Calendario Manifestazione Mare Nostrum 2011
La Partenza dei Mille dallo scoglio di Quarto Genova del pittore chiavarese Amedeo Devoto
MARE NOSTRUM
Presentazione e Calendario Manifestazione
Se Il 2011 è stato - ed è ancora mentre scriviamo queste note - l'anno in cui si è celebrato il 150° anniversario dell'unità nazionale: un anno denso di avvenimenti, rievocazioni, mostre, dibattiti e ricco di importanti momenti che hanno visto coinvolte tutte le più significative componenti della nostra Nazione, tanto a livello centrale quanto periferico.
Un anno, quindi, di celebrazioni unitarie e di volontà - da parte di tutti - di ribadire i concetti che stanno non soltanto alla base della nostra storia ma che costituiscono, di per sé stessi, le basilari fondamenta del nostro vivere civile, delle nostre tradizioni e della nostra essenza culturale.
Per una fortunata coincidenza, in questo 2011 così improntato al ricordo (e al tempo stesso rivolto al nostro futuro), anche la Mostra "Mare Nostrum" fa registrare il raggiungimento di considerevoli traguardi: non certo commisurabili al tondo "150°" dell'unità d'Italia, ma di sicura valenza epocale e culturale - soprattutto se rapportati alla nostra realtà locale e confrontati con l'effimera durata di altre analoghe manifestazioni, organizzate un po' ovunque in Italia e all'estero.
Difatti, con l'edizione 2011 la Mostra "Mare Nostrum" celebra il suo anniversario trentennale, e non possiamo non tornare con la memoria alle prime, pionieristiche edizioni della manifestazione, successivamente "consolidata" nei locali dell'Auditorium delle Clarisse e - da ormai molti anni - definitivamente trasferitasi nella prestigiosa e centralissima sede del nostro "Castello a mare".
In ultimo, quella che i lettori stanno per sfogliare è la decima edizione di una pubblicazione che, ormai tradizionalmente, affianca e accompagna la Mostra nella sua sede espositiva: un percorso iniziato nel 2002 con "Il Tigullio un Golfo di Eroi" e proseguito, sino ad oggi, con una serie di fascicoli - ora rivolti alle tradizioni marinare di Rapallo, ora dedicati ad aspetti di grande respiro della storia navale nazionale - che, nel tempo, non soltanto hanno seguito un filo conduttore comune ma che costituiscono un "oggetto da collezione" ricercato da appassionati e studiosi del settore storico-navale più largamente inteso. Da questo indubbio successo pubblicistico non è disgiunta la recente costituzione, nel 2008, dell' "Associazione Culturale Mare Nostrum" (in cui gli autori sono coinvolti in prima persona), che - a sua volta - è andata ad occupare una fondamentale posizione per il collegamento e la collaborazione tra i suoi Soci, il Comune di Rapallo, le Istituzioni locali e tutte le realtà che ruotano attorno alle iniziative tese ad approfondire la realtà marittima, navale e storica della nostra Città.
In conclusione di questo anno, così importante e simbolico per l'unità nazionale, anche la Mostra "Mare Nostrum" e l'omonima Associazione Culturale hanno pertanto deciso di dare il proprio contributo con la realizzazione di questo fascicolo il cui titolo - "Garibaldi un uomo di mare" - non può non partire dal nome di colui che, più di ogni altro, rappresenta a tutt'oggi lo spirito risorgimentale dell'Italia unitaria.
La stele rostrata dell'artista genovese Giovanni Scanzi fu innalzata per commemorare i 50 della Spedizione dei Mille che da quel punto del porto prese inizio.
Con l'esperienza derivante da lunghi anni trascorsi in mare, al comando di rimorchiatori portuali e d'altura e nel Corpo dei Piloti del Porto di Genova, il com.te Carlo Gatti fa rivivere uno dei momenti più noti - ma sicuramente meno approfonditi dal punto di vista tecnico-marinaresco - della "Spedizione dei Mille". La partenza da Genova dei famosi piroscafi garibaldini Piemonte e Lombardo avvenne, difatti, in presenza di notevoli difficoltà nautiche, rendendo necessaria una complessa operazione di rimorchio e costituendo - probabilmente - uno dei più concitati momenti della navigazione delle due unità verso il Regno delle Due Sicilie. Anche in questo caso, l'intendimento dell'autore è stato il desiderio di divulgare fatti poco noti ma importanti, assai spesso messi in ombra da momenti maggiormente eclatanti e quasi mai portati a conoscenza del pubblico degli appassionati alle vicende storico-navali del nostro paese.
Giuseppe Garibaldi sul ponte di comando in una celebre illustrazione di Edoardo Matania.
Emilio Carta affronta e approfondisce una tematica sino ad oggi mai presa in considerazione, ossia la partecipazione di rapallesi e abitanti del Tigullio alla "Spedizione dei Mille" e alle immediatamente successive fasi del consolidamento dell'unità nazionale. L'argomento è di sicuro interesse, e consente di far luce su aspetti sino ad oggi mai sviluppati, sia pure solo collateralmente a ad analoghi studi, e tantomeno approfonditi con un lavoro organico "sul campo", sulla base di documenti archivistici, raccolte di cimeli e revisione critica delle fonti storiche primarie e bibliografiche. Uno studio, quindi, che riteniamo possa "fare scuola", andando a rappresentare un "valore aggiunto" per la storia di Rapallo e del suo circondario e rappresentando un collegamento tra passato e presente soprattutto ad uso delle generazioni più recenti e dei giovani i cui corsi di studio - forse - non sono oggi così attentamente rivolti alla storia viva che si nasconde ovunque in Italia, e quindi anche nella nostra Città.
551 - Incrociatore Giuseppe Garibaldi
Infine, Maurizio Brescia (in collaborazione con Francesco Bucca, anch'esso socio dell' "Associazione Culturale Mare Nostrum") presenta un altro tema sicuramente legato alle vicende garibaldine ed alle figure più rappresentative del Risorgimento: le navi militari italiane che - in centocinquant'anni di storia - hanno portato i nomi di Garibaldi e Cavour. Nel tempo, la Regia Marina e la Marina Militare hanno inteso onorare l' "Eroe dei Due Mondi" e lo statista piemontese (che fu - tra l'altro - anche il primo Ministro della Marina del neocostituito Regno d'Italia) assegnandone i nomi a importanti navi che - in molti casi - hanno a loro volta scritto fondamentale pagine della nostra storia navale. Sarà così questa l'occasione per ricordare, e far rivivere con foto attuali e d'antan, le prime navi a propulsione mista che portarono i nomi di Garibaldi e Cavour e, tra le successive unità, l'incrociatore corazzato Garibaldi e la nave da battaglia Cavour, sino alle due moderne e avveniristiche portaeromobili attualmente in servizio con la Marina Militare.
La realizzazione di un programma espositivo e pubblicistico di questa portata non avrebbe potuto avvenire senza la determinante collaborazione del Comune di Rapallo e, nella fattispecie, senza l'entusiasmo e il fondamentale apporto del Sindaco - dott. Mentore Campodonico - il quale non soltanto ha sempre "creduto" nella considerevole valenza culturale della Mostra "Mare Nostrum" (e di questa pubblicazione) per la nostra Città, ma ha saputo far sì che l'Amministrazione Comunale ci consentisse di portare a compimento il nostro progetto con un sincero, concreto e fondamentale appoggio.
E proprio da questa volontà, e dal sostegno che il Comune di Rapallo ci ha sempre accordato, è scaturita la collaborazione con la Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, un Istituto bancario sempre attento e sensibile al supporto delle realtà culturali liguri che - pur nella difficile congiuntura economica che tutti stiamo vivendo - in occasione dell'organizzazione della Mostra "Mare Nostrum" 2011 ha dimostrato, una volta di più, di sapersi far partecipe del nostro progetto con interesse e attenzione, nella certezza che la cultura è "pagante" e che i fondi ad essa destinati costituiscono non già una perdita, ma un investimento.
Desideriamo quindi ringraziare tutti coloro che ci hanno fattivamente sostenuto e appoggiato come - d'altra parte - i visitatori che si recheranno al "Castello a Mare" nei locali della Mostra, confidando che ciò possa rappresentare un interessante momento di "immersione" nella cultura e nella nostra storia.
E a tutti i lettori di "Garibaldi un uomo di mare" va, come è ormai decennale consuetudine, l'augurio di Buona lettura e di Buona navigazione!
Rapallo, novembre 2011
M. Brescia - E. Carta - C. Gatti
Curatori e collaborazioni
“Mare Nostrum Rapallo” si avvarrà della collaborazione dell’Associazione Modellisti di Rapallo, guidata dal presidente Silvano Porcile, della competenza e della preziosa opera di volontariato dei propri soci, in particolare del giornalista-scrittore Emilio Carta, del sottoscritto presidente dell’Associazione comandante-scrittore Carlo Gatti, dello studioso e ricercatore della Marina Militare dottor Maurizio Brescia, del direttore del Museo marinaro Tommasino-Andreatta con sede presso la scuola Telecomunicazioni di Chiavari, comandante Ernani Andreatta, dell’appassionato d’arte Claudio Molfino. Si avvarrà inoltre della disponibilità del locale gruppo dell’Associazione Marinai d’Italia, che esporrà documenti e materiale storico-didattico della Marina Militare.
La vocazione della nostra Associazione per le discipline astronomiche e astrofisiche si avvarrà, per la prima volta, di uno stand con materiale espositivo della Associazione IL SESTANTE di Casarza Ligure, Presidente Enzo Gaggero.
Per questa “speciale” 30^ Edizione che coincide con il 150° dell’Unità d’Italia e con il 10° anniversario della Pubblicazione di Mare Nostrum, sono previsti diversi eventi collaterali alla Mostra quali: una conferenza stampa, la presentazione di libri a carattere marinaro, conferenze di esperti storici di assoluto valore, proiezione di documentari e filmati.
Calendario della manifestazione
Venerdì 4 novembre Apertura Mostra dalle ore 15 alle 18
Sabato 5 novembre ore 10.30: Sala consiliare
Conferenza stampa per l’Apertura della 30^ Edizione della Mostra di Mare Nostrum e presentazione della Pubblicazione di carattere storico curata da Maurizio Brescia, Emilio Carta, Carlo Gatti, alla presenza degli stessi autori.
Domenica 6 novembre - ore 11,00:
Conferenza presso il Centro Incontri del Gran Caffè Rapallo (sede sociale dell’Ass. Mare Nostrum) tenuta dal Cap. Umberto Ricci sul tema
“I GARIBALDINI DI RAPALLO”. Presenta Paolo Pendola
Sabato 12 novembre – ore 11
Conferenza presso il Centro Incontri del Gran Caffè Rapallo di Emilio Carta e Lorenzo Del Veneziano su “U BOOT 455. SVELATO ANCHE L’ULTIMO MISTERO” . Presenta Carlo Gatti
Proiezione di un inedito filmato sull’ultima discesa negli abissi
Domenica 13 novembre – ore 11:
Conferenza presso il Centro Incontri del Gran Caffè Rapallo del del Dott. Maurizio Brescia sul tema “ I 150 ANNI DELLA MARINA MILITARE”. Parteciperanno alla conferenza “testimonial” e importanti personaggi della marina. Presenta Carlo Gatti.
Sabato 19 novembre – ore 11.00
Conferenza presso il Centro Incontri del Gran Caffé Rapallo del com.te Enzo Gaggero sul tema ORA “FERROVIARIA” NELL’UNITA’ D’ITALIA Con il regio decreto del 10 agosto 1893 Il Re adotta il “Fuso Orario” di riferimento che passa per Termoli – Etna
Domenica 20 novembre – ore 11.00
Presentazione presso il Centro Incontri del Gran Caffè Rapallo
del libro marinaro di Mario Ammi “All’Inferno e ritorno”
Presenta Emilio Carta
Domenica 20 novembre - ore 18: chiusura Mostra e saluto ai partecipanti
Lunedì 21 novembre – smantellamento della mostra
Orario apertura al pubblico:
Lunedì, Martedì, Mercoledì, Giovedì ............ giorni di chiusura
Venerdì ...............................15-18
Sabato...... 10-12 - 15-18
Domenica.. 10-12 - 15-18
Le sale espositive
Antico Castello – sala al primo piano
Ivi saranno ospitati lo stand del locale gruppo della Marina Militare e la grande mostra espositiva sulla storia del mare e della navigazione attraverso il modellismo navale curata dall’Associazione modellisti “Nonno Franco” di Rapallo.
Antico Castello - sala al piano superiore
Ivi sarà esposto materiale storico iconografico afferenti il 150^ Annversario dell’Unità d’Italia utilizzando le collezioni private del com.te Carlo Gatti, del curatore del Museo delle Telecomunicazioni com.te Ernani Andreatta, di Emilio Carta, dello studioso Maurizio Brescia e, come annunciato, del com.te Enzo Gaggero con una Mostra su “Ora Ferroviaria nell’Unità d’Italia”.
Antico Castello - due salette al piano superiore
Ivi saranno ospitati:
- Una esposizione di cimeli garibaldini.
- Una Mostra con la riproduzione di materiale interessante a cura di Claudio Molfino.
- il materiale espositivo-didattico-museale messo a disposizione dal Curatore del Museo navale Tommasino-Andreatta, comandante Ernani Andreatta;
- Sala proiezioni per il pubblico con filmati di carattere storico e documentale navale;
Carlo GATTI
Rapallo, 17.10.11
QUANDO si NUOTAVA NEL GOLFO DEI NESCI...
RAPALLO, QUANDO SI NUOTAVA NEL GOLFO
ALLA RICERCA DELLE NOSTRE RADICI…
1931 - Nella foto scattata negli allora Bagni Vittoria (oggi Lungomare) vediamo da sinistra, Bonazzi, Macera, Pendola, Truffa M., Moggi, Olivieri, Tassara, Solari, Truffa E., Ferrari-Nelli, Bagigalupo L.
Su un articolo ingiallito del Secolo XIX che porta la data del 18 agosto 1945, leggiamo: Il “Gruppo Sportivo Nuotatori Rapallesi” che nel periodo 1928-1935 (e negli anni 1919-1927 come “Ruentes”) aveva primeggiato all’estero per tanti anni, per merito dell’invitto Luigi Bacigalupo prima e poi del poderoso fratello Renato, è risorto a nuova vita. Continuerà certo anche nel campo nazionale seguenti l’esempio dei due campioni e dei Michele ed Eugenio Truffa, Andreae, Ottonello, Baracco, Bonazzi, Cappellini, Macera, Papadato, Vexina, Magnolfi, Moggi, Queirolo, Mascardi, Castruccio.
L’infaticabile Luigi Bacigalupo ha con slancio giovanile iniziato la sua attività e buoni risultati sono stati ottenuti. Gli allenamenti da lui diretti proseguono e porteranno i giovani nuotatori a certi trionfi e Rapallo ne sarà fiera. Il nefasto regime aveva soffocato lo sport natatorio locale tanto che il Gruppo Rapallese aveva dovuto emigrare a S.Pier d’Arena. Per merito di Luigi Bacigalupo – cui plaudiamo toto corde – ora il Gruppo rinasce e siamo certi che farà risuonare il nome di Rapallo sportiva nelle competizioni nazionali e internazionali. I giovani che vogliono allenarsi ed iscriversi al Gruppo possono ogni giorno dalle 10 alle 12 portarsi allo stabilimento “Tigullio” dove Luigi Bacigalupo dirigerà gli allenamenti.”.
Questo breve “documento”, così denso di nomi e di fatti, rappresenta il prezioso ricordo di un’epoca ormai tramontata che, tuttavia, ci fa riflettere su certi valori sportivi come la passione dilettantistica, l’attaccamento ai colori sociali che hanno sempre catturato l’entusiasmo della gioventù della costa, quando ancora Rapallo disponeva dell’unico impianto natatorio fruibile, il suo splendido golfo che in estate si trasformava nell’arena dove avvenivano le famose “traversate”, gli scontri pallanuotistici all’ultimo sangue e le gare di nuoto su tracciati di cento metri che riecheggiano ancora la famosa manifestazione nazionale giovanile della Coppa Scarioni.
COPPA SCARIONI 1925 – Ordine d’Arrivo: 1° Solari, 2° Bonazzi, 4° Cuneo, 5° Mancini, 6° Costa, 7° Federici Allenatore Garbarono; degli altri atleti non si ricordano i nomi.
1951 - In piedi da sinistra: Renato Bacigalupo (Lan), Michele Truffa, Luisito Bacigalupo, Capellini, Raimondo Papadato, accosciati: Lucio Mascardi, Vittorio Vexina, Pippo Ottonello, Luigi Baracco.
“ A Rapallo de stae gh’é troppa mussa…no ghe sciörtiâ mai ûn bön nêuo” (A Rapallo d’estate ci sono troppe distrazioni….non ci uscirà mai un buon nuotatore)
Questa scellerata convinzione è stata per molti decenni l’opinione corrente dei rapallini che contavano, almeno sino all’inversione di tendenza avvenuta, per fortuna, nei primi anni settanta con la costruzione della piscina di S.Pietro (1974), intitolata, guarda caso, a Renato (Lan) e Luigi (Luisito) Bacigalupo, un grande fondista rapallese del passato, dal fisico possente che fu campione italiano dei 400 s.l. e nei 1500 s.l. (1924, 1925, 1926) e vinse moltissime gare di fondo, tra cui si ricorda ancora una sua celebre partecipazione alla traversata della Manica. Renato apparteneva per la verità ad una famiglia di grandi nuotatori e qui ricordiamo il fratello Luigi che fu campione italiano dei 1500 s.l. nel 1919. Tempi d’oro che culminarono con la vittoria della staffetta 4x200 s.l. ai Campionati italiani di Pesaro (campo-mare di 100 metri) del 1924, ed era composta dai nuotatori rapallesi Erminio Andreae, Pippo Ottonello, Lan e Luisito Bagicalupo.
La foto è del marzo 1926 e fu scattata in occasione di una gara sui 400 t. disputata in mare. Risultato: 1° Renato Bagcigalupo, 2° Luigi Bacigalupo, 3° Aldo Piazza. Negli anni successivi i fratelli Bacigalupo organizzarono, sempre a Rapallo, il “Trofeo Fratelli Bacigalupo” sulla distanza di mt. 500 in linea retta in mare, nel tratto prospiciente la passeggiata a mare. Questa gara venne anche inserita sui calendari federali spostandola però alla fine di giugno perché tutti i partecipanti si rifiutarono di gareggiare a marzo a causa dell’acqua troppo fredda.
Nell’Album d’Oro della celebre competizione internazionale del Miglio Marino di Sturla (1° Ediz.1913), oltre a Renato Bacigalupo che lo vinse per la Ruentes-Rapallo nel 1923, ricordiamo un altro grande nuotatore rapallino, Michele Truffa che lo vinse nel 1931, all’età di 18 anni. Lorenzo Marugo, futuro master della Rapallo Nuoto, firmerà per ben tre volte (1968-1970-1972) la vittoria nella prestigiosa gara Sturlina.
I nuotatori masters rapallesi compiono quest’anno 25 anni di attività
Molti di loro sono ancora “full immersion” in vasca e ciò gli dà la chance di ancorare la loro età anagrafica alla cronaca… Speciale privilegio o anomalia, quindi, di un giubileo che altrove è registrato di norma come “storia”.
Per la verità, come abbiamo visto nel vecchio articolo, un po’ della nostra “storia” esiste già perchè i masters, proprio in quel periodo, affondano le loro radici con Lucio Mascardi e poi Francesco “Uccio” Bonati e pochi altri come Lacci Bonazzi che tennero accesa la fiaccola della passione del nuoto e della pallanuoto e seppero trasferirla alle nuove generazioni.
Uno di loro, in particolare, entrò in scena nel primo dopoguerra, come personaggio “chiave” del nuoto tigullino, era il massaggiatore di professione Mario Ravera, noto con il nomignolo di MARO’, affibbiatogli per errore, come lui stesso raccontava, da una cliente di Milano e rimastogli poi appiccicato fin sulla lapide del cimitero. Marò non era un nuotatore, ma aveva il raro “talento” di capire ed insegnare il nuoto, che non era ancora “scienza”, ma era sulla soglia di grandi cambiamenti che lui fiutava, intuiva e gestiva con grande perspicacia, tanto da essere considerato - da più parti - il custode delle tecniche natatorie più avanzate a livello nazionale. Marò sfogò questa sua passione dedicando tempo e denaro all’insegnamento del “nuoto moderno” ai giovani. Alcuni di loro diventarono veri campioni.
1951 - Marò ed il suo campione Aldo Samoiedo
Marò era un rapallino vero e lo dimostrò fondando una “scuola gratuita” che non fu mai ufficialmente riconosciuta, cui iniziarono a “sbracciare”:
Luciano Zanoni, che nel 1949 vinse a Bologna il Campionato Italiano sugli 800 s.l. cat. Allievi, Claudio Balloni, Antonio Baroni (master), Lacci Bonazzi (ottimo centometrista e pallanuotista di serie A), Ginetto e Laura Canessa, Bepi Cardinale, Attilio Casareto, Pino e Carlo Gatti (pallanuotista di serie A e master), Fulvio Nobile, Aldo Samoiedo, (campione italiano, 400 s.l. nel 1951), Vito Tongiani, Corrado Villa, Carlo Zanetti (campione italiano allievi, 50 delfino Questi atleti confluirono nella Chiavari Nuoto che era allenata proprio da Marò nell’unica piscina del comprensorio del Tigullio.
Questi ragazzi vinsero per tutti gli anni ’50 titoli regionali ed italiani e parteciparono con la Chiavari N. ai combattutissimi Campionati a Squadre di serie A, che avevano luogo in vari “Concentramenti” sparsi in tutta Italia e che si concludevano in Settembre. Ma tutti i nuotatori rivieraschi di quei tempi erano penalizzati rispetto ai nuotatori genovesi (Le piscine di Albaro furono costruite nel 1936) e milanesi per la mancanza di piscine coperte, così diventò consuetudine il loro ritardo di preparazione in vista delle sfide ufficiali in calendario, ed ancora più favolosi diventarono i loro “salvataggi” per pochissimi punti a fine stagione. La Chiavari Nuoto resistette a lungo in serie “A” e ciò fu dovuto alla generale mobilitazione di tutti gli atleti della Riviera, molti dei quali sbarcavano dalle navi, altri rinunciavano a ferie, affari ecc… con l’intento di “portare punti” alla squadra.
“Che tempi?” Avrebbe detto Gilberto Govi!
Rapallo-Rappresentazione di un tipico Campo-gare degli anni ’50.
“Senza impianti non c’è lo sport” lamentava invece Marò, che vedeva lungo… e già sognava anche per Rapallo una piscina modesta, magari salmastra, un piccolo santuario appartato, ma con la giusta “atmosfera olimpica”, dove poter celebrare con sacralità la sua più amata disciplina sportiva. Ed ora concedetemi un piccolo ricordo personale:
“L’occhio del portiere te l’ha dato “Gimmi” e la Carlo Grasso, ma le gambe di un portiere di pallanuoto te le ho date io, con tutti i chilometri di rana che ti ho fatto fare!”- Mi considerava un suo “prodotto sportivo” e devo dire che se ancora oggi ho voglia di salire sui blocchi di partenza significa, forse inconsciamente, che tuttora lo onoro e lo porto dentro nella memoria e nel cuore.
A questi ricordi nostalgici, vorrei aggiungerne ancora un paio che risalgono alla fine degli anni ’70. Dopo avermi messo a posto una spalla, Marò mi disse d’aver ricevuto l’invito dalla celebre Karolinska Institutet di Stoccolma, (era l’epoca del famoso neurochirurgo Olivekrona) che intendeva inserirlo come conferenziere sulle “Tecniche del Massaggio Manuale”. Ma quanti lo seppero in città? L’umiltà di Marò era grande quanto la sua capacità professionale e, dietro quel fare e agire da “ineffabile sornione”, nascondeva soprattutto la rara capacità di capire e gestire i suoi atleti. Ne ebbi la conferma quando, passati ormai tanti anni, mi raccontò che in allenamento non diceva mai ai suoi allievi, da bordo vasca, il tempo registrato dal cronometro su una certa distanza, ma quello che “serviva” in quel momento per alzare o abbassare il tono agonistico di quell’atleta che a volte tendeva alla depressione, altre volte invece si montava la testa…..Credo che Marò usasse l’arma della psicologia in tutte le sue attività, dimostrando d’essere molto avanti rispetto alla propria epoca.
Vorrei ancora ricordare che in quei ruggenti anni cinquanta, fecero parte della Chiavari N., forse soltanto per alcune stagioni, quasi tutti i campioni d’allora: Paliaga, Massaria, Grilz, Faidiga, Prati, Caponi, che si unirono a quelli locali, Aldo Samoiedo, “Nanni” Andreatta, “Fofi” Crovetto, Sica, Cattani, i fratelli Volponi, i fratelli Monti, Ostuni, Berni (futuro allenatore della Rapallo Nuoto) oltre ai già citati “rapallini”. A distanza di tanto tempo sono ancora convinto che quei campioni furesti siano approdati al Tempio di Marò, per scoprire ed imparare le nuove tecniche del nuoto, con l’intento di migliorare ancora i loro primati personali.
In quell’ambiente ricco di forti personalità, entusiasmo e vero senso dello sport, siamo cresciuti noi, che certamente non eravamo tutti campioni in vasca, ma sicuramente lo siamo diventati nello spirito e ce lo siamo portati dentro sino alla fondazione della Rapallo Nuoto (1971) e in seguito del settore-masters, nel 1983.
Con Marò, la Chiavari Nuoto diventò “grande” e per ricordare la sua storia e onorare la memoria del suo grande allenatore, la città intitolò (nel 2003) la sua prima piscina coperta a Mario “Marò” Ravera. Ma il seme da lui gettato in quegli anni ’50 e rimasto sepolto per molti decenni, germogliò anche a Rapallo e quello spirito mai domo rinacque nella “giusta atmosfera” dei primi anni ’70, quando scoppiò la fatidica scintilla che finalmente illuminò gli amministratori locali e li convinse che le turiste straniere potevano “convivere” con gli atleti del nuoto senza produrre danni… E finalmente anche i nuotatori rapallesi ritrovarono il loro agognato Tempio del Nuoto a S. Pietro (inaugurato nel 1974) come aveva sognato Marò.
Tratto dal libro di Carlo Gatti
Carlo GATTI
Rapallo, 16.03.11
IL PICCOLO P/fo LANGANO SFIDO' LA KRIEGSMARINE
LANGANO
Un molo storico, una nave rapallina da ricordare...
Foto n.1 - Rappresentazione di alcuni piccoli velieri attraccati al Molo Langano (vedi freccia) nell’Atlante di Matteo Vinzoni del 1773. Il 4 gennaio del 1608 Rapallo passò da Podesteria a Capitanato della Repubblica di Genova e le autorità del Capoluogo decisero di spendere 700 lire per la costruzione del Molo Langano, con lo scopo di creare una protezione contro le mareggiate da scirocco. Quest’anno l’antico molo compie 400 anni e le sue spoglie sono tumulate sotto il banchinato di sottoflutto che divide i due porti turistici e che oggi si chiama Via Langano.
Foto n.2 Anni ’20- Pizzi e merletti. Sullo sfondo il Molo Langano popolato di Leudi.
Rapallo è il luogo d’origine amatissimo e mai dimenticato della dinastia COSTA, (imprenditori e armatori di grande successo), che diede il nome Langano al secondo piroscafo della neonata flotta, in omaggio al molo cittadino prospiciente la loro residenza. Da uomini di mare, abbiamo pensato di ricordare i 400 anni della costruzione del Molo Langano alla nostra maniera, con la rievocazione della storia, poco nota o forse addirittura sconosciuta, di una nave rapallina, (almeno nell’intenzione), chiamata appunto Langano che quest’anno avrebbe compiuto 80 anni d’anzianità societaria e 114 dal suo varo.
Nel 1926 - così racconta la storia navale - Giacomo Costa fu Andrea iniziò la sua attività armatoriale formando una Società in nome collettivo con sede a Genova, Portici Vittorio Emanuele n. 4, avente per scopo l’industria della navigazione del trasporto merci per via marittima. Il suo primo vapore fu il Ravenna acquistato nel febbraio 1927, ma ben presto le stive di questa piccola unità si dimostrarono insufficienti per le esigenze della Compagnia, così, nel 1928 Costa decise l’acquisto di un secondo piroscafo, il Langano che era stato costruito a Lubecca nel 1894.
Foto n.3 Una rara fotografia del Langano dell’Armatore Giacomo Costa, ripresa nel porto di Ancona. Il suo epitaffio potrebbe essere questo: Il piroscafo varato nel 1894, aveva una stazza lorda di 1267 tonnellate. Sopravvisse a due guerre mondiali e, come un umile servo, si adattò a qualsiasi mansione...ma quando fu necessario, dimostrò d’essere anche un indomito combattente. Nel 1950, dopo cinquantasei anni di duro lavoro, umiliazioni, ribellioni e tanti colpi di mare, cadde sotto i colpi del demolitore ed entrò nell’oblio della storia navale.
Con l’entrata in servizio di quest’unità, i fratelli Costa si resero conto che dopo aver sbarcato i propri fusti d’olio d’oliva, si poteva trasportare merce anche per conto terzi. Fu quindi il Langano a dare vita a quella che ieri si chiamava LINEA C. ed oggi COSTA CROCIERE, ed ebbe una vita lunghissima, perché rimase in attività con i colori della compagnia fino al 1950. Tuttavia, la fama di pietra miliare nella storia dell’armamento Costa, il Langano non se la guadagnò a parole e, per la verità, neppure per la sua avvenenza.... (vedi foto), perchè il vecchio piroscafo era un trasandato guerriero d’altri tempi che non discuteva mai gli ordini del suo capitano, ma li portava a termine da par suo. Nel lungo arco della sua vita, seppe adattarsi a qualsiasi trasporto o missione e nessuno osava fermarlo, neppure il Terzo Reich, che in fatto di controllo del territorio la sapeva lunga!
“La fortuna aiuta gli audaci!”
Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, la Flotta di Giacomo Costa era composta di otto piroscafi da carico che andarono tutti perduti nel corso delle ostilità ad eccezione, appunto, del cinquantenne Langano.
L’8 settembre 1943 fu una data infausta per l’Italia ed anche per l’anziano Ravenna che cadde sotto le bombe nel porto di Genova; per il Langano si trattò, al contrario, di un giorno di gloria che lo vide protagonista di un’autentica avventura. Si trovava in porto a Venezia e i tedeschi avevano già deciso di requisirlo, ma, proprio in quelle ore, a bordo della nave scaturì la decisione di sottrarsi nottetempo alla confisca con uno spericolato colpo di mano. Ecco come, sul giornale interno della Costa, è raccontato l’episodio:
“Macchine avanti a tutta forza!” La nave, prima che potesse essere dato l’allarme, aveva già preso il largo, diretta verso sud, con soli sette uomini d’equipaggio. Pochi, ma animosi e sufficienti perché si arrivasse fino a Malta, dove la nave fu adibita a compiti vari fino al termine del conflitto”.
Non occorre essere esperti in materia per intuire che dietro le scarne parole del citato rapporto, si doveva nascondere una realtà ben più difficile d’affrontare. La nave era lunga circa 100 metri e “violando il blocco”, se la svignò furtivamente lungo il canale veneziano della Giudecca, nel buio più totale a causa dei bombardamenti, facendo autentici slalom tra ostruzioni belliche, relitti affondati o semi-affondati. Il suo comandante fece tutto da solo, manovrando gagliardamente il vecchio piroscafo in spazi ristretti e vigilati, tra l’altro, dalle motovedette tedesche munite di potenti riflettori e adeguati mitragliatori. Lo sappiamo con certezza, perchè in quelle terribili ore che scattarono con l’8 settembre, anche i piloti portuali erano stati “requisiti” dai tedeschi.
Di fatto, il vecchio e indomito piroscafo non badò a certe formalità... ma sgusciò tra le maglie dell’efficientissima rete germanica contando soltanto sull’astuzia ed il coraggio del proprio equipaggio.
Il 9 settembre, mentre il Langano era in navigazione verso la base di Malta, tra migliaia di mine che erano state posizionate sulle principali rotte di navigazione, si consumò, com’è noto, l’immane dramma della corazzata Roma che fu colpita e affondata dalle innovative bombe telecomandate “PC 1400X” (Fritz-X) dei bombardieri tedeschi DO-217/K al largo dell’Asinara. In quei giorni il caos era totale e, nel dubbio, una nave sparava su tutto prima ancora di stabilire se il bersaglio era “friend or foe” (amico o nemico).
Qui ci fermiamo per mancanza d’altre notizie sulla fuga del Langano, ma anche per non incorrere nella facile retorica che di solito s’accompagna a certe “patrie” rievocazioni. Del resto, non abbiamo dubbi sulla capacità dei nostri affezionati lettori, nati e cresciuti sul bagnasciuga, di valutare compiutamente la portata dell’eroica “fuga del Langano”,
Ma la storia continua....
E’ curioso rilevare inoltre che, dopo la parentesi di Malta, nell’agosto del 1945, il Langano fu messo sulla linea Civitavecchia-Olbia, portando passeggeri diretti ad Olbia e pecore dirette a Civitavecchia. “Per questa linea fu richiesta la derequisizione del piroscafo “Fanny Brunner”, ma gli alleati negarono l’autorizzazione in quanto le pecore da trasferire in continente non erano adatte all’alimentazione umana.”. (Storia dei Trasporti Marittimi - Autori: Radogna, Rastrelli, Ogliari, Spazzapan...)
Con la nobile etichetta di “nave passeggeri”, il glorioso Langano continuò a navigare quando i servizi con la Sardegna erano ancora nel caos e fu adibito al collegamento fra Civitavecchia e Cagliari, trasportando migliaia di persone.
Si sa inoltre che i traffici commerciali sulle rotte tradizionali della Soc. di Navig. Adriatica per l’Egitto, il Levante e l’Egeo furono riattivati nel 1946 con le due unità noleggiate della Soc. Costa: il “nostro” Langano e la nuova motonave Federico C. (847 t.s.l.) che fu consegnata dai Cantieri del Mediterraneo nel luglio 1946. Così, duramente provata dalla guerra, la Linea C. riprese a vivere.
Terminiamo il racconto salutando con grande simpatia questa nave che batté tanti mari, quasi sempre in “burrasca meteo-politica”...Langano, un pezzetto di Rapallo, pitturato sui lati della prora e sulla poppa. mostrando a lungo e con onore la parola...
Carlo GATTI
Rapallo, 26.02.11
CARMELO DE SALVO reduce dai lager nazisti
La storia di Carmelo De Salvo
reduce dai lager nazisti
Tra il 1933 e il 1945, la Germania Nazista costruì circa 20.000 campi di concentramento destinati alla prigionia di milioni di persone. Noti con il nome di lager, erano usati per il lavoro forzato, per il transito e, fatto storicamente incontestabile, per l’eliminazione in massa dei cosiddetti “Nemici dello Stato”: comunisti, socialisti, social-democratici, Rom, Testimoni di Geova, omosessuali e persone accusate di comportamenti ritenuti asociali o devianti. La direzione dei campi di concentramento era affidata a spietati Reparti-SS che, dopo l’invasione della Polonia (7.7.1939), mantenevano costante il numero dei detenuti lasciandoli morire per sfinimento, malnutrizione, malattie o esposizione alle intemperie. In seguito, per sopprimere il crescente numero di prigionieri, i nazisti optarono per la “Soluzione Finale scientifica” che fu realizzata nei lugubri campi di sterminio a Auschwiz-Birkenau, Belzec, Sobibor, Treblinka ed altri ancora che diventarono in poco tempo vere fabbriche di morte per l’omicidio di massa a livello industriale. Chelmno-Polonia fu il primo campo di sterminio a diventare operativo l’8 dicembre 1941, ma per uccidere Ebrei e Rom era impiegato il gas di scarico, all'interno di furgoni appositamente modificati. Il diabolico progetto raggiunse, tuttavia, la sua massima efficienza con l’impiego del gas Zyclon B emesso attraverso le docce nelle famigerate camere a gas che rendevano lo sterminio “impersonale” per coloro che materialmente lo portavano a termine. A tre chilometri da Auschwitz, il lager di Birkenau fu dotato di quattro camere a gas. Nel periodo in cui le deportazioni raggiunsero la maggiore intensità, ogni giorni vi venivano assassinati 6.000 ebrei che subito dopo erano bruciati nei forni crematori. Con il martirio della Shoah, l’umanità intera scrisse direttamente, o indirettamente con il suo tragico silenzio, le pagine più efferate della storia contemporanea.
Secondo l’Ufficio Autonomo Reduci da Prigionia e Rimpatriati del MINISTERO DELLA GUERRA, al 3 dicembre 1946 rientrarono in Italia 600.000 prigionieri di guerra tra cui molti civili che erano stati strappati dalle fabbriche italiane e deportati in Germania per sostenere gli sforzi bellici del Terzo Reich. Dopo l’8 settembre del 1943, lager, campi di lavoro e fabbriche di armi furono, per lo più, le destinazioni dei nostri compatrioti che subirono in quei terribili anni violenze e umiliazioni di ogni genere. Dopo quella fatidica data, 50.000 italiani non fecero più ritorno dalla Germania e i superstiti dovettero affrontare un deludente rimpatrio fra caos e indifferenza di tanti italiani che si opposero anche con sospetto e incredulità dinanzi ai loro racconti testimoniati, peraltro, da numerosi scritti che formarono nel tempo un vero e proprio “florilegio delle malvagità”.
La storia che segue é la testimonianza a lieto fine di un nostro concittadino che si é deciso, dopo 66 anni di silenzio, a riportarla alla luce con tutta la documentazione scritta e i ricordi personali ancora vivi ed indelebili. All’epoca della sua deportazione in Germania, Carmelo di Salvo era un giovane diciannovenne di Palmi (Reggio Calabria). Oggi ha un’età difficile da definire, i suoi 88 anni contrastano con il portamento snello e giovanile; i capelli folti, ondulati e in buona parte imbiancati si armonizzano con la carnagione liscia, abbronzata e fregiata da un paio di baffetti vispi e maliziosi che destano l’invidia di chiunque, anziano o meno anziano, si aspetti ancora “qualcosa” dalla vita... Carmelo non porta quindi alcun segno delle ferite inferte gratuitamente dai suoi aguzzini nazisti durante l’Odissea che sopportò nel periodo di prigionia in Germania. Carmelo abita da molti anni a Rapallo dove vive da pensionato, coltiva un orto con tanto amore e nei suoi piccoli occhi neri e vispi si coglie lo sguardo severo e indagatore di chi ha visto più volte la morte passargli accanto con la sua ineffabile falce, e si é trovato subito dopo ancora vivo e sorpreso come un miracolato.
Carmelo, sono incuriosito soprattutto dalla vitalità e dalla serenità che emana da ogni poro ... Ha qualche segreto da svelarci?
Sono cresciuto in una realtà molto difficile, come può immaginare, ed ero completamente inconsapevole sia dei problemi politici di quei tempi, sia dei pericoli reali che avevo davanti. Ero un bravo ragazzo come tanti, tuttavia l’ambiente della mia Calabria mi costringeva ad essere sempre sulla difensiva. Non ero un violento di natura, ma dovevo dimostrare agli altri di essere un “duro”, dovevo dimostrare forza e coraggio per sopravvivere, per non farmi schiacciare dal gruppo. Bestemmiavo e facevo “cazzate” ... e solo in questo modo ero rispettato e mi salvavo dalle continue minacce e dalla violenza che da quelle parti fanno parte della vita quotidiana. La serenità che ho dentro deriva soltanto dalla mia solitaria e meditata conversione a Cristo. Mi sento un miracolato e quando l’ho capito, ho iniziato un percorso di fede che mi ha trasformato interiormente. L’odio che ho provato contro i tedeschi e tutti coloro che mi hanno fatto del male, con il tempo l’ho trasformato in amore e perdono. Sia chiaro, non ho cancellato alcun ricordo, ma ho accettato il mio destino come un dono di Dio.
Carmelo De Salvo
La fede é la vera conquista che mi sono guadagnato nei lager e oggi mi sento forte dentro. Prima di quella brutta esperienza non sapevo neppure che esistesse la fede. Oggi sono sereno e prego anche per i miei aguzzini. Questo é il motivo principale che mi ha spinto a raccontare, per la prima volta, la mia storia di prigioniero che dedico soprattutto ai giovani di oggi affinché non cadano nel tranello d’innamorarsi di certe politiche intrise di fanatismi che possono procurare solo guai come nel passato.
Carmelo, ora entriamo nel vivo della sua storia.
Chiamato alle armi nel febbraio del 1943, fui destinato al 30° Reggimento Fanteria Divisione Assietta a Rivoli Torinese. Il 4.6.43 fui assegnato al 13° Reggimento Fanteria Divisione Pinerolo. Il 7.7.43 partimmo per la Grecia e raggiungemmo Kastoria-Macedonia, dove Il 13 settembre del ‘43 fummo catturati dai tedeschi e da quel giorno cambiò la mia vita. C’imbarcarono a Larissa (Tessaglia, Nord-Grecia) stipandoci in cento soldati ogni carro-bestiame. Si dimenticarono di noi lasciandoci senza cibo e acqua per diversi giorni. La gavetta ci serviva solo per fare i nostri bisogni. A Vienna ci fecero scendere e, colpendoci come animali, ci divisero intorno ad una caldaia, ci diedero due carote, due patate, un pezzetto di pane e un po’ d’acqua. Tutto puzzava di latrina. Con lo stesso treno ripartimmo per un’altra destinazione sconosciuta. Si trattava del Campo di smistamento denominato “Stettin”. Ci divisero e ci mischiarono con Serbi, Polacchi e tanti altri, ma con il resto degli italiani ci perdemmo di vista per sempre. Mi destinarono a Schweningen nel Baden-Württemberg (45 km a Est di Friburgo) dove rimasi a lavorare tre mesi in un’acciaieria, dopo di ché fui trasferito presso la vicina Villingen. Con il numero di matricola 41665, fui destinato allo stabilimento Kaiser Uhren (ex fabbrica di orologi) che durante la guerra produceva pistoni, spolette e detonatori per mine. Sotto di noi i tedeschi sperimentavano lanci di razzi che ci tormentavano soprattutto di notte attirando i bombardamenti alleati. Rimasi due anni a lavorare come tornitore su macchine speciali. Imparai in poco tempo il lavoro da un capo officina austriaco che mi prese a ben volere per la mia facilità di apprendere il mestiere ed anche la lingua tedesca. Il padrone della fabbrica, oltre ad essere il sindaco del paese, era anche un colonnello a riposo della Wehrmacht. Vivevo in un campo di concentramento sorvegliato dalle SS che di notte giravano con i cani lupo sotto le luci dei riflettori che spazzolavano il terreno da torri di guardia unite tra loro da muri alti e filo spinato elettrificato. Mi davano da mangiare quel tanto per stare in piedi e lavorare, ma la fame era il mio incubo continuo e la paura di ammalarmi mi torturava, il lavoro era l’unica assicurazione sulla mia misera vita. “Mai di peggio” era il mio motto e tra lunghi pianti notturni, nostalgia e umiliazioni continue dovute alla spietata segregazione, vivevo alla giornata sognando la fine della guerra, la liberazione e il ritorno a casa. Ma un giorno successe un fatto grave che improvvisamente peggiorò di brutto la mia prigionia. La figlia del capo reparto austriaco si era invaghita di me, oppure le facevo soltanto pena. Fatto sta che un giorno Ingrid mi aspettò nel gabinetto del reparto, mi diede due pezzetti di pane spalmato di burro e scappò via come un fulmine. Ricordo che mangiai anche la carta unta che avvolgeva quel bene prezioso, ma fui subito assalito dal militare di guardia che si mise a urlare, mi picchiò, mi minacciò e mi portò dalle SS dicendo che ero un ladro e sabotatore. Senza neppure ascoltare minimamente le mie “bugie”, fui spedito con una camionetta, sotto scorta armata, verso il campo di sterminio chiamato Campo di Gesù dal quale era impensabile uscirne vivo. Quel campo era sinonimo di morte, rappresentava la fine di tutto e l’incontro con Gesù nell’al di là. Erano 20 baracche stracolme di militari denutriti di ogni razza. Chi si ammalava veniva ucciso nelle fosse comuni di un bosco vicino. Rimasi più di tre mesi in quell’inferno sopravvivendo con due patate al giorno ed 1 kg. di pane di segale da dividere tra 25 prigionieri. Sette metri di filo spinato ci dividevano dal resto del mondo. I prigionieri sani scavavano “fosse comuni” nel bosco da riempire di cadaveri quando il campo superava il numero stabilito d’internati. Ma non avvenivano fucilazioni. Il rito di morte era un altro. Sul fondo delle fosse, simili a trincee, erano stesi cinque fili elettrici scoperti. I prigionieri ammalati o in esubero erano spinti a calci dentro la trincea e, al segnale convenuto, era data corrente elettrica e la morte per quei poveracci era istantanea. In quel lager si diceva che era il modo migliore per congedarsi dalla vita, il più rapido per liberarsi da altre peggiori atrocità. Fui assegnato anche al trasporto dei “morituri” nelle fosse comuni nel bosco. Tra le tante bestialità cui accennavo, ricordo che due volte la settimana arrivavano medici militari per elaborare esperimenti sui prigionieri. Praticavano punture nelle gambe che subito gonfiavano come palloni. Trapanavano crani per vedere le reazioni dei centri nervosi del cervello. Sezionavano corpi vivi a scopo scientifico. Alla sera le SS si ubriacavano e scommettevano tra loro sparando con le pistole sulla fronte di prigionieri scelti a caso e legati al palo. In questo modo, ognuno di noi aspettava il proprio turno. A volte i “bersagli” erano denudati e le SS si divertivano ad aizzargli contro i dobberman. Dopo oltre tre mesi trascorsi senza speranza in quell’inferno animato da pazzi criminali, una sera si presentarono al comandante del campo due militari che chiesero, a nome della fabbrica Kaiser Uhren, la liberazione della matricola n.43. Il miracolato ero proprio io. Non fu facile. Successe un parapiglia. Nessuno era mai uscito vivo dal Campo di Gesù e la Gestapo si oppose con tutti i mezzi che aveva a disposizione. Alla fine dovette cedere perché l’ordine veniva dall’alto e più o meno recitava: “Il n. 43 é un operaio specializzato che conosce perfettamente certe macchine che producono materiale bellico molto importante per il Terzo Reich in questo momento”. Alla fine fui rilasciato e il comandante mi congedò sarcasticamente con due parole che non ho più dimenticato: “fortunello! – fortunello!”. Fu un dono del Signore, una Grazia ricevuta. Ingrid aveva pregato suo padre, capo reparto della Kaiser Uren, di convincere l’anziano Padrone, Sindaco e Collonello della Wermacht di salvarmi perché ero un insostituibile operaio di quella fabbrica. Non so se fu l’amore, la compassione o il senso di colpa a muovere quello strano ingranaggio che mi salvò la vita, sta di fatto che ora sono qui per raccontare quell’episodio. Quando ritornai in fabbrica e rividi la ragazza, fu un indescrivibile momento di commozione. Mi confessò che era stata vista consegnarmi quel famigerato pezzo di pane e per quella imprudenza le furono tagliati i capelli a zero. Io negai sempre quel suo gesto generoso e fui condannato a morte proprio perché mentii. Ricevetti anche un altro grande regalo: lo spione tedesco che mi aveva fatto deportare al Campo di Gesù era stranamente sparito. In seguito la ragazza cercò di convincermi a ritornare in Germania dopo la guerra per sposarla e condurre la fabbrica.
Finalmente arrivò il momento della liberazione, ma la delusione fu grande quanto incomprensibile. I Marocchini comandati dal Presidio Francese ci trasferirono nuovamente in un campo di concentramento costringendoci a vivere nelle stesse identiche condizioni di prigionieri. Eravamo liberi di circolare, ma era pericoloso allontanarsi dal centro cittadino perchè i tedeschi sbandati e in fuga, temendo forse che potessimo raccontare in patria le loro atrocità, ci davano la caccia. I francesi ci tennero 80/90 giorni segregati e guardati a vista. Si é saputo in seguito che intendevano dirottarci in Francia come “manodopera” in conto-riparazione-danni di guerra provocati dall’Italia alla Francia. Per tre mesi continuammo a sopravvivere come nei lager tedeschi. Ci buttavano gli avanzi dai balconi per umiliarci come fossimo cani randagi, e poi ci gettavano addosso pentole d’acqua bollente per provocare le nostre reazioni che, vista la nostra debolezza, non potevano che essere timidamente verbali. Odiammo i francesi forse più dei tedeschi perché non capivamo le ragioni di tanto accanimento nei nostri confronti. La guerra era finita e tanto odio verso di noi era del tutto ingiustificato. Non sapevamo nulla della guerra e di come erano andate le cose. In ogni caso l’Odissea terminò quando gli Americani e la Croce Rossa si fecero carico del nostro rientro e la storia si concluse quando un giorno, per me indimenticabile, si presentò un ufficiale italiano della Croce Rossa e c’informò che saremmo presto rimpatriati. Stipati come acciughe arrivammo a Milano dove fummo accolti finalmente da “cristiani”, ci schedarono e dopo le pratiche burocratiche ognuno raggiunse la propria città.
Carlo GATTI
Rapallo, 20.06.11
MATHAUSEN-RAPALLO. Storia di un Pilota genovese
Da Mathausen a Rapallo
L'INCREDIBILE STORIA DI
BENEDETTO BOZZO
PILOTA DEL PORTO DI GENOVA
Quando si parla della Seconda guerra mondiale, per noi di una certa età, si apre automaticamente l’album dei ricordi e se il discorso cade su un protagonista rapallese di grande tradizione marinara camoglina, allora l’emozione sale ed il desiderio di raccontarvela diventa insopprimibile.
1938 – Un gruppo di Piloti in uscita dal Porto di Genova. Benedetto Bozzo è il secondo da destra.
- Benedetto Bozzo nacque a Genova il 3.10.1897, ebbe il grado di S.T. di Vascello nella Marina Militare e in seguito navigò come ufficiale della Marina Mercantile. Vinse il Concorso per “Pilota del porto di Genova” - Fu nominato Aspirante Pilota l’8.8.1929 e divenne Pilota effettivo il 9.8.1930. Durante la Seconda guerra mondiale fu militarizzato ed inviato a Corinto ad esercitare il pilotaggio nell’omonimo canale.
Nei giorni successivi l’otto settembre 1943, Benedetto fu arrestato dai tedeschi e fu internato a Matthausen. Qui, dopo incredibili sofferenze, fu dichiarato idoneo soltanto per accedere alla camera a gas. Ma all’ultimo momento accadde un fatto davvero sconcertante.
Il comandante (militarizzato) Heinz Schwarzmüller della nave passeggeri tedesca “BERLIN”, che il pilota Bozzo aveva tante volte brillantemente ormeggiato a Ponte dei Mille, sotto i colpi della tramontana, lo riconobbe e a questo punto si aprì un incredibile capitolo umano.
Mathausen – Posto di Guardia
L’ufficiale tedesco aveva scalato mensilmente il Porto di Genova per tutti gli anni trenta, amava il nostro paese e parlava un buon italiano, ma quando ebbe inizio la guerra, fu richiamato sotto le armi e in breve tempo si specializzò in una materia che lo aveva visto lentamente trasformarsi in un aguzzino crudele e abbruttito dallo stesso scempio umano che si consumava nel lager austriaco che, con Auschwitz, acquisì per sempre la fama di “sentina della Storia”.
Tuttavia, in quella tragica storia dell’orrore messa in scena a Matthausen successe qualcosa d’impensabile: il comandante tedesco fu profondamente colpito dalla stucchevole coincidenza di quell’incontro con Benedetto.
Inizialmente, temendo di non poter controllare la propria reazione emotiva e cadere egli stesso nella rete delle SS con l’accusa di tradimento, pensò di passare la pratica ad un altro ufficiale, ma presto cadde vittima, a sua volta, di crescenti sensi di colpa ed invertì la rotta.
Posti uno di fronte all’altro alla presenza di un ufficiale della Gestapo, Heinz tenne un contegno irreprensibile, ma iniziò nel suo inconscio un vero e proprio ripensamento esistenziale. I primi interrogatori avvennero con la massima cautela, tra lunghe pause d’evidente sconcerto, evitando d’incrociare gli sguardi, ma dopo alcuni giorni di routine e d’approfonditi accertamenti tesi a perdere tempo… le maglie della sorveglianza dei Servizi Segreti si allentarono ed i primi segni della loro vecchia amicizia cominciarono a manifestarsi con prudenti occhiate di complicità.
Per la verità, l’ex comandante del Berlin non aveva mai condiviso, come quasi tutti gli ufficiali della Kriegsmarine, la politica del Fürher e dei suoi fedeli sgherri della Gestapo, tuttavia, confuso ed accecato dalla martellante propaganda aveva dovuto in qualche modo accettare il nuovo ruolo per sopravvivere e, suo malgrado, lo aveva fatto nascondendo la propria coscienza nella nicchia più famosa del mondo per la sua efferatezza e crudeltà.
Pieni di tristezza e stupore, Benedetto e Heinz intravidero cautamente uno sprazzo di luce che si ribellava e urlava vendetta, giustizia, amore e solidarietà in quel lager infernale che fu l’ultimo atto beffardo di un dramma assurdo, recitato in modo atroce da personaggi diabolici degni di Hitler, un paranoico che aveva inondato il mondo di pura follia, annullando il senso della vita in milioni di coscienze.
Dopo qualche giorno, l’ufficiale tedesco, pur trovandosi in una posizione di forza, cedette per primo alla commozione e trovò il modo di stringere le mani ormai scarne di Benedetto. Due uomini di mare, divisi, stanchi e provati si trovavano ancora, per ironia della sorte, uno vicino all’altro, in balia dei capricci della storia e della morte e giunse pure il momento per un abbraccio fraterno.
Tuttavia, sulla scheda di Benedetto era scritto:
“arrestato per sabotaggio contro il Terzo Reich”
Il suo destino era segnato. Costretto a sopravvivere fin dall’inizio nelle baracche di legno più malsane e debilitanti del lager, di giorno lavorava presso le miniere della zona e quando non si resse più in piedi fu programmata la sua eliminazione nella camera a gas.
Gli eventi, purtroppo, dipendevano ancora dalla follia di Hitler che proiettava la sua ombra infernale su Matthausen, dove ogni forma d’eliminazione umana era studiata e poi attuata secondo le esigenze: torture, fucilazioni, impiccagioni, tiro al bersaglio, uso di gas e quando i plotoni d’esecuzione andavano in licenza, gli internati erano lasciati morire senza acqua e cibo, offrendo di sé il disumano spettacolo di vagare nei lager senza meta, come larve umane senza peso.
Lager austriaco di Mattahusen – Baracche degli internati.
Sopra quest’indicibile sofferenza fisica e morale, improvvisamente, sbocciò un fiore. Dentro una baracca infestata di topi, insetti d’ogni tipo, fame e sete, dissenteria, odio, fucilazioni, torture e urli di dolore, si sprigionò una speranza per Benedetto.
Tutto sarebbe stato ormai deciso se il buon Dio non gli avesse inviato un “messaggero” chiamato Schwarzmüller, negli occhi del quale fece calare una luce che improvvisamente gli procurò una visione limpida e obiettiva.
Heinz si sentì improvvisamente nudo di fronte alla vita e alla morte e decise nel suo profondo di ammantarsi di questa luce che gli illuminò il cuore e la mente. Finalmente capì che dietro ad ogni prigioniero del campo di sterminio c’era un’anima umiliata come quella di Benedetto che, piccolo marinaio italiano, gli aveva salvato tante volte la nave dai danni di manovra.
Heinz eliminò ogni tentennamento, decise di prendere nuovamente il “comando” virtuale del Berlin ed accettò con gran coraggio i rischi d’affrontare la Gestapo sul suo stesso terreno, pur di salvare il suo vecchio amico italiano.
Il pilota del porto di Genova non rivelò mai a nessuno la strategia inventata e messa in pratica dal suo “salvatore”, tuttavia, Benedetto Bozzo rientrò a Genova nel 1945 e sebbene minato nel fisico, continuò a salire e scendere le biscagline delle navi fino al 6.12.1958.
Il sopravvissuto di Matthausen, già dal dopoguerra, scelse di vivere il resto della sua vita nel posto più bello del mondo, così sosteneva il pilota, e venne a vivere a Rapallo dove si spense in Via Privata Gattorno il 6 dicembre 1968.
Carlo GATTI
Rapallo, 13.04.11
Rapallo: Il TRATTATO Russo-Tedesco
RAPALLO: IL TRATTATO RUSSO-TEDESCO
(16 Aprile 1922)
A cura di Pier Luigi Benatti - Emilio Carta
Svanita la speranza di un crollo del regime sovietico, i governi francese, inglese e americano si resero conto che un piano per lo sviluppo della Russia avrebbe non solo reso possibili ottimi affari, ma fatto fare buoni affari anche alla Germania, mettendo così quest'ultima in grado di pagare le dovute riparazioni di guerra. Dall'incontro tra questo progetto e la necessità russa di macchinari ed attrezzature di ogni genere per la ricostruzione del paese, nonché dal progetto del governo sovietico di regolare le relazioni tra l'Urss ed il resto del mondo, nacque la conferenza di Genova del 1922. |
L'Imperial Palace Hotel, ove il 16 aprile 1922, venne siglato il 'Trattato di Rapallo fra la Russia e la Germania
Naturalmente i russi intuirono la possibilità di rimanere isolati di fronte al mondo capitalista e costretti quindi ad accettare condizioni poco favorevoli; così la loro delegazione (Cicerin, Ioffe, Krasin, Litvinov, Vorovskij, Rakovskij) si fermò a Berlino dove fu steso, ma non firmato, il testo di un trattato separato. A Genova le richieste alleate riguardavano i debiti di guerra russi (il Governo sovietico non li aveva mai riconosciuti), il debito pubblico e quelli privati russi d'anteguerra e, infine, la nazionalizzazione sovietica delle imprese straniere; i russi d'altra parte ricordavano ai tedeschi che il governo sovietico poteva loro chiedere le riparazioni di guerra.
Quest'ultimo argomento (probabilmente rinforzato dagli accordi segreti tra gli stati maggiori russi e tedeschi) convinse i tedeschi a trovarsi con i russi a Rapallo per firmarvi il trattato. Gli accordi postbellici, come dicevamo non hanno per nulla eliminato problemi e vecchie ruggini fra i vari Stati che continuano a ricercare assetti economici meno traballanti per pervenire ad un patto generale di non aggressione. Questo l'aspetto più saliente della crisi di quegli anni e, per trovare più solidità anche umorale, viene così convocata la Conferenza Internazionale di Genova che si apre il 10 aprile 1922.
Georgij Vasilevic Cicerin, commissario agli Esteri dell'URSS, che, unitamente a Litvinov, era a capo della missione sovietica
Sono 34 le nazioni ospitate e all'incontro delle 'Superpotenze' partecipa, e la notizia incuriosisce tutti i presenti, anche la Russia con una propria delegazione guidata da Cicerin da molti definito un 'sovversivo' messosi a tavola con disinvoltura accanto ai leaders del Vecchio Continente. In quei giorni primaverili le varie delegazioni si sistemano non solo a Genova ma anche in riviera e negli alberghi rapallesi troviamo così nove rappresentanze. Quelle appartenenti a Cecoslovacchia (33 persone), Finlandia (14), Lituania (8), sono sistemate al New Casino Hotel, quelle di Estonia (20) e Lettonia (8) all'Hotel Verdi, quelle di Grecia (25), Romania (25) all'Hotel Bristol, mentre la Jugoslavia (23) è all'Hotel Guglielmina e la Russia (90!) all'Imperial Palace Hotel. In un momento successivo sopraggiunge la delegazione della Saar che troverà alloggio allo Splendid.
Un treno speciale fa la spola tra Genova e la riviera al servizio delle varie delegazioni mentre la corazzata 'Cavour' getta le ancore davanti al Kursaal assieme ad altre unità navali. Imponente anche il servizio d'ordine. A Rapallo, almeno secondo le cronache dell'epoca, sono presenti 200 carabinieri 150 dei quali a cavallo ed una compagnia di Guardie Regie. Complessivamente i delegati presenti sono 1.254 e nutrita è la schiera degli 'inviati speciali'. Fra i maggiori giornalisti dell'epoca figurano anche Hemingway, Pietro Nenni e D'Annunzio. I lavori vanno avanti stancamente, in un clima piuttosto salottiero sino a quando i russi, con un vero e proprio colpo di mano, riescono a siglare un accordo bilaterale con i tedeschi. I plenipotenziari russi e tedeschi si incontrano infatti a Rapallo di notte e, in gran segreto, firmano un Trattato che stabilisce la ripresa delle relazioni diplomatiche fra i due Paesi.
Il Ministro degli Interi tedesco Walther von Rathenau
A firmare lo storico accordo, che prenderà il nome di 'Trattato di Rapallo', sono il ministro degli Esteri tedesco, Walther von Rathenau e il Commissario agli Esteri sovietico Georgij Vasilevic Cicerin. E' il 16 aprile 1922, giorno di Pasqua, e la firma del documento coglie di sorpresa un po' tutti, soprattutto i 200 giornalisti accreditati che - fra di loro c'era anche l'inviato Emest Hemingway - in occasione della festività avevano deciso di recarsi a Rapallo per una gita in riviera in piena libertà. E gli ospiti, sotto una fastidiosa pioggia, sono accompagnati dalle autorità rapallesi a visitare gli stands dell'Expo allestita al Trianon Palace e nell'attiguo viale Diaz, lungo il torrente Boate; poi si trasferiscono all'Hotel Bristol per un ricevimento.
L'accordo bilaterale russo-tedesco intanto, all'insaputa di tutti, è già una realtà. Von Rathenau, assai inquieto sulle sorti della Germania, è letteralmente tirato giù dal letto nel cuore della notte da von Maltzan e su invito di Cicerin lascia l'hotel genovese che lo ospita per trasferirsi all'hotel Imperiale (allora in territorio rapallese). Proprio in una sala di quell'albergo prende così definitivamente corpo quel 'Rapallo geist' (lo spirito di Rapallo) destinato a diventare il simbolo di un'impostazione politica autonoma cui negli anni immediatamente successivi si ispirarono con alti e bassi i rapporti fra le due nazioni sino all'avvento di Hitler, anche se quel 'Rapallo Geist” dimostra ancora oggi di non essersi mai spento definitivamente.
Il testo dell'accordo fa capo soprattutto alla rinuncia reciproca ai danni di guerra, al ripristino di normali relazioni diplomatiche fra i due Paesi e ad una mutua assistenza per alleviare le difficoltà economiche. Le relazioni fra Russia e Germania, riprese dopo la Rivoluzione di Ottobre, si erano infatti nuovamente interrotte nel 1918 pochi giorni dopo l'abdicazione del Kaiser, con la motivazione che l'ambasciata russa a Berlino, approfittando dell'immunità diplomatica, aveva esercitato propaganda comunista in Germania.
La cartolina ricordo della Conferenza Internazionale Economica di Genova
Il Trattato stabiliva la reciproca rinuncia a tutte le rivendicazioni finanziarie, la ripresa delle relazioni diplomatiche e consolari, il preventivo e reciproco accordo su qualsiasi questione economica (anche se risolta in linea di principio su base internazionale). Sia per il governo sovietico sia per quello di Weimar era il primo trattato equo e non imposto, la stretta di mano fra le due reiette della società europea, il loro ritorno al gioco diplomatico. In senso più lato il trattato continuò la tattica di Lenin di 'utilizzare le divisioni tra i paesi capitalisti appoggiandosi alla Germania che era (allora) il membro più debole del mondo capitalista; per la Germania bloccata nel tentativo di espansione verso ovest e verso sud era l'occasione di una pacifica espansione economica verso est. La strada intrapresa a Rapallo, se onestamente seguita, avrebbe potuto mantenere la pace nell'Europa centrale, ma anche se ciò non è stato, una parte dello spirito di quel tempo è ritornato in quella che è nota come 'Ostpolitik' tedesca.
Il Presidente della Conferenza di Genova S.E. Luigi Facta
Le cronache dei quotidiani nei giorni successivi riportano le furibonde reazioni delle altre nazioni. Il 'Corriere della Sera' del 17 aprile titola: 'Un colpo di scena alla Conferenza' mentre Pietro Nenni su 'L'Avanti' scrive: 'Una delle questioni che, a Genova, almeno, sarà seppellita con gli onori di un funerale di prima classe, è quella sollevata dalla delegazione francese circa la violazione del Trattato di Versailles che i delegati tedeschi avrebbero compiuto con la Convenzione di Rapallo'. Il commissario del popolo Cicerin al 'Chicago Tribune' rilascia invece una dichiarazione nella quale, rispondendo alla domanda se il Trattato significhi un'alleanza con la Germania afferma: «Questa è una cosa del futuro. Io ritengo questo trattato un piccolo modello per la Conferenza di Genova. Specialmente mi piacerebbe firmare un trattato simile con gli Stati Uniti».
Un'altra cartolina commemorativa della Conferenza di Genova del 1922
Lo statista russo a piedi percorre l'Aurelia sino a raggiungere l'hotel Bristol e, allo stesso modo, rientrerà poi nel borgo. Onore e 'gloria' in paese anche per il tassista rapallese Tovagliari che aveva accompagnato l'uomo politico in lungo e in largo per il Tigullio: il soprannome 'Cicerin' gli resterà appiccicato addosso per tutta la vita. L'appuntamento internazionale nel capoluogo ligure fallirà inevitabilmente il 19 maggio, anche sotto l'incalzare della Francia che chiede ostinatamente ai russi di far fronte ai loro impegni finanziari prebellici, e gli incontri proseguiranno poi in Olanda, all'Aia. Von Rathenau, due mesi dopo la Conferenza di Genova verrà invece assassinato a Berlino da alcuni estremisti di destra. Il protocollo d'intesa Russo-Tedesco del 16 aprile 1922, come detto, venne firmato in una sala dell'Hotel Imperiale, albergo che allora si trovava in territorio rapallese. I confini tra Rapallo e Santa Margherita Ligure vennero infatti modificati, con decreto reale, il 10 agosto 1928 e a partire da allora l'Imperiale entrò a far parte di Santa Margherita Ligure.
Cartoon politico realizzato da Frederic Burr Opper in occasione della Conferenza del 1922
Rapallo, 05.04.11
Rapallo: SANTUARIO DI N.S.MONTALLEGRO: Navi, Marinai e la Devozione Mariana
Il 2 Luglio 1557 apparve la Madonna a Montallegro (Rapallo) ed iniziò la Devozione Mariana nel Tigullio
Quadro Storico
Riforma e Controriforma
Il sacco di Roma del 1527 inferse un colpo molto duro a tutti i cattolici del mondo ed in particolare al Vaticano come centro della Cristianità, ma la Riforma Protestante che dilagava in quegli anni nell’Europa settentrionale, sconvolse ancor più in profondità lo scenario religioso poiché ruppe l’unità del Cristianesimo e rappresentò una sfida contro la Chiesa Romana, la sua organizzazione e i suoi dogmi. Com’è noto, ad azione corrisponde una reazione uguale e contraria! Infatti, Martin Lutero produsse uno scossone vigoroso all’interno delle strutture ecclesiastiche cattoliche, ma i “gagliardi” Papi dell’epoca risposero all’offensiva luterana con il Concilio di Trento che durò ben 18 anni, dal 1545 al 1563. Da questa lunga e meditata riflessione nacque la Controriforma che non si limitò soltanto alla difesa e alla definizione dei dogmi del Concilio, ma definì anche le linee d’azione che avrebbero proiettato una nuova luce, non solo spirituale, su tutto il Cattolicesimo nel mondo. Si aprì quindi un ampio scenario, in cui furono battezzati nuovi ordini religiosi: Teatini, Somaschi, Barnabiti, Scolopi ecc… ma, tra loro, furono particolarmente dinamici e incisivi l’Oratorio di S. Filippo Neri e la Compagnia di Gesù, fondata da Sant’Ignazio di Loyola. Questi due movimenti, così diversi nelle loro prospettive, esercitarono una profonda influenza nella composizione di un nuovo assetto strategico e da quel momento, anche le ricerche artistiche seguirono il nuovo orientamento emerso dalla Controriforma che, per la verità, era già in atto prima del Concilio di Trento, operando fortemente sugli animi e generando intensi e spesso tragici dissidi religiosi e spirituali. Una ventata d’aria fresca era quindi già calata sull’attività artistica figurativa, non tanto attraverso prescrizioni e diffide, quanto soprattutto attraverso il perenne conflitto tra il mai domo paganesimo e lo spirito cristiano, fonte spesso di compromessi e di pietismo religioso.
“Per due generazioni, il clima di Roma fu austero, antiumanista, antimondano, perfino antiartistico” (Wittkower).
Nasce l’Arte della Controriforma ed un nuovo modo di pregare
In definitiva, si può affermare che, alla grande portata storica del movimento riformistico si deve una serie di innovazioni, iniziative e normative che furono alla base di una vera rivoluzione che andò a toccare e a modificare nel profondo molti campi e citiamo, per l’occasione, quello dell’arte visiva ecclesiale. L’aggancio al Barocco fu inevitabile ed avvenne per opera dei Gesuiti che si affacciarono alla storia in modo provvidenziale, apportando una fiammata di genio razionale che si coniugò alla perfezione con la rinascita di una fede rinnovata. Furono persino coniati i termini, tuttora in discussione, di Arte dei Gesuiti, e Barocco come espressione della Controriforma. Le arti figurative ispirate agli episodi del Vangelo dovevano assumere un carattere chiaro, semplice e comprensibile a tutti; dovevano essere realistiche e suscitare uno stimolo emozionale verso la pietà. La Chiesa Cattolica poteva così contare su un sistema raffinato e sicuro di espressione artistica e religiosa capace di rappresentare l’invisibile. Il Santuario della Controriforma doveva avere preferibilmente una sola navata, una cupola, due campanili. La ricca e coloratissima scenografia dell’abside, del presbiterio e gli affreschi della cupola dovevano rapire il fedele e renderlo partecipe della divina rappresentazione. Nel precedente periodo Rinascimentale, tra il “sacro” raffigurato sulle pareti della Chiesa e la platea dei fedeli, esisteva un sipario, una specie di diaframma psicologico che confinava la comunità religiosa ad una distanza planetaria, a causa di quella severa purezza pittorica, da quella marcata perfezione stilistica di “maniera” (accademica) che era ostentata dall’alto. Con i nuovi orientamenti tridentini, quelle barriere visive e psicologiche che si frapponevano tra il cielo e la terra, saranno definitivamente abbattute per favorire l’introduzione di un nuovo rapporto di dialogo diretto, intenso e ravvicinato tra la Gerarchia Celeste e il popolo dei credenti. I pellegrini avranno libero accesso a partecipare, senza mediazione, alla rappresentazione dei racconti evangelici e si troveranno coinvolti e immedesimati nella sceneggiatura, per esempio, dell’emozionante Apparizione della SS.Vergine, oppure dell’immensa pietà della Dormizione della Vergine e della Sua gloriosa Assunzione. Da asettico spettatore di eventi eccezionali, ma freddi, il pellegrino si trasformerà in attore vero, capace di tensione ascetica e profonda partecipazione. Il suo duplice obiettivo sarà quello di tracciare un nuovo percorso spirituale e riporvi dentro l’emozione del dialogo avvenuto con il Divino. D’ora in poi i suoi strumenti saranno le preghiere recitate ad alta voce in comunità ed i canti corali che saliranno dagli spartiti e si diffonderanno come il profumo forte e al tempo stesso delicato dell’incenso.
Nuovi Baluardi a difesa della fede e della teologia
Alla Riforma Protestante, voluta e condotta con gran determinazione dal suo principale paladino Martin Lutero, dobbiamo quindi, paradossalmente, la costruzione dei Santuari Mariani che costellano le nostre colline. Infatti, la Riforma luterana negava a Maria il titolo di mediatrice, riservandolo solo a Cristo. “Per Lutero, che pur si rivolgeva alla Vergine chiamandola – Nostra Madre – e ne riconosceva la perpetua verginità, era accettabile il concetto che la Madonna pregasse per l’umanità, ma non si doveva invocarla per non correre il rischio di cadere nell’idolatria”. (G. Meriana) Si comprende facilmente come, partendo da posizioni di questo genere, si arrivasse a mettere in discussione il punto cardine su cui si fondava il Culto della Madonna tra i cattolici, che vedevano in Lei la mediatrice di grazie temporali e spirituali e come tale la veneravano nei Santuari con grande devozione. Genova, tradizionalmente occupata a curare gli interessi economici che ruotavano attorno al suo grande porto, era scoperta alle infiltrazioni luterane transalpine provenienti da Lione e Ginevra. Le nuove idee religiose s’insinuavano subdolamente al seguito dei maggiori commercianti dell’epoca, ed alcune tra le più importanti famiglie di nobili della Repubblica: Agostino Centurione, Orazio Pallavicino, Giacomo Fieschi ed altri… cedettero, in qualche misura, al fascino “protestante” di Calvino, Zwingli ed ovviamente Lutero. Ci furono anche processi pubblici, cambi di residenza, alcuni rapidi “ripensamenti”…e la “rivolta” rientrò presto nella normalità.
Foto n.1 - Il Santuario di Nostra Signora di Montallegro, che noi rapallesi abbiamo alle spalle, rientrava proprio in quella bianca schiera di 44 insormontabili baluardi di fede che furono costruiti lungo la cintura delle Prealpi, con il compito di rappresentare le vigili sentinelle nelle località più esposte all’influenza del mondo protestante.
La prima cappella fu subito costruita sul luogo dell’ Apparizione della SS. Vergine a Giovanni Chichizola, proprio in quel periodo tanto travagliato per la Chiesa Cattolica. Montallegro è lo spazio occupato dall’altare del Santuario dov’è avvenuto il “Sacro Evento”.
Mons leti, per alcuni è il “Monte della Morte” che si riferisce alla sconfitta dei Romani avvenuta nel 168 a.C. da parte dei Tigulli che provocò la morte del Console Quinto Petilio.
Mons laetus, per altri significa l’esatto contrario, “Monte di Gioia” per il dono dell’Apparizione e del senso di protezione divina che gratificò i rapallesi da quel fatidico giorno. Nel tempo, i cittadini di Rapallo vollero trasformare quella semplice e rustica pieve montana nel magnifico Santuario dall’inconfondibile facciata bianca marmorea che, simile a una diga voluta dalla “provvidenza”, protegge ancora, a distanza di 450 anni, la fede nelle nostre vallate.
Una Icona bizantina per - “mano divina” - approda misteriosamente sul Monte Leto
Maria, a conferma della sua misteriosa visita sul monte Leto, lasciò una piccola ICONA bizantina (cm. 18x15) che raffigura la Sua Dormizione e Transito.
“Questo è il mio riposo per sempre: Qui abiterò perché l’ho desiderato”….” Dì loro che Qui voglio essere onorata”. (Anonimo dal “IV Centenario dell’Apparizione della Madonna a Montallegro (1557-1957).
Foto n.2 - L’Icona, riflesso della presenza divina
E’ noto a tanti assidui pellegrini mariani, come sia sorprendente la somiglianza tra l’iconografia ortodossa della Vergine e numerose Sue Apparizioni. Qui ne vogliamo ricordare alcune.
Nel 1871, la Madonna apparve a cinque ragazzi di Pontmain, nella Mayenne (Belgio). Uno dei piccoli veggenti Eugene Barbedette affermava di non aver mai visto icone ortodosse. Non era che un povero contadinello, che ignorava persino l’esistenza della Russia. Sottoposto all’esame di numerose immagini della Vergine non trovò alcuna somiglianza con la Signora; in seguito, l’abbé Barré ebbe l’idea di sottoporgli l’icona della Madonna di Genazzano (località non distante da Roma), ed il ragazzo non ebbe la pur minima esitazione nel puntare il dito su molti particolari di perfetta somiglianza. Ma quel che forse è meno noto, sono le reazioni che ebbe Bernadette Soubirous, la piccola veggente di Lourdes, quando le si domandava a chi somigliasse la Vergine che lei aveva visto. Le furono mostrati dipinti di Raffaello, Murillo ecc…ed ebbe un sobbalzo di meraviglia soltanto quando vide l’icona della Vergine di Cambrai e urlò: “E’ Lei!” Ancora più sorprendente fu l’Apparizione di Gesù stesso, all’umile religiosa polacca Faustina Kowalska la prima domenica di Quaresima il 22 febbraio del 1931. “Gesù mi disse”: - La mia immagine nella tua anima esiste già. Voglio che questa icona, (dell’Amore Misericordioso) da te dipinta con un pennello, venga solennemente benedetta la prima domenica dopo Pasqua -
La Magia spirituale delle Icone
Un monaco del celebre Monastero che svetta sul monte Kikkos (Isola di Cipro), ci spiegò che le icone adempiono a una triplice funzione come strumento di insegnamento teologico, di contemplazione mistica, di partecipazione liturgica. “Non è l’icona opera d’arte, che è bella, ma è bella la sua verità spirituale, che è sprigionata in immagini dalla pittura, com’è rivelata in parole dalla Sacra Scrittura”. “Poiché l’icona attesta una presenza – spiegava – pregare davanti all’icona della Theotokos significa entrare in contatto con la Madre di Dio. L’icona soltanto la sostituisce e ne mantiene il fascino misterioso, perché l’arte iconografica, pur essendo figurativa e non astratta, non ha nulla in comune con il ritratto”. “Per mezzo dei miei occhi carnali che guardano l’icona la mia vita spirituale si immerge nel mistero della Incarnazione”. (Giovanni Damasceno) Oggi, grazie alle ispirate aperture ecumeniche del Concilio Vaticano II, il mondo cristiano Ortodosso e quello Cattolico, hanno trovato un punto d’incontro proprio nella spiritualità e la venerazione delle Icone. Oggi, non c’è cattolico che non abbia visto o sentito parlare della Icona della Madonna di Wladimir dei russi, della Icona della Madonna Nera di Czestochowa, della Icona Hodighitria, forse la più conosciuta essendo la copia dell’originale attribuita a S.Luca, e che non ha mai lasciato Costantinopoli, la Kykkiotissa di Cipro ed infine quelle del Monte Athos con le numerose altre sparse in tutta la Grecia, Bulgaria, Serbia ecc…
Alcuni Cenni sull’evento della Dormizione e Transito di Maria SS.
Dal libro “Ipotesi Su Maria” di Vittorio Messori, citiamo: “…stando al Credo cattolico l’Immacolata Madre di Dio, sempre Vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste - in anima e corpo –“Queste sono le parole del dogma dell’Assunzione, definito e proclamato da Pio XII solo nel 1950 ma creduto, nel suo oggetto, sin dai tempi dei Padri della Chiesa sia in Oriente che in Occidente. La festa della Dormizione, che ha in nuce l’Assunzione della Vergine Madre, è probabilmente la più antica delle feste mariane che uniscono la Chiesa universale”. Le versioni storiche che ci vengono tramandate sulle ultime ore terrene di Maria SS. sono numerose e quindi vengono sempre precedute dal termine “secondo la tradizione”. Sicuramente quella di S. Giovanni il Teologo, ossia l’Evangelista, è per noi la più toccante. Anche sul luogo della Dormizione e Transito di Maria SS. esiste almeno una doppia versione: - Quella di Gerusalemme: …gli Apostoli trasportarono la lettiga e deposero il suo corpo santo e prezioso in una tomba nuova del Getsemani. (S. Giovanni l’Apostolo-Teologo). Infatti, a pochi passi dal celebre Orto degli Ulivi presso il Getsemani, esiste la chiesa che racchiude il sepolcro vuoto di Maria SS. la quale è meta ogni anno di milioni di fedeli. Come si legge nei Vangeli, l’Apostolo Giovanni visse e morì ad Efeso. Anche gli Atti del primo Concilio di Efeso (431 d.C.) parlano di una casa in cui sarebbe vissuta la Madonna, situata nei pressi della Chiesa chiamata Doppia Chiesa di Maria e che fu sede del Concilio stesso. Questa seconda versione suscitò grande interesse quando una suora tedesca, stigmatizzata, Catharina Emmerich (1774-1824), mai mossasi dalla Westafalia, perché inchiodata ad un letto, preda d’indicibili sofferenze, descrisse con esattezza una località vicino ad Efeso in cui, una piccola casa era indicata come quella della Madonna. In effetti, nelle sue visioni, la suora disse: “Dopo l’Ascensione di N.S. Gesù cristo, Maria visse tre anni a Gerusalemme, tre a Betania e, infine, nove a Efeso……e qui si era stabilita la Santa Vergine”. Seguendo le indicazioni emerse dalla visione di suor Caterina, il frate lazzarista Eugene Poulin trovò le rovine di una piccola costruzione e di altri edifici che gli archeologi fanno risalire, con tutta probabilità, al tempo di Maria. Le visite che i pontefici Paolo VI (1967), Giovanni Paolo II (1979) a Benedetto XVI (2007) fecero a questo edificio sembrano dirimere le perplessità, motivate da valutazioni storiche, che avevano sino ad allora accompagnato la veridicità della presunta dimora della Madonna, certamente la seconda nella quale visse la Madre del Cristo, dopo la Crocefissione. La Casa di Maria, trasformata da monaci francesi in Cappella a croce greca, sorge nei pressi di una sorgente curativa e costituisce una meta frequentata di pellegrinaggi sin dai tempi più remoti, essendo l’immagine della Madonna venerata non solo dai Cristiani ma anche dai Mussulmani. Concludiamo questa breve ricerca sulla Dormizione e Transito della Vergine SS. con una riflessione sulla piccola Icona di Montallegro. Ciò che più ci ha colpito di questo piccolo “legno sacro” è la sua originalità, forse unicità al mondo nella rappresentazione dell’Evento.
“A sostenere Maria che rinasce alla vita non è solo il Figlio che Lei ha generato, come appare in tutte le altre icone conosciute, ma la Trinità che l’ha generata”.
(Dalla Mostra sulle Icone dedicate alla Dormizione e Transito di Maria esposte nel Santuario a ricordo dei 450 anni dall’Apparizione).
Origini della Tradizione Devozionale Alla Vergine Maria SS.
Accostandoci più da vicino a questo mondo affascinante e di rara suggestione ci siamo accorti che il Culto Mariano affonda le sue radici, unico caso nell’umanità, nei secoli precedenti la sua stessa nascita; perché il primo profeta d’Israele Elia (IX secolo a.c.), dimorando sul Monte Carmelo (giardino-paradiso di Dio), ebbe la visione della venuta della Vergine, che si alzava come una piccola nube dalla terra verso il monte, portando una provvidenziale pioggia, salvando così Israele da una devastante siccità. In quella piccola nube, tutti i cristiani hanno sempre visto una profetica immagine della Vergine Maria, che portando in sé il Verbo divino, ha dato la vita e la fecondità al mondo.
Tuttavia, la devozione alla Vergine Maria SS. è nata con un certo ritardo e soltanto dopo il Concilio di Efeso del 431, quando furono condannate le tesi di Nestorio, secondo cui Maria era madre di un uomo, non di Dio e le venne riconosciuto il titolo di “Dei Genitrix”. A celebrare questo importantissimo avvenimento ci pensò papa Sisto III (432-440) il quale fece costruire il primo santuario della cristianità sul colle dell’Esquilino a Roma. Da quell’approvazione, il culto di Maria si diffuse velocemente in tutte le direzioni come il più bel fiore di quel giardino di Dio, che divenne la Stella Polare, La Stella Maris del popolo cristiano. Le interpretazioni che sono state date sul significato del nome Maria sono davvero numerose. Una di queste, che a noi uomini di mare piace molto, fu data da San Girolamo che faceva risalire Maria alle parole ebraiche mar (goccia) e yam (mare), in latino stilla maris (goccia del mare) che, grazie ad una trascrizione errata divenne stella maris, cioè “Stella del Mare” che è rimasta una delle principali invocazioni alla Madonna.
Foto n.3 - Madonna del Carmine chiamata in soccorso dai naufraghi
L’Ordine Carmelitano partito dal Monte Carmelo in Palestina (Haifa) dove è attualmente ubicato il grande monastero carmelitano “Stella Maris”, si propagò in tutta l’Europa. Alla Madonna del Carmine, come è anche chiamata, sono dedicate chiese e santuari un po’ dappertutto. Essa, per la promessa fatta con lo scapolare, è onorata anche come “Madonna del Suffragio” e a volte è raffigurata che trae dalle fiamme dell’espiazione del Purgatorio le anime purificate. Nel secolo d’oro delle fondazioni dei principali Ordini religiosi cioè il XIII secolo, il culto per la Vergine Maria ebbe dei validissimi devoti propagatori: i Francescani (1209), i Domenicani (1216) i Carmelitani (1226), gli Agostiniani (1256) i Mercedari (S.Romualdo1218) ed i Servi di Maria (1233), a cui nei secoli successivi si aggiunsero altri Ordini e Congregazioni, costituendo una lode perenne alla comune Madre e Regina.
La più comune raffigurazione della Madonna dei naviganti, con le dovute varianti artistiche, proviene dalla chiesa di San Nicolò a Capodimonte, che si trova sull’impervia quanto suggestiva mulattiera sul versante di Punta Chiappa, che è di stile e costruzione romanica, anche se la tradizione fortemente radicata, la ritiene innalzata su una Cappella voluta dal Vescovo San Romolo nel 345. Dopo l’abbandono del XVI secolo, la chiesa è stata restaurata nel 1870 e successivamente, durante il recupero di strutture e motivi decorativi originari effettuati tra le due grandi guerre, sono emersi antichissimi affreschi fra cui una raffigurazione della STELLA MARIS che testimonia quanto sia antica la devozione dei marinai già a partire dall’alto medioevo.
Foto n.4 - Madonna “STELLA DEL MARE” venerata a bordo delle navi
Nel secolo scorso furono costituiti a Dublino, Londra, New Orleans, Filadelfia e Sidney i primi Seamen’s Clubs per marittimi cattolici ed il più importante fu quello di Montreal, fondato il 18 maggio 1893. Il 4 ottobre 1920 a Glasgow fu creato l’Apostolatus Maris Commitee, che ha per stemma un’ancora intrecciata ad un salvagente recante al centro il cuore di Gesù (vedi foto ). Tra gli obiettivi dell’organizzazione c’è quello di mettere in relazione tra loro i clubs esistenti e tra le iniziative prese c’è la realizzazione di alcuni centri di servizio e di preghiera, visita alle navi ed assistenza spirituale ed anche materiale ai marittimi.
Foto n.5 - Stemma dell'Apostalato del Mare
Il 25 gennaio 1932 nasce a Genova l’Apostolato del Mare in Italia. La direzione del Centro viene affidata dall’allora Arcivescovo Cardinale Minoretti alla Società di S.Vincenzo De’ Paoli, che per l’occasione fonda la Conferenza Stella Maris con sede in Via del Molo, all’ultimo piano di un vecchio palazzo nobiliare. Nel corso del 1932 sono quattordicimila i marittimi che passano dal ritrovo di Via del Molo.
L’ultima grande esternazione d’affetto e di considerazione verso la gente di mare si ha il 31 gennaio del 1997, quando il Santo Padre rivolge ai naviganti un “motu proprio”, in cui l’attualità ed il ruolo dell’Apostolato e delle Stelle Maris nella diffusione del Credo e dei principi cristiani nella società contemporanea viene perfettamente evidenziata:
“Stella Maris – sono le parole di Giovanni Paolo II – è da lungo tempo l’appellativo preferito con cui la gente di mare si rivolge a Colei nella cui protezione ha sempre confidato: la Vergine Maria.
Gesù Cristo, suo figlio, accompagnava i suoi discepoli nei viaggi sulle barche del tempo e li aiutava nelle loro fatiche e calmava le tempeste. Così anche la Chiesa accompagna gli uomini del mare, prendendo cura delle peculiari necessità spirituali di coloro che, per motivi di vario genere, vivono ed operano nell’ambiente marittimo”.
Votum fecit, gratiam excepit
Gli uomini di mare sparsi nel tempo, dalla preistoria ai giorni nostri, hanno sempre avuto un nemico in comune che resta immutato per la sua forza esplosiva e travolgente: la tempesta! Sebbene piccole, medie e grandi navi, tutte altamente tecnologiche ed automatizzate, solchino oggi i sette mari con grande disinvoltura, le statistiche, purtroppo, ci dicono che il numero dei naufragi, oggi, è sempre altissimo. Duemila anni fa i marinai si difendevano dai fortunali navigando in Mediterraneo soltanto nei mesi buoni tra la primavera e l’autunno e quando potevano, soltanto di giorno e in vista della costa.
Oggi le difese del marinaio sono scritte ed imposte dalle leggi sulla sicurezza della navigazione che sono approvate e rispettate da “quasi” tutto il mondo. Nell’avverbio virgolettato c’è la chiave di lettura del fenomeno che in mare si chiama deregulation e i naufragi avvengono non soltanto a causa delle tempeste, ma anche per gli incendi, le esplosioni, le collisioni e per l’impreparazione e l’insufficienza di personale qualificato.
Da questo quadro a tinte fosche è facile ora passare ad altri tipi di quadri che vanno ad arricchire lo stesso tema e precisamente quelli: Per Grazia Ricevuta, che continuano a salire e fissarsi ai muri dei Santuari Mariani che costellano le nostre coste per testimoniare l’incrollabile fede della gente di mare.
Prima del Cristianesimo, ex-voto in terracotta o legno, indirizzati a divinità anche minori, come la dea Mefite, sono stati ritrovati durante scavi di siti archeologici. In epoca romana, raccontano Virgilio, Cicerone, Orazio e Tibullo, i marinai usavano appendersi al collo tavolette votive dipinte, rivolte a Iside, dea che proteggeva dalle tempeste, ma anche a Nettuno, Castore e Polluce, numi protettori dei naviganti.
I naviganti credono in Dio anche quando, in certi frangenti, lo trattano a male parole, consci della propria debolezza, della paura e quindi del sentirsi abbandonati dal Supremo che tuttavia cercano con forza e con rabbia, per richiamare la Sua attenzione, per sentirlo vicino in quella natura ostile, a volte selvaggia che minaccia la loro esistenza. Poi, quando la tragedia è vicina, l’ultimo pensiero vola, sotto forma di preghiera e richiesta d’aiuto, verso la madre anzi, alla grande Madre di tutti, alla Vergine Misericordiosa, ultima speranza, ultima spiaggia d’approdo e di salvezza.
Alberi spezzati, prue ingavonate, lance di salvataggio travolte dai marosi, scogliere infernali, annegamenti, infortuni e naufragi, sono i ricordi degli scampati pericoli che rimangono incisi nella mente e negli occhi del sopravvissuto e che vengono tradotti in opere votive in legno, in acquerelli, in dipinti a tempera, ma anche su metalli pregiati. Gli ex-voto nascono così, da incubi vissuti che spesso vengono descritti ed affidati a dei veri artisti, pittori di navi, che ben conoscono l’arte della costruzione navale e sono quindi in grado di ricostruire fedelmente la scena apocalittica del disastro.
Altre volte invece sono opere semplici o addirittura infantili che testimoniano tuttavia il desiderio dell’autore di stabilire un legame autentico, esclusivo con Maria, per offrirLe un dono semplice che assomigli ad una preghiera che sgorga dal cuore senza alcuna mediazione.
Continuando ad esplorare in questa forma di devozione probabilmente coeva alla prima nave, ci siamo imbattuti anche in un ex-voto per grazia ricevuta, molto particolare: la Basilica di S.Giovanni Evangelista di Ravenna, fatta erigere da Galla Placidia come ringraziamento per essere scampata insieme al figlio, alla tempesta che investì la nave sulla quale si trovava durante un viaggio tra Ravenna e Bisanzio.
La tavoletta votiva è apparsa, in tutte le epoche, su tutte le sponde del Mediterraneo e persino nel vicino oriente ed è conosciuta anche altrove, specialmente nelle zone confinanti con l’Italia. Essa rientra in quella che è genericamente definita “arte popolare” e rappresenta una vera e propria miniera d’informazioni attraverso le quali è possibile seguire, ad esempio, l’evoluzione della nostra marineria.
Su disegni che datano dal XVI secolo in poi, vediamo rappresentati i trabaccoli, le galere e le galeazze, le saettìe, le tartane, le polacche, le felucone, le bombarde e quindi i brigantini, le navi ed i brigantini a palo, seguendo i progressi dell’architettura navale, fino alla raffigurazione di battelli a vapore che entrano in collisione con navi a vela, quasi a sottolineare il definitivo passaggio epocale, dalla vela al motore.
La tecnica seguita per la realizzazione delle tavolette votive è in genere pittura ad olio su tavoletta lignea; talvolta si è visto un acquerello su carta incollato poi sopra la tavoletta. Nel ‘700 fu molto usata la tela mentre, dal secolo scorso, sono stati introdotti altri materiali come lo zinco, il cartone, la masonite, il vetro. La grazia richiesta o ricevuta viene rappresentata in due o tre scene successive, sullo tesso disegno, e la posizione della divinità che intercede, - in genere la Madonna – è sempre nella parte alta, talvolta al centro, ma più frequentemente ad uno dei due angoli della tavola; nel ‘500 e nel ‘600 si usavano le formule V.F.G.A. oppure V.F.G.R. “Votum fecit et graziam Accepit o Recepit” disegnate in genere in basso a sinistra e ripetute tante volte quante sono state le grazie. Nei secoli successivi è stata usata la sigla P.G.R. o P.G.O. “per grazia ricevuta o ottenuta”.
Questa breve introduzione ci ha permesso d’entrare, con il dovuto rispetto e un po’ più consapevoli, nel mondo degli ex-voto che è ben rappresentato nel nostro Santuario di Montallegro che ne ospita qualche migliaio ed una parte notevole è dedicata alla Madonna dai marinai di Liguria a testimonianza della fede e della loro tradizione marinara a partire proprio da quel luglio 1557, anno dell’Apparizione della Vergine al popolano Chichizola, del quale ricorre quest’anno, come abbiamo già visto, il 450esimo anno.
NARCISSUS, IL VELIERO CHE NON VOLEVA MORIRE
Abbiamo scelto questa nave “speciale” così carica di ricordi letterari e nautici per compiere insieme a voi il primo tragitto tra le migliaia di “ringraziamenti” che sono giunti ininterrottamente come il flusso zampillante di acqua miracolosa che la stessa Vergine lasciò sul luogo della Visione quel 3 luglio 1557. Il quadro del veliero Narcissus che si trova nel Santuario di Montallegro non è diverso dai tanti ex-voto che si ammirano nelle pinacoteche della devozione tra le due riviere, ma la sua presenza nell’immaginario collettivo, richiama alla mente mari scatenati, calme equatoriali e la sottile psicologia di tanti personaggi descritti magistralmente dal più grande scrittore di storie di mare Josef Conrad, che proprio su quella nave imbarcò una prima volta da marinaio e poi da ufficiale di coperta con il brevetto di capitano di lungo corso che ottenne nel 1884. Quando Conrad lasciò il navigare nel 1894, s’immerse ancor più nel suo mondo marinaro e per trent’anni scrisse i suoi romanzi, saggi e racconti, fra i quali eccelle “The nigger of Narcissus”, Jimmy, il negro che si arruola a Bombay pur sapendo di essere afflitto dalla tubercolosi; Singleton il vecchio lupo di mare inglese, rispettoso delle leggi marinare e dei canoni della tradizione; Belfast il marinaio astuto come una volpe; Donkin il marinaio ribelle e poi gli ufficiali, il molto inglese Capitano Allistoun, calmo e indifferente, il Primo Ufficiale Baker, che desidera il comando più di ogni altra cosa, ma sa di non poterlo raggiungere…. Queste figure oggi sembrano uscite da un mondo immaginario, eppure sono reali e perfettamente aderenti a quel mondo della vela che, purtroppo, è stato velocemente superato dal progresso tecnico-scientifico e quasi dimenticato. - Scrive Conrad – “Il Narcissus era nato tra i vortici di fumo nero, fra lo squillo dei martelli che battono il ferro, sulle rive del Clyde. Sotto quel cielo grigio, su quel fiume rumoroso, vedono il giorno splendide creature che vengono al mondo per essere amate dagli uomini. Il Narcissus era di quella stirpe perfetta. Meno perfetto, forse, di tante altre navi, ma incomparabile perché era nostro e noi ne andavamo orgogliosi”. Varato a Glasgow nel 1875, il Narcissus navigò quasi sempre nei mari orientali e soltanto nel 1899 fu acquistato da Vittorio Bertolotto (1854-1934) ed impiegato sempre oltre i Capi. V. Bertolotto fu una delle maggiori figure armatoriali di Camogli, figlio del professor Lazzaro, patriota del Risorgimento, amico di Garibaldi e poi preside del Nautico di Camogli.
Foto n.6 - L’Ex-Voto, olio su tela, di cm 87x67 dell’artista G. Roberto rappresenta il Narcissus in grave difficoltà nel passaggio del terribile Capo Horn, durante il quale l’equipaggio e la nave si salvarono miracolosamente per intercessione della “Vergine Santissima di Montallegro” il 22-23 .9.1903.
La didascalia del quadro riporta la posizione geografica dell’avvenimento e i 12 nomi dell’equipaggio che offrono “in ringraziamento questo ricordo alla V.SS. di Montallegro (Rapallo) – Genova marzo 1904”. Se è vero che un veliero su quattro naufragava a Capo Horn, pensate quante navi sono state salvate con la costruzione del Canale di Panama avvenuto nel 1914!
Il 17 gennaio 1907, il Narcissus partì da Saint Louis du Rhone (Marsiglia) diretto a Talcahuano in Cile con un carico di gesso. A Capo Horn incappò in una violenta tempesta e dovette, per le gravi avarie riportate, ripiegare penosamente su Rio de Janeiro che raggiunse il 19 maggio successivo. Fu dichiarato “relitto” e perciò venne “abbandonato” alla Società Assicuratrice, la Mutua Assicurazioni Marittime Cristoforo Colombo di Camogli, presso cui il Narcissus era assicurato per lire 93.700. Ci fu uno strascico giudiziario che si risolse in questi termini: “la società assicuratrice contestava la legittimità della dichiarazione di abbandono della nave, che invece venne pienamente riconosciuta, con tutte le conseguenze in favore dell’armatore Bertolotto, dalla Corte d’Appello di Torino”. Rientrato in Italia, il veliero fu disalberato ed adibito a pontone nel porto di Genova. Nel 1917 fu riarmato e, con il nome di Iris venne iscritto al dipartimento marittimo di Rio de Janeiro dove, il 14 gennaio 1922, venuto a collisione con un’altra nave, affondò. Ancora una volta venne recuperato e tornò a navigare finchè, tre anni dopo, nel 1925, il suo proprietario falliva ed in tale frangente la nave, che fu nota nel mondo come Narcissus non ce la fece proprio a sopravvivere e dovette rassegnarsi alla demolizione, dopo ben 50 anni di vita, un vero record! La sua polena è attualmente conservata nel porto di Mystic, nel Connecticut.
Il Voto del Raguseo: Lasciamo il veliero Narcissus, il più celebre tra gli Ex-Voto marinari del Santuario di Montallegro, e proseguiamo il nostro itinerario devozionale incontrando oggi il più antico e forse il più “chiacchierato” tra gli omaggi Per Grazia Ricevuta alla SS. Vergine. Si tratta di una lamina d’argento offerta dal capitano di mare Nicola Allegretti di Ragusa (l’odierna Dubrovnik-Croazia meridionale) che, scampato miracolosamente al naufragio del suo non specificato veliero su Punta Mesco, a causa di una terribile burrasca da libeccio, trovò rifugio nel golfo Tigullio e si recò poi pellegrino al Santuario il 26 dicembre 1574.
Foto n.7 - L’ex-voto su lamina d’argento raffigura la “caracca ragusea”, simbolo di destrezza e perfezione tecnica. C’è capitato di scoprire proprio a Dubrovnik (ex-Ragusa) altri esempi di Ex-Voto marinari, molto simili ai nostri e quasi sempre rappresentati con la “caracca di epoca colombiana”.
Foto n.8 - La Caracca Ragusea, Ex-Voto Marinaro molto diffuso in Croazia.
La città dalmata fu capitale di quel libero Stato croato rimasto indipendente per quasi un millennio sotto il nome di Repubblica Marinara di Ragusa e con la sua consistente flotta mercantile fu l’unica degna rivale della Serenissima sull’Adriatico. Grandi politici e diplomatici furono i Rettori della Repubblica Marinara di Ragusa che seppero usarono, nella loro lunga storia, tutte le armi pacifiche per conservare la propria libertà.
Foto n.9 - Veduta della Ragusa vecchia avvolta dalle mura fortificate.
Ragusa cadde nel 1808, poco dopo Venezia e Genova per mano delle truppe napoleoniche. La città fortificata sul mare è rimasta intatta dal 1200 secondo un piano architettonico preciso, con le sue mura e i forti interamente conservati, con le sue centinaia di edifici pubblici (Divona, Zecca, Palazzo del Rettore), case e palazzi signorili, tante e tante chiese che testimoniano la fede cristiana-cattolica che è stata in reiterate e cruente vicende storiche l’ultimo confine, l’estremo baluardo contro l’espansionismo militare dell’Islam e di quello legato all’influenza politico-religiosa dell’ortodossia orientale. Il capitano Allegretta proveniva da questa realtà storico-geografica che per la sua peculiarità e grande fascino può ancora oggi reggere il confronto culturale con molte altre “perle” sicuramente più celebrate in Europa e nel mondo. Gli storici locali ci tramandano che la visita del Raguseo al Santuario di Montallegro si trasformò, molto presto, nel tentativo di recupero della Sacra Icona (la Dormizione di Maria), reclamata dalla comunità dalmata, che ne vantava la precedente proprietà. Ma qui, paradossalmente, avvenne un altro miracolo: il Senato genovese sentenziò, infatti, la restituzione del quadretto dell’Apparizione al termine di una vertenza legale che, tuttavia, non si realizzò a causa del misterioso rientro della Icona sul monte, che soltanto da quel momento cominciò a chiamarsi Monte Allegro per la felicità della popolazione che sentiva concretamente la protezione della Madonna. Lasciamo le questioni legali ed entriamo nel dettaglio dell’omaggio al Santuario, dal cui Codice Diplomatico (p.16-17) riportiamo:
“…Narra egli dunque di Nostra Signora del Monte il seguente bellissimo fatto, degno di perpetua memoria “ Dell’anno 1574 correndo naufragio Cap. Allegretti Raguseo con sua nave da mercanzia, che di là veniva a Genova, mentre si trovava nei nostri mari della Liguria, vicino a Monte Rosso delle Cinque Terre, radunatasi ha consolato tutta la ciurma, fecero voto unitamente a Dio, che se li avesse dall’imminente naufragio liberati, nel primo terreno o porto dove si fossero afferrati sarebbero tutti a piedi scalzi andati pellegrini alla Chiesa più memorabile per devozione che ivi fosse. Trascorsero per divina provvidenza portati dalla procellosa marea nel Golfo di Rapallo dove tranquillatasi la burrasca e accertati che la Chiesa di Santa Maria della Mont’Allegro che dalle spiagge li fu mostrata era la più rinomata per devozione e miracolosa che fosse non solo in queste parti, ma nei lidi della Liguria, pochi anni avanti colassù comparsa, non tardarono di andarla a visitare per adempire il voto fatto e vi portarono la tabella votiva o quadretto d’argento, in cui intagliata la Nave in atto di naufragare colla seguente inscrizione ancora oggi giorno nella Chiesa di detta Nostra Signora si vede.”
Velieri di Chiavari e Camogli “in pellegrinaggio” a Montallegro
Pro Schiaffino, da oltre 30 anni è il direttore del Museo Marinaro di Camogli. - “Comandante, nel presentare questa rubrica dedicata alla devozione mariana, ci siamo spesso imbattuti in avventure sofferte da equipaggi di Camogli e di Chiavari. Le due città rivierasche, così diverse tra loro, hanno avuto un passato marinaro di prima grandezza”. “Camogli è stata una grande flotta mercantile. Chiavari un intero settore mercantile. Camogli, racchiusa tra i monti, priva di strade e di retroterra aveva riversato tutta l’attività della sua gente sul mare e sui velieri. Si era espansa nel mondo al seguito dei suoi velieri ed aveva Agenzie e Provveditorati, ma erano solo al servizio dei capitani e degli armatori. Tali punti di riferimento erano appendici di Camogli, ma avulsi dal commercio del paese. Chiavari no! Gli esponenti di Chiavari erano commercianti che portavano le loro capacità produttive ed i loro prodotti nel mondo, e per farlo si servivano delle navi costruite da loro stessi secondo le proprie esigenze. Da ciò si deduce, per esempio, che in America e in Australia, non c’erano soltanto i loro rappresentanti, ma c’erano mercanti capaci di cercare nuovi spazi e clienti. Va da sé che quando le navi si convertirono al motore, quando cioè fu necessaria una capacità esclusiva nel costruirle, lasciarono ad altri il compito ed anche gestione”. La marineria di Chiavari è presente nel Santuario di Montallegro con due ex-voto di gran pregio. Si tratta del brigantino a palo “Francisca”, 683 tonn. di Stazza lorda, dell’Armatore Dall’Orso che fu costruito a Chiavari dai Cantieri di Matteo Tappani nel 1873. Il dipinto dell’artista Fred Wettening rappresenta il veliero in balia della tempesta con vele stracciate ed una trinchettina di fortuna per mantenersi alla cappa (con la prua al mare) per non essere travolto dalle onde. In alto a sinistra è finemente stilizzata l’icona venerata della Dormizione della Vergine.
Foto n.10 - Uragano sofferto dal Francisca nell’Oceano Indiano, 22.2.1874 -Tempera su carta di Fred Wettening.
Foto n.11 - Nave a palo Francisca, 1874. Lamina d’argento sbalzata.
Lo stesso avvenimento è ancora ricordato con una lamina d’argento sbalzata che raffigura il veliero che naviga a gonfie vele verso il suo destino. I due doni esprimono un contrasto: lo splendore, la velocità e la ricchezza di un veliero oceanico spinto da un buon vento, contro la caducità della vita, del rapido cambiamento del destino sottoposto alla spietata legge della natura avversa. Rivolgersi alla Vergine significa, per il marinaio, aggrapparsi ad un’ancora di salvezza, simulacro di croce, la speranza di continuare a vivere. Il brigantino affonderà nel 1887 probabilmente sotto i colpi del terribile monsone di SW che spesso arriva sul Capo di Buona Speranza con la massima forza della scala Beaufort. Il veliero proveniva dall’estremo oriente con un carico di riso. Il secondo ex-voto è riferito ad un altro brigantino a palo, il “Confidenza”, costruito nel 1872 per lo stesso Armatore Dall’Orso di Chiavari. Lo scampato naufragio si riferisce al ciclone incontrato al largo di Filadelfia il 9 settembre 1889 che fu così riassunto dal suo capitano Giuseppe Lagomarsino ….”conoscendo l’eminente pericolo della perdita del bastimento e vita fece voto a M.S.S. di Monte Allegro e per la grazia ottenuta fece del presente quadro a questo Santuario in memoria eterna”.
Foto n.12 - Brigantino a palo “Confidenza”. E’ un barco chiavarese per la navigazione atlantica. Dipinto su carta 78x57 cm. Secolo XIX.
In questa rappresentazione di gran pregio, la parte riservata all’iconografia sacra che riproduce l’apparizione della Vergine al veggente G. Chichizola è notevole e molto dettagliata. Quasi tutti i velieri sin qui riportati, sono registrati negli elenchi dei barchi che hanno superato indenni, più volte, il famigerato Capo Horn, un nome bestemmiato da generazioni di marinai, un mito nella storia della vela oceanica mercantile, un ricordo indelebile di disperate rimonte, un immenso e sinistro cimitero di navi, il simbolo del coraggio e dell’ardimento umano. L’ex-voto del Narcissus, che abbiamo già ammirato, si riferiva alla più sofferta delle tante “rimonte” di Capo Horn. Joseph Conrad li definì così: Marinai di Capo Horn: “ Una razza scontrosa e fedele, vigorosa e fiera, capace di ogni rinuncia e dedizione, con i suoi riti, i suoi usi, il suo coraggio e la sua fede…” A questo punto consentiteci di ricordare il Capitano Fortunato Schiaffino di Camogli che, in 21 rimonte di Capo Horn, effettuò sei salvataggi meritandosi medaglie ed encomi da governi stranieri.
Ex Voto e Pittori di Marina
La superstizione risale alle origini dell’umanità. E’ naturale che essa non abbia risparmiato i marinai, tanto più che il mare, con tutti i segreti che racchiude sotto la sua superficie ed oltre l’orizzonte, sembra un eccellente ambiente per favorire lo sviluppo del mistero, della credenza, delle favole. Scilla e Cariddi, le sirene, il grande serpente di mare, l’Olandese Volante, sono i vecchi temi duri a morire. L’occhio apotropaico dipinto sulla prua delle navi egizie scongiurava le stregonerie del maligno. L’occhio dipinto sulle giunche cinesi sorvegliava e proteggeva la rotta. Una coda di delfino o un vello di montone fissato sulla ruota di prua di un trabaccolo veneto scacciava i pericoli. “L’offerta di qualcosa di prezioso al mare infuriato allontana la tempesta”. Dicevano i vecchi marinai. Ma quando tutto è perduto, quando gli scongiuri non hanno più efficacia, non resta che inginocchiarsi a pregare promettendo al Madonna o al Santo patrono qualche regalo se interviene per far raggiungere la terra sani e salvi. Così, dalla fede di uomini semplici e profondamente credenti, è nato l’ex-voto. A partire dal sec.XVIII, l’ex-voto marinaro diventa una vera opera d’arte dipinto su tavola e poi, nel sec. XIX, su tela e telaio. Questi quadri raramente sono più grandi del formato 40X60, dato che i muri delle chiese hanno limitati spazi liberi e i pittori si sentono più a loro agio nel piccolo formato. Fra questi pittori c’è di tutto, ma raramente gli stessi marinai. In ogni caso, questi artisti sono almeno un po’ marinai. Si racconta loro l’avventura trascorsa, si descrive la nave (se questa è affondata) e il dipinto prende forma. E’ il naufragio, l’incendio, è l’incaglio sottocosta, è infine la fuga, a secco di vele, con un’onda che s’incappella sulla poppa e spazza tutto il ponte. Si vedono gli uomini in ginocchio sul cassero che implorano la Vergine o qualche santo e, in effetti, il miracolo avviene. In un angolo del quadro il cielo tempestoso si rompe e tra i nembi appare la Vergine, circondata da nuvolette fioccose e dorate, con il Bambino Gesù in braccio, che volge lo sguardo misericordioso sui marinai in pericolo. A mano a mano che la gente di mare si educa e impara a leggere, esige dal pittore di un ex-voto una fascia-legenda sotto il quadro come sui ritratti di navi. Lì, su quattro o cinque righe in scrittura nera su fondo chiaro, oppure viceversa, si può leggere il racconto del dramma, il nome della nave e dell’eroe dell’avventura, la data, le circostanze. Seguono ritualmente le quattro iniziali V.F.G.A. Votun Fecit, Gratiam Accepit (fece un voto, ricevette la grazia) oppure P.G.R. (Per Grazia Ricevuta). Questo era l’uso. Se nella produzione più antica l’autore del dipinto votivo marinaro è in genere ignoto, dalla metà dell’Ottocento l’ex-voto è per lo più eseguito da quegli artisti che vengono definiti “ritrattisti di navi”, le cui opere sono tendenzialmente firmate. Probabilmente la loro primaria attività era quella di disegnatori presso i Cantieri Navali e questo spiega l’abilità nella descrizione della nave, della dinamica dell’incidente, dell’attrezzatura velica.
Foto n.13 - Brigantino “BRICK” (cm.62,5x51) Secolo XIX. Pittore Domenico Gavarrone – Genova li 29 luglio 1870
“Grazia concessa da N.S. del Monte Allegro al Cap.no Filippo Valle in una tempesta sofferta il giorno 30 Gennaio 1869, nella Latitudine 49° 40’ N- Longitudine 09°35’ O, ed in riconoscenza di ciò questo quadro offre”.
Il Brick è un tipo di brigantino, molto diffuso in Liguria, con due alberi a vele quadre, randa e fiocchi. L’artista ha rappresentato il veliero che riesce a mantenersi alla cappa, con la prua al mare, dispiegando la trinchettina a prora e la bassa gabbia a poppavia. Anche l’alberatura, la velatura e le manovre sono dipinte con un tratto molto nitido che rivelano la perfetta definizione delle caratteristiche del veliero, come soltanto un grande esperto disegnatore potrebbe eseguire. Il dipinto raffigura l’evento sofferto con drammaticità, colpi di mare in coperta e vento fortissimo che imbianca il mare di forza cinetica distruttiva. L’intercessione della Madonna è quindi uno spiraglio di luce che apre la via della salvezza. Domenico Gavarrone, genovese, è stato uno tra i più apprezzati e prolifici pittori di velieri dell’800 italiano e fu particolarmente attivo nel nostro capoluogo tra il 1845 ed il 1874. A quel tempo le sue opere avevano anche una funzione descrittiva, sia nell’ambito armatoriale, per la compravendita delle navi, sia propagandistica per i crescenti traffici migratori verso il “nuovo mondo”. La macchina fotografica era ai primordi e la pubblicità dell’intero settore navale era affidata a questi maestri “marinisti”. Nella pinacoteca del Santuario di N.S. del Boschetto a Camogli, si trovano tredici quadri di Domenico Gavarrone. Ventisette dello stesso autore sono conservati presso il Museo Marinaro di Camogli.
Incendio e successivo Affondamento della nave passeggeri genovese “BIANCA C.”
Agli inizi della pittura ad olio fino al sec. XVIII, le città pullulavano di ritrattisti. E’ del tutto naturale che anche i marinai, così come si faceva a terra per le persone care, desiderassero fissare su una tela l’immagine della loro nave, vero essere vivente per coloro che le consacrano l’esistenza. In questi casi, il più delle volte, non si può parlare di opere d’arte, ma della rappresentazione pittorica di un sentimento sincero che sale dal profondo e lega il marinaio alla propria nave e al mare. Della galleria degli ex-voto del Santuario di Montallegro, oggi abbiamo scelto la “drammatica scena” di una nave passeggeri in preda alle fiamme, che sicuramente non è opera di un artista, essendo la tela una chiara espressione di devozione semplice ed immediata, probabilmente eseguita in segno di ringraziamento da un marittimo scampato all’incendio. L’omaggio votivo ci riporta ad un tragico evento che accadde il 23.10.1961 e che, per il precipitare degli avvenimenti, tenne in allarme tante famiglie rivierasche per alcuni giorni.
Foto n.14 - Santuario N.S. di Montallegro. Ex-Voto: “Naufragio Bianca C. – 22 ottobre 1961 – armatori ed equipaggio nel 20° anniversario – 22 ottobre 1981. Appoggiato sul quadro c’è l’immagine a colori del quadretto miracoloso.
“Si incendia ed affonda nel Mar dei Carabi, il transatlantico genovese “Bianca C.” di 18 mila tonnellate. Quasi settecento persone si pongono in salvo con un’operazione esemplare per ordine e tempestività. Ci sono purtroppo delle vittime, causate dal sinistro in sala macchine che ha anche provocato l’incendio: sono il secondo ufficiale di macchina Natale Rodizza, di 33 anni genovese, ed il marinaio fuochista 50enne Umbro Ferrari, spezzino”.
Foto n.15 - La T/n “Bianca C.” in uscita dal porto di Genova.
Dall’aprile del 1959 la bella unità era impegnata in viaggi di crociera nei Carabi. L’incendio esplose nella rada di St. George nell’isola di Grenada (Antille) durante la manovra di ancoraggio in rada. L’incendio fu causato da una violenta esplosione allo starter del motore di sinistra che investì la sottostante cassa del fuel oil.
Foto n.16 - La “Bianca C.” è in preda alle fiamme. Tutte le biscagline sono state messe fuori bordo per agevolare l’evacuazione dei passeggeri e dell’equipaggio.
Foto n.17 - Francesco Crevato, lambito dalle fiamme, dirige stoicamente le operazioni di salvataggio.
Il comandante del “Bianca C.” Francesco Crevato riuscì, con estrema freddezza e in meno di mezz’ora, a dirigere e coordinare l’operazione di salvataggio dei passeggeri e dell’equipaggio. Benedetto Pellerano di Rapallo, vent’anni di servizio sulle navi della “Costa Armatori”, era l’operatore cinematografico all’epoca del naufragio della nave. “L’incendio partì dalla sala macchine ed in breve tempo si propagò dappertutto. Io mi avviai, come da regolamento, nel locale CO2 dove erano installate le grosse bombole per la distribuzione del prodotto antincendio. Persi i sensi e mi risvegliai tra le braccia del marinaio Maddalena che sicuramente mi salvò la vita trascinandomi verso una lancia di salvataggio. Mentre ci allontanavamo dalla nave in fiamme e quindi dal pericolo, forse non mi crederà, ma non eravamo contenti, un pezzo della nostra vita era lì e se ne stava andando, mentre molti nostri compagni erano ancora in pericolo…Rivissi quella scena come un incubo per molti anni e ancora adesso, durante qualche notte insonne, mi ritrovo ancora là, ai Carabi, mentre mi allontano dalla Bianca C. Giunti a terra, ci fu una gara di solidarietà tra la gente del posto che quasi litigava per prelevarci e portarci al sicuro verso le loro case. Il nostro gruppetto, formato da sei persone, fu subito prelevato ed allontanato su un piccolo furgone ed avviato verso una strana altura. La nostra meraviglia fu completa quando ci trovammo davanti alla prigione coloniale che stavano evacuando per sistemarci alla buona. Fummo tranquillizzati… e poco dopo provvedemmo a tirarci su il morale a modo nostro, nel frattempo al gruppo si erano aggiunti i carcerieri e qualche malandrino…ci contammo e buttammo gli spaghetti a cuocere nei buglioli “penali”. Dopo tre giorni la M/n Surriento della “Lauro” ci riportò dalle nostre famiglie in Italia”.
Un Naufragio A poche ore Dall’Arrivo A New York
Foto n.18 - Il brigantino a palo “Barone Podestà” comandanto dal Capitano camogliese Agostino de Gregori, in viaggio da Pensacola per S. Nazaire; con carico legno; il 10 settembre 1889, nel Golfo Stream a, 90 miglia da New York, dopo aver lottato due giorni con un furioso violentissimo fortunale da Est, soccombette per larga via d’acqua apertasi cagionandone la quasi totale immersione, e il rovesciamento, e quindi la rottura dell’alberatura rimanendo sopra le sartie di trinchetto privi di vitto, si venne salvati il, 13 detto, da un vapore pressoché sfiniti per i molti e inauditi patimenti sofferti. L’equipaggio riconoscente a N.S. del Monte per lo scampato pericolo questo quadro a perenne memoria dedica”.
Concludiamo questa rivisitazione nautico-devozionale con la scelta di questo pregiatissimo quadro che giganteggia per il suo forte realismo nella pinacoteca degli ex-voto del Santuario di N.S. di Montallegro.La dettagliata didascalia di questo drammatico naufragio, combacia alla perfezione con la descrizione pittorica di Angelo Arpe. Su questo percorso della devozione, che insieme abbiamo intrapreso da oltre un mese, ci siamo imbattuti in storie drammatiche, vissute e sofferte dagli equipaggi ormai condannati ad essere inghiottiti negli abissi dell’oceano e poi salvati all’ultimo momento, dalla mano misericordiosa della S.S. Vergine. Noi ci siamo trovati in quei frangenti e, forse per questo motivo, ci capita di provare ancora oggi una forte emozione ed un’incredibile ammirazione per questi nostri fratelli marinai rivieraschi dell’800 che sono sopravvissuti alle furie scatenate della tempesta soltanto per il loro immenso coraggio e l’incrollabile fede. L’evento rappresentato da A. Arpe è colto nel suo culmine drammatico, nel momento in cui il brigantino a palo Barone Podestà ha gli alberi di maestra e mezzana spezzati e si trovano ancora sottobordo. Le poche vele di manovra sono stracciate e quindi inservibili. Lo scafo, appesantito dai colpi di mare che hanno aperto una falla, è irrimediabilmente traversato alle onde che lo falciano, lo travolgono e lentamente lo distruggono. Il carico di legname stivato in coperta a causa dello sbandamento è scivolato in mare e galleggia tra i flutti. In alto a sinistra il pensiero squarcia le nuvole che appaiono come i grani di un rosario. L’equipaggio, per fuggire alla morte imminente, ha soltanto una via di scampo: la corsa disperata per avvinghiarsi alle griselle delle sartie semisommerse, che resistono appese all’ultimo albero piegato alla tempesta. Il veliero assume quindi la posizione sul fianco, tipica di un relitto in sospensione che non vuole affondare, è fortemente sbandato, tecnicamente si trova in equilibrio instabile; le sartie del brigantino, a causa del loro disegno strutturale inclinato, appaiono ora verticali sull’acqua, ed è proprio per questa fortunata coincidenza che l’equipaggio, con una forza fisica e d’animo che ha dell’incredibile, resistono tre giorni senza mangiare e dormire sino all’arrivo di un vapore che li raccoglierà sfiniti, ma vivi. Sembra quasi un passaggio di consegna tra il vecchio veliero che affonda ed il nuovo motore che avanza spavaldo nella storia. Siamo per la verità nella fase centrale di questo passaggio epocale, in cui le navi a motore ed i velieri in circolazione si pareggiano in numero e tonnellaggio, ma la vela sta ancora dimostrando la sua superiore economicità. Ricordate la collisione nel canale della Tasmania del 1904 che abbiamo raccontato in questa rubrica? In quella occasione fu un veliero di Camogli il “Fortunata Figari” a rimorchiare il vapore inglese “Conjee”, dopo aver salvato i passeggeri e l’equipaggio. Angelo Arpe, forse il più noto tra gli autori liguri di dipinti devozionali ottocenteschi, nacque a Bonassola; della sua vita si ipotizza la data di nascita,1825. La morte si suppone sia avvenuta circa nel 1900. Fu attivo a Genova nel corso della seconda metà dell’Ottocento. Arpe conosceva le attrezzature di bordo come un consumato nostromo e disegnava i velieri con un tratto nitido e sapiente, ma ciò che lo rese più famoso fu la sua sensibile interpretazione degli umori variabili del mare. Con ogni probabilità fece parte egli stesso del mondo marinaro durante l’epopea della vela. La sua lunga produzione pittorica inizia con un dipinto firmato e datato 1857, dove il tratto rivela incertezza e inesperienza, e termina con una tela firmata e datata 1896, che presenta i caratteri stilistici della sua compiuta maturità artistica. Le opere di Angelo Arpe sono considerate le più importanti del genere. Operò attivamente a Genova, dipinse numerose tele che si trovano come ex-voto in molte chiese e santuari della Liguria; i suoi dipinti sono conservati anche nel santuario di N.S. del Boschetto di Camogli, nel Museo Navale di Genova Pegli e nel Museo “Gio Bono Ferrari” di Camogli.
Qualcuno disse: “Quanta fede su quei muri!”
Carlo GATTI
Rapallo, 18.05.11
Rapallo: Il TRATTATO Italo-Jugoslavo
IL TRATTATO ITALO-JUGOSLAVO
(Rapallo, 12 Novembre 1920)
A cura di Pier Luigi Benatti - Emilio Carta
Per indurre l'Italia ad entrare in guerra contro gli Imperi Centrali, Gran Bretagna, Francia e Russia promisero con il Trattato di Londra (26 aprile 1915), oltre alla sistemazione di alcune pendenze coloniali l'Alto Adige, Trieste e tutta l'Istria nonché buona parte della Dalmazia e della Carniola a popolazione prevalentemente slovena e croata (Fiume veniva invece assegnata come porto alla Croazia).
Villa Spinola, in località San Michele di Pagana, dove il 12 novembre 1920 venne firmato il trattato fra l'Italia e la Jugoslavia
Il trattato di Londra si basava su una concezione della diplomazia rimasta ai tempi di Napoleone (quando si spostavano a piacimenti i popoli, salvo restando i diritti divini dei principi) e quindi come poteva conservare la sua validità nel 1918?
Il multiforme impero Austro-Ungarico si era disgregato, gli slavi del sud (serbi, croati, sloveni, montenegrini) cercavano faticosamente di costituirsi in nazione, il presidente Wilson aveva proclamato il principio dell'autodeterminazione dei popoli e della diplomazia aperta. Alla Conferenza di Pace di Parigi (18 gennaio 1919) esplose quindi il dissidio tra gli italiani Orlando e Sonnino e il presidente americano; questi non accettava l'annessione italiana di Fiume e della Dalmazia e di una piccola parte dell'Istria.
Anche a causa di incomprensioni personali tra le parti non si riuscì a trovare un compromesso, cosicché Orlando e Sonnino abbandonarono la conferenza (24 aprile 1919). I dissidi interni e l'instabilità politica dei due governi, disordini a Fiume provocati dalle truppe italiane e soprattutto l'occupazione della città da parte di D'Annunzio acuirono sempre più il dissidio; soltanto nel maggio del '20 Nitti iniziò il riavvicinamento italo-jugoslavo, che fu poi portato a buon fine dall'ultimo governo Giolitti. Dopo accurate trattative e la mediazione franco-inglese, convennero a Rapallo Trumbic, Vesnic, Sforza e Bonomi (a trattative concluse giunse anche Giolitti); l'accordo finale non fu facile, e solo la sincera e sofferta dichiarazione di Sforza di essere disposto a sacrificare ogni sua popolarità e posizione personale ad una soluzione giusta ed equa purché Trumbic facesse altrettanto, ci ottenne Zara.
Il momento della storica firma di Giolitti del trattato italo-jugoslavo di Villa Spinola alla presenza del Presidente del Consiglio jugoslavo Milenko Vesnic (al centro)
Il trattato dava all'Italia tutta l'Istria sino allo spartiacque, Zara e qualche isola del Quarnero, facendo di Fiume uno stato indipendente; si davano garanzie per gli altri pochi italiani di Dalmazia. L'accordo mirava saggiamente non a strappare qualche lembo di terra ma fondare una stabile amicizia italo-jugoslava, a stabilire una collaborazione economica che ci avrebbe aperto il mercato dei Balcani ed eventualmente ad impedire una nuova spinta germanica verso sud. Eventi successivi annullarono rapidamente lo spirito e la pratica del trattato ma non totalmente. Siglato nelle ovattate sale di Villa Spinola, a San Michele di Pagana, l'accordo prevede per la città di Fiume lo 'status' di città autonoma mentre vengono assegnate all'Italia Zara e l'Istria.
Quella rapallese fa capo alla nuova regolamentazione dei confini fra Italia e Jugoslavia (il nuovo Stato sorto sulle rovine dell'Impero Austro Ungarico), una questione postbellica alquanto spinosa, mentre a Sanremo, nelle sale del castello Devechan, si discute fra gli Alleati l'ammontare delle indennità dovute dai vinti ai vincitori. Gabriele D'Annunzio, scrittore e poeta oltre che uomo d'azione di grande carisma, non riconosce però il patto di Rapallo e si rifiuta di sgomberare la città come ordinatogli dal generale Caviglia. Alla fine D'Annunzio cede all'intimazione passando i poteri ad un governo provvisorio ma solo dopo la minaccia del generale italiano di bombardare Fiume. A Rapallo le due delegazioni giungono il 7 novembre e, mentre quella italiana viene ospitata a New Casino Hotel (oggi Excelsior Palace Hotel),gli jugoslavi prendono alloggio all'Hotel Imperiale. Per l'Italia sono presenti il ministro degli Esteri Carlo Sforza e quello della guerra, Bonomi, il senatore Salata, il Capo di Stato Maggiore della Marina ammiraglio Acton e il generale Badoglio. Manca il Presidente del Consiglio Giolitti trattenuto a Roma da impegni di governo, ma é solo un contrattempo. Egli sarà, infatti, a Rapallo alcuni giorni dopo per la firma del Trattato.
La delegazione jugoslava è invece guidata dal Presidente del Consiglio Vesnic, accompagnato dal ministro degli Esteri Trumbic e da quello alle Finanze, Stojanovic. A Villa Spinola (poi Pesenti) i lavori per definire le questioni Fiume e Dalmazia iniziano l'8 novembre e proseguono senza sosta intervallati da una breve visita di saluto alla delegazione italiana del sindaco di Rapallo, Lorenzo Ricci, accompagnato dai colleghi di giunta e dal consigliere provinciale Bontà. La villa, in cotto, di stile inglese, era stata costruita ail'inizio del Novecento dal marchese Ugo Spinola ed ospitò più volte membri di Casa Savoia. Devastata dalle occupazioni militari successive all'8 settembre 1943, sarà ceduta, dopo l'ultima guerra, al duca Nicolino De Ferrari che la rimise in pristino, sostituendo al sommo del grande cancello il proprio stemma a quello degli Spinola. La villa è in territorio rapallese.
Il Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti assieme ai Ministri Sforza, Bonomi e al Generale Badoglio
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Foto di gruppo per i delegati italiani presenti alla conferenza italo-jugoslava
Il Trattato venne siglato il 12 novembre 1920 alle 23.45 e con esso vennero attribuite all'Italia: Zara e le Isole di Cherso, Lussino, Lagosta e Pelagosa, mentre le altre isole e la Dalmazia restarono al nuovo Regno di Jugoslavia con la 'coda' polemica della città di Fiume, con reazioni anche violente dopo essere stata dichiarata: 'Stato Libero'. La ratifica jugoslava del Trattato di Rapallo porta la data del 22 novembre, quella italiana del 2 febbraio 1921.
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La delegazione italiana, alloggiata al New Casino Hotel (nella foto) era guidata dal Ministro della guerra Bonomi,dall'Ammiraglio Acton e dal Generale Badoglio. Quella jugoslava, ospitata all'Imperial Palace Hotel, comprendeva il Presidente del Consiglio Vesnic ed i Ministri Trumbic e Stojanovic
Il 10 aprile 1922 in occasione della Conferenza di Genova, i ministri italiani Facta e Schanzer si incontrarono a Rapallo con gli jugoslavi Vasic e Nincic per risolvere alcune questioni relative all'applicazione del trattato. E' curiosa la polemica di carattere strettamente locale che, per diversi anni, fece capo all'esatta ubicazione geografica del Trattato Italo-Jugoslavo.
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Rapallo, 5.4.2011
Rapallo: Il CONVEGNO Interalleato
IL CONVEGNO INTERALLEATO
(Rapallo, 6-7 Novembre 1917)
A cura di Pier Luigi Benatti - Emilio Carta
Sfruttando nel migliore dei modi i vantaggi della posizione centrale, Germania, e Austria Ungheria avevano successivamente eliminato dalla guerra la Serbia, la Romania, la Russia, e solo la disperata resistenza italiana sulla linea del Piave salvò l'Italia dalla rovina. La nostra sconfitta di Caporetto ebbe come conseguenza la riunione degli uomini di Stato Alleati (esclusi i russi) a Rapallo, non tanto per organizzare gli aiuti all'Italia quanto per riuscire a coordinare ed a stabilire una strategia comune.
Anche i generali stavolta si convinsero che occorreva abbandonare le considerazioni di prestigio e di vanità per riunire gli sforzi, e fu creato così il Consiglio Supremo di Guerra: i Primi Ministri d'Inghilterra, Francia e Italia, affiancati dai rispettivi rappresentanti militari (generali Wilson, Weygand, Cadorna) si sarebbero incontrati regolarmente a Versailles assieme al colonnello House che rappresentava il presidente americano Wilson.
Il New Kursaal Hotel, sede del Convegno
Naturalmente il Consiglio non aveva potere esecutivo, perché ciò avrebbe eliminato l'indispensabile controllo della politica sulla strategia e ciò limitò la sua efficacia dal punto di vista strettamente militare; permise però al generale Foch , che presiedeva la commissione militare, di tenere in pugno le riserve per usarle al momento più adatto, fatto, questo, che si rivelò determinante per bloccare le offensive tedesche dell'estate 1918. Forse non è azzardato ritenere che il buon funzionamento dello Stato Maggiore Unificato angloamericano, che nella seconda Guerra Mondiale prese così importanti decisioni strategiche e guidò su vari continenti eserciti di dimensioni mai viste, sia disceso in piccola parte dall'esperienza conseguente al Convegno di Rapallo.
Il 24 ottobre 1917 col disastro di Caporetto l'Italia tocca il fondo della sua avventura bellica. Le truppe austriache, coadiuvate da quelle tedesche, sfondano la linea di difesa italiana ed avanzano verso la pianura padana. Attestate lungo il fiume Piave le forze italiane organizzano una provvisoria resistenza mentre la rotta di Caporetto fa comprendere agli Alleati che è il momento di collaborare più strettamente.
A Rapallo il 6 e 7 novembre successivi si tiene così un summit che determinerà, come detto, la nascita del Consiglio Supremo della guerra. Alla stazione ferroviaria della località climatica ligure giungono così le più prestigiose personalità politiche e militari italiane, francesi e inglesi che si trasferiscono nelle sale del Kursaal New Casino, sede del convegno teso ad una ricerca di una nuova e più unitaria direzione delle forze alleate. Per l'Italia sono presenti il neo presidente del Consiglio V.E. Orlando, il ministro degli Esteri, Sonnino, i generali Alfieri, ministro della Guerra, e Porro mentre la delegazione francese è composta dal presidente del Consiglio Painlevé, dal ministro H. FranklinBouillon, dall'ambasciatore a Roma Barrère e dai generali Foch, Weygand e Dedondrecourt. |
L'Inghilterra partecipa invece con il primo ministro Lloyd George ed i generali Smuts, Robertson e Wilson. Il Convegno conferma la volontà, già espressa ufficiosamente attraverso i canali diplomatici, di assicurare particolari aiuti all'Italia e la nomina di un Consiglio Supremo Alleato, ma determina anche il siluramento del generale Cadorna - designato rappresentante dell'Italia a tale Consiglio - col passaggio del generale Armando Diaz a Capo di Stato Maggiore. Lo storico Alberto Lumbroso rivela infatti che l'allontanamento del generale Cadorna venne deciso proprio a Rapallo dai generali alleati Foch e Robertson con il parere favorevole di Barrère e Wilson. La scelta di Rapallo quale sede del con vegno fu dettata da motivi di conve nienza prettamente politica.
Il Presidente del Consiglio On. Vittorio Emanuele Orlando
Sempre secondo il Lumbroso inizialmente e’ stato indicato il Veneto, un'idea scartata per evitare a ministri e generali la visione di sfascio e di disordine in cui si trovava in quel momento l'esercito. Vittorio Emanuele Orlando scartò anche Milano per evitare la curiosità della stampa. Alla fine venne deciso il summit nella più tranquilla e riservata cittadina rivierasca. La sera del 4 novembre a Rapallo si incontrarono fra loro i rappresentanti francesi e inglesi che espressero il desiderio di veder giubilato il generale Cadorna, suggerendone la sostituzione con il Duca d'Aosta.
Il Primo Ministro inglese Lloyd George (a sinistra)
L'assenza di Cadorna - che telegrafò a VE. Orlando di non volersi allontanare dal fronte per stare vicino ai suoi soldati gli fu fatale. Allorché V.E. Orlando partì da Rapallo era convinto di poter lasciare Cadorna al suo posto ma il Consiglio dei Ministri fu di tutt'altro avviso. Quando si trattò di scegliere il suo sostituto ogni ministro presentò un proprio candidato ma alla fine prevalse il parere del generale Alfieri che indicò nel generale Armando Diaz, comandante del XII Corpo d'Armata, perfettamente ignoto ai più, l'uomo della provvidenza. E tale scelta non poteva rivelarsi più felice.
A guerra conclusa sulla facciata del palazzo municipale, a ricordo dello storico convegno, viene posta una targa marmorea. 'Su questo lembo della ligure sponda le Nazioni alleate nel novembre 1917 sancirono il patto che diede all'Italia l'audacia e la forza donde fiorì il prodigio della vittoria più grande che negli annali del mondo collo stilo d'acciaio ebbe scritto la storia'. La targa venne distrutta nel settembre del 1922 dalle squadre fasciste e solo nel 1967 il ricordo dello storico convegno del 6-7 novembre 1917 venne riproposto con un altro marmo nell'atrio del nostro palazzo municipale, assieme a quello dei due Trattati legati al nome di Rapallo. |
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Rapallo, 04.04.11
LA CRISI DI CUBA vista da un giovane rapallese
LA CRISI DI CUBA INIZIO’ IL 15 OTTOBRE 1962
DURO’ PER TREDICI GIORNI
Testimonianza di un "anonimo" giovane rapallese
Dipende forse da un riflesso condizionato, ma ogni volta che Mosca alza la cresta e minaccia un riarmo nucleare “aggiornato”, il nostro pensiero corre alla Crisi di Cuba del 1962 e ai rischi di olocausto nucleare che in quei giorni minacciò il mondo intero. Crediamo pertanto sia utile ripresentarla ai lettori, soprattutto come effetto “vaccino” per le nuove generazioni.
La cronistoria
Fin dal 1898. Data della sua indipendenza, Cuba era stato un Paese tradizionalmente legato agli Stati Uniti. Ma i rapporti tra i due Stati peggiorarono sino alla definitiva rottura dopo la vittoria di Fidel Castro nella Rivoluzione Cubana del 1959. Un nuovo regime di stampo filo sovietico si era instaurato a poche decine di miglia dalla Florida; questo avvenimento di vastissima portata geopolitica tolse il sonno alla maggior parte degli americani.
Già all’inizio del 1961. L’allora presidente D. Eisenhower aveva interrotto i rapporti diplomatici con il nuovo Stato e lo aveva escluso dall’OEA (Organizzazione degli Stati Americani). Il suo successore, John Fitzgerald Kennedy, arrivò addirittura ad approvare un piano d’invasione dell’isola addestrando e confidando sul supporto degli esuli cubani.
Il 17 aprile 1961. Avvenne lo sbarco delle armate anti-castriste in un punto dell’isola noto come Baia dei Porci. L’operazione si rivelò però un fallimento e Cuba, vistasi minacciata, si rivolse a Mosca e concordò l’installazione di alcune batterie di missili sul proprio territorio.
Nel maggio del 1962. Con una sfida davvero temeraria, il Cremlino concepì l’operazione “Anadyr” e inviò a Cuba, via mare, 50.000 soldati e materiale missilistico.
Con questa mossa spregiudicata, Nikita Kruscev intendeva dimostrare il suo impegno nella difesa dell’alleato caraibico e astutamente guadagnava posizioni strategiche, mostrando i muscoli sia agli Stati Uniti che alla Cina.
Nelle ore più drammatiche di quei tredici giorni che fecero tremare il mondo, un giovane rapallese che preferisce mantenere l’anonimato si trovava in servizio, come tecnico elettronico della NATO, sul ponte di comando della portaerei americana FORRESTAL nel porto di Napoli.
“A distanza di molti anni, quando ormai sono state raccontate tutte le fasi più o meno drammatiche di quei tredici giorni, rimango ancora sorpreso del fatto che si ometta di parlare di un dato obiettivo di cui sono stato testimone.
Durante la Crisi di Cuba, il resto del mondo (compreso i sovietici) non era a conoscenza che gli americani avevano in orbita satelliti spia, capaci di vedere e analizzare un “centimetro qualsiasi” del globo terracqueo, pertanto, i media di tutto il mondo parlarono della superiorità tecnologica degli aerei spia americani U-2, che vennero indicati come gli artefici della identificazione di postazioni missilistiche sovietiche a Cuba. La verità, come ho accennato, fu ben diversa e fece parte di un capitolo militare segreto, che fu dovutamente criptato per molte di decine di anni.
Per ragioni di lavoro, sono stato testimone dei risultati eccezionali forniti da quelle rivoluzionarie tecnologie. Quei nuovi tipi di satelliti geo-stazionari lanciati nello spazio producevano migliaia di foto che piovevano in continuazione sul Pentagono, su i vari Dipartimenti Militari e poi rimbalzavano sui monitors dei Comandi asserviti come quello della portaerei Forrestal, dove io mi trovavo. Sono sempre stato un appassionato di elettronica e capivo perfettamente di vivere un importantissimo avvenimento storico, del quale potevo gustare veramente l’esclusiva. Peccato che non capivo altrettanto bene la loro lingua in codice, ma vi assicuro che i dialoghi concitatissimi delle più alte sfere politico-militari di quel tempo li ho ancora negli orecchi.
Detto questo, sono tuttora convinto che soltanto l’altissima tecnologia satellitare abbia permesso ai politici americani ed ai loro Stati Maggiori di entrare con la dovuta consapevolezza in quel pericoloso scenario, consentendogli di giocare d’anticipo con i Sovietici, usando pertanto la dovuta e controllata determinazione.
Era necessario arrivare alla fase finale della trattativa con i nervi calibrati al punto giusto, per evitare che i “falchi” prevalessero con tesi emotive, guerrafondaie e poco sedimentate nella diplomazia e nel buon senso.
Fin dall’inizio, quindi, le fotografie fornite dai satelliti permisero agli americani di monitorare e analizzare tutte le mosse sovietiche, di studiarne le contromosse e prevenirne le tragiche conclusioni. Ciò che, sicuramente, gli Americani non previdero fu l’estrema sfrontatezza di Kruscev.
Veduta aerea del sito missilistico a Cuba nell’ottobre del 1962
Il 30 agosto. Gli americani tenendo ben segrete le fonti satellitari, diffusero le fotografie di una nuova serie di postazioni missilistiche SAM, riprese da un U-2.
Il 4 settembre. Kennedy disse al Congresso, che non c’erano missili “offensivi” a Cuba.
8 settembre. Durante la notte, la prima consegna di MRBM SS-4 Sandal fu scaricata a l’Avana.
Il 16 settembre. Un secondo carico approdò all’isola.
I sovietici stavano costruendo nove siti: sei per gli SS-4 e tre per gli SS-5 Skean a più lungo raggio (fino a 3500 km), l’arsenale pianificato era di quaranta rampe di lancio. Gli MRBM avevano una gittata di circa 1.600 km e potevano minacciare Washington e circa metà delle basi SAC (Strategic Air Command) statunitensi, con un tempo di volo inferiore ai venti minuti.
Novembre 1962. Veduta aerea del sito missilistico di Cuba
Il 19 ottobre. I voli degli U-2 mostrarono che quattro postazioni erano operative.
Il 14 e il 15 ottobre. I rilievi fotografici effettuati da due aerei spia U-2 americani confermarono la presenza d’alcuni missili nucleari sovietici a medio raggio e la costruzione in atto dei relativi sistemi di lancio sull’isola di Cuba. Si trattava di una postazione degli SS-4 vicino San Cristobal.
Il 16 ottobre. Un gruppo di stretti collaboratori del presidente Kennedy si riunì in una seduta speciale Per discutere Il Blocco Navale di Cuba.
Facevano parte di questo gruppo il segretario di Stato Dean Rusk, il segretario della Difesa Robert McNamara, il direttore della CIA John McCone, Robert Kennedy ed un ristretto numero di consulenti politici, militari e diplomatici.
La situazione da affrontare era tra le più difficili e delicate della storia moderna: quale via diplomatica era la migliore per fermare il pericolo di quei missili, con un raggio d’azione superiore ai duemila chilometri?
D’improvviso, quasi l’intero territorio americano rischiava di trovarsi sotto l’effettiva minaccia di apparati missilistici nemici.
l’URSS, con poche e riuscite mosse, aveva acquisito un enorme potenziale di pressione nell’ambito della sfida tra le due potenze.
Gli Stati Uniti dovevano affrontare quello che sarebbe passato alla storia come il picco più alto della tensione durante la Guerra Fredda: una pesante CRISI diplomatica tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica.
In quei giorni, due uomini avevano in pugno il destino della Terra: John Fitzgerald Kennedy e Nikita Sergeevich Kruscev. Ognuno di questi due potentissimi Capi di Stato avrebbe potuto, in quell’ottobre di 45 anni fa, dare inizio alla Terza Guerra Mondiale, che sarebbe stata la più pericolosa dell’intera storia dell’umanità, perché non era mai accaduto prima che due nazioni stessero per usare “Armi Nucleari” capaci d’incenerire una dozzina di volte il pianeta.
Soltanto il 22 ottobre. Dopo giorni di tensione internazionale, tra minacce d’intervento militare ed inutili tentativi di mediazione da parte dell’ONU, il Presidente degli Stati Uniti pronunciò un discorso alla nazione, in parallelo ad un ricorso presentato alle Nazioni Unite.
J.F. Kennedy decretò il blocco navale dell’isola, fissato a 500 miglia nautiche da Cuba, chiedendo contemporaneamente lo smantellamento delle basi missilistiche.
Il mondo venne ufficialmente a conoscenza di una possibile e imminente catastrofe nucleare.
Il cargo sovietico POLTAVA in rotta verso Cuba. I missili sono visibili in coperta. Kennedy decise di rendere pubbliche queste foto per raccogliere il maggior consenso popolare possibile.
Se le unità sovietiche avessero provato a forzare il blocco, il conflitto armato tra le due superpotenze sarebbe drammaticamente ed immediatamente cominciato.
Mercoledì 24 ottobre. La “quarantena” entrò in vigore. Lo stesso giorno Kruscev ordinò alle navi sovietiche di non forzare il blocco per nessun motivo.
La tensione raggiunse l’apice, quando si sparse la notizia che diciotto navi da carico sovietiche stavano dirigendo verso la zona protetta e la marina americana era allertata per il loro affondamento.
A questo punto ci fu, per fortuna dell’umanità, una provvidenziale inversione di tendenza: sedici delle diciotto navi russe avevano cambiato rotta. Il giorno dopo tutte le navi sovietiche erano lontane dalla zona del blocco.
Il pericolo era scampato. Il buon senso delle “colombe” aveva prevalso sui temibili “falchi” presenti in entrambi gli schieramenti.
In una lettera privata, Kruscev s’impegnò con Kennedy a rimuovere i missili già piazzati a Cuba;
in cambio richiese la dichiarazione pubblica di Kennedy che gli Stati Uniti non avrebbero mai invaso l’isola, né appoggiato altri tentativi d’invasione.
Giovedì 25 ottobre. Radio-Mosca trasmise una seconda lettera di Kruscev, nella quale il ritiro dei missili di Cuba era però condizionato alla rinuncia americana ai suoi missili Jupiter installati in Turchia.
Era il 28 ottobre. La crisi poteva dirsi terminata.
QUARANTACINQUE ANNI DOPO….
Secondo il materiale e le testimonianze pubblicate in questi ultimi anni in Russia e raccolte dal settimanale OGGI, il 27 ottobre 1962, con l’abbattimento (mai denunciato all’opinione pubblica) sui cieli di Cuba di un aereo spia americano, si verificò un episodio gravissimo nell’intera vicenda:
l’intercettazione di un sottomarino sovietico
a nord dell’isola che cercava di forzare l’accerchiamento americano di Cuba.
In quella terribile fase che stava per diventare una diabolica corrida tra le navi e gli aerei americani contro i sottomarini atomici sovietici, le forze della US Navy reagirono immediatamente con lanci di bombe di profondità che costrinsero il sottomarino ad emergere ed a comunicare che stava invertendo la rotta.
Secondo fonti storiche sovietiche, i sottomarini sovietici erano quattro ed appartenevano alla 69° Brigata della Flotta del Nord, contrassegnati dalla lettera B e dai numeri 4-36-59-130.
Ognuno dei mezzi era dotato di un missile con testata nucleare.
“Gli attimi più difficili li vivemmo nelle acque delle Bahamas –dichiarò Vitalj Agafonov ex-comandante della Brigata dei sommergibili russi nella Campagna di Cuba - quando i nostri sottomarini penetrarono aldilà delle cinque linee americane di sbarramento, superando la soglia limite del blocco anticubano. Fummo circondati da sette navi americane che ci rinchiusero in un anello di ferro. Loro ci mitragliavano dagli aerei che volavano a bassissima quota. Nella zona più difficile finì il B-59, del capitano V.Savitzkij”.
Quello che accadde in quei momenti drammatici della mattina del 27 ottobre a bordo del B-59 è raccontato dall’ufficiale Orlov:
“Dentro il sottomarino faceva un caldo infernale 40-50 gradi, in taluni punti anche 60°. Il contenuto di ossigeno era su valori ritenuti già pericolosi. Un marinaio di guardia cadde per terra perdendo i sensi: altri lo seguirono. Stavamo tentando di sfuggire dall’attacco di un incrociatore americano. La fuga continuò per quasi quattro ore. Improvvisamente, gli americani fecero esplodere una bomba vicino a noi.
Tutti pensarono: ecco la nostra morte.
Savistkij, che era al comando della nostra nave, non riuscì a contattare il comandante della nostra Marina. Dopo l’attacco di bombe di profondità, diventò furioso e chiamò l’ufficiale responsabile del missile a testata nucleare e gli ordinò di tenerlo pronto per il lancio.
– Può darsi che siamo già in guerra contro gli Stati Uniti, mentre noi qua stiamo facendo solo chiacchiere –
Gridò, motivando l’ordine di colpire l’America.
- “Adesso siamo pronti a colpirli. Forse noi moriremo, ma li affonderemo tutti quanti, così non copriremo di vergogna la Flotta Sovietica” –
Per fortuna, il comandante riuscì a controllare la sua rabbia e dopo un animato consulto con altri comandanti decise di affiorare…..
Occorre a questo punto fare attenzione alle ultime parole in corsivo: nascondono l’episodio chiave della storia del mondo. Per far partire il siluro nucleare contro l’incrociatore americano BEAGLE e innescare la terza guerra mondiale, sarebbe bastata al comandante l’approvazione dei suoi due vice comandanti. Per il lancio servivano tre “SI”. Per fortuna dell’umanità Arkhipov fu deciso e disse:
“Niet – Non lo lanciamo!”
Un voto contro due. Il B-59 emerse e si arrese. E la terra continuò a girare e le notti a seguire i giorni.
Il capitano di Fregata Arkhipov è stato l’unico dei tre ufficiali a non perdere il controllo della situazione. Il senso della realtà aveva evitato l’olocausto nucleare.
Purtroppo, soltanto da qualche anno si è saputo, con profonda amarezza, che Arkhipov fu arrestato al rientro in patria dai suoi stessi connazionali e poco dopo morì.
La portaerei USS Enterprise (CVN-65) fu la prima portaerei nucleare della storia. Ancora oggi è la portaerei più lunga del mondo, mentre è stata superata per tonnellaggio dalle navi della classe Nimitz.
- il 22 ottobre 1962: il presidente J.F.Kennedy annunciò pubblicamente che erano state scoperte delle basi di missili nucleari sovietici nell’isola di Cuba. La Enterprise entrò in azione appoggiata dalle portaerei Essex, Indipendente, Oriskany e Randolph.
- il 25 ottobre 1962: fu fermata la prima nave sovietica.
- il 28 ottobre 1962: il presidente Nikita Kruscev accettò di ritirare i missili da Cuba.
Con la fine della Guerra Fredda, molti Paesi conobbero la democrazia, ma cessò anche quell’equilibrio stabile tra le due superpotenze che aveva permesso il controllo del mondo in zone d’influenza.
Oggi si vive una fase di transizione out control e si assiste, purtroppo, alla proliferazione nucleare d’alcuni Stati come il Pakistan, la Corea del Nord e l’Iran, considerati a rischio perché guidati da leaders sostenuti da fazioni fanatiche, alle quali potrebbero un giorno dover pagare un conto molto salato!
In questi giorni, non a caso, si parla nel mondo di utopia del disarmo e proprio su questo punto occorrerà che i potenti della terra riflettano con molta lucidità, perché vi è un lato della scienza scientifico-militare che lascia, ora più che mai, esigui spazi alla sicurezza della umanità.
Carlo GATTI
Rapallo, 02.04.11