo del pescaggio consentito, che gli assicurava un rendimento ottimale dell'elica e del timone.

La LOCARNO in partenza da Genova era nella situazione completamente opposta:

- Nave completamente ‘vacante’ in zavorra, con grande superficie velica esposta al vento.

- Scarsa stabilità.

- Poca superficie immersa, insufficiente a contrastare l'effetto deriva, prodotto dal forte vento di libeccio al traverso della sua rotta.

- Lo scarso pescaggio in quelle condizioni di mare in burrasca, rendeva minima la forza propulsiva dell'elica, in quanto il forte beccheggio ne provocava la continua fuoriuscita dall'acqua, con la conseguente scarsa governabilità da parte del timone.

d) – Genova – Follonica (120 mg) é un tratto breve di navigazione, ma é di traversia al libeccio: pertanto il ragionamento messo poi in atto dal Comandante é completamente errato e ingiustificabile. Inoltre posso aggiungere che La Spezia, posizionata al centro del percorso, all’epoca non poteva ricevere navi in emergenza, specialmente di notte, perché aveva il canale d’entrata disseminato di BOE MILITARI. E’ successo proprio al sottoscritto di essere lasciato fuori, tutta la notte, a pendolare con una “Liberty” a rimorchio nella burrasca, proprio in quegli anni per quell’assurdo motivo.

Il Comandante conosceva questa ‘impossibilità’ di potersi rifugiare a Spezia.

La LOCARNO avrebbe caricato “ferraccio” a Follonica, se avesse ritardato la partenza da Genova di un solo giorno, non avrebbe certamente inciso sull’economia di nessuno. Quale motivazione l’ha spinto a decidere di partire? Nulla che avesse a che fare con una decisione marinaresca ponderata e saggia!

Vorrei terminare il mio pensiero con una considerazione da PILOTA. Quel tipo di nave, lunga, vuota e a vapore, che ho avuto modo di pilotare tante volte, aveva due grandi difetti: Poca POTENZA e Superficie del TIMONE relativamente piccola rispetto a tutte le altre navi in circolazione in quel periodo. La nave a vapore era al tramonto, aveva un ratio d’accostata lentissimo, ma il Comandante non ne tenne conto.

Carlo GATTI - Emilio CARTA

Rapallo, 19 febbraio 2013



In VIAGGIO con i CORMORANI

IN VIAGGIO CON I CORMORANI

L’ISOLA CHE NON C’E’. Nel nord della Norvegia, il cormorano è tradizionalmente considerato un uccello semi-sacro. Si ritiene sia un segno di buona sorte avere dei cormorani vicino al proprio villaggio. Secondo un’antica leggenda nordica, le persone che muoiono in alto mare, senza alcuna possibilità di recupero dei loro corpi, trascorrono l'eternità sull'isola di Utrøst che può solo occasionalmente essere avvistata dai viventi. Gli abitanti di Utrøst possono visitare le loro case soltanto nelle sembianze di cormorani. L’isolotto fantasma si trova al limite meridionale delle isole Lofoten, famose per la pesca dello stoccafisso. Poco sopra Utrøst si trova la più famosa isola di Røst dove naufragò il comandante veneziano Pietro Querini con la sua cocca nel 1432. Dopo una sosta forzata di circa 8 mesi, l’equipaggio ritornò in Italia diffondendo la cultura dello stockfisk.

Agli inizi del 1970 vidi per la prima volta un cormorano, detto anche marangone,* appollaiato su una delle boe che segnalano il canale d’entrata del Porto Petroli di Multedo (Ge). Nell’attesa di prendere il cavo della petroliera in arrivo con il mio grosso rimorchiatore,  mi avvicinai fin quasi a toccarlo. Era grande, aveva il ciuffo e si sentiva al sicuro.  Dopo qualche mese di frequentazione quotidiana diventammo amici e presto mi presentò la sua compagna. Sparirono in primavera e quando ormai ero lontano dall’idea di rivederli, il primo ottobre di quello stesso anno ritornarono sulla stessa boa con tre giovani esemplari al seguito, più piccoli e un po’ più chiari.

Quella piccola famiglia diventò una colonia che presto si spostò nella più tranquilla riviera di levante. Il ricordo di quell’incontro mi accompagnò per lungo tempo e durante i miei viaggi, quasi sempre di mare, mi divertivo a notare le differenze tra le sei specie di cormorani esistenti al mondo.  Passarono ancora molti anni quando, un giorno, alcuni amici mi proposero di scoprire la bellezza della passeggiata costiera: Covo di Nord Est – Paraggi. Era la fine di settembre e quella camminata mi aprì un mondo di meraviglie naturali. Improvvisamente mi venne in mente la fatidica data legata al ritorno dei cormorani e, di getto, mi prese  l’ansia per il loro arrivo.

E’ il primo ottobre del 2012. Emozionato come un bambino al primo giorno di scuola, riparto dal Covo armato di binocolo e, scandagliando metro dopo metro la scogliera, vedo un grosso esemplare di cormorano staccarsi dalla roccia e planare sull’acqua dopo un breve volo radente. Ha fame, si guarda in giro, e all’improvviso s’inarca all’indietro per poi scattare come una freccia che sale e poi discende tuffandosi in perfetta verticale con la testa in giù e le zampe verso il cielo.

Sparisce per 30-40 secondi e riemerge a  60-70 metri di distanza, senza scia.

Il suo punto d’emersione é sconosciuto ed appartiene alla sua strategia di caccia. Non ho alcuna cognizione scientifica della sua velocità in immersione, ma intuisco che il cormorano potrebbe essere un ottimo atleta in grado di nuotare i 100 metri sotto il minuto mentre insegue la preda.

Quando giungo sotto il monastero della Cervara, là dove iniziano i millenari scogli di puddinga, vedo quattro cormorani appostati sul faraglione, si crogiolano al sole. Appaiono stanchi. Sono appena arrivati dalla Scandinavia.

Al ritorno da Paraggi ne intravedo uno da lontano con le ali aperte. Probabilmente é appena ritornato da un’immersione e si asciuga al sole. Alcuni gabbiani hanno trovato spazio sullo scoglio di puddinga. Non c’é alcuna lotta per il territorio, anzi, parlottano tra loro come vecchi amici che si ritrovano dopo una lunga assenza.

I cormorani sono uccelli tranquilli e pazienti, tuttavia, può succedere anche nelle buone famiglie che qualcuno debba sloggiare.....

Anche tra il cormorano e l’airone cenerino non c’é alcuna rivalità, ed é facile vederli in compagnia come nella foto sotto.

Ma anche a Portofino (foto sopra), oppure sul faraglione di puddinga in compagnia di un gabbiano  (foto sotto).

Sul lungomare di Rapallo l’airone sverna con gli anziani villeggianti e spesso si apparta nei dintorni del Castello medievale.

Un Po’ di Storia.

La pesca con il cormorano ha radici antichissime. In Giappone, la pesca con il cormorano veniva chiamata Ukai. L'attività di pesca attraverso questo metodo era concentrata in 13 città tra cui Gifu, ancora oggi comunità-simbolo della pesca con il cormorano sul fiume Nagara.

La pesca Ukai era molto popolare durante i periodi Heian e Edo, e veniva patrocinata dai governatori locali per catturare il pesce da donare alla famiglia imperiale.

Questa forma di pesca primordiale, mosse quindi i suoi primi passi in Giappone intorno al VII° secolo, fu importata in Cina intorno al X° secolo dopo Cristo, ed è cambiata molto poco nel corso dei secoli. In Cina, il pescatore usa ancora oggi una zattera assemblata con canne di bambù, passa l’intera vita sull'acqua con i suoi uccelli e li addestra, con un piccolo trucco, a restituire il pesce che cattura. La pesca con il cormorano è veramente uno spettacolo da vedere per la sua semplicità ed efficacia allo stesso momento. Tutto quel che serve è un natante che galleggi, un paio d’anni per l’addestramento del cacciatore e, soprattutto, un millennio di tradizione... Infatti, gestire un cormorano non è l'impresa più facile di questo mondo: i pescatori legano una sottile corda di canapa (o un anello metallico) attorno alla gola del volatile per evitare che possa ingoiare il pesce grande, lasciando inghiottire quello più piccolo. Con questo metodo astuto e non violento, il cormorano soddisfa le sue esigenze alimentari ed il pescatore quelle commerciali.

Appena il cormorano cattura il pesce, il pescatore lo rimorchia verso la barca tramite una sottile cimetta  costringendolo a sputare il pesce.

Come avviene l’addestramento? Innanzitutto occorre catturare i cormorani, che vengono scelti tra le quattro specie di cormorani marini, più grossi dei loro parenti di fiume e in grado di trasportare più pesce. Sono inoltre dotati di una maggiore resistenza, hanno un'indole più docile, tendono a non competere tra loro per il cibo e sono facilmente catturabili. Il pescatore usa la dolcezza e l’amicizia. Ogni mattina, il pescatore lo porta al fiume a fare il bagno tenendolo con un sottile guinzaglio legato attorno al collo. In questo modo il cormorano si abitua alla presenza del padrone che ogni tanto lo accarezza e lo coccola.


Occorrono quasi tre anni per addestrare un cormorano marino selvatico. In questa lunga fase “scolastica” viene nutrito con pesce d'acqua dolce che non ha mai pescato prima.

In Giappone la pesca col cormorano inizia intorno alle 19.30 e dura quasi tutta la notte. Per cinque mesi all'anno, 10-12 cormorani e 3-6 pescatori escono in barca illuminando il fiume con torce di legno di pino.

Ad un segnale del capo pesca, i cormorani si tuffano in acqua e iniziano a nuotare perlustrando la zona che gli é consentita dal lunghezza della cima. Un cormorano può raggiungere diverse decine di metri di profondità, anche se la pesca Ukai si svolge generalmente in acque dolci alquanto basse.

Ogni cormorano si nutre di circa 750 grammi di pesce al giorno, e può ritornare verso la barca con 5-6 pesci dopo ogni tuffo.

*Nota. La parola CORMORANO, detto anche MARANGONE  deriva dal nome degli uccelli «smergo», uccello tuffatore. Deriva dal Latino classico: mergus, “smergo”, dal verbo “mergo” immergere, tuffare. E’ evidente il passaggio al nome  “palombaro”, ma anche al marangone (in veneto: marangoni de nave é il carpentiere specializzato in riparazioni subacquee). Sul sito di Mare Nostrum Rapallo abbiamo dedicato al saggio: “La navi di Caligola a Nemi”, un importante capitolo in cui si narra che il primo tentativo di recuperare quelle navi fu fatto nel 1446 dal celebre architetto Leon Battista Alberti, che si avvalse dell’opera di nuotatori subacquei genovesi chiamati, appunto, “marangoni” per la loro resistenza e capacità di lavorare in immersione.


*Il CORMORANO è un uccello di grandi dimensioni dal manto parzialmente nero e il becco ad uncino. Vi è comunque un'ampia variazione in termini di dimensioni nella vasta gamma di specie. Sono stati riportati cormorani dal peso di 1,5 kg fino a 5,3 kg, ma il peso medio si aggira fra i 2,6 a 3,7 kg. La lunghezza può variare da 70 a 102 cm e l'apertura alare da 121 a 160 cm. Ha un lungo collo a forma di S elastico che permette di far passare pesci grandi fino all'esofago. Gli adulti si distinguono dai giovani dal piumaggio marroncino. Ben adattato sia all'acqua dolce sia salata, il cormorano gode di una buona vista fino a nove metri. I cormorani hanno le piume permeabili e per questo motivo passano molto tempo al sole ad asciugarsi le penne. Le zampe hanno grandi membrane che gli danno una grande spinta sott'acqua. Inoltre, quando s’immerge, può arrivare ad una profondità di 6 metri. E’ molto aerodinamico grazie alle ampie ali e alla forma affusolata, invece il decollo dall'acqua è complicato a causa della posizione eretta delle zampe e del peso dell'acqua che impregna le piume. La maggior parte dei cormorani emigra all'inizio della primavera, per la riproduzione, nell'emisfero Sud.

Tutte le specie di cormorano sono carnivore e si nutrono principalmente di pesce, sia d'acqua dolce che d'acqua salata. Spesso per giustificare inutili mattanze si utilizzano leggende metropolitane sostenendo che il cormorano mangia fino a 50 kg di pesce al giorno.

Molti pescatori vedono nel cormorano un concorrente per la pesca. A causa di ciò esso è stato cacciato fin quasi all'estinzione in passato. Grazie a sforzi di conservazione il suo numero è però aumentato. Al momento esistono circa 450.000 uccelli nidificanti in Europa Occidentale. L'aumento della popolazione ha posto ancora una volta il cormorano in conflitto con la pesca. Nel Regno Unito ogni anno, vengono rilasciate delle licenze che permettono di uccidere un numero specificato di cormorani, al fine di contribuire a ridurre la predazione; è tuttavia ancora illegale uccidere un uccello senza tale licenza.

I cormorani della specie Guanay, inoltre, acquisiscono una certa importanza nelle attività agricole, per il fatto di essere le principali fonti di guano, usato come concime.

Carlo GATTI

Rapallo, 25.12.2012

Ringrazio gli autori delle bellissime fotografie “firmate” che ho usato a puro scopo divulgativo della cultura marinara, essendo questo il primo articolo dello Statuto della nostra Associazione senza scopo di lucro.

(Webmaster Carlo Gatti)



RAPALLO naviga sui SETTEMARI

 

LO SAPEVATE CHE LA M/N RAPALLO

“NAVIGA” SUI SETTEMARI?

La MSC (Mediterranean Shipping Company) di Gianluigi Aponte ha voluto riservare, proprio a noi rapallini, rapallitani (vedi Treccani) e rapallesi, una sorpresa che non può passare inosservata: ha battezzato MSC RAPALLO la sua ultima unità entrata in servizio nel 2012.

La flotta comprende navi con una capacità massima di 14.000 TEU includendo una delle più grandi navi portacontenitori del mondo, la MSC CAMILLE. L'azienda è interamente posseduta dal suo presidente G. Aponte e dalla sua famiglia, un grande esempio di capacità imprenditoriale italiana.

MSC RAPALLO

13.050 TEU (N° contenitori - Twenty feet - equivalent - unit)

143.521 tonnellate di Stazza Lorda.

Lunghezza = 366 metri - Larghezza 48 metri

Anno di costruzione 2011

La portacontenitori MSC RAPALLO é una delle navi più grandi al mondo. Fa parte dell’enorme Flotta (444 navi) che il Comandante sorrentino Gianluigi Aponte ha creato dal nulla, con tanto coraggio e antico fiuto marinaro.

L’Impero di Gianluigi Aponte

MEDITERRANEAN SHIPPING COMPANY

30 maggio 2012 - Parte la MSC DIVINA nel nome di Sophia Loren a braccetto del comandante Bossi e dell’amico d’infanzia Gianluigi Aponte

Gli armatori che dominano la scena mondiale dei trasporti marittimi nel nuovo millennio, sono per lo più magnati del petrolio, potenti gruppi bancari e ricchi imprenditori che provengono anonimamente dai più disparati settori economici. Non tutti sanno, per esempio, che il nostro bistrattato Paese vanta in questo settore una “eccellenza” che tutti c’invidiano e che oggi andiamo a conoscere più da vicino.

Autore di questa grande impresa é l'armatore Gianluigi Aponte, discendente di un’antica stirpe di armatori sorrentini. La sua carriera inizia con il grado di giovane marinaio che si diploma al Nautico e arriva in pochi anni ad ottenere il sospirato Comando, ma come notiamo scorrendo alcune pagine della sua vita, l’uomo aveva ben altro nel suo DNA. Oggi é l’unico Armatore di alta classifica mondiale ad essere proprietario “esclusivo” delle sue navi mantenendo intatta la tradizione di tanti armatori privati italiani del recente passato che, mettendoci il nome e la faccia, crearono benessere e tanti posti di lavoro. I loro nomi sono: Barbaro, Bibolini, Bottiglieri, Cameli, Costa, Cosulich, D’Amico, D’Alesio, D’Amato, Fassio, Frassinetti, Gavarone, Grimaldi, Lauro, Messina, Onorato, Ravano ecc... alcuni dei quali sono ancora oggi sinonimo di grande prestigio dell’Italia sul mare.


MSC RAPALLO

Un po’ di Storia

Nel 1969, con coraggio e lungimiranza, G.Aponte acquista la sua prima nave da carico Patricia, e inizia così a trasportare diversi tipi di merci sulle rotte africane. Gli affari vanno bene. Ormai ha rotto il ghiaccio.

Nel 1970 fonda la Compagnia privata Aponte Shipping Company e l’anno successivo compra un'altra nave ancora più grande a cui dà il nome di sua moglie, Rafaela.

Nel 1973 Arriva la terza unità, il Carriere Ilse. Queste tre navi sono inizialmente posizionate in Mediterraneo, in Africa orientale e nel Mar Rosso, ma in seguito diventano operative anche in Nord America e in Australia. Passano circa 14 anni di serio e duro lavoro, ma anche di grandi profitti.

Nel 1987, la Compagnia si affaccia nel settore crocieristico con l’acquisto della vecchia nave passeggeri Monterey (monoelica) che viene successivamente venduta quando Gianluigi Aponte, in onore del suo mentore, Achille Lauro, decide di rilevare quella che fu la prestigiosa Flotta Lauro. MSC Crociere decolla come parte di un solido gruppo e aggiunge alla sua  flotta altre due navi passeggeri usate, ma eleganti: Rhapsody e Melody. Nell’ambiente si intuisce che l’invisibile (così fu definito) armatore napoletano Gianluigi Aponte é un imprenditore capace, dotato di notevole carisma, che sa scalare le posizioni in classifica con prudenza, ma anche con infallibile fiuto e determinazione.

Nel 1995 l'ormai famoso armatore sorrentino acquisisce anche la Compagnia Marittima “Snav”, società costituita da aliscafi e traghetti a impegnata nei collegamenti con le principali isole italiane . Tutto ciò che fallisce per incapacità imprenditoriale, nelle sue mani diventa reddito e posti di lavoro, sia a bordo che in terra. Assorbe numerose navi porta contenitori della Soc. Italia e Lloyd Triestino ormai in dissesto finanziario, ma anche navi di altre Società che non funzionano per altri motivi. Trascorrono otto anni di lavoro intenso con grande espansione di traffici e successi crescenti.

Nel 2003 ha inizio il piano d’investimenti da 5,5 miliardi che ha reso MSC Crociere una delle più giovani Compagnie di crociere leader a livello mondiale. Il piano, terminato nel 2010 con l'entrata in servizio dell'undicesima unità, è stato integrato con la commessa di una nuova nave ammiraglia da 4.000 passeggeri: la MSC Divina che é stata inaugurata il 26 maggio del 2012 a Marsiglia. Dopo diversi anni di crescita senza precedenti, oggi MSC Crociere è in grado di ospitare 1,2 milioni di passeggeri a bordo delle sue navi  e con l'arrivo di MSC Divina raggiungerà il traguardo di 1,4 milioni passeggeri l'anno.

Nel 2007 La linea è stata nominata "Compagnia di Navigazione dell'anno" dalla Lloyds Loading List.

Nel 2008 è stato inaugurato il quartier generale di MSC India, MSC House.

Nel 2008 Forbes gli attribuisce un patrimonio di 2,8 miliardi di dollari dichiarando Gianluigi Aponte il 412° uomo più ricco del mondo.

Nel 2009 diventa uno degli azionisti della CAI (Compagnia Aerea Italiana)  in seguito alla privatizzazione voluta dal Governo italiano.

Nell'ottobre 2010 acquisisce il 51% delle azioni della compagnia navale " Grandi Navi Veloci" che fonderà con SNAV.

Nel novembre 2011 acquista il 51% di "Bluvacanze" “ e "Cisalpina Tour".

Nell'aprile 2011 la MSC si avvicina a quota 2 milioni di TEU nella capacità complessiva della sua flotta.

La compagnia oggi

Il quartier generale della Compagnia é a Ginevra , in Svizzera, la sede operativa a Piana di Sorrento, in Italia, mentre il principale hub* della linea si trova ad Anversa, in Belgio .

La Mediterranean Shipping Company (MSC) , compie 43 anni ed è la seconda Compagnia merci più grande del mondo dopo la danese Maersk-Sealand . Dispone di 420 Agenzie di rappresentanza impiegando un totale di 28.000 persone in tutto il mondo ed è dotata di una flotta di 444 navi da carico che scalano 306 porti di tutti i continenti. Si tratta di un record decisamente storico per la compagnia.

Concludiamo con il formidabile elenco delle navi della MSC Crociere:

MSC MAGNIFICA, MSC FANTASIA, MSC POESIA, MSC MUSICA,  MSC LIRICA, MSC ARMONIA, MSC DIVINA, MSC SPLENDIDA, MSC PREZIOSA, MSC ORCHESTRA, MSC OPERA, MSC SINFONIA, MSC MELODY.

Com’é noto, grazie a queste modernissime navi passeggeri, la MSC si é strategicamente posizionata tra i due gruppi CARNIVAL CORPORATION e ROYAL CARRIBEAN INTERNATIONAL che fino a qualche anno fa si dividevano, incontrastate, il mercato mondiale delle crociere.

* Hub Port: porto nodale scalato dalla nave “madre” sul quale converge e dal quale muove il traffico smistato dalle navi “feeder”.

Carlo GATTI

Rapallo, 24.12.2012

 

ALBUM FOTOGRAFICO

(Archivio Pino Sorio)







Un "SUPERSTITE" del REX

EZIO STARNINI

Un "superstite" del REX

Mare Nostrum 2012 ha operato un full immersion nel periodo più glorioso della marineria italiana e forse, senza neppure accorgercene, ci siamo imbarcati sul mitico REX dove abbiamo conosciuto personaggi della Riviera che, con la loro tipica semplicità marinara, ci hanno fatto rivivere momenti di autentica magia.

EZIO STARNINI é uno degli ultimi superstiti dell’epoca d’oro dei transatlantici, uno dei pochi che ancora oggi possa dire con orgoglio:

“Nel viaggio inaugurale del REX e del CONTE DI SAVOIA, c’ero anch’io! Avevo 16 anni, ero ascensorista e da Piccolo di Camera fui promosso Garzone di prima scelta. Un carrierone!”

In effetti, sfogliando il suo libretto di navigazione, scorrono gli imbarchi che fece sia con il Comandante Francesco Tarabotto (Rex), sia con il comandante Antonio Lena (Conte di Savoia) sulla quale rimase per ben quattro anni.

Totalizzò in tutto 42 mesi e rotti giorni di navigazione. Nel 1936 rimase “incastrato” in Marina e si fece anche tutta la Seconda guerra mondiale riportando anche gravi ferite. L'8 settembre del ‘43 dovette scappare senza ordini (come tanti italiani... purtroppo!). Si rifugiò sui monti fino alla fine della guerra. Nel dopoguerra si diplomò ‘ragioniere’ e fece un’ottima carriera nella MOBIL OIL a Roma dove diventò dirigente d’Azienda.

Ezio Starnini (nell'ovale), era uno sportivo e faceva parte della squadra di pallacanestro del CONTE DI SAVOIA. Nella foto giganteggia Primo Carnera, il più grande boxeur italiano (in tutti i sensi...) che viaggiava su quella nave, diretto in America alla conquista del titolo mondiale dei pesi massimi. Concedeteci un’amena curiosità: di ritorno dagli States, il pugile venne borseggiato in un vicolo dell’angiporto genovese. Il fatto venne riportato da IL SECOLO XIX e il ladro – aggiungiamo noi con un pizzico di preoccupazione - doveva essere un temerario considerando la stazza di Carnera che se si fosse accorto in tempo del furto lo avrebbe sicuramente conciato per le feste!



EZIO STARNINI, 96 anni, (nella foto) é una persona speciale, un vero signore d'altri tempi. Al suo curriculum occorre aggiungere un “tassello mancante”, infatti, il nostro  'superstite' è anche estremamente attivo come scrittore avendo recentemente pubblicato un libro dal titolo, appunto:

"IL TASSELLO MANCANTE"

Ezio ha voluto darci un ‘assaggio’ della sua vena letteraria con una testimonianza che vi proponiamo qui di seguito: é il racconto di un’emergenza che visse personalmente sul Conte di Savoia al comando di Antonio Lena.

VISSUTO D'EPOCA SUL CONTE DI SAVOIA

Nel Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari, osservo interessato i modelli in scala di due grandi transatlantici: il REX e il CONTE DI SAVOIA. Noto in essi la perfetta riproduzione, dei particolari: l'armamento, Ie verande, il Sun-deck, gli arredi esterni nella loro stupenda minuziosità, gli ampi oblò a finestra del Ponte A ...  il Salone-Colonna!

Ed eccomi, a novantasei anni, avulso dalla realtà e riprovare, con emozione crescente, un episodio nel mio vissuto d'epoca: groom sedicenne, ascensorista a bordo del Conte di Savoia in rotta verso New York.

Vengo svegliato a notte fonda dal Capitan d'arme che, sbrigativo, con due marinai di coperta mi sloggia dal letto, mi allontana in malo modo e si appropria del materasso. Al mio sbalordito e ritroso : "Ehi... che fate?... Perche?", risponde brusco: "Una falla nella murata di babordo; imbarca acqua e bisogna tamponarla. Tu porta l'ascensore del Ponte A, su, al Salone Colonna.  Stai pronto e zitto."

Burbero come quando era entrato, seguendo i marinai con l'ingombro  esce dalla cabina senz'altro aggiungere. Sconcertato, mi domando perché proprio il "mio materasso", e non ... La risposta mi viene spontanea; occorre, subito, un ascensorista e un materasso?

Eccoli pronti, l'uno e l'altro contemporaneamente; nel bisogno la praticità  è preziosa!

Mi vesto in fretta, mentre nel cervello in subbuglio i pensieri si accalcano: una falla?; quanto sotto se imbarca?   E  in pieno Gulfstream. II silenzio delle macchine mi dice che la nave è ferma, ragiono. Per niente impaurito, salgo agile per conosciute scale e corridoi, raggiungo presto l'ascensore del Ponte A e lo porto su, al Salone Colonna, meraviglia d'arte e vanto della Classe di lusso della nave. Entro ed osservo stranito la scena nella luce abbassata del vasto locale. Il  Comandante Lena, il Primo Ufficiale e un Terzo, il Capo Allogi mio diretto superiore - due garzoni di sala, sono sporti dalla finestre sulla murata, gli splendidi tendaggi arrotolati, poltrone dorate spinte altrove, il prezioso tappeto parzialmente ripiegato... disordine. Trovo spazio, mi sporgo, sull'immensità buia e corro con gli occhi nella luce incrociata di due fari puntati sulla murata, in basso, all'altezza del Ponte C, in corrispondenza verticale con Ie finestre dove si trovano il Comandante e il Primo Ufficiale.

Dal portello aperto sul bagagliaio in quella precaria luminosità esce lento un tavolone grezzamente squadrato, col mio materasso inchiavardato: il tampone.  Legato a dei cavi, scorre in basso a piccoli strappi accompagnato dalla luce dei fari; scende giù fino al pelo dell'acqua; acqua per fortuna non molto agitata, ma sempre mare dell'Oceano Atlantico, nel pieno della corrente ascensionale del Golfo, non lontano dalla punta Nord del famigerato triangolo delle Bermude.  Nella chiazza di luce, calato con una robusta cima al petto, appare un uomo, Egli si agguanta al tampone, ad ampi gesti verso I'alto ne coordina la posizione, quindi, saldamente aggrappato al pesante aggeggio, affonda, scompare.

I fari battono il mare, ma la luce non mostra l'uomo faticare, privo del respiro, nell'opera viva della nave; non penetra I'agitata compattezza marina. Un paio di metri sotto il livello, in apnea, nell'acqua gelida e irrequieta, I'uomo farà una cosa straordinaria: profittando del vorticare del gorgo, ma pure temendone la forza attrattiva, farà scorrere sul corpo grinzoso della nave, il grosso, riluttante e mobile tampone sulla falla; col residuo delle forze fisiche e del respiro, cercherà di sistemarlo al meglio sullo squarcio dai margini sghembi e taglienti fra gli impeti del gorgo e risalirà all'aria stremato.

Teso quasi allo spasimo, fisso con gli occhi sbarrati la macchia di luce sul mare che copre I'uomo da troppo tempo: minuti, ma quanti? II tempo scorre lento e l'ansia ! Un improvviso rigurgito su quella superficie agitata, è il segno che la falla è finalmente otturata; ma il breve sollievo non sminuisce I'ansia: I'uomo ? ... Egli affiora nel ribollio dell'acqua, la testa ... respira; la corda al petto si tende ed egli  è issato velocemente nel ventre delta nave, giusto da dove ne era uscito per I'arduo compito.

II Comandante si erge lento, sul suo volto un sorriso fugace lascia il posto al consueto tono di fermezza;  dalle labbra semiserrate, un "bravo" appena si ode,

Affiancato dal Primo Ufficiale sollecito e sorridente; e da tutti seguito, s'avvia spedito all'uscita - che io ho appena oltrepassato.  Senza fermarsi, con voce chiara scandisce:

"Domattina, quassù deve essere tutto in perfetto ordine. Ora scendiamo nel bagagliaio del Ponte C. Stringerò la mano a un mio eroico marinaio".

Di quell'uomo, del marinaio Gennaro Donnarumma divenni amico allorchè, stringendogli anch'io la mano, ebbi modo di raccontargli Ie mie ansie. Modestamente, come semplice e modesto egli stesso era, sorridendo mi disse: "Embè.. guagliò, quando c'e da fare, si fa,  Non te lo scordare",

Ed io, come questo racconto-verità lo dimostra, ancora ricordo.

Ezio Starnini


A cura di

Carlo GATTI

Rapallo, 22.11.2012

Si ringraziano i com.ti Ernani Andreatta ed Enzo Gaggero. Alla loro disponibilità si deve la presente testimonianza.


L'UOMO DI MARE - Poesia

RICORDI DI MARE

Il signor Francesco Bodrati di Camogli era il proprietario di un negozio di alimentari di fronte alla Chiesa del Boschetto che svetta sopra l'Istituto Nautico Cristoforo Colombo di Camogli. Oggi é ultraottantenne ed é difficile calcolare quanti "equipaggi" di studenti abbia sfamato, dal dopoguerra in poi, con la vendita e la distribuzione di FOCACCIA all'ora della ricreazione. La maggior parte di noi, forse, si é dimenticato di quell'uomo, ma lui non si é dimenticato di noi che salpammo un giorno portandoci nel cuore il ricordo degli anni più belli della nostra vita: gli anni del Nautico. La poesia che segue é semplice, spontanea, ma densa di significati e ricordi. Grazie Bodrati, anche tu hai navigato con noi, ma solo oggi l'abbiamo capito.

Ringrazio il Comandante Mario Terenzio Palombo per avercela segnalata.

Carlo Gatti

31 ottobre 2012

 

L’UOMO DI MARE

 

 

“Cosa ti spinse a navigare?

 

-chiesi un dì ad un uomo di mare-

 

Fu forse il canto di una sirena

 

che emersa dall’onde ti ammaliò?”

 

 

Non sentì la mia voce,

 

una mano portò sopra il petto:

 

si fece il segno di croce

 

chinò riverente il capo a Maria

 

venerata nel nostro Boschetto.

 

 

Quando il sole tramonta e viene la sera,

 

dalla vecchia tua casa in collina,

 

devoto saluti con la preghiera

 

chi dall’alto ti è stata vicina.

 

 

Con gli occhi socchiusi ti par di sognare

 

paesi lontani e burrasche passate,

 

un po’ del tuo cuore è rimasto sul mare!

 

Ora lascia le carte, riponi il sestante:

 

“Auguri a te Comandante!”

 

 

Tu che con fretta passi per via,

 

il tuo andare spedito rallenta:

 

volgi un pensiero a Maria

 

che con occhi benedicenti

 

fortuna augura ai naviganti.

 

 

Francesco Bodrati

Camogli

11-2011



RICORDO DI Gianmario CAPATO

Ricordo di

GIAMMARIO CAPATO

 

 

M/r VORTICE - Acquerello di Gianmario Capato - 1988



L’ho sempre chiamato “marinarun” perché Gianmario é un pezzo di mare che si muove in modo del tutto naturale tra una paratia e l’altra del rimorchiatore d’altura. Con quelle mani nodose maneggia le cime come solo un ‘maestro’ può fare. Gianmario é un ‘nostromo’ all’antica, ha una maschera dura e bruciata dai marosi, ma é un buono, anche timido e riservato. Gianmario parla con il cuore, anzi con l’anima dell’artista che si esprime soltanto con qualche ritocco lasciandoti intuire tutto il resto. Si, avete capito bene, Gianmario é soprattutto un pittore di mare. Le sue due vite sono impastate di mare, dello stesso mare che diventa acquerello e anima le sue imbarcazioni, i personaggi delle calate profumate di alghe e catrame, gli angoli marinari della sua Camogli che ama.

Ciao amico mio! Ho voluto ricordarti da vivo perché i veri artisti non muoiono mai.


Carlo  GATTI

 

Rapallo, 1.09.12


LEUDO, UNA MANOVRA PARTICOLARE...

 

LEUDO, UNA MANOVRA PARTICOLARE


Ci siamo chiesti più volte quale manovra veniva compiuta dall’equipaggio di un LEUDO, ogni volta che doveva passare  la vela latina  da un lato all’altro della barca. Ovviamente, ognuno dice la sua, ma senza soddisfare appieno la curiosità degli altri.

Mi sono rivolto, allora, a Giancarlo Boaretto, factotum del Museo Marinaro Tommasino Andreatta di Chiavari, il quale ha trovato il personaggio giusto per dipanare la questione, si tratta del signor Gianni Giordano che da ragazzo navigò sui LEUDI e che questa manovra la ricorda così:



Servono quattro o cinque persone. Il timoniere allenta la scotta e mette la barca al vento. Un marinaio allenta la sartia sopravvento ed un altro cazza la cima dell’amante dell’antenna in modo che non scivoli verso prua ed allenta la l’amante della trozza in modo che l’antenna sia più libera. Un altro marinaio tende l’amante della drizza in modo che l’antenna si alzi fino a che il corso superi il capo di banda ed entri dentro la barca. Uno deve togliere l’imbracatura dell’antenna dal dritto di prua e lasca l’orza davanti a quella di poppa. Un marinaio prende la cima della scotta e la sposta dal lato opposto. Un altro marinaio prende la base dell’antenna e la porta alla base dell’albero. In due si mettono alla base dell’albero e fanno girare la base dell’antenna dalla parte opposta mentre un altro marinaio cerca di non far sbattere la vela. Contemporaneamente un altro marinaio è pronto è pronto a tendere la trozza. Si tende l’orza davanti e la mura; si abbassa l’amante della drizza fino a far tornare la base dell’antenna al suo posto. Il timoniere fissa la scotta e mette la barca al vento. Su un leudo la manovra dura una trentina di minuti. Si deve tener conto che alcune volte non si fa tutta questa manovra. Non facendola , la vela andrà a sbattere contro l’albero formando quasi una doppia vela. Navigando in questo modo, si ha l’andatura chiamata “a daredosso”.


Si ringrazia Giancarlo Boaretto e Gianni Giordano per la loro disponibilità.


Carlo GATTI
Rapallo, 24.08.12



BATTAGLIA NAVALE a Rapallo nel 1495


La BATTAGLIA NAVALE DI RAPALLO

Luglio 1495


di Pier Luigi Benatti

La ricerca dello storico rapallese Pier Luigi Benatti riporta alla luce, con grande dovizia di particolari, la battaglia di Rapallo a 500 anni di distanza e prende le mosse da una lettera ducale milanese per finire ad una palla di cannone infissa nello stipite di una porta del principale castello di Napoli.

“Dux Mediolani etc. Venerabiles et dilecti nostri.

In questa hora havemo hauto da Genua l’aviso che l’armata nostra nel golfo de Rapallo ha preso l’armata francese tuta, in modo che non scampato homo; et sono in epsa tra li altri presoni Monsignore de Miolans et trecento boche dela più bella artiglieria che maj sij veduta. La quale presa, stabiliendo quello che é facto per terra contra francesi alla liberatione di Italia, ne lassa obligo grandissimo alla clemenza divina; sì carico de farne signi pubblici de letitia et processione universsale per ringraziare Dio datore dela victoria, et però volemo che ordinate che si faciano le processioni et segni publici de letitia secondo il modo consueto. Mediolani 15 julij 1495.”

E’ questo, come a suo tempo rilevò l’indimenticabile Gian Luigi Barni, il testo, compreso nel regesto delle lettere ducali del periodo sforzesco, che ci fa apprendere con quale eco d’esaltazione pervenne a Milano la notizia della grande vittoria riportata nelle acque del nostro golfo dalla flotta genovese schierata con il duca Ludovico Sforza detto il Moro. Ne risultavano soccombenti le navi francesi del re Carlo VIII, il quale, l’anno precedente, aveva percorso da conquistatore l’intera penisola con tale facilità che l’operazione venne definita da Guicciardini come “guerra veloce” e, da altri più coloritamente, come “guerra del gesso” dato che l’impegno maggiore era risultato quello dell’intendenza dell’esercito d’oltre alpe di segnare, col gesso appunto, le case destinate agli alloggiamenti della truppa.

Lo storico Michele Giuseppe Canale così descrive la potente armata francese:

“Era l’esercito francese composto di dugento gentiluomini della guardia reale, in tutto mille cavalli, mille seicento uomini d’arme, de’ quali ciascuno avea, secondo l’uso francese, due arcieri, in modo che sei cavalli sotto ogni lancia si comprendevano; seimila fanti Svizzeri; seimila fanti del regno di Francia, dei quali la metà della provincia di Guascogna; unita a questo esercito andava quantità grande di artiglierie da battere le muraglie e da usare in campagna, che per via di mare si erano in Genova trasportate.”

Ma, anche se non é agevole, vediamo di illustrare i dettagli di un avvenimento bellico legato al nome della nostra città.

Si tratta di una pagina di storia riguardante un convulso periodo di vicende intricate che vedono l’Italia divenire “terra di conquista” per lo straniero a motivo delle insanabili lotte fratricide che tormentano gli staterelli e minano i governi locali.

Mentre Cristoforo Colombo, al termine della sua esaltante avventura oltre oceano, pone il piede sulle spiagge del Nuovo Mondo ed innalza il vessillo dei re di Spagna Ferdinando e Isabella, Genova, travagliata dai sanguinosi contrasti fra gli Adorno ed i Fregoso coi rispettivi seguaci, é finita sotto il potere di Ludovico Maria Sforza, detto “Il Moro” non per particolari caratteristiche fisiche, come si penserebbe, ma per il soprannome datogli dal padre Francesco I Sforza, con allusione al gelso (detto in dialetto “Moron”) da poco introdotto in Lombardia e considerato simbolo di prudenza.

Ma Ludovico, come la storia andrà a dimostrare, più che esercitare la virtù della prudenza, al pari di tanti principi del suo tempo, si distinguerà per una disinvolta ambiguità e per una politica ispirata alla spregiudicatezza tali che, alla fine, lo porteranno a perdere ogni potere ed a morire in prigionia su suolo francese. A temperare un giudizio estremamente negativo, grazie anche alla presenza della di lui sposa Beatrice d’Este, resterà tuttavia quel mecenatismo per le arti che caratterizzerà la sua corte e vedrà il suo culmine nella presenza del Bramante e, ancor più, di Leonardo. Al nostro Ludovico si attribuisce un ruolo rilevante nel convincere il ventitreenne re Carlo VIII a trascurare le molteplici pressioni rilevabili ai confini della Francia per avventurarsi nell’impresa finalizzata alla conquista del Regno di Napoli, facendo pretesto dei vantati diritti angioini, ma col più prosaico scopo di procurarsi ricchezze facili con la forza di un’armata formidabile.

Nel 1494, Genova, soggetta alla signoria di Milano, viene scelta come abbiamo visto a base marittima di partenza per la spedizione verso Napoli e qui si concentrano tremila mercenari svizzeri, guidati dal Duca d’Orleans (il futuro Re Luigi XII) ed altrettanti soldati messi a disposizione da Ludovico il Moro. I banchieri Sauli si danno poi carico di allestire la flotta occorrente, con un prestito di 95.000 ducati, nell’illusoria prospettiva, fatta balenare dal re francese, di imprese verso l’oriente col conseguente recupero di basi commerciali e delle colonie un tempo possedute. Al giungere di queste notizie, in campo avverso, si tenta di correre ai ripari con sollecitudine. Federico d’Aragona, fratello del re Alfonso II di Napoli, con le proprie navi, sulle quali si trovano gli immancabili fuoriusciti Obietto Fieschi ed il cardinale Paolo Fregoso, si porta a Spezia nel tentativo d’impadronirsi di Portovenere e fomentare la rivolta.

Genova - Il porto nel 1493

La flotta però, dato l’impari rapporto di forze, evita lo scontro e avvia le operazioni a terra. Gli armati si portano così sino a Rapallo, dove si trincerano, e tentano penetrazioni sino a Recco.

Rapallo - Porta delle Saline

Rapallo - Antico ponte romanico detto di ‘Annibale’

Nei pressi della porta delle Saline e dell’antico ponte sul torrente Bogo (quello che solo nell’Ottocento sarà detto d’Annibale) il 5 settembre di quel 1494 avviene lo scontro con gli svizzeri del Duca d’Orleans ed i seguaci degli Adorno. I napoletani sono travolti. Un centinaio rimane sul campo, molti sono feriti, e solo pochi riescono a fuggire sui monti evitando d’esser fatti prigionieri.

Questa la descrizione che degli avvenimenti dà lo storico Canale:

“ dapprima gli Aragonesi protetti dal vantaggio del sito avevano tenuto discosti i Francesi, ma il sopraggiungere degli uomini degli Adorni, e la paura di essere attaccati alle spalle da Gian Luigi del Fiesco, li avea obbligati precipitosamente alla fuga, colla morte di più di 200, e la cattività della maggior parte, fra i quali di Giulio Orsino, Fregosino figlio del Cardinale Paolo, e Rolandino Fregosi; Obbietto amato da quei di Rapallo era stato fatto coi figliuoli fuggire, fuggendo per monti e valli venia spogliato tre volte; voltosi ad Orlandino, ebbe a dirgli ridendo: sarà bene, figliuolo mio, che camminiamo nudi come Adamo affinché per cupidità delle nostre vesti, niuno più le ci spogli”.

Terribile appendice del combattimento, come registrano inorriditi gli storici dell’epoca, é il massacro che i mercenari svizzeri perpetrano nell’ospedale di S.Antonio (l’edificio oggi adibito a Municipio). Vengono passati a fil di spada una cinquantina di degenti ed il borgo viene saccheggiato forse perché si volle imputare ai rapallesi di aver parteggiato per i Napoletani essendosi questi barricati in Rapallo.

Napoli- Maschio Angioino

Fallisce così il tentativo di Re Alfonso II di bloccare in alta Italia l’armata di Carlo VIII che,  con un numeroso esercito e poderose artiglierie, si é avviato a compiere la sua “passeggiata” sino a Napoli preferendo la via di terra a quella maggiormente insicura del mare. Il 12 Maggio 1495 egli entra trionfalmente in Napoli lasciata precipitosamente dal nuovo re Ferdinando II, succeduto ad Alfonso II dopo la di lui abdicazione ed il ritiro in un convento in Sicilia. Ed é lì che il giovane Andrea Doria, militante con gli aragonesi, vorrebbe, almeno a parole, seguirlo, venendone distolto con un abbraccio d’addio un po’ melodrammatico nel racconto del cronista.

Re Carlo VIII dovrà ben presto constatare come la sua conquista sia del tutto effimera per l’impatto da essa suscitato nelle potenze d’allora, per il facile mutare di alleanze ed il sorgere di nuovi interessi.

L’indifendibilità della sua posizione, lo convince a riunire le proprie forze per avviarsi a risalire la penisola lasciando presidi, ma non tralascia di mandare a compimento quelle razzie che erano state ragione di tutta l’avventura.

Nel bottino, raccolto a man bassa, figurano anche le artistiche porte in bronzo di Castel Nuovo (quello che impropriamente viene anche detto “Maschio Angioino”), porte delle quali riparleremo fra breve. Una cronaca leccese del tempo, infatti registra che a perpetua memoria della sua vittoria il re “mandò in Parigi le porte di metallo del Castel Nuovo”, e Domenico Malipiero, nei suoi annali veneti, conferma che “el re de Franza ha fatto levar le porte de bronzo del Castel de Napoli e per via di Pisa le ha mandate in Francia in segno di vittoria”.

Napoli – Maschio Angioino, Porta di Castel Nuovo.

Notare le ferite inferte dalle cannonate all’opera d’arte durante la battaglia appena descritta.

Traccia di questa asportazione si trova anche in una lettera al Marchese Gonzaga del 15 aprile 1495 ove si legge: “Vostra Signoria deve sapere che la maestà del signor Re Ferrante aveva fatto fare nel Castello nuovo due porte di bronzo istoriate e costui (Carlo VIII) le ha fatto torre e guastar e caricar per condur via.”

A tappe forzate l’esercito francese percorre a ritroso la via che lo aveva condotto in Campania e lascia lungo il percorso terra bruciata e quel “mal francese” o “mal napoletano” (a seconda delle ottiche di parte), che la scienza chiamerà sifilide e diverrà una piaga inesorabile per i secoli successivi. Superato l’appennino, il 6 luglio 1495 a Fornovo avviene l’unico vero scontro dei francesi con le forze messe in campo dalla Lega che si é costituita contro Carlo VIII e che annovera Ferdinando di Spagna, Venezia, il Pontefice, Massimiliano d’Asburgo, signore di Trieste e Fiume, il Re d’Inghilterra e quel Ludovico il Moro che ha fiutato l’opportunità di una più redditizia diversa scelta di campo con il conseguente indotto dello spostamento antifrancese di Genova.

Ciò che di lì a poco accadrà nelle acque del nostro golfo ne sarà la diretta conseguenza. Mentre, superato l’unico ostacolo, Carlo VIII rientra alla “base”, da Napoli al comando di Monsignor Luigi de Miolans, ciambellano del Re di Francia e governatore del Delfinato, é ripartita una grande flotta costituita di 7 galere, 2 fuste, 1 brigantino e 2 galeoni in parte fatti giungere da Marsiglia per caricare il prezioso bottino raccolto.

Queste  unità, risalendo il Tirreno, giungono nel golfo di La Spezia ma non possono sfuggire all’avvistamento della flotta della Serenissima che dispone di 9 galere e 4 navi grosse al comando di Francesco Spinola (anche egli soprannominato “Il Moro”) e di Fabrizio Giustiniani (a sua volta detto “Il gobbo”).

Golfo Tigullio – Teatro della Battaglia di Rapallo del 1495

Dopo aver inutilmente tentato di occupare, calando milizie, il castello di Sestri e quello di Portofino, la flotta francese, sempre seguita ad un tiro di balestra dalle navi genovesi, dirige verso la rada di Rapallo sapendo che nel borgo é attestato un presidio amico e che altre forze si stanno portando sino ad Albaro e nella Valle Polcevera in attesa di rinforzi che Battista Fregoso dovrebbe inviare da Asti. Me nella notte di quell’imprecisato giorno di luglio (12 o 13?), col favore del vento, in quattro ore Gian Ludovico Fieschi e Giovanni Adorno su dodici triremi (che erano galee con tre uomini per ciascun remo) e altre imbarcazioni trasferiscono a Rapallo seicento soldati nel massimo silenzio.

Il presidio francese viene sopraffatto e si piazzano sentinelle lungo tutta la costa. Prima del sorgere del sole poi, la squadra genovese di Francesco Spinola entra nel golfo di Rapallo ed attacca di sorpresa con le artiglierie le navi francesi che si apprestano, accostate verso la riva, a mettere a terra le truppe trasportate. Lo scontro navale é breve ma intenso ed avviene molto all’interno del nostro golfo dinanzi agli occhi stupiti dei religiosi della Cervara che ne registrano testimonianze. Entrano in azione i pezzi d’artiglieria e le unità francesi, colpite da più parti, vengono poi assaltate e debbono arrendersi.

Tra i numerosissimi prigionieri, oltre al comandante Luigi de Miolans, figura anche il nobile Stefano de Nevès di Montpellier.

Francesco Guicciardini nella “Historia d’Italia” così racconta gli avvenimenti che ci interessano:

indirizzò a Rapallo, il qual luogo, facilmente occupò, ma uscite dal porto di Genova una armata di otto galee sottili, d’una caracca, e di due barche biscaine, pose di notte in terra settecento fanti, i quali senza difficoltà presero il Borgo di Rapallo con la guardia di Francesi, che v’era dentro, e accostati poi all’armata Francese, che s’era ritirata nel golfo dopo lungo combattere presono, e abbruciarono tutti i legni, restando prigione il capitano, e fatti più famosi con questa vittoria quei luoghi medesimi,  né quali l’anno precedente erano rotti gli Aragonesi. Ne fu questa avversità de’ Francesi ristorata da quegli, che erano andati per terra, perché condotti per la Riviera Orientale insino in Valdibisagna, e a Borghi di Genova, trovandosi ingannati dalla speranza, che aveano conceputa, che in Genova, si facesse tumulto, e intesa la perdita dell’armata, passarono quasi fuggendo per la via de’ monti...”.

E qui tornano in scena le famose porte in bronzo di Castel Nuovo. Esse, infatti, data la loro mole e per il peso, erano state sistemate, inclinate e con la parte interna verso le sovrastrutture della tolda dei galeoni, appoggiate, per il necessario bilanciamento, agli alberi per le velature in modo che, senza impedire i movimenti a bordo, costituivano due autentiche paratie protettive.

Non fa meraviglia, quindi, se alcune cannonate le presero in pieno, come testimoniano le tracce che il Ferretto, storico rapallese, negli anni Venti scrive così essere rilevabili: una palla, del diametro di circa 12 centimetri, che era il calibro consueto delle bombarde da nave, rimane infissa nella porta di sinistra per chi entra nel Castello, mentre nella stessa altri segni confermano i colpi giunti nel riquadro centrale e nella cornice del riquadro superiore triangolare. Nell’altra porta il colpo buca la cornice interna del riquadro inferiore.

Le porte saranno restituite dai Genovesi a Napoli forse utilizzando le navi grosse “Galiana”, di 3000 botti di stazza e la “Camilla” che il 6 novembre 1495 venero inviate al re Ferdinando II d’Aragona detto Ferrandino, per aiutarlo nell’assedio che ora egli aveva posto al Castel Nuovo ove s’era asseragliato l’ultimo presidio francese.

Assedio che giungerà a termine venti giorni dopo, consentendo la ricollocazione nella loro sede originaria delle porte che al visitatore non informato presentano l’incognita della palla infissa nel battente interno come se il colpo fosse stato sparato dal cortile... Ma torniamo all’esito della battaglia navale di Rapallo.

Il bottino fatto dai Genovesi fu rilevante e per certi aspetti anche sorprendente.

Il cronista veneziano Marin Sanudo nella sua opera “La spedizione di Carlo VIII in Italia” registra: “ Al dì 17 luio de mattina, per lettera del 13 di Zenoa del secretario nostro se intese come l’armada franzese de legni 12 tra galie e galioni e barze era stata presa, sopra la qual avea trovato, oltra li butini che fanno assà, bocche 300 di artelaie, 400 botte di polvere, le porte scee di Castel Nuovo di Napoli, le qual costano ducati 20 mila ut dicitur; etiam 200 donne tra donzelle et altre giovane, licet de franzesi fussero state già tastate, le qual fo quelle tolsero a Gaeta et ancora 20 monache qual essi franzesi nemavan in Franza”. Conclude poi dicendo: “I genovesi vadagnò per questa impresa più de ducati 100 milia, ultra gli legni e le artelarie”.

Gli fa eco il già ricordato cronista veneto Domenico Malipiero: “Zenoesi ha abuo le galie e i altri navilii de francesi. Ghe é sta trovà su cerca tresento donne zovene, moneghe, parte da Napoli, parte da Gaeta, e 200 pezzi d’ortelaria che era a quella in Castel Nuovo di Napoli, e costò a quel re 20.000 ducati, 400 bote de polvere, e altre spogie per gran vagiuda”.

Uberto Foglietta, storico genovese, a sua volta informa: “La preda fu grande, sicché arricchì non solamente i soldati e i marinai, ma ancora i capitani”.

E aggiunge che a Francesco Spinola toccarono “quasi tutte le ricchissime spoglie napoletane destinate ad andare in Francia”.

Nei suoi Annali di Genova, Agostino Giustiniani (una delle figure di spicco per Rapallo sua patria d’origine) racconta che Andrea Giustiniani ebbe gran parte del galeone ch’egli aveva catturato, mentre Francesco Spinola, con i denari ricavati dalla notevole preda, finanziò i lavori in fase di realizzazione della Chiesa dell’Annunziata in Pammatone in Genova e, in particolare, la grande vetrata artistica.

Mentre é agevole pensare che le “200 donzelle” e le religiose dopo una così terribile esperienza avranno potuto fare ritorno alla loro città d’origine, é altrettanto facile presumere che fra gli introiti a bilancio vadano inseriti anche i riscatti pretesi per la liberazione degli illustri prigionieri.

Ci é noto, per esempio, che per il riscatto di Monsignore di Miolans Obietto Fieschi avviò una trattativa sulla base di diecimila ducati. Per qualcuno, sicuramente, il soggiorno forzato in Genova dovette protrarsi malgrado le clausole inserite nell’atto di pace separata, firmato fra Carlo VIII e Ludovico Moro, a Vercelli nel novembre di quello stesso anno 1495 con grande irritazione soprattutto di Venezia. Nel trattato si parla infatti della restituzione delle navi catturate a Rapallo e della liberazione dei prigionieri. Ma i Genovesi, adusi ormai ai rapidi voltafaccia dello Sforza, temporeggiando da maestri e così il calendario darà loro ragione assieme... alla preda. Questi, quindi, gli esiti della battaglia navale (ma, come abbiamo visto, anche in parte terrestre) di Rapallo di mezzo millennio addietro. Un episodio che non ebbe decisivi riflessi sulle vicende europee, ma che sicuramente obbligò ad inserire il nome della nostra città nei libri di storia. In quegli stessi testi, poi a distanza di secoli, Rapallo farà nuovamente capolino e questa volta per motivi “pacifici”. L’occasione sarà data dai Trattati di Rapallo del 1920 e 1922, nell’intervallo fra la prima e la seconda guerra mondiale.

In quanto ai due maggiori protagonisti, il destino li collegherà a due castelli.

Carlo VIII, tre anni dopo la battaglia navale di Rapallo, dopo 9 ore di agonia troverà banalmente la morte essendo andato a battere violentemente il capo nell’architrave di una porta troppo bassa nel castello di Amboise. Ludovico il Moro, a sua volta, nel 1500 conoscerà l’amarezza del tradimento degli ottomila svizzeri assoldati e a Novara verrà fatto prigioniero finendo nel castello di Loches in Turenna, nella Francia bagnata dalla Loira, e qui, dopo otto anni, incontrerà la morte.

Per il suo castello Rapallo, invece, dovrà attendere più di mezzo secolo e, prima, conoscere la poco gradita visita di quel Dragut che, all’alba del 4 luglio 1549, giungerà nella baia che aveva visto contrapposte le prore di Francia e della Superba in quel luglio di 500 anni or sono.

Le foto inserite a cura del webmaster C.G.

Rapallo, 20.06.12

















 



Santuario di Montallegro. VELIERI nella Tempesta

 

VELIERI NELLA TEMPESTA

E negli Ex voto del Santuario di Montallegro

Pro Schiaffino, da oltre 30 anni è il direttore del Museo Marinaro di Camogli.

- “Comandante, nel presentare questa rubrica dedicata alla devozione mariana, ci siamo spesso imbattuti in avventure sofferte da equipaggi di Camogli e di Chiavari. Le due città rivierasche, così diverse tra loro, hanno avuto un passato marinaro di prima grandezza”.

“Camogli è stata una grande flotta mercantile. Chiavari un intero settore mercantile. Camogli, racchiusa tra i monti, priva di strade e di retroterra aveva riversato tutta l’attività della sua gente sul mare e sui velieri. Si era espansa nel mondo al seguito dei suoi velieri ed aveva Agenzie e Provveditorati, ma erano solo al servizio dei capitani e degli armatori. Tali punti di riferimento erano appendici di Camogli, ma avulsi dal commercio del paese.

Chiavari no! Gli esponenti di Chiavari erano commercianti che portavano le loro capacità produttive ed i loro prodotti nel mondo, e per farlo si servivano delle navi costruite da loro stessi secondo le proprie esigenze. Da ciò si deduce, per esempio, che in America e in Australia, non c’erano soltanto i loro rappresentanti, ma c’erano mercanti capaci di cercare nuovi spazi e clienti. Va da sé che quando le navi si convertirono al motore, quando cioè fu necessaria una capacità esclusiva nel costruirle, lasciarono ad altri il compito ed anche gestione”.

La marineria di Chiavari è presente nel Santuario di Montallegro con due ex-voto di gran pregio.

Si tratta del brigantino a palo “Francisca”, 683 tonn. di Stazza lorda, dell’Armatore Dall’Orso che fu costruito a Chiavari dai Cantieri di Matteo Tappani nel 1873.

Il dipinto dell’artista Fred Wettening rappresenta il veliero in balia della tempesta con vele stracciate ed una trinchettina di fortuna per mantenersi alla cappa (con la prua al mare) per non essere travolto dalle onde. In alto a sinistra è finemente stilizzata l’icona venerata della Dormizione della Vergine.

Uragano sofferto dal “Francisca” nell’Oceano Indiano, 22.2.1874-Tempera su carta di Fred Wettening.

Nave a palo Francisca, 1874. Lamina d’argento sbalzata.

Lo stesso avvenimento è ancora ricordato con una lamina d’argento sbalzata che raffigura il veliero che naviga a gonfie vele verso il suo destino. I due doni esprimono un contrasto: lo splendore, la velocità e la ricchezza di un veliero oceanico spinto da un buon vento, contro la caducità della vita, del rapido cambiamento del destino sottoposto alla spietata legge della natura avversa. In questi frangenti, rivolgersi alla Vergine significa, per il marinaio, aggrapparsi ad un’ancora di salvezza, simulacro di croce, la speranza di continuare a vivere.

Il brigantino affonderà nel 1887 probabilmente sotto i colpi del terribile monsone di SW che spesso arriva sul Capo di Buona Speranza con la massima forza della scala Beaufort. Il veliero proveniva dall’estremo oriente con un carico di riso.

Il secondo ex-voto è riferito ad un altro brigantino a palo, il “Confidenza”, costruito nel 1872 per lo stesso Armatore Dall’Orso di Chiavari. Lo scampato naufragio si riferisce al ciclone incontrato al largo di Filadelfia il 9 settembre 1889 che fu così riassunto dal suo capitano Giuseppe Lagomarsino ….”conoscendo l’eminente pericolo della perdita del bastimento e vita fece voto a M.S.S. di Monte Allegro e per la grazia ottenuta fece del presente quadro a questo Santuario in memoria eterna”.

Brigantino a palo “Confidenza”. E’ un barco chiavarese per la navigazione atlantica. Dipinto su carta 78x57 cm. Secolo XIX.

In questa rappresentazione di gran pregio, la parte riservata all’iconografia sacra che riproduce l’apparizione della Vergine al veggente G. Chichizola è notevole e molto dettagliata.

Quasi tutti i velieri sin qui riportati, sono registrati negli elenchi dei barchi che hanno superato indenni, più volte, il famigerato Capo Horn, un nome bestemmiato da generazioni di marinai, un mito nella storia della vela oceanica mercantile, un ricordo indelebile di disperate rimonte, un immenso e sinistro cimitero di navi, il simbolo del coraggio e dell’ardimento umano.

L’ex-voto del Narcissus, che abbiamo già ammirato, si riferiva alla sua più sofferta delle tante “rimonte” di Capo Horn.

Joseph Conrad li definì così: Marinai di Capo Horn: “ Una razza scontrosa e fedele, vigorosa e fiera, capace di ogni rinuncia e dedizione, con i suoi riti, i suoi usi, il suo coraggio e la sua fede…”

A questo punto consentiteci di ricordare il Capitano Fortunato Schiaffino di Camogli che, in 21 rimonte di Capo Horn, effettuò sei salvataggi meritandosi medaglie ed encomi da governi stranieri.

Carlo GATTI

Rapallo, 16.02.12