La bella Rapallo
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Rapallo: L'Agonia della carretta LOCARNO
L'AGONIA DELLA LOCARNO
di Emilio CARTA
Rapallo. Sono ancora tanti i “rapallini” che ricordano il 5 gennaio 1961. «Quel “maledetto” cinque gennaio millenovecentosessantuno - precisano marinai e pescatori del borgo - quando, a causa di una fortissima libecciata, quel piccolo mercantile di 3.897 tonnellate, il Locarno, come una balena ferita a morte, si incagliò sulla scogliera del litorale rapallese».
A provocare tanto sconquasso non c’era il mitico comandante Achab ma, più prosaicamente, un capitano di lungo corso, il quarantenne Vittorio Sallustro da Torre del Greco, che rivisse chissà quante volte, come in un incubo, quella notte di tregenda. A bordo, con lui, c’erano ventidue uomini di equipaggio, molti dei quali genovesi, ed un abissino.
L’ennesima tragedia del mare, che per fortuna non fece vittime, portò il nome della cittadina rapallese sulle prime pagine e sugli schermi di mezzo mondo e venne accompagnata da una serie di iniziative umanitarie e promozionali che oggi, probabilmente - non dimentichiamo che all’epoca correva l’anno 1961 - farebbero sorridere.
«Riuscii a filmare i momenti più drammatici della nave in preda alla tempesta con una piccola cinepresa ad otto millimetri - racconta il rapallese Mauro Mancini - Ricordo come fosse oggi che qualche settimana più tardi, i negozi di souvenirs avevano già in vendita le cartoline illustrate che mostravano il Locarno in mille pose, come una fotomodella, con la prua che sbatteva sulla scogliera del lungomare Vittorio Veneto».
«Fu ancor più simpatica l’iniziativa dei vigili urbani rapallesi - aggiunge Mancini - I “cantunè” offrirono all’equipaggio i pandolci e lo spumante che avevano avuto in dono dagli automobilisti rapallesi per la caratteristica “Befana dei vigili”, un’usanza che in quegli anni si ripeteva un po’ dappertutto».
Il cargo, battente bandiera panamense, era giunto nel porto di Genova il 20 dicembre proveniente da Lubecca e, dopo aver ormeggiato al molo Rubattino, sotto l’occhio vigile della Lanterna, aveva scaricato seimila tonnellate di lingotti di ferro.
Per l’equipaggio, insomma, era stato un Natale sereno, con la veglia di mezzanotte in cattedrale ed i piedi ben piantati sotto la tavola, come tradizione vuole, per tutte le feste comandate.
Il cinque gennaio la nave aveva però lasciato molo Rubattino ed era ripartita con le stive vuote ma con i gavoni di prua e di poppa pieni d’acqua per zavorrare e stabilizzare il mercantile, diretto verso Follonica, in Toscana, per caricare minerale ferroso da trasferire in Germania.
Ma a quell’approdo il Locarno non arrivò mai perché la sua odissea, iniziata davanti al Monte di Portofino, si concluse proprio nelle acque del golfo Tigullio.
Alle dieci del mattino, infatti, il cargo venne avvistato al traverso di Santa Margherita Ligure, a circa un miglio dalla terraferma, dando l’impressione di essere in difficoltà.
Alle sedici il mercantile, lungo centoquattordici metri ed appartenente alla società marittima genovese “San Rocco”, arrivò davanti a Rapallo, all’altezza dell’Excel-sior Palace Hotel. Era ormai in uno stato di ingovernabilità che agli occhi esperti dei marinai - che da terra ne seguivano “a vista” la navigazione - appariva sempre più chiaro.
Il mare lo spingeva alla deriva e, per di più, a causa della forza del mare e del vento, le ancore aravano il fondo sabbioso, senza frenare a sufficienza quella folle corsa verso gli scogli, mentre da bordo gli uomini erano in trepida attesa dell’arrivo dei rimorchiatori.
Alle sedici e trenta il cargo era ormai a meno di trenta metri dal castello sul mare, mentre mezz’ora più tardi la nave si spostò leggermente verso ponente, a nemmeno cinquanta metri dalla balaustra in ferro della passeggiata a mare.
La situazione a quel punto precipitò e la lenta agonia della nave giunse al culmine: la distanza dagli scogli diminuiva progressivamente a venti metri, poi a dieci, a sette, a cinque. Il mercantile infine si coricò leggermente sul fondo sabbioso arenandosi con la prua - alta fuori dell’onda quanto una casa di tre piani - sui macigni posti a protezione del lungomare.
«Fu una scena infernale alla quale assistettero migliaia di persone assiepate sull’asfalto della passeggiata a mare - ricordava anni dopo il rapallese Andrea Pietracaprina - Intanto, a bordo del Locarno, gli uomini d’equipaggio, flagellati dal vento e dalle onde che spazzavano il ponte, apparivano e scomparivano da una parte all’altra della coperta, riconoscibili solo dal luccichio degli impermeabili, per cercare di porre rimedio ad una situazione che appariva ormai senza speranza».
Alcuni rimorchiatori, provenienti dallo spezzino e da Genova non riuscirono ad agganciare lo scafo prima che la situazione precipitasse definitivamente e, per il Locarno, fu la fine.
Alle diciannove e venti i vigili del fuoco genovesi, alla luce di potenti fari, provarono con successo a sparare una sagola a bordo: ad essa, avvolto in un sacchetto di plastica, venne legato un messaggio con la richiesta di conoscere le condizioni dell’equipaggio. Da bordo utilizzando lo stesso mezzo, il comandante rispose che non vi erano feriti.
«Era impossibile comunicare “a vista” anche se vi provarono ripetutamente con i megafoni - raccontava alcuni anni dopo il barcaiolo rapallese Vittorio Pietracaprina - Il frastuono delle onde e del vento, unito allo sfregamento delle lamiere della nave sugli scogli rendeva vano ogni tentativo. Rammento che prima del lancio della sagola a bordo, un radiotelegrafista, da terra, utilizzò il clacson di un’auto appositamente posizionata a poca distanza dal moletto normalmente riservato ai battelli turistici. Cercò di comunicare con l’ufficiale marconista di bordo attraverso l’alfabeto morse e a bordo ricevettero il messaggio anche se nessuno fu in grado di rispondere».
La buona sorte, infine, aprì la propria bisaccia: il Locarno virò di circa novanta gradi distendendosi in senso longitudinale lungo l’asse della passeggiata a mare, con la prua rivolta in direzione levante. La fiancata andò provvidenzialmente a toccare il moletto d’ormeggio dei “primeri” ed alle quattro del mattino l’equipaggio potè finalmente scendere a terra con l’ausilio di una biscaglina.
A terra li attendevano coperte ed un pasto caldo. Mentre i Vigili del fuoco riponevano cavi e fari, utilizzati sino a qual momento per illuminare a giorno la scena, sulla torretta del castello si spegneva anche la grande stella cometa natalizia.
I tecnici si ponevano intanto i primi interrogativi sulle cause che avevano provocato l’incaglio della nave. Il comandante aveva escluso, infatti, qualsiasi avaria alle caldaie o alla macchina del timone. Priva di carico, e quindi meno resistente alla forza del vento e del mare, la nave, in preda al maltempo, probabilmente non era più riuscita a governare ed aveva cominciato ad andare inesorabilmente alla deriva.
A terra, ovviamente, iniziava il business “made anni Sessanta”, mentre il pittore Nerone Uselli, spalle alle nave, in sommo disprezzo per tutto ciò che era acqua, dipingeva in un celebre quadro l’apocalittica scena.
All’epoca, chi scrive, frequentava la scuola media statale ricavata nell’ex “casa del fascio” di piazzale Alfieri diretta dalla preside di allora, la professoressa Jolanda Macchiavello.
Confesso che quella mattina di gennaio, uscito di casa e raggiunto ancora insonnolito il lungomare - con i calzoni corti, beninteso, e la pesante cartella di cuoio che mi segava le dita - restai come folgorato da quella nave immane e nerastra, alta quanto una casa di almeno tre piani, che mi si ergeva davanti. Pareva impossibile che un oggetto galleggiante, di tale portata, potesse mai affondare. Eppure era lì, come una sirena ammaliatrice. Ed io, novello e incantato Ulisse, subii il suo irresistibile richiamo: pochi anni dopo mi trovai infatti su un cargo analogo di nome African Monarch e anch’esso battente bandiera di comodo, ma liberiana.
Tito Sansa, all’epoca inviato speciale del settimanale Oggi, in una sua corrispondenza ironica e graffiante, ma soprattutto precisa, da vero lupo di mare, offrì agli affamati lettori uno spaccato da manuale di quell’inconsueto naufragio da salotto definendo quello svoltosi sul lungomare di Rapallo come uno dei più strani drammi del mare dei nostri tempi.
“Tutto è finito bene per le persone, ma ci sono stati anche molti brividi. Un naufragio come questo non s’era mai visto. Di solito le navi vanno a picco nell’oceano in tempesta o si sfracellano su uno scoglio o si incagliano in una rada deserta.
Questo invece è stato un naufragio “fatto in casa”. Se Vittorio Sallustro, il capitano del cargo Locarno, avesse potuto scegliere su un portolano una località per mandare a secco durante una tempesta, col minor danno possibile, la sua nave, difficilmente avrebbe potuto trovare di meglio: si è infilato, infatti, nel punto più stretto al fondo del golfo del Tigullio, arenandosi su un morbido letto di sabbia, proprio di fronte alla “passeggiata”, di una delle più celebri località balneari del mondo.
Ora la nave è incagliata, con le sentine, le stive e la sala macchine allagate, l’elica storta, il timone spezzato. Dalle falle nella chiglia esce e si spande sul mare la nafta, lo scafo emerge tutto, inclinato di quindici gradi su un fianco, pronto a rovesciarsi alla prima forte mareggiata. Ma dieci metri più in là c’è la passeggiata con le palme e le panchine sulle quali, di questa stagione, anziani villeggianti si intiepidiscono le ossa al sole; trenta metri più in là c’è la sfilata degli alberghi. Per i naufraghi ci sono tutte le comodità: lo scalandrone cade proprio al pelo di un moletto, fanno quattro passi e sono all’albergo, camere accoglienti e polli allo spiedo attendono l’equipaggio.
Anche i villeggianti sono soddisfatti. “Che carino è stato il capitano a naufragare qui” dicevano nei giorni scorsi le signore, in gran parte milanesi, fuggite dalle nebbie e dal gelo lombardi. Al riparo, dietro le vetrate dei caffè del lungomare battuto dalle onde, esse avevano assistito con un brivido sottile alle diverse fasi del naufragio, come al cinema; felici che qualcosa di imprevisto movimentasse le tediose giornate di vacanza.
IL COMANDANTE AL TIMONE
Soltanto ad un certo momento, quando videro lo scafo, enorme sull’acqua, avventarsi con la prora più alta delle case verso gli scogli come se volesse salire sulla terra ed abbattersi sugli edifici, le signore ebbero la sensazione che si trattasse di un naufragio vero e proprio e non di uno spettacolo.
E, lasciato il tè a metà, richiamati i figlioli che stavano con il naso appiccicato alle vetrate, se n’andarono di fretta.
A bordo del Locarno, quel pomeriggio di martedì 3 gennaio, era tutt’altra cosa. Nessuno - almeno così dicono - aveva paura, ma tutti si rendevano conto che le loro vite erano appese ad un filo. Sballottato come un guscio di noce nella rapida di un fiume, il “cargo” andava alla deriva ed ogni minuto che passava la terra appariva più vicina. I campanili e le case sulle colline si muovevano ad una velocità impressionante, ora a sinistra, ora a dritta, poi a prora, poi a poppa, e così via. Era una girandola vorticosa, come se il capitano fosse impazzito e si divertisse a spaventare i suoi uomini.
Ma il capitano non era impazzito. Ritto in plancia, grondante acqua e sudore, capitan Sallustro urlava ordini nel portavoce e, manovrando la barra, cercava disperatamente di mettere la nave alla cappa, cioè con la prora controvento. Impazzito era invece il Tigullio: dal cielo di piombo l’acqua scendeva a secchie rovesce e dal largo battevano contro lo scafo raffiche rabbiose a 70-80 all’ora, ora di libeccio, ora di scirocco, improvvise e a turbine, sicché era difficile affrontarle.
Il mare - ha raccontato un marinaio di coperta - sembrava una padella di frittura, verde e schiumosa; muraglie d’acqua mugghiante, simili a draghi, si abbattevano sulle fiancate e le facevano risuonare come mille tamburi, inondavano la coperta, la spazzavano sommergendola in tutta la sua larghezza, ripiombavano muggendo in mare. E allora il Locarno, che era piombato al fondo di un abisso, risaliva su una vetta e aveva tutt’intorno abissi e seracchi biancoverdi in movimento.
Era quasi impossibile reggersi in piedi: ogni volta che la nave beccheggiava e sprofondava, si piegavano le gambe, quando risaliva sulle creste i piedi brancolavano nel vuoto. Nella sala macchine i fuochisti guardavano preoccupati il clinometro e dalle oscillazioni della lancetta apprendevano che poggiavano i piedi su un ripido pendio. Gli altri, che erano ai posti di manovra in coperta, legati e fradici fino alla pelle, si raccomandavano l’anima a Dio. E l’unica donna a bordo della nave - la moglie del comandante che era salita per un viaggio di piacere - più morta che viva domandava al mozzo diciottenne che l’assisteva in cabina: «Dio mio, ma è questa la vita di mio marito? E’ questo il mare?». «Non lo so signora - rispondeva il ragazzo senza ombra di umorismo - sono al mio primo imbarco».
GOVERNO RELATIVO
La danza del Locarno era cominciata appena fuori di Genova. Era ancora notte quando la nave (3.897 tonnellate di stazza, 114 metri di lunghezza, ventidue uomini di equipaggio, tutti italiani, salvo un abissino), mollati gli ormeggi al molo Rubattino, fu presa a rimorchio e condotta fuori del porto. Vi era arrivata un paio di settimane prima, il 22 dicembre, da Lubecca in Germania, con un carico di minerale ferroso. Il viaggio era stato burrascoso, con una tempesta nello Skagerrak, nebbia nella Manica, una seconda tempesta nel golfo di Biscaglia, una terza tra il golfo di Valencia ed il golfo del Lione, proprio al traverso delle Baleari. Ma il cargo, seppure anziano di trentun anni e ansimante alla velocità di quattro-cinque nodi, se l’era cavata decentemente, senza danni, e gli uomini avevano potuto passare il Natale ed il Capodanno a terra.
Martedì mattina, dunque, il Locarno esce da Genova. E’ diretto a Follonica, in Toscana, per caricare dell’altro minerale da trasportare a Rotterdam, in Olanda. La nave è vuota e alta sul mare, nonostante che i doppi fondi siano regolarmente zavorrati con acqua, e il vento di libeccio la investe in pieno e la fa scarrocciare. Tutti però sono tranquilli a bordo. Che cosa è una bufera in casa nostra in confronto a quelle dell’Atlantico? E’ questione di poche ore, pensano tutti; Follonica è vicina, ci si arriverà prima di sera.
Senonché, man mano che la nave avanza, il tempo peggiora. Il mare è a “forza sei”, Radio Malta dà il gale warning, l’avviso di tempesta “forza sette-otto” su tutto il Me-diterraneo. Le condizioni di governo della nave cominciano a farsi difficili. In tal caso vi sono due soluzioni: o buttarsi al largo, af-frontando la tempesta, o cercare riparo vicino alla costa. Il capitano del Locarno preferisce questa seconda manovra, fidandosi so-prattutto dei bollettini meteorologici che danno showers costanti di libeccio con tendenza a tramutarsi in ponente.
Giunto all’altezza di Capo Portofino, pertanto, capitan Sallustro vira di bordo e si ripara nella rada di Santa Margherita, in relativa bonaccia, dove getta l’ancora. Sono le dieci del mattino e tutto va bene: le macchine sono ferme, le caldaie sotto pressione, la nave è alla cappa in un posto tranquillo. Senonché il tempo cambia e il libeccio, anziché volgere in ponente, gira in scirocco. Raffiche violente si abbattono ora contro il cargo e le ondate lo scuotono tutto. L’ancora ormai non tiene più, ara sul fondo, e la nave scarroccia, tendendo verso la scogliera di Santa Margherita.
Il capitano allora dà attraverso il portavoce il “posto di manovra”. E’ mezzogiorno, ma è buio e sembra notte. Tutti e otto i forni delle caldaie sono accesi. Si salpa l’ancora ed il comandante urla l’ordine “avanti a tutta forza”. Prende lui stesso la barra del timone e affronta lo scirocco. Ma l’impeto del vento e del mare è tale che le macchine non reggono la forza del mare. I 2.700 cavalli vapore non riescono ad imprimere al Locarno una spinta sufficiente ad avanzare.
La nave è sempre traversata al mare e passa dalla situazione di “governo relativo” a quella di “non governo”. Il timone cioè è inutile e inerte, mancando della spinta che dovrebbe far avanzare la nave. Ormai, è chiaro, non c’è nulla da fare, la nave sta pericolosamente avanzando verso terra, si cominciano a vedere distintamente gli uomini e le case sulla riva di Rapallo.
Allora il comandante urla «Fuori un’ancora!». «Fuori la seconda ancora!». Sono momenti drammatici, perché le catene si sono bloccate nei gavoni e sembra che non vogliano saperne di uscire.
Ma alfine le ancore vengono gettate, con sei lunghezze di catena. Ora la nave è alla cappa, le macchine sono di nuovo ferme, dovrebbe essere finita. E invece neanche ora le ancore fanno presa sul fondo, e continuano ad arare; la terra, gli scogli, le case, gli alberi di Rapallo continuano ad avvicinarsi implacabilmente.
Un nuovo “avanti a tutta forza”, un “indietro a tutta forza” sono inutili; l’equipaggio è sfinito. Il timone si muove inerte tra le braccia del comandante, senza governare, come il volante di un’automobile su un lastrone di ghiaccio. L’elica sembra che giri a vuoto. Il radiotelegrafista Pietro Marcucci, un triestino che ha navigato in tutti i mari del mondo, riceve l’ordine di trasmettere il segnale di distress («stiamo correndo un grave pericolo»), il segnale immediatamente precedente a quello dell’SOS («salvate le nostre anime»). Da Genova accorrono quattro potenti rimorchiatori ma, a causa della furia del mare e dei fondali bassi, non possono avvicinarsi.
Per alcune ore il Locarno resiste ancora, avanti e indietro, cercando di tenersi lontano dalla riva, con disperate manovre. Tutti gli uomini sono ai loro posti, nessuno ha mangiato, le ore passano lente, senza che si riesca ad uscire dalla trappola del Tigullio. Alle cinque del pomeriggio, d’improvviso, la prora, che ora è volta verso la riva e sembra sfiorare le case di Rapallo, tocca sul fondo. E’ un colpo secco, una falla si apre nei gavoni. Ma la lotta disperata continua ancora per ore.
Al largo incrociano i rimorchiatori; da bordo del Locarno vengono lanciati razzi per segnalare la sua posizione. Ma il mare è sempre furioso ed i soccorritori non possono avvicinarsi. Da terra una folla enorme segue con ansia le vicende della nave. Se il vento diminuisse, se il mare calasse, il Locarno potrebbe ancora salvarsi.
Invece il pericolo si è fatto più grave, ci sono scogli da ogni parte, la nave rischia di rovesciarsi, sbattuta avanti e indietro dalle ondate.
Alle dieci di sera un altro urto; stavolta la prora si incaglia. Da terra, dove sono stati accesi potenti fari, si distingue la falla. Ormai le distanze sono ravvicinate, il capitano Sallustro ed il comandante dei pompieri che sono venuti in suo soccorso possono comunicate a voce, attraverso i megafoni. Subito dopo la catena di un’ancora che aveva fatto presa su uno scoglio si rompe. Il Locarno viene ora trascinato verso il vecchio castello di Rapallo, ma poi il mare cambia direzione e lo riporta verso la spiaggia, sempre sballottandolo. Alle due di notte, l’agonia continua ancora; la nave, che s’è messa al traverso, sbatte contro un moletto che si protende per una decina di metri dalla riva. E’ il colpo di grazia. Sono dieci-venti colpi violentissimi. Anche il timone si spezza, una pala dell’elica si piega. Le stive uno, due e tre vengono sfondate, le tanke sono forate, la nafta comincia a galleggiare sul mare, l’acqua salsa invade lo scafo. Le sentine sono allagate, l’acqua si precipita anche nella sala macchine. I forni vengono spenti d’urgenza per evitare che scoppi un incendio.
Ora è davvero finita; l’acqua in sala macchine significa aver perso completamente il controllo della nave, manca ogni energia, viene meno la luce.
FINALMENTE A DORMIRE
Alle tre di notte, a malincuore, il capitano dà l’ordine di abbandonare la nave. La terra è proprio a due passi, ma le ondate sono altissime ed è impossibile scendere in acqua. Allora si improvvisa una teleferica di soccorso. Il nostromo getta una cima e i pompieri fanno salire a bordo un cavo che viene legato ad un picco. Sul cavo, trattenuto dalla parte di terra da una decina di pompieri (per le forti oscillazioni della nave è infatti impossibile agganciarlo ad un sostegno fisso) scende per prima la moglie del capitano, poi, ad uno ad uno, diciannove dei ventidue membri dell’equipaggio, ciascuno col suo fagottino.
A bordo, sulla nave che oscilla paurosamente rimangono il capitano, il radiotelegrafista e un macchinista. Sperano ancora in un miracolo: e se scendessero la nave verrebbe considerata un relitto.
Ma alle sei di mattina, quando il mare comincia a calmarsi un po’ il capitano si rende conto che non c’è più nulla da fare. Anche la stazione radio viene chiusa. Alle nove di mattina i tre uomini a bordo calano una biscaglina e lo scalandrone lungo il bordo. Ora è possibile scendere a terra. Il naufragio, l’incredibile naufragio nel “mare di casa” è terminato: lo scalandrone posa giusto giusto sul moletto, i naufraghi possono andare a mangiare e a dormire all’albergo. Ora incomincia la battaglia tra armatori e assicuratori, incomincia il lavoro di recupero della nave.
Ma perché - ci si domanda - la nave si è arenata? I tecnici daranno le loro risposte. Ma la spiegazione, tutto sommato, è una: il Locarno è una nave vecchia e piccola, troppo debole per affrontare il mare. Ha avuto la fortuna di arenarsi a Rapallo, anziché di sbattere su uno scoglio o di andare a picco nell’Oceano, come le navi sono solite fare».
CENERENTOLA
di Pier Luigi Benatti
Trent’anni di servizio sono tanti, anche per una nave. Significano il continuo altalenarsi di porto in porto sino alla nausea, una ciclopica montagna di materiali che si sono trasferiti, una babelica torre di casse, di fusti, di sacchi inghiottiti nelle stive e rigurgitati nei docks.
C’è l’assalto di cento tempeste ruggenti, il monotono sgranarsi di un interminabile rosario di vuote giornate di navigazione, la deprimente sosta attraccati a luride banchine, con gli argani che cigolano lamentosamente, le gru che ti frugano le viscere, il turpiloquio sconvolgente degli scaricatori, e l’odore insopportabile di pelli mezze conciate, di sostanze fermentate, di acidi soffocanti, che ti resta addosso per mesi e mesi assieme all’unto ed al catrame dei lubrificanti.
Un’esistenza infelice, da umilissima bestia da soma, in uno scafo arrugginito, maculato qua e là di un minio purpureo, fasciato da strisce di nafta lasciate dal pennello di cento risacche, sotto tutte le latitudini, sì da sentirsi un povero Don Chisciotte dall’armatura goffa, arlecchinesca e sconnessa.
Trent’anni di dura, nascosta, fatica, che l’affetto spontaneo di quel pugno di uomini che ti abitano non riesce a lenire e che si acutizza ogni volta che, nelle vie del grande porto, sfiori una di quelle superbe città viaggianti, tutte nitore e luminosità. Prima di finire laggiù, in fondo al più appartato e periferico dei moli.
E’ la vita del cargo, sotto tutte le bandiere.
Ma sono bastate poche ore, la forza del vento e la fantasia del mare, perché anche una povera nave potesse rivivere intera la favola di Cenerentola. E così, lasciato il fardello sotto la Lanterna, al calar delle tenebre, questa trascuratissima ancella dell’Oceano, ha fatto la sua comparsa come una grande dama sulla promenade d’una delle più celebrate spiagge alla moda, sotto gli sguardi stupiti dei presenti.
Poi sono giunti i cronisti, i fotoreporters, la televisione; poi il suo nome è corso nell’etere e la sua figura è stata riprodotta sui rotocalchi d’ogni continente; poi la sua vicenda è stata narrata in tutte le lingue e tutti la conobbero.
Ospite d’eccezione, che, increduli, in tanti vennero a curiosare da vicino, dominò sovrana le conversazioni e divenne soggetto d’obbligo per i ricordi fotografici, dando finalmente il cambio al nostro vegliardo castello.
Ma come in tutti i libri di favole, dopo sedici pagine, il racconto è giunto al termine.
Cenerentola se n’è andata verso quell’orizzonte donde era uscita ed è bello pensare che, anche questa volta, alla fiaba non sia mancato il lieto fine. Che importa, infatti, se si parla di disarmo, di demolizione... l’impronta della scarpetta di questa Cenerentola del mare è lì, su mille giornali, a ripeterci una storia fantastica che sembra irreale, ma che è invece vera.
Una testimonianza
Cosa ricordo? Ricordo un pomeriggio livido, fatto di acqua e di vento, tanto vento... L’angolo della tabaccheria Mocellin non dava nessun ridosso, l’ombrello aperto ti spingeva indietro ed il vento ti infilava l’acqua negli occhi e giù per il collo... ma non mollavo; quella “carretta” nera che mostrava larga parte di rosso dell’opera viva cosa vuol fare? Vuol dare una pruata al pontile di Porticciolo?. Accidenti, se volevano dar fondo dovevano decidersi prima! Così non terrà,... è scarica e fa troppa vela, è in un fondale troppo basso, troppe lunghezze di catena da filare per sperare...
Alle sette di sera la prua si alzava ed abbassava producendo un rumore strano e lamentoso su di uno scoglio di fronte all’allora Gran Bar Dedalo; all’alba la nave era parallela alla passeggiata a mare, tenuta a distanza da essa solo dal moletto dei Primeri... sembrava ormeggiata.
E fu una vera “Epifania”, soprattutto per coloro che non avevano mai visto una nave e a quegli ottanta metri di ferro tributavano tutto il loro stupore.
Io guardavo e pensavo: ce ne vorranno di cavalli di forza per portarla via! E vennero sette Fratelli Neri e tirarono per sette giorni... Ma Lei si era scavata il suo letto nella morbida sabbia del golfo ed era tanto stanca. si era rassegnata al Suo destino deciso dagli uomini... Non voleva vedere altri porti... Infatti i rimorchiatori ebbero un fugace successo e poi la dovettero abbandonare per non essere tirati sotto anche loro... Noi eravamo tanto giovani, Emilio. Mi piaceva pensare che le navi avessero un’anima...
Giulio Cuneo
Rapallo, 03.03.11
L'800 MARINARO di Rapallo
L’800 MARINARO DI RAPALLO
Era il mio primo imbarco e stavamo navigando al largo del Tigullio. Il Comandante Cesare Cuneo di Rapallo inforcò i binocoli guardò, verso Montallegro e disse:
“Quando un Santuario Mariano svetta su un golfo, testimonia non solo la devozione dei marinai, ma anche la presenza di un'importante tradizione navale”.
Quella frase mi rimase impressa nella memoria, forse perché allora non mi convinse tanto “la tradizione marinara” di Rapallo, la quale aveva cancellato, ormai da quasi un secolo, le tracce marinare di un tempo coprendole, in un solo decennio, con una striscia di eleganti e fastosi alberghi di 1° categoria.
Oggi sono pochi quelli che, rovistando incuriositi tra le ingiallite cartoline d'epoca, rimangono stupiti nel notare, per esempio, che Rapallo è stata sede di un Cantiere Navale importante, che operò dal 1868 sino alla Prima Guerra Mondiale e costruì persino il “Caccin”, un brigantino oceanico di 1.500 tonnellate
Gio Bono Ferrari scrisse: “ La strada delle Saline, quella dalla tipica porta secentesca, pullulava a quei tempi di calafati e maestri d'ascia. E v'erano i ciavairi con le massacubbie ed i ramaioli, nonché i fabbri da chiavarde per commettere i cruammi. E gli stoppieri, i ramieri e il burbero Padron Solaro, socio del camogliese De Gregori, che aveva fondachi di velerie, d'incerate e di bosselli.”
Beh! Oggi si stenta ad immaginare che la zona descritta, sia stata il cuore pulsante dell'industria e del commercio di Rapallo, quando anche la lingua, intrisa di termini marinareschi e mestieri ormai scomparsi, odorava di pece, catrame e rimbombava di echi medievali, ultimi sibili di un'era legata al prezioso legname da costruzione navale.
Il Congresso di Vienna diede il famoso “colpo di timone” e dai riformatori, intellettuali e docenti vennero regole moderne ed una forte spinta a creare una “Nuova Marina Mercantile”, che doveva unificare tutte le tradizioni marinare del Paese e trasformarle secondo una formula tanto breve quanto efficace:
“L'arte del navigare va accompagnata da una scienza del navigare stesso”.
A metà ‘800 si passa dal romanticismo dei “Capitani Coraggiosi” ad una classe di professionisti. Cantieri e Scuole Navali sorgono dirimpettai, perché legati ai “bisogni” della nuova industria marittima che sente avvicinarsi il rombo del motore della Rivoluzione Industriale e quindi la necessità di essere pronti per il passaggio epocale dalla marineria velica a quella moderna. Non ci si può quindi meravigliare se anche Rapallo, così vicina a Genova ed alla formidabile tradizione di Camogli, fosse presa dal vortice del rinnovamento e facendo riferimento sulla notevole tradizione dei suoi naviganti ed emigranti si candidasse come sede di una Scuola Nautica Privata che, infatti, ebbe il suo riconoscimento nel 1853 da parte del Ministero dell'Educazione Nazionale.
Le vicissitudini belliche del periodo pre-unitario rinviarono l'apertura della scuola al 19.11.1861. Ma fu con l'arrivo del preside Edoardo Salviati che gli alunni salirono dall'esiguo numero di 12 agli 82 iscritti, dei quali il 50% erano residenti a Rapallo.
Ma non erano solo rose e nel 1869 una prima Commissione Governativa invitava l'Amministrazione ad assumere docenti che la potevano rendere “Un'Istituzione vera e seria e non un'illusione come lo è al presente”. Il rigore mostrato dal Governo funzionò e nel 1870-1871 Rapallo divenne sede di esame anche per conseguire il grado di Capitano di Lungo Corso.
Nel 1872-1873 la Scuola Nautica di Rapallo ottenne il tanto atteso Riconoscimento Governativo e raggiunse l'apice della sua esistenza. Un “Rapporto Elogiativo” redatto da Giovanni Ardito, Presidente della Giunta di Vigilanza ne rimarcò la crescita per numero di alunni, oltre 300 e per la promozione, 67%. La Scuola acquisì sussidi straordinari dal Ministero ed un posto di rilievo nel Levante, nonostante l'apertura delle scuole di Recco e Chiavari che erano temibili concorrenti rispetto al potenziale bacino d'utenza.
Purtroppo, sulla Scuola Nautica si addensarono improvvisamente nere nubi temporalesche: il Commissario Wladimiro Sablicich, militare severo ed intransigente, dichiarò: “…. quello di Rapallo è un organismo poco corretto perché gli studenti non frequentano per imparare, ma per conseguire la licenza in breve tempo e con il minor studio possibile” . Wladimiro andò giù duro e denunciò “ il quasi analfabetismo di studenti che dopo pochi mesi di corso si presentano all'esame … Un candidato non conosce i mesi dell'anno….
Salviati si difese denunciando “….un meccanismo perverso che sussiste nella male intesa concorrenza tra gli Istituti Nautici della zona”. Edoardo Salviati, gran matematico, perdette l'ufficio di Preside. Nonostante la gravità dell'accaduto, la Scuola continuò ad essere frequentata da un buon numero di allievi, ed il 14 febbraio 1875 fu dichiarata - SCUOLA GOVERNATIVA - e nel marzo 1876 - REGIO ISTITUTO NAUTICO -.
Ma la crisi della Marina Velica era nell'aria da tempo ed il Governo preferì concentrare la popolazione studentesca marinara della Riviera nell'Istituto Nautico di Camogli. Queste furono le cause che giustificarono in successione la chiusura degli Istituti di Chiavari, Recco ed infine, il 1 dicembre 1878, quello di Rapallo. Da quel giorno il levante ligure ebbe il suo “Polo Nautico” nel piccolo borgo di Camogli, che diede all'Italia, dal 1800 al 1900, 3700 Capitani di mare, 2932 bastimenti mercantili e più di 500 Macchinisti Navali di prima classe.
Carlo Gatti
Rapallo, 08.03.11
Navi Militari nel Tigullio in oltre cento anni di Storia
HANNO VISITATO RAPALLO
Navi militari nel Golfo del Tigullio in più di cento anni di storia
Maurizio Brescia
foto di Carlo Gatti
Da più di un secolo, la presenza di navi militari nelle acque del Tigullio antistanti Rapallo – come pure Santa Margherita Ligure, San Michele di Pagana e Portofino – è un elemento costante dell’orizzonte marittimo della nostra città. Da sempre legata al mare nei suoi molteplici aspetti, a partire per l’appunto dalle unità navali e mercantili, da quelle da pesca o da diporto, Rapallo ha “ospitato” – nel tempo – numerosissime navi da guerra appartenenti alle Marine delle nazioni più disparate, a testimonianza non soltanto di un fascino più propriamente turistico, ma anche della conoscenza e della valenza internazionale di una città nota e apprezzata in Italia e all’estero sin dalla fine del secolo XIX.
In effetti, galere e navi a vela sia genovesi sia turche erano più volte comparse nel Golfo nei secoli XVI e XVII e, per tutto il Settecento e la prima metà dell’Ottocento, fregate e vascelli francesi, spagnoli e inglesi dettero fondo nel Tigullio in più di un’occasione, in relazione alle vicende diplomatiche e militari che vedevano coinvolta la Repubblica di Genova.
Con il passaggio dei territori della Repubblica al Regno di Sardegna e – soprattutto – dopo la proclamazione del Regno d’Italia (1861), il Golfo del Tigullio e Rapallo iniziarono a vedere rafforzato quel ruolo di “ancoraggio di rappresentanza” (oltreché provvisto di fondo buon tenitore e protetto da buona parte delle traversie di vento e di mare) che, sino ai giorni nostri, avrebbero sempre mantenuto anche in ragione della vicinanza con i porti di Genova e della Spezia.
Per nostra fortuna, l’incremento quantitativo e qualitativo del rapporto tra Rapallo e le navi da guerra in visita alla città iniziò a verificarsi sul finire dell’Ottocento, in concomitanza con lo sviluppo – ormai a livello quasi “popolare” – di due nuove tecniche di documentazione e comunicazione: la fotografia e la stampa periodica locale.
A partire dagli anni Ottanta del secolo XIX la fotografia cominciò, difatti, ad assumere un ruolo documentale sempre più preponderante e – nello specifico campo navale – le immagini fotografiche iniziarono ad avere ampia diffusione presso il pubblico, venendo distribuite o vendute in occasione di vari, cerimonie e parate navali. Tutto ciò coincise con l’accresciuta importanza delle Marine della “belle époque”, strumento di prestigio, di politica estera e di pressione internazionale e utilizzate in queste vesti dalle principali nazioni europee e mondiali.
L’attività dei fotografi locali (che hanno documentato la visita nel Tigullio di numerose unità) si affiancava poi a quella di studi professionali che, dalla Spezia a Taranto, da Tolone a Portsmouth, avviarono proprio in questo periodo una fiorente opera di documentazione storica, ritraendo un gran numero di unità e facendo pervenire sino ai nostri giorni importanti archivi di immagini dai quali – come avremo modo di chiarire più avanti – abbiamo attinto per reperire buona parte della documentazione iconografica inedita che presentiamo in questo nostro studio.
Al tempo stesso, tra il 1890 e i primi anni Cinquanta del secolo XX, veniva pubblicato a Rapallo un periodico settimanale indipendente, il cui titolo – “Il Mare” – ben rappresentava l’intimo legame tra la città, il Mar Ligure e tutto il Mediterraneo. Preciso e puntuale nel citare e commentare gli eventi che vedevano coinvolti Rapallo e i suoi abitanti, “Il Mare” non mancò mai di riportare la presenza di unità militari nelle acque del Tigullio, segnalandone con buon anticipo l’arrivo e informando i lettori sugli incontri di ufficiali ed equipaggi con la popolazione e le autorità locali.
Paradossalmente, la precisione delle cronache de “Il Mare” ha consentito di stilare un completo e dettagliato elenco di pressoché tutte le navi da guerra che hanno visitato Rapallo solamente sino ai primi anni del secondo dopoguerra, quando il settimanale cessò le pubblicazioni. Successivamente, altre testate locali riferirono (peraltro senza le medesime precisione e continuità) sulla permanenza di unità militari nel Tigullio, ma dagli anni Sessanta ai giorni nostri la documentazione disponibile, maggiormente frammentaria e dispersa, non ha consentito di poter concludere la ricerca con analoghi dettaglio e puntualità.
Tuttavia, basandoci sulle cronache locali de “Il Secolo XIX”, su quanto conservato negli archivi del Comune di Rapallo e in quelli di numerosi studiosi e appassionati locali di storia marittima e navale, ci auguriamo che anche la parte di questo articolo relativa agli anni più recenti possa presentare un quadro quanto più completo ed esauriente possibile.
La prima unità “ufficialmente” documentata a Rapallo da “Il Mare” (1898) è l’avviso Surprise, all’epoca utilizzato come panfilo reale dalla Mediterranean Fleet della Royal Navy;. Negli anni successivi, Rapallo ospitò consistenti aliquote della Marina britannica e – in particolare – va ricordata la visita del luglio 1901, quando ben 42 navi da guerra inglesi diedero la fonda nel Golfo del Tigullio; per l’occasione, a bordo della corazzata Renown alzava la sua insegna l’ammiraglio Sir John Fisher che, nella carica di Primo Lord del Mare, tra il 1904 e il 1911 avrebbe rivoluzionato gli ambienti navali europei e mondiali favorendo la costruzione e l’entrata in servizio dell’innovativa nave da battaglia Dreadnought e delle successive unità da essa derivate .
L’Italia, tuttavia, manteneva all’epoca uno stretto legame con l’Austria e la Germania per via della comune appartenenza alla Triplice Alleanza: nel 1908, insieme alle corazzate Napoli e Vittorio Emanuele (con a bordo S.M. il Re) era presente nelle acque del Tigullio la nave scuola Victoria Luise della Marina tedesca e – ancora nel giugno 1912 – nel corso di una visita nel nostro paese, l’imperatore di Germania Federico Guglielmo fece scalo a Rapallo a bordo dello yacht Hoenzhollern scortato dall’incrociatore corazzato Kolberg.
Le ultime unità tedesche in visita a Rapallo furono, nel febbraio 1914, l’incrociatore da battaglia Goeben e l’incrociatore leggero Breslau che – da lì a pochi mesi – avrebbero scritto le pagine di un’autentica epopea dopo lo scoppio della “Grande Guerra”, riuscendo a sfuggire alla caccia della Royal Navy e a raggiungere la Turchia, con la cui Marina prestarono servizio per numerosi anni ancora prima della loro radiazione .
Successivamente agli anni del conflitto 1915-1918, la Regia Marina inviò più volte importanti unità nel Tigullio. Negli anni Venti, le corazzate classe “Cavour” e “Doria” furono spesso alla fonda dinanzi a Rapallo, riscuotendo un notevole successo presso la popolazione locale e i villeggianti, che numerosi salirono a bordo di queste unità. Negli anni Trenta, i consistenti programmi di rafforzamento della flotta italiana fecero sì che nuove e potenti navi giungessero in visita alla città: nel gennaio 1932 gli incrociatori Trento e Trieste (al comando del c.amm. Solari), nel luglio 1934 la Seconda Squadra Navale (con quattro incrociatori classe “Condottieri”, otto esploratori tipo “Navigatori” e la nave appoggio idrovolanti Miraglia), nel luglio dell’anno successivo l’incrociatore pesante Gorizia e nel 1937 – sempre a luglio – la nave da battaglia Cavour al termine del periodo di grandi lavori nel corso dei quali era stata estesamente rimodernata.
Nel medesimo periodo, la Royal Navy (che utilizzava con continuità la Mediterranean Fleet nel ruolo diplomatico e di “presenza navale”) giunse più volte in forze nel Tigullio. Nel luglio 1924 diedero fondo di fronte a Rapallo quattro incrociatori leggeri tipo “C” al comando dell’amm. Gatfield, e analoghe unità si presentarono nei due anni successivi, insieme a varie corazzate e alla portaerei Eagle.; ad aprile del 1929 la portaerei Courageous si trattenne per una settimana nelle acque di Rapallo e negli anni Trenta fu la volta degli incrociatori pesanti Sussex (aprile 1934) e Shropshire (nel 1935). L’ultima unità britannica che visitò Rapallo prima della seconda guerra mondiale, dopo un anno di “vuoto” nel 1936 dovuto alla crisi italo-britannica conseguente alla guerra d’Etiopia, fu – ad aprile del 1937 – la corazzata Barham.
I tragici anni del secondo conflitto mondiale fecero ben presto dimenticare questi “scambi di cortesie” in ambito navale, e gli ancoraggi e i sorgitori minori del Mar Ligure – un’area, va ricordato, quasi di secondo piano dal punto di vista dell’attività operativa delle contrapposte flotte italiana e britannica – dovettero anch’essi vivere un duro periodo di lutti e privazioni. Sicuramente, unità di scorta, ausiliarie e di uso locale fecero scalo a Rapallo e nel Tigullio ma, per numerosi e comprensibili motivi, non esiste una sufficiente documentazione – cartacea o fotografica – della loro permanenza in zona.
Con la fine del conflitto, la mutata situazione strategica internazionale fece del Mediterraneo un crocevia dei movimenti navali delle flotte dell’Alleanza Atlantica e, già a marzo del 1947, erano presenti nel Tigullio due unità inglesi, la portaerei Ocean e il cacciatorpediniere Raider, facenti parte di un gruppo operativo al comando dell’amm. Sir Cecil Harcourt.
A partire da questi anni – e continuando sino al termine della “guerra fredda” nei primi anni Novanta – la presenza navale più consistente e significativa nel “Mare Nostrum” sarebbe però stata quella delle unità della Sesta Flotta della Marina degli Stati Uniti.
Tra il 22 e il 24 giugno del 1949 si ancorò davanti a Rapallo la grande portaerei americana Coral Sea che, all’epoca, insieme alle gemelle Midway e Franklin D. Roosevelt costituiva la classe di unità di questo tipo più grandi e potenti al mondo . Da allora, le navi statunitensi fecero scalo a Rapallo con regolarità e – nel tempo – incrociatori lanciamissili, cacciatorpediniere, unità da sbarco e navi ausiliarie visitarono la città, spesso in veste ufficiale di ospiti dell’Amministrazione Comunale. Non possiamo ricordarle tutte in queste brevi note, e citeremo solamente alcune tra le più importanti: cacciatorpediniere Irwin e H.R. Dickson (marzo 1955), portaerei Randolph (luglio 1965), incrociatore lanciamissili Albany (luglio 1977), nave da sbarco Portland (1980) e l’elenco potrebbe ancora continuare…
Anche La Marina Militare Italiana, ricostituita nel dopoguerra utilizzando le poche unità sopravvissute al conflitto, e dal cui numero andarono detratte le navi cedute ad alcune nazioni vincitrici o demolite su richiesta degli Alleati , riprese ben presto le crociere estive delle proprie unità e, ad agosto del 1949, giunsero in visita a Rapallo l’incrociatore Raimondo Montecuccoli e la corazzata Duilio .
Nell’aprile del 1957 l’intera Squadra Navale, con l’incrociatore Duca degli Abruzzi, si presentò nel Tigullio; nel 1964 giunse in visita l’incrociatore lanciamissili Giuseppe Garibaldi a bordo del quale alzava la sua insegna l’amm. Michelagnoli, “CINCNAV” e futuro Capo di Stato Maggiore della Marina Militare.
Giungiamo così ai giorni nostri, in un periodo in cui la cronaca non è ancora diventata storia: gli scenari internazionali sono cambiati rispetto a quelli del dopoguerra e – con l’uscita dell’Unione Sovietica dall’arena politico-militare mondiale – i rinnovati impegni delle Marine della NATO (a partire da quella italiana) ne hanno portato l’attività operativa in aree diverse dal Mediterraneo Occidentale, e dal Mar Ligure in particolare. Per quanto riguarda la Marina degli Stati Uniti, va poi considerata una sensibile riduzione numerica che, negli ultimi quindici anni, ha portato ad una contrazione nel numero delle unità in servizio attivo, oggi poco più della metà delle quasi 600 navi in servizio nel 1991.
Tuttavia, negli ultimi anni – a dimostrazione dell’importanza “di immagine” che la nostra Marina continua ad assegnare alle proprie unità, e compatibilmente con le esigenze di bilancio – sono giunte in visita nel Tigullio moderne ed importanti unità della Marina Militare, tra le quali vale la pena di ricordare le fregate Libeccio e Scirocco, il cacciamine Termoli e il rifornitore di squadra Vesuvio.
Riteniamo quindi giusto concludere queste brevi note con quanto scrive Pierangelo Campodonico, riferendosi al XVI secolo, ma con parole sempre attinenti ed attuali anche ai giorni nostri: “… Da sempre le navi da guerra sono leggibili non solo secondo la funzionalità militare, ma anche secondo la funzionalità simbolica . . . la dimostrazione di forza, potenza e ricchezza si addice a questo criterio . . .” . E, ci permettiamo di aggiungere, sono anche la fonte di un fascino del tutto unico e particolare come – in più di cento anni – hanno potuto “assaporare” gli abitanti di Rapallo e di tutto il Tigullio.
Maurizio Brescia
Un sentito ringraziamento va al capitano Umberto Ricci – un profondo conoscitore della storia e delle vicende di Rapallo e del Tigullio – che, oltre ad avere “lanciato” per primo l’idea che ha dato origine a questo studio, ha messo a disposizione i propri archivi e la sua completa collezione del periodico “Il mare”.
Anche gli amici Emilio Carta e Carlo Gatti, co-autori insieme al sottoscritto di __________________, hanno fattivamente e generosamente collaborato fornendo fotografie, pubblicazioni ed altri documenti.
La concezione che Fisher aveva della "capital ship" era però molto più estrema ed egli, infatti, volle fortemente la costruzione di un congruo numero di incrociatori da battaglia, ovvero di unità maggiori che, a scapito dei valori della protezione, riunissero in un unico scafo l'armamento principale di una corazzata e la velocità di un incrociatore.
Il Goeben, in particolare, con il nome di Yawuz Sultan Selim prima e di Yavuz poi, venne mantenuto in servizio addirittura sino all’inizio degli anni Sessanta!
All’entrata in servizio (1946/47) le tre unità (dislocamento oltre 45.000 tonn, lunghezza 300,5 m, velocità 33 nodi e armamento composto da 18 cannoni da 127/54) imbarcavano un gruppo di volo composto da ben 137 aerei.
Alla Francia andarono gli incrociatori leggeri Attilio Regolo e Scipione Africano, nonché un certo numero di cacciatorpediniere; l’URSS ricevette, in conto riparazioni danni di guerra, la corazzata Giulio Cesare, l’incrociatore Duca d’Aosta, la nave scuola Cristoforo Colombo e alcune siluranti; alla Grecia fu destinato l’incrociatore Eugenio di Savoia. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, cui erano destinate le navi da battaglia Vittorio Veneto e Italia (ex Littorio), non richiesero la consegna delle unità ma, per contro, ne pretesero la demolizione.
BASE IDRO-268 a Rapallo
PRIMA GUERRA MONDIALE
Rapallo ospitò la Base IDRO-268
Squadriglia Idrovolanti
Sul numero del MARE (dicembre 2008), è apparsa la fotografia di un idrovolante e di una nave da guerra all’ancora nel nostro golfo. Questa cartolina è stata oggetto di telefonate e lettere giunte in redazione da parte di numerosi lettori che ne hanno apprezzato la rarità, mentre altri hanno richiesto delucidazioni ed approfondimenti storici. In effetti, la suggestiva cartolina non solo ci ricorda una Rapallo di altri tempi... ma ci propone due spunti “bellici” su cui ora faremo un po’ di luce.
1917 - Golfo di Rapallo
In primo piano, l’idrovolante F.B.A. (Franco-British Aviation Company) della Base Idro 268 di Rapallo, mentre decolla per una missione. In secondo piano, la torpediniera 39 RM (Regia Marina) della 19a squadriglia di Base a Spezia che era adibita alla vigilanza del traffico mercantile nel Mar Ligure.
Dati della Torpediniera 39 RM
- Impostazione 3 luglio 1914 - Varo 12 agosto 1915
- Consegna alla Marina 13 febbraio 1916 - Radiazione 4 gennaio 1923
La Torpediniera 39 R.M. fu costruita per sperimentare un apparato motore misto di macchine alternative e turbine su tre assi nel Regio Arsenale della Spezia su progetto dei Maggiori G.N. De Vito e Boella. Incombevano esigenze belliche e l’unità venne pertanto utilizzata senza ulteriori esperimenti e modifiche. Ma la prova non fu soddisfacente. La torpediniera 39 R.M. fu quindi impiegata soltanto in servizi locali. Incorporata nella 14° squadriglia con compiti di vigilanza foranea nel 1916, fu poi assegnata alla 19° Squadriglia costiera per la difesa del traffico marittimo nazionale nel Mar Ligure presso la quale fu impiegata intensamente e con grande profitto fino alla fine del 1° Conflitto mondiale.
BASE IDRO-268
SQUADRIGLIA DI IDROVOLANTI A RAPALLO
GUERRA 1915-1918
La storia della Base IDRO-268 di Rapallo è contenuta nello Studio N°19.
La storia dell’Aeroscalo di Chiavari-Base Dirigibili Ossevatori nello Studio N°33.
Questi due interessanti fascicoli, che si trovano nel Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Caperana (Chiavari), sono il risultato di una seria ricerca effettuata presso gli archivi dell’Aeronautica Militare dallo storico Dott. Ing. Francesco Casareto, pisano di nascita e chiavarese d’elezione che si è spento all’età di 78 anni il 6 novembre 2007. Segue un breve ricordo del nostro collaboratore Alfredo Bertollo.
E’ stato Francesco Casaretto, (nella foto) insieme ad un altro amico, Giovanni Carosini, che anche ci ha lasciato, a suggerirmi di fondare l'Associazione “La Corallina” per le tradizioni liguri di cui io, Alfredo Bertollo, sono il Governatore. Non c'è quasi bisogno di ricordare Casaretto nel Levante ligure perché tutti quelli che l'hanno conosciuto se lo sono fissato bene nella memoria, sia come personaggio sia come persona di cultura. Era ingegnere – e quasi se ne scusava come se aver avuto una preparazione tecnica provocasse una diminutio capitis allo Storico. Era un ricercatore appassionato e i suoi innumerevoli lavori sugli argomenti più disparati relativi alla storia della Liguria costituiscono un patrimonio eccezionale. Casaretto era un oratore brillante e qualunque argomento egli trattava era gradito al suo affezionato pubblico che lo ascoltava a Genova come a Camogli, Chiavari e, molto spesso, a Santa Margherita.
I due Studi non sono stati ancora pubblicati, e si presentano come manuali dattiloscritti riservati ad una ristretta élite di studiosi ed appassionati. Si tratta, tuttavia, dell’unica documentazione ufficiale esistente in Liguria, e riguarda un capitolo di storia nazionale che ci tocca da vicino.
Gli obiettivi operativi della base di Rapallo erano due:
a) - L’osservazione della costa da Punta Manara fino a Punta Arenzano.
b) –Il controllo delle rotte navali in entrata/uscita dal porto di Genova.
I nemici da intercettare dall’alto erano i sommergibili degli “Imperi Centrali” che avevano scatenato la cosiddetta “guerra sottomarina illimitata” e trasportavano un consistente potenziale di siluri e bombe di profondità che erano in grado di danneggiare le navi italiane in transito dallo scalo nazionale più importante.
L’altra base per idrovolanti, quella di Arenzano, era responsabile della zona da Nervi a Bergeggi. Il porto di Genova era quindi sorvegliato da due differenti squadriglie di aerei.
Sfogliando la documentazione apprendiamo che la Base è stata scelta per i seguenti motivi:
- Rapallo è riparata dalle mareggiate, dista solo 10 minuti di volo da Genova, l’esproprio del terreno è semplice in quanto una parte é demaniale, l’altra è del Comune, trattandosi di giardini pubblici.
Inoltre:
- La Base deve essere fornita di Idrovolanti F.B.A. “esploratori”, ma gli Hangars devono contenere anche Idrovolanti “da caccia” per difendere la base da eventuali attacchi aerei provenienti dal mare.
- Il giardino del Comune è stato regolarmente requisito in data 21 luglio 1917. Contemporaneamente è stata requisita la villa del Sig Buck (Austriaco) in via privata Macera, da adibirsi ad ufficio ed abitazione degli Ufficiali.
La fama turistica di Rapallo, com’é noto, iniziò con l’avvio dei grandi e lussuosi alberghi all’inizio del ‘900 e andò consolidandosi proprio negli anni antecedenti il Primo conflitto mondiale. Era quindi impensabile e forse anche improponibile, per molti rapallini di allora, che la scelta della base aerea per idrovolanti sarebbe potuta cadere proprio sulla già famosa “perla della Riviera”; ma così fu, ed il “periodo di leva” durò 15 mesi, dalla fine del 1917 al marzo del 1919.
Sintetizziamo ora alcuni curiosi “Atti” amministrativi:
- Il Sindaco di Rapallo, Sig. L.Ricci scrive in data 6 luglio 1917 al Presidente del Consiglio dei Ministri, chiedendo di realizzare l’Idroscalo in altro Comune e in via subordinata di ubicarlo a Prelo di S. Michele.
- La risposta del Comando in Capo del Dipartimento e della Piazza Marittima della Spezia – Comando Difesa Antisommergibili del 21 luglio è negativa!
Ma il sindaco insiste e spedisce in data 18 luglio un’altra lettera-esposto al Presidente dei Ministri, nella quale rileva la difficoltà di collegamenti interni e con Santa Margherita L.- Copia di questa lettera chiamata “supplica” è consegnata al Senatore del Regno N.Canevaro perché la invii al Capo di Stato Maggiore della Marina. Ma il terreno è già stato requisito sei giorni prima della data scritta sulla lettera.
F.3 La freccia indica la posizione degli Hangars adibiti al ricovero degli apparecchi,
nella zona demaniale a ponente del Rio Bogo (Boate).
F.4 In questa fotografia si possono apprezzare i particolari dello scafo, delle doppie ali, del
motore e degli impennaggi. Di questo modello, dall’agosto 1914 al novembre 1918, ne
furono costruiti 2.870 soltanto in Francia. Specializzati come caccia-sommergibili, gli
F.B.A. potevano pattugliare per quattro ore consecutive, alla velocità di 140 km/h.
Erano armati di mitragliere, bombe subalari anti-sommergibili e potevano montare
anche cannoncini.
F.5 Abitacolo di un idrovolante F.B.A. (France-British Aviation)
Gli Aerei
Al 1° dicembre del 1918 facevano parte della Base di Rapallo:
12 Idrovolanti F.B.A. (France-British Aviation) in piena efficienza
2 Idrovolanti F.B.A. non efficienti
1 Idrovolante costruzione “Sopwith Tabloid” in piena efficienza
F.6 Idrovolante Inglese Sopwith Tabloid
Gli aerei F.B.A. furono costruiti (su licenza) dalle seguenti società:
Piaggio di Finale Ligure, S. Giorgio di Genova e dalla SIAE di Sesto Calende.
L’aereo inglese Sopwith fu costruito (su licenza) dalle seguenti società: Ansaldo di Genova, Baglietto di Varazze e Cives di Viareggio. Sulla collocazione esatta di questi due siti, sono in corso accertamenti. Mentre aggiungiamo la ditta DUCROT che consegnò ben 120 velivoli di cui 80 completi - con numero di serie da 6400 a 6480 - e 40 suddivisi in parti di ricambio.
Gli Armamenti: Al 1° dicembre del 1918 la base disponeva di 30 bombe modello Batignolles.
Le armi per i velivoli, munite di circa 8.000 cartucce, comprendevano:
- n. 3 mitragliatrici FIAT
- n. 12 mitragliatrici REVELLI
- n. 2 mitragliatrici LEWIS
Il Personale
Al 1° dicembre del 1918 il personale della Base era composto di:
- n. 1 Comandante della Squadriglia (Ufficiale – Incarico Speciale)
- n. 12 Piloti (4 Tenenti, 1 Sergente Maggiore, 6 Sergenti)
- n. 9 Mitraglieri (compreso il Comandante, 3 Caporali, 5 soldati)
- n. 14 Montatori (2 Sergenti, 1 Caporal Maggiore, 2 Caporali, 9 soldati)
- n. 11 Motoristi (1 Caporal Maggiore, 2 Caporali, 9 soldati)
- n. 5 Meccanici d’Aviazione (1 Caporale, 4 soldati)
- n. 21 Truppa
Incarichi curiosi: 1 ciclista, 2 calzolai, 1 sarto, 1 barbiere, 1 nuotatore.
Riportiamo un esempio mensile di “attività esplorativa”:
Nel mese di gennaio 1918 sono stati effettuati da tutte le Squadriglie del territorio ligure: 366 voli di perlustrazione, quasi 12 al giorno, con una media di oltre 2.000 Km/giorno.
Nella lotta antisommergibile, la Liguria aveva 4 Basi per Dirigibili, dislocate a:
- ARMA DI TAGGIA nome in codice DIRI - 9
- ALBENGA -“- -“- DIRI - 10
- CHIAVARI -“- -“- DIRI - 11 (di cui ci occuperemo prossimamente)
- PONTEDERA -“- -“- DIRI - 12
F.7 Idrovolante da Ricognizione F.B.A. Tipo H in dotazione alla Base IDRO 268 di Rapallo
SCHEDA TECNICA: Velivolo F.B.A. Tipo H
1 Motore= Isotta Fraschini mod. I.F.V 4b - potenza CV 170
Apertura alare= mt. 14,50 - Lunghezza= mt. 10,10 Altezza= mt. 3,35 Superficie alare= mtq. 42,00 - Peso totale= kg. 1.460 Velocità= km. 145/h Quota di tangenza= mt. 4.900 - Autonomia= km. 700
F.8 “Scivolo” per Idrovolanti. Nella foto, un Apparecchio SIAI- S.13
Seguono ora due Rapporti d’incidenti di volo avvenuti nel nostro golfo.
- Rapallo, 2 giugno 1918 Dichiarazione del Sergente Pilota Pezzoli Agostino:
“Ero partito alle 18.15 con l’apparecchio 5242 F.B.A. della CIVES che doveva essermi assegnato per provare il motore unitamente al motorista Umberto Pernigotti. Dopo un giro di golfo mi disposi a scendere sulla linea di ammaraggio consueta. Poco prima del molo di Rapallo, sembrandomi di essere quasi a fior d’acqua richiamai l’apparecchio, ma avendo sentito che questo invece di toccare acqua stava per cadere indietro, compresi di essere ancora molto alto. Tentai rimediare attaccando il motore, e l’apparecchio non cadde di coda, tuttavia, avendo perduta troppa velocità, iniziò una scivolata sull’ala sinistra. Io lo compresi immediatamente e spento il motore mi alzai in piedi per gettarmi fuori ma era troppo basso e non feci in tempo. La stessa cosa fece il motorista. Fummo entrambi travolti sott’acqua, ma ci potemmo liberare quasi subito e venire a galla dove già era accorso il personale della Squadriglia in aiuto. L’apparecchio ed il motore rispondevano ottimamente e l’atmosfera, specialmente nel punto di ammaraggio, era ottima. L’unica cosa che mi ha ingannato è stato il riflesso del sole che avevo proprio in faccia e che mi impedì di vedere bene l’acqua. Mi sento e desidero di tornare a volare il più presto.” Segue firma.
Da un successivo Verbale redatto sulle condizioni dell’Apparecchio, risulta che i danni furono tali da escludere qualsiasi tentativo di riparazione e quindi d’entrata in servizio. I due aviatori se la cavarono con dieci giorni d’ospedale.
Il seguente Rapporto è stato redatto dal Comandante la 268 Squadriglia Idrovolanti. Tenente Maccario.
“Quest’oggi alle ore 10.45 il Sottotenente Agnini Rino Comandante la Sezione Sopwith partiva in apparecchio per un volo di allenamento. Appena alzatosi e cioé poco avanti il molo di Rapallo iniziava un virage cabrato, ma l’apparecchio che non aveva avuto tempo a prendere sufficiente velocità, perdeva quota forse anche perché non abbastanza sostenuto. Data la lieve altezza alla quale si trovava, toccava l’acqua con l’estremità dell’ala destra immergendosi subito di punta. Il pilota fu svelto a tirarsi fuori e se la cavò con le contusioni nell’allegato certificato medico. L’apparecchio venne ricuperato in stato di inservibilità.” Segue firma
Purtroppo, in un successivo telegramma indirizzato al Ministero Guerra Divisione-Stato Maggiore Roma, si legge che: “il Pilota Tenente Rino Agnini è deceduto dopo essere precipitato in mare.”
Si ringrazia sentitamente il Museo Marinaro Tommasino-Andreatta, ed in particolare il suo Direttore e Curatore Com.te Ernani Andreatta, che ha concesso il prezioso materiale in visione al direttivo di Mare Nostrum in occasione della sua “nascita istituzionale”. Si dedicherà alla Base Idro-268 di Rapallo un ampio servizio sulla nota pubblicazione annuale di M.N..
Carlo GATTI
Rapallo, 08.03.11
14 maggio 2012.
Il dott. Lucio Ciccone ci ha mandato il frutto di una sua accurata ricerca su FBA di cui noi, ringraziandolo, riportiamo integralmente la sua mail.
C.G.
Egregio Presidente
nel lungo intervallo trascorso dall'ultima mail ho continuato (e pressocché conclusa) la mia ricerca sull'industria flegrea; nei numerosi testi consultati ho avuto modo di individuare anche dati che - incrociati e verificati per quanto possibile in base alla competenza e alla affidabilità degli autori - mi consentono di aggiungere un altro tassello nel prospetto delle fabbriche meridionali che produssero l'idrovolante FBA.
La ditta in questione è la INDUSTRIE AVIATORIE MERIDIONALI S.A., di Napoli, avviata nel luglio 1917 dall'intraprendente finanziere patavino Bruno Canto Canzio. Le sue officine erano collocate in piena mitica area flegrea, cioè a Baia e al bordo del Lucrino, lago costiero utilizzato come idroscalo (e divenuto la base di una Sezione Difesa istituita a tutela del territorio napoletano dopo il bombardamento subito nel marzo 1918 da parte di uno Zeppelin partito dalla Bulgaria).
Le INdustrie Aviatorie Meridionali iniziarono con la riparazione di motori Renault e FIAT e poi si dedicarono anche alla costruzione degli F B A su licenza SIAI. Risulta che nel II semestre 1917 furono approntati solo 4 velivoli, che salirono a 44 nel primo semestre 1918 e infine a 52 nel successivo, completando così l'ordinativo dei 100 esemplari.
Vale la pena ricordare che ancora per iniziativa della IAM fu effettuato a fine giugno 1917 con un FBA il primo volo sperimentale del servizio di posta aerea Napoli Palermo e ritorno.
In area napoletana si occuparono dell'idrovolante in questione anche: 1°) la CATELLO COPPOLA, di Castellammare di Stabia (storica sede di cantieri navali) riuscendo a ripararne solo uno nel primo semestre 1918 e altri 25 nella seconda parte dell'anno; 2°) la L.I.M.A. (Lavorazioni Industriali Meccaniche Affini), di Napoli, che riparò invece ben 223 motori I.F. V4B che li equipaggiavano,
Per completare il quadro generale risulta che la CIVES, di Varazze, ne costruì 103 esemplari, e la GALLINARI, di Marina di Pisa, ne produsse 93 (montando anche motori I.F. V6).
Mi ha incuriosito il fatto che a Baia (località appartenente al comune di Bacoli) ad insediare nel primo dopoguerra i suoi Cantieri e Officine Meridionali venne la ligure NAVIGAZIONE GENERALE ITALIANA. Gli impianti, abbandonati dopo una decina di anni, furono ristrutturati ed ampliati per ospitare il noto Silurificio Italiano; nel dopoguerra vi subentrò la I M N, che si dedicò all'attività motociclistica nella quale un certo ruolo lo svolse un progettista ligure...
Ma qui mi fermo e nel ringraziarla per l'attenzione le rinnovo i miei saluti.
Lucio Ciccone
NAPOLEONE CANEVARO, i COOLIES cinesi si ammuntinano
L’Ammutinamento dei Coolies cinesi
trasforma in un rogo il Brigantino di Zoagli Napoleone Canevaro
il più bel veliero del Pacifico
Zoagli è una perla preziosa nota per la sua scogliera ed altre splendide attrazioni naturali e turistiche, ma quanti sanno, per esempio, che per tutto l’800, la ridente cittadina rivierasca era ancora immersa nella sua antica attività marinara che vantava un cospicuo patrimonio di velieri, valenti capitani ed equipaggi? Del resto, soltanto un paese dalla consumata tradizione sui sette mari poteva ricordare i suoi figli chiamando Passeggiata dei Naviganti un tratto del suo splendido lungomare. Ma si rimane ancora più sorpresi quando, nel vicoletto che porta alle incantevoli spiagge del ponente cittadino, si sfiora una bacheca poco visibile, direi riservata, proprio come il cuore dei marinai cui è dedicata nel simbolo della Madonna del Mare. Vi si legge: Tanti gli zoagliesi che soprattutto nell’Ottocento erano un tempo, comandanti e armatori. I Chichizola, i Merello, i Vicini, i Raggio, i Peirano ed i Canevaro hanno battuto i mari dell’America Meridionale doppiando Capo Horn per raggiungere il Cile e il Perù dove molti conterranei si erano trasferiti per lavoro…….Tra le tante navi a vela zoagliesi ricordiamo il Marinin un veloce brigantino che tante cavalleresche sfide ha consumato con i Clipper inglesi sulle rotte del riso e del teak a Rangoon. La famiglia più celebre quella dei Canevaro, oltre che per i traffici commerciali, si distinse per il ruolo svolto nella storia dell’Italia Risorgimentale….
Sarebbe arduo, nel breve spazio di quest’articolo, introdurci nei lunghi elenchi navali ricostruiti fedelmente dagli storici Giò Bono Ferrari e Tomaso Groppallo e poter raccontare di quell’attività caduta – purtroppo - nell’oblio. Ma prima di addentrarci nel racconto del tragico epilogo del Napoleone Canevaro, per maggior comprensione dell’avvenimento, proietteremo brevemente un po’ di luce su quell’inquieto periodo storico dell’ Epopea della vela.
Sin dal 1841 le grandi potenze: Inghilterra, Francia, Austria, Russia e Prussia, stipularono un trattato che parificava la tratta degli schiavi neri alla pirateria. Da allora cominciò a scemare quell’orrendo traffico umano dal continente africano, ma iniziò quello dei cinesi, con metodi, a dire il vero, non sempre trasparenti, che passò alla storia con il nome di “migrazione dei coolies”, che erano lavoratori cinesi reclutati con il sistema che oggi potremmo chiamare del caporalato. I coolies lavoravano essenzialmente nei campi per la coltivazione del cotone, nella raccolta del guano o nei cantieri edili e per la costruzione delle ferrovie. Le condizioni di lavoro erano durissime, tanto che spesso scoppiavano rivolte.
Questi esodi iniziarono, pare, nel 1847 lungo le rotte battute dai velieri che trasportavano guano peruviano in Oriente e che si assicuravano il nolo di ritorno imbarcando coolies, prima a Macao e poi a Canton. Si sospetta, in realtà, che erano in gran parte reclutati dalla mafia cinese, che spesso li “stivava” in numero esagerato sui brigantini dell’epoca. Le statistiche parlano chiaro: nel solo quinquennio tra il 1870 ed il 1874 arrivarono in Perù più di cinquantamila coolies.
Colonie di Pellicani, cormorani ed altri uccelli acquatici sulle coste peruviane
I coolies venivano trasportati a Cuba, oppure lungo la costa sud-occidentale del Pacifico, soprattutto in Perú, da cui una parte cospicua ripartiva per le Islas de Chinchas, tre isolotti nella baia del Pisco sotto al Callao, tra i 14 e 13 gradi sud di latitudine. Non vi erano approdi e risorse alimentari ed erano percorsi continuamente dalla risacca; sembravano innevate e popolate solo da immensi stormi di pellicani, cormorani e albatross che avevano scelto da secoli la loro residenza su quegli scogli solitari. Nel tempo, si era formato uno strato di sterco biancastro che variava dai 18 ai 30 metri e che li aveva ricoperti completamente. Questo prezioso quanto acre tesoro chiamato guano, impediva lo sviluppo della vita biologica ad eccezione di zanzare, lucertole e naturalmente i coolies trapiantati, che si dedicavano al suo raccolto che era richiesto in tutto il mondo come fertilizzante agricolo. Una cosa è certa, la quasi totalità dei cinesi non era composta di uomini di mare, bensì di gruppi reclutati nelle sperdute campagne della Cina e tra loro non mancavano “sventurati reietti della vita, quali debitori insolventi, contadini rovinati dalla siccità o dalle inondazioni, criminali liberati dal carcere e così via”.
I veri problemi giungevano, infatti, con le prime burrasche oceaniche quando gli emigranti cedevano al panico e presto innescavano turbolenze ed agitazione che spesso volgevano in rivolta. In altri casi, invece, sobillati da pirati di professione, i Coolies si appropriavano del veliero per esercitare agguati e atti di pirateria ai bastimenti carichi di merce preziosa. Tra i tanti fatti di mare che hanno testimoniato la leggendaria presenza di marinai zoagliesi sugli Oceani, uno in particolare, ci è rimasto impresso nella memoria fin dai primi anni di scuola, quando spesso e volentieri sprofondavamo nei racconti degli scrittori di mare che ambientavano i loro viaggi avventurosi nel Mar della Cina e nelle Isole del lontano Oriente.
Il brigantino a palo “Napoleone Canevaro” - dell’armamento di Zoagli - era noto per essere il più bel bastimento del Pacifico. Della sua tragica fine ci è rimasta una relazione consegnata al Console italiano di Macao dal Capitano d’armamento Giuseppe Chiappara: Fine della nave “Napoleone Canevaro” di Zoagli. “Detta nave era partita dal Macao nel giugno del 1875 al comando del cap. Venturini con 650 emigranti cinesi diretti al Perù. Aveva 34 uomini d’equipaggio, quasi tutti liguri. Dopo dieci giorni di navigazione i cinesi si ribellarono all’equipaggio, nell’intento d’impossessarsi della nave. L’equipaggio si difese disperatamente. I cinesi, visto che non potevano domare quel pugno di uomini, diedero fuoco al corridoio nella speranza di asfissiarli. Il Capitano e pochi marinai superstiti poterono da poppa, calare in mare una scialuppa, nella quale presero imbarco, mentre i cinesi, vistisi padroni del campo, emettevano grida di giubilo. Ma l’incendio che essi avevano provocato, sicuri di poterlo circoscrivere, progredì invece, anche a causa del forte vento. La nave divenne così un enorme falò. Fu vista bruciare in pieno Oceano per vari giorni. E dei quasi settecento cinesi ammutinati, non uno trovò scampo. L’equipaggio zoagliese, che da lontano vide l’immane braciere, dopo d’aver vagato per molti giorni sull’Oceano, fu raccolto da un veliero amburghese (?) e portato a Saigon”.
Altre fonti storiche ci dicono che il Napoleone Canevaro imbarcò a Macao una partita di ottomila pacchi di razzi. I cinesi, ignorando la presenza a bordo di un carico così pericoloso, usarono per ribellarsi l’arma più sbagliata: il fuoco, che appena innescato, distrusse il bel brigantino di Zoagli.
Il fumo circonda l’agonia del brigantino che sta per essere inghiottito dall’Oceano
Si raccontò inoltre che la prima ribellione avvenne nel Mar delle Filippine, ma il complotto fu sventato dal Capitano Venturini e dal suo equipaggio che riuscì a mettere ai ferri un cospicuo numero di cinesi. Alcuni giorni dopo, altri cinesi insorsero e trucidarono di sorpresa alcuni marinai e respinsero il resto dell’equipaggio a poppa e dettero fuoco al gavone di prora. Fu a questo punto che il Capitano diede l’ordine di mettere la lancia in mare e non mancò, tra l’altro, il tentativo di salvare la nave con un atto d’eroismo: il Capitan d’Arme, il Medico e l’Interprete vollero tornare a bordo per cercare di allagare il deposito dei razzi, ma non fecero in tempo. L’esplosione avvenne quasi subito. A bordo morirono tutti. I superstiti dell’equipaggio stipati sulla lancia di salvataggio videro piovere rottami incandescenti e membra umane. Poi arrivarono branchi di squali famelici a cancellare le tracce di quell’immane tragedia del Pacifico. Dopo tre settimane di stenti, Venturini ed i suoi zoaglini, vennero raccolti, forse da un clipper americano e non tedesco come riportato in precedenza.
Nel trasporto dei coolies fu coinvolto anche l’Eroe dei due Mondi Giuseppe Garibaldi che scrisse nelle sue memorie: “Il 10 gennaio 1852 salpai dal Callao per Canton. Impiegai circa 93 giorni sempre con vento favorevole, passando alla vista delle Isole Sandwich ed entrando nel Mar della Cina, fra Luzon e Formosa; giunto a Canton il mio consegnatario mi mandò ad Amoy non trovandosi a vendere il carico di guano nella prima piazza. Da Amoy tornai a Canton ove si cambiarono gli alberi della Carmen trovati guasti, ed il rame. Pronto il carico, lasciammo Canton per Lima.” Garibaldi non spiega il tipo di carico della Carmen, ma si sa che era formato da qualche centinaia di coolies. Nel 1853 la “tratta di questi operai cinesi” era ancora molto intensa.
Fu soltanto intorno al 1858 che il reclutamento dei coolies cominciò a scemare per effetto di un accordo tra le grandi Potenze di allora, lasciando un ricordo quasi romanzesco. In seguito, quel tipo d’emigrazione ricevette il suo colpo di grazia con l'inizio dell'esportazione dei nitrati del Gran Deserto Salato di Tarapaca che sostituì il guano come fertilizzante; solo allora (1884) la campana suonò a morte sulle attività alle guaneras. Secondo il Lubbock, Garibaldi fu presente ad alcune sanguinose schermaglie, ma le navi italiane o quelle peruviane armate da nostri antenati rivieraschi non si macchiarono mai di inutili crudeltà. Lo stesso armatore chiavarese Denegri ebbe a dire su Garibaldi: “M’ha sempre portato cinesi nel numero imbarcato, e tutti grassi e in buona salute, perché li trattava come uomini e non come bestie.”
Il Napoleone Canevaro scomparve negli abissi trascinando con sé molti cinesi e una parte dell’equipaggio zoaglino. Dispiace doverlo affermare, ma soltanto i nostri marinai furono le vittime innocenti di quel disastro, e ci sembra giusto non dimenticarli mai. Anche la perdita del brigantino a palo più bello dell’Oceano Pacifico fu dura da digerire, ma gli armatori nostrani dell’ottocento avevano lo “scafo” di quercia, robusto come quello dei loro velieri e presto ne vararono altri ancora più forti, più belli e più grandi.
Carlo GATTI
Rapallo, 25.03.12
NARCISSUS - Il Veliero che non voleva morire
NARCISSUS
di CONRAD
IL VELIERO CHE NON VOLEVA MORIRE
Gli uomini di mare sparsi nel tempo, dalla preistoria ai giorni nostri, hanno sempre avuto un nemico in comune che resta immutato per la sua forza esplosiva e travolgente: la tempesta! Sebbene piccole, medie e grandi navi, tutte altamente automatizzate, solchino oggi i sette mari con grande disinvoltura, le statistiche, purtroppo, ci dicono che il numero dei naufragi, oggi, è sempre alto. Duemila anni fa i marinai si difendevano dai fortunali navigando in Mediterraneo soltanto nei mesi buoni tra la primavera e l’autunno e quando potevano, soltanto di giorno e in vista della costa.
Oggi le garanzie del marinaio sono scritte dalle leggi sulla sicurezza della navigazione che sono rispettate in “quasi” tutto il mondo. Nell’avverbio virgolettato, tuttavia, c’è la chiave di lettura del fenomeno che in mare si chiama deregulation e i naufragi avvengono non soltanto a causa dei fortunali, ma anche per gli incendi, le esplosioni, le collisioni e l’insufficienza di personale qualificato.
Da questo quadro a tinte fosche è facile ora passare ad un altro tipo di rappresentazione nella quale i dipinti, pur arricchendo lo stesso tema, documentano fortunatamente La Grazia Ricevuta. Questi omaggi offerti per lo più alla Madonna, continuano a salire e fissarsi ai muri dei Santuari che costellano le nostre coste e testimoniano la fede della gente di mare.
Il dipinto ad olio del veliero Narcissus che si trova nel Santuario di Montallegro non è diverso dai tanti ex-voto che si ammirano nelle pinacoteche della devozione tra le due riviere, ma la sua presenza nell’immaginario collettivo, richiama alla mente mari scatenati, calme equatoriali e la sottile psicologia di tanti personaggi descritti magistralmente dal più grande scrittore di storie di mare Josef Conrad, che proprio su quella nave imbarcò una prima volta da marinaio e poi da ufficiale di coperta con il brevetto di capitano di lungo corso che ottenne nel 1884.
Abbiamo scelto questa nave “speciale” così carica di ricordi letterari e nautici per compiere insieme a voi il primo tragitto tra le migliaia di “ringraziamenti” che sono giunti ininterrottamente alla Madonna di Montallegro dal 3 luglio 1557, giorno dalla Sua Apparizione al contadino Giovanni Chichizola di Carnevale.
Quando Conrad lasciò il navigare nel 1894, s’immerse ancor più nel suo mondo marinaro e per trent’anni scrisse i suoi romanzi, saggi e racconti, fra i quali risalta “The nigger of Narcissus”, Jimmy, il negro che si arruola a Bombay pur sapendo di essere afflitto dalla tubercolosi; Singleton il vecchio lupo di mare inglese, rispettoso delle leggi marinare e dei canoni della tradizione; Belfast il marinaio astuto come una volpe; Donkin il marinaio ribelle e poi gli ufficiali, il molto inglese Capitano Allistoun, calmo e indifferente, il Primo Ufficiale Baker, che desidera il comando più di ogni altra cosa, ma sa di non poterlo raggiungere…. Queste figure oggi sembrano uscite da un mondo immaginario, eppure sono reali e perfettamente aderenti a quel mondo della vela che, purtroppo, è stato velocemente superato dal progresso tecnico-scientifico e quasi dimenticato.
- Scrive Conrad – “Il Narcissus era nato tra i vortici di fumo nero, fra lo squillo dei martelli che battono il ferro, sulle rive del Clyde. Sotto quel cielo grigio, su quel fiume rumoroso, vedono il giorno splendide creature che vengono al mondo per essere amate dagli uomini. Il Narcissus era di quella stirpe perfetta. Meno perfetto, forse, di tante altre navi, ma incomparabile perché era nostro e noi ne andavamo orgogliosi”.
Varato a Glasgow nel 1875, il Narcissus navigò quasi sempre nei mari orientali e soltanto nel 1899 fu acquistato da Vittorio Bertolotto (1854-1934) ed impiegato sempre oltre i Capi.
V. Bertolotto fu una delle maggiori figure armatoriali di Camogli, figlio del professor Lazzaro, patriota del Risorgimento, amico di Garibaldi e poi preside del Nautico di Camogli.
L’Ex voto, di cm 87x67, dell’artista G. Roberto rappresenta il Narcissus in grave difficoltà nel passaggio del terribile Capo Horn, durante il quale l’equipaggio e la nave si salvarono miracolosamente per intercessione della “Vergine Santissima di Montallegro” il 22-23 .9.1903.
La didascalia del quadro riporta la posizione geografica dell’avvenimento e i 12 nomi dell’equipaggio che offrono “in ringraziamento questo ricordo alla V.SS. di Montallegro (Rapallo) – Genova marzo 1904”.
Se è vero che un veliero su quattro naufragava a Capo Horn, pensate quante navi sono state salvate con la costruzione del Canale di Panama avvenuto nel 1914!
Il 17 gennaio 1907, il Narcissus partì da Saint Louis du Rhone (Marsiglia) diretto a Talcahuano in Cile con un carico di gesso. A Capo Horn incappò in una violenta tempesta e dovette, per le gravi avarie riportate, ripiegare penosamente su Rio de Janeiro che raggiunse il 19 maggio successivo. Fu dichiarato “relitto” e perciò venne “abbandonato” alla Società Assicuratrice, la Mutua Assicurazioni Marittime Cristoforo Colombo di Camogli, presso cui il Narcissus era assicurato per lire 93.700. Ci fu uno strascico giudiziario che si risolse in questi termini: “la società assicuratrice contestava la legittimità della dichiarazione di abbandono della nave, che invece venne pienamente riconosciuta, con tutte le conseguenze in favore dell’armatore Bertolotto, dalla Corte d’Appello di Torino”.
Rientrato in Italia, il veliero fu disalberato ed adibito a pontone nel porto di Genova.
Nel 1917 fu riarmato e, con il nome di Iris venne iscritto al dipartimento marittimo di Rio de Janeiro dove, il 14 gennaio 1922, venuto a collisione con un’altra nave, affondò. Ancora una volta venne recuperato e tornò a navigare finchè, tre anni dopo, nel 1925, il suo proprietario falliva ed in tale frangente la nave, che fu nota nel mondo come Narcissus non ce la fece proprio a sopravvivere e dovette rassegnarsi alla demolizione, dopo ben 50 anni di vita, un vero record!
La sua polena è attualmente conservata nel porto di Mystic, nel Connecticut.
Carlo GATTI
Rapallo, 17.02.12
Un MARINAIO del Tigullio in Cina
Maurizio Brescia
17.05.11
Un marinaio del Tigullio in Cina
Gli archivi privati (o, più semplicemente, le raccolte di ricordi “di famiglia”) nascondono spesso documenti unici e inediti, immagini rare, cimeli di epoche passate…. tutti elementi di una storia – a torto, talvolta, definita “minore” – che quasi mai vengono portati alla luce per permetterne la conoscenza da parte del grande pubblico. Non è questo il caso della Famiglia Cocchi di Santa Margherita Ligure, un cui congiunto – il “marò” Natale Cocchi, per l’appunto – negli anni Trenta prestò servizio nella Regia Marina e, imbarcato sul posamine/cannoniera Lepanto, navigò nei mari dell’Estremo Oriente e fu spesso di base a Shanghai insieme alla sua nave. Con molta generosità, il figlio e la figlia di Natale Cocchi hanno messo a nostra disposizione l’imponente collezione di fotografie raccolte, e in parte direttamente scattate, dal loro padre durante il suo imbarco sul Lepanto e le navigazioni nelle acque della Cina.
Foto n.1 - Shanghai, seconda metà del 1937. La Lepanto (dietro alla quale si riconoscono i due fumaioli della seconda cannoniera italiana all’epoca presente nella zona, la Ermanno Carlotto), sul fiume Hwangpu insieme ad altre navi militari. In particolare, sono riconoscibili due unità francesi: l’ “avviso coloniale” D’Entrecasteaux e – sullo sfondo – l’incrociatore leggero Lamotte-Picquet (classe “Duguay-Trouin”), al quale sono affiancati alcuni mezzi d’uso locale tra cui una bettolina per il rifornimento della nafta.
Non si tratta della “solita” raccolta di fotografie stereotipate, raffiguranti soprattutto commilitoni sconosciuti o inquadrature turistiche dei luoghi visitati. Al contrario, nei quattro ricchi album fotografici di Natale Cocchi trovano spazio le unità navali italiane e di altre Marine che stazionarono a Shanghai nella seconda metà degli anni Trenta, immagini “belliche” dell’entrata in città delle truppe nipponiche all’epoca della guerra cino-giapponese, scene di vita quotidiana nelle strade e nei mercati, panorami del fiume e dei monumenti, “bellezze” locali, ed altri soggetti ancora. E’ questa una collezione significativa e consistente che – grazie alla passione, alla competenza e, perché no, al “fiuto” giornalistico dell’amico Emilio Carta – già a partire dallo scorso anno abbiamo avuto modo di iniziare a valutare, apprezzare e riordinare organicamente. La Mostra “Mare Nostrum” 2005 è quindi l’occasione per presentare non soltanto un “inedito” assoluto ma, quel che più conta, una testimonianza estremamente viva interessante, tanto dal punto di vista “navale” quanto da quello umano, di un importante e al tempo stesso poco conosciuto aspetto della storia passata della Marina Italiana. La presenza di unità della Regia Marina nelle acque cinesi aveva avuto inizio già nel 1866, con il viaggio in Estremo Oriente della pirocorvetta Magenta; altre unità italiane (tra esse Vesuvio, Vettor Pisani, Calabria, Elba) furono presenti in zona tra il 1898 e i primi anni del ‘900. All’epoca della “rivolta dei boxers” (1900), reparti da sbarco di marinai italiani presero parte all’occupazione di Pechino per ristabilire la sovranità dei paesi occidentali sul territorio delle legazioni commerciali colà stabilite. Successivamente, a partire dagli anni Venti, marinai del reggimento “San Marco” furono stanziati a Tien-Tsin per la difesa della concessione italiana e – nel 1925 – fu ricostituita la Divisione Navale dell’Estremo Oriente di cui fecero inizialmente parte l’incrociatore corazzato San Giorgio e la cannoniera Sebastiano Caboto. Nel 1935, con funzioni di nave coloniale, fu inviato in Cina il Lepanto (che affiancò a Shanghai e sul fiume Hwangpu la cannoniera Ermanno Carlotto, già presente in zona). Con il peggioramento dei rapporti cino-giapponesi, sfociati infine nell’invasione nipponica del territorio cinese (1937), la Regia Marina fu impegnata intensamente nella protezione degli interessi nazionali e degli altri paesi occidentali e, nel tempo, importanti unità italiane effettuarono lunghe crociere nelle acque cinesi e dell’Estremo Oriente: incrociatore Trento e cacciatorpediniere Espero (già nel 1932), esploratore Quarto (1935), incrociatore Montecuccoli (1937-38) e incrociatore Bartolomeo Colleoni (1938-39). Come vedremo, il Lepanto e il Carlotto, rimasti nelle acque cinesi successivamente allo scoppio della seconda guerra mondiale, furono autoaffondati dai loro equipaggi dopo l’8 settembre 1943 per evitare che cadessero nelle mani dei giapponesi. Natale Cocchi, nato a Marina di Campo (Isola d’Elba) il 5 maggio 1915, una volta ricevuta la chiamata alle armi per la sua classe fu arruolato nel 1936 nei ranghi della Regia Marina. Dopo un iniziale periodo di addestramento trascorso al “Deposito Marina” di Taranto, imbarcò sul cacciatorpediniere Freccia, all’epoca facente parte della 7a Squadriglia ct . Tra la metà del 1937 e gli ultimi mesi del 1938 prestò servizio nelle acque cinesi a bordo del Lepanto e, rientrato in patria verso la fine dell’anno, fu avviato in congedo. All’inizio del 1940 faceva parte dell’equipaggio del panfilo dei conti Della Gherardesca che, tra i vari porti della riviera, fece scalo anche a Santa Margherita Ligure: qui Natale Cocchi conobbe Angela Roccatagliata, con la quale si sposò dopo un breve fidanzamento. Richiamato in servizio poco dopo l’entrata in guerra dell’Italia, venne destinato presso le installazioni della difesa costiera dell’Isola d’Elba; successivamente all’armistizio, fu imbarcato su diversi dragamine della Regia Marina, “cobelliggeranti” al Sud con gli anglo-americani.
Foto n.2 - Gennaio 1938. Natale Cocchi (a sinistra) e un commilitone all’estrema prora della R.N. Lepanto. Mentre il marinaio sulla destra indossa la divisa “ordinaria invernale”, quella di Natale Cocchi è la divisa estiva in tela grigia per i reparti terrestri della Regia Marina (in uso tra gli anni Venti e gli anni Trenta). E’ probabile che l’uso di tale divisa fosse stato autorizzato dal Comando locale per l’espletamento di servizi di guardia a bordo, ove non si rendesse necessario l’uso di un abbigliamento più formale e “da regolamento”.
Dopo la seconda guerra mondiale, Natale Cocchi lasciò definitivamente l’Isola d’Elba – dove vivono oggi le sorelle Dora e Adria e il fratello Ilio – e si trasferì a Santa Margherita Ligure, che annovera tuttora tra i suoi concittadini la moglie e i figli Pinuccia e Cesare, con le rispettive famiglie. Il mare, tuttavia, gli era “entrato nel sangue”, e Natale Cocchi intraprese ben presto la carriera marittima, navigando su numerose navi mercantili sino al 1970, anno della sua scomparsa.
Foto n.3 - La cannoniera Lepanto alla fonda a Shanghai nell’autunno del 1937.
Sicuramente, però, il periodo più “avventuroso”, e – sotto molti aspetti – anche maggiormente formativo, della sua vita fu quello trascorso nelle lontane acque della Cina a bordo del Lepanto, e ne sono la prova gli album fotografici che oggi, a quasi settant’anni di distanza, fanno rivivere non soltanto i suoi ricordi personali ma anche le vicende, ormai entrate nella storia, che ebbero come protagoniste le unità della Regia Marina in Estremo Oriente negli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale.
[1] Sin dall’entrata in servizio (1931/32) i ct. della classe “Freccia” (Freccia, Dardo, Saetta e Strale) andarono a costituire la 7a Squadriglia ct., con il Freccia caposquadriglia. I similari “Folgore” (Folgore, Baleno, Fulmine e Lampo) erano riuniti nell’8a Squadriglia. Freccia e Dardo, unici superstiti di queste otto unità verso la fine del conflitto, nell’estate 1943 furono aggregati alla 15a Squadriglia ct.
Nota dell’autore
Se non diversamente indicato, tutte le fotografie presentate in queste pagine fanno parte della “Collezione Cocchi” e – come meglio verrà specificato più avanti – sono state scatatte tra il 1936 e la fine del 1938. Per quanto possibile, si è cercato di datare ciascuna di esse nella maniera più attendibile anche se, in taluni casi, ci si è dovuti limitare ad una datazione generica in assenza di elementi tali da consentire una maggiore precisione.
Le immagini della collezione sono pubblicate per gentile concessione dei Figli e degli Eredi di Natale Cocchi che, in tale veste, ne sono i soli e legittimi proprietari.
Il contesto storico
L’interesse dell’Europa e del mondo occidentale per l’Oriente, e per la Cina in particolare, può essere fatto risalire già ai tempi del medioevo : è ben noto, ad esempio, il famoso Milione (scritto nel 1298), nel quale il commerciante ed esploratore veneziano Marco Polo narrava le sue esperienze e avventure alla corte di Cublai, Gran Khan dei Tartari, e i suoi viaggi nelle terre favolose del Catai (Cina) e del Cipango (Giappone) . Nei secoli successivi gli interscambi con la Cina aumentarono gradatamente e, soprattutto a partire dal secolo XVIII, la dilagante moda delle “cineserie” portò ad un forte sviluppo delle importazioni di porcellana, seta, giada e – naturalmente – tè da parte delle principali nazioni europee. Tuttavia, Canton restava l’unico porto cinese aperto ai commerci con l’occidente, e mercanti e viaggiatori europei erano soggetti a forti restrizioni in materia di residenza e normative doganali, mentre la grande massa degli scambi era appannaggio di commercianti e compagnie cinesi. Nel 1835 l’Inghilterra, dopo aver ottenuto l’autorizzazione a stabilire una base commerciale a Canton, iniziò ad importare dalla propria colonia del Bengala grandi quantità di oppio, fortissimamente richiesto dal mercato interno cinese. Quattro anni dopo, l’imperatore della Cina proibì l’importazione dell’oppio britannico adducendo motivi di salute pubblica ma – in realtà – tentando in tal modo di favorire i produttori e i commercianti nazionali.
Foto n.4 - La Cina negli anni Trenta, con indicate le principali località citate nel testo.
La confisca e la successiva distruzione di enormi quantitativi di oppio britannico da parte delle autorità cinesi portarono, nel 1840, al bombardamento di Canton da parte della Royal Navy e allo scoppio della “prima guerra dell’oppio”: con il trattato di Nanchino (1842) la Cina – sconfitta – apriva al commercio inglese i porti di Canton, Amoy, Shanghai, Ning-Po e Fu-Chou cedendo alla Gran Bretagna, nel contempo, l’isola di Hong-Kong. L’insoddisfazione di entrambe le parti per gli accordi del 1842 fu la causa, tra il 1856 e il 1860, di un nuovo conflitto che – questa volta – vedeva riunite contro la Cina tanto la Francia quanto la Gran Bretagna . Con il trattato di Pechino (25 ottobre 1860), ulteriori undici porti vennero aperti alle nazioni europee, le quali potevano occupare piccole porzioni di territorio cinese (“concessioni”) aventi il privilegio dell’extraterritorialità. Inoltre, fu imposto l’accredito di regolari rappresentanze diplomatiche dei paesi europei presso il governo del “Celeste Impero”. La presenza delle concessioni occidentali sul territorio cinese, per forza di cose, diede origine a diverse situazioni di segno opposto. Da un lato, i cinesi che vivevano e lavoravano all’interno di esse potevano usufruire di condizioni economiche e lavorative nettamente migliori di quelle dei loro altri compatrioti, avendo inoltre accesso ad ambienti e situazioni culturali moderni se non – talvolta – addirittura all’avanguardia. Dall’altro, nel resto del territorio cinese, su buona parte della popolazione avevano presa ideali xenofobi ed antioccidentali che, spesso, portavano ad atti di violenza e uccisioni nei confronti degli stranieri e dei missionari che vivevano al di fuori dei territori delle concessioni. Verso la fine del secolo XIX anche il Giappone e la Russia (rispettivamente con l’isola di Formosa e Port Arthur) ottenevano in concessione porzioni del territorio cinese.
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2 Tuttavia, in tempi ancora più lontani, le spedizioni di Alessandro Magno e – successivamente – i resoconti di viaggiatori e commercianti bizantini avevano già fatto intravedere quali estensioni di terre (e quali ricchezze) caratterizzassero il medio e il lontano Oriente.
3 L’opera fu dettata, in francese, da Marco Polo a Rusticiano (o Rustichello) da Pisa, trovandosi entrambi prigionieri dei genovesi dopo la battaglia della Meloria (1284). Il titolo originale era Le livre de Marco Polo citoyen de Venise, dit Million, où on conte les merveilles du monde.
4 Nel corso dell’occupazione di Pechino, per rappresaglia contro l’esecuzione sommaria di alcuni prigionieri occidentali, le truppe britanniche al comando di Lord Elgin incendiarono il “Palazzo d’Estate” dell’imperatore cinese.
Foto n.5 - Costruzioni tradizionale di Shanghai fotografati da Natale Cocchi all’epoca del suo imbarco a bordo della Lepanto.
L’attività dei movimenti xenofobi fu incoraggiata dall’imperatrice Tsu-Hi la quale – in particolare – favorì il proliferare di società segrete, bande e gruppi al limite della legalità che, negli ultimi anni dell’Ottocento si distinsero per atti di violenza, attentati e massacri di stranieri e cittadini delle nazioni europee. Il gruppo xenofobo maggiormente rilevante era quello noto come “Pugilato dello Spirito” (o “Pugilato della Giusta Armonia”), i cui membri furono denominati dagli occidentali – erroneamente ma con una certa incisività – con il termine di “Boxers”, e la rivolta armata che, nel giugno 1900, li vide protagonisti (soprattutto a Pechino), passò quindi alla storia come “Rivolta dei Boxers”. Una spedizione internazionale sbarcò nei pressi di Taku per sedare i disordini e le truppe occidentali marciarono su Pechino, che fu occupata: nei combattimenti si distinsero anche reparti di marinai italiani che contribuirono in misura considerevole alla difesa degli interessi europei e al ristabilimento dell’ordine nelle concessioni e nei territori limitrofi. Nel settembre 1901 la Cina firmò un trattato con le nazioni occidentali che, oltre al versamento di forti indennizzi, manteneva inalterato il regime e l’estensione territoriale delle concessioni. In seguito al trattato, anche l’Italia potè disporre di proprie concessioni, a Tien-Tsin (nei pressi di Pechino) e a Shanghai; nella pratica, sino alla seconda guerra mondiale ben 105 porti e località fluviali restarono aperti al commercio internazionale, e 51 tra essi ospitavano anche una o più concessioni di 18 diversi paesi. I soli Stati Uniti non disponevano di una concessione propria, ma collaboravano con la Gran Bretagna nell’amministrazione della concessione di quest’ultima a Shanghai; gli U.S.A., inoltre, godevano di clausole economiche e doganali particolarmente favorevoli nel commercio e nell’interscambio con la Cina. La vita degli europei nelle concessioni continuava intanto a scorrere tra commerci, ricevimenti, affari finanziari, corse di cavalli e attività diplomatiche, mentre la Cina viveva un’epoca di grandi trasformazioni. Nel 1911 scoppiò la rivoluzione che, nel febbraio del 1912, portò alla caduta della casa imperiale e all’instaurazione della repubblica; successivamente agli eventi della prima guerra mondiale iniziarono a verificarsi tensioni tra le componenti politiche nazionalista (che faceva capo a Chang Kai Shek) e comunista (già allora sotto la guida di Mao Tse Tung). Ne conseguì una latente guerra civile di cui, nel 1931, approfittò il Giappone occupando la Manciuria; il 7 luglio 1937, in seguito a un incidente di frontiera presso Pechino, iniziò il conflitto cino-giapponese che – entro la fine dell’anno – avrebbe portato alla conquista di Pechino, Shanghai e Nanchino da parte delle truppe di Tokyo. Nel corso dell’occupazione giapponese della Cina (e, in particolare, di Shanghai e del basso corso dello Yang-Tze-Kiang), le Marine europee e degli Stati Uniti si trovarono fortemente impegnate nella protezione degli interessi nazionali e nella difesa delle concessioni stesse, spesso prese di mira dall’artiglieria e dall’aviazione nipponiche. Con l’inizio della seconda guerra mondiale, e la conseguente occupazione giapponese di ulteriori zone della Cina, i territori delle concessioni si trovarono sempre più isolati e, al termine del conflitto o pochi anni dopo, ritornarono tutti sotto il controllo della Cina popolare, ad esclusione della colonia portoghese di Macao e di quella britannica di Hong Kong .
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(5) Macao è, a tutt’oggi, l’ultimo lembo di territorio cinese sotto la sovranità di uno stato europeo; in base agli accordi del 1842, Hong Kong è tornata sotto il controllo cinese (sia pure con ampie garanzie di autonomia politica ed economica) il 1° luglio 1997.
Foto n. 6 - Inverno 1937-38. Una vista “panoramica” del fiume Hwangpu, scattata dalla zona litoranea del centro di Shanghai. Le unità militari raffigurate sono, nell’ordine da sinistra:
Incrociatore USS Augusta (Stati Uniti) – Un gruppo di tre unità britanniche composto da uno sloop coloniale tipo “Bridgewater” o “Hastings”, un incrociatore tipo “D” e, sulla dritta di quest’ultimo, un altro sloop – Incrociatore Lamotte-Picquet e “avviso” D’Entrecasteaux (Francia) – La cannoniera italiana Lepanto dietro alla quale sono visibili i fumaioli della Ermanno Carlotto – Un gruppo di tre unità americane che, dalla più vicina alla più lontana, potrebbero essere identificate con un dragamine tipo “Bird”, la cannoniera Isabel e la cannoniera Sacramento – Un altro “avviso” francese tipo “Bougainville”, gemello del D’Entrecasteaux – un cacciatorpediniere olandese classe “Van Ghent”. Nel tratto di fiume in alto a sinistra (nella foto praticamente al di sopra delle alberature dell’Augusta), sono visibili tre unità giapponesi: due cacciatorpediniere classe “Momi” o “Wakatake” e, al centro il vecchio incrociatore corazzato Yakumo del 1899.
Nota sull’orografia
Buona parte dell’attività delle unità navali europee stazionarie in Cina, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio della seconda guerra mondiale, si svolse sulle coste cinesi da Tien-Tsin a Canton e – in particolare – sui tre grandi fiumi che attraversano la Cina da Ovest a Est: l’Hoang-Ho (Fiume Giallo) a Nord, lo Yang-Tse-Kiang (Fiume azzurro) al centro e il Si-Kiang (Fiume Rosso) a Sud.
Il più lungo e importante tra questi è lo Yang-Tse-Kiang, (oltre 5.200 km dalle sorgenti nel Tibet alla foce); attraversa la regione dello Yunnan e sulle sue rive sorgono le importanti città di Chung-King, Fu-Chou, Hank-ow e Nanchino; è navigabile dalla foce sino a 2.650 km verso l’interno e ha sempre costituito un’importante via di comunicazione per tutta la Cina centrale. A poca distanza dalla foce sorge la città di Shanghai, il cui fiume (Hwangpu) è collegato allo Yang-Tse-Kiang da una serie di canali.
La navigazione sul fiume dipende stagionalmente dalle piene (dovute allo scioglimento delle nevi himalayane), il cui regime può portare a enormi variazioni nella profondità delle acque: nel 1939, ad esempio, si passò dai 3/5 metri minimi della stagione invernale ai 65 metri fatti registrare tra luglio e agosto (*).
Questa particolarissima situazione idrografica va tenuta presente per meglio comprendere l’attività operativa – e le specifiche caratteristiche tecniche – che contraddistinguevano tutte le unità fluviali passate ormai alla storia come “Cannoniere della Cina”.
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(*) Sullo Yang-Tse-Kiang i dislivelli tra la stagione secca e quella di “piena” possono far riscontrare valori ancora più ampi: dati rilevati dalla marina francese indicano, per alcuni anni all’inizio del ‘900, valori compresi tra i 5 e i 106 metri! (Fonte: Estival, B., Les Cannonières de Chine 1900-1945, pag. 15, op. cit. in bibliografia)
Le cannoniere
“…. Cannoniera: unità navale di dimensioni ridotte, solitamente armata con un certo numero di pezzi di artiglieria di medio calibro; contraddistinta da una velocità non elevata e da un limitato pescaggio, viene impiegata sui fiumi e nelle acque costiere ….”
Questa definizione è tratta da uno tra i più autorevoli dizionari navali e consente di apprezzare le principali caratteristiche di una particolare tipologia di bastimento che, nei decenni a cavallo tra la fine dell’Ottocento e la seconda guerra mondiale, fu largamente utilizzato dalle principali Marine mondiali.
(6) Palmer, J., Jane’s Dictionary of Naval Terms, pag. 101, op. cit. in bibliografia.
Foto n.7 - La cannoniera francese Doudart de Lagrée in una suggestiva immagine scattata da Natale Cocchi. Anche la Marina francese – dall’inizio del secolo sino alla fine degli anni Trenta – dislocò sui fiumi cinesi numerose cannoniere per la protezione delle proprie concessioni: a Shanghai, ad esempio, la superficie della concessione francese era pari a circa la metà di quella, complessiva, delle concessioni di tutti gli altri paesi occidentali. La cannoniera Doudart de Lagrée portava il nome di un ufficiale della Marina francese, morto nel 1868 durante un viaggio di esplorazione dal Mekong allo Yunnan. Costruita nel 1905 a Nantes dai cantieri La Brosse et Fouché in 13 sezioni, fu spedita smontata in Cina e riassemblata a Kiukiang; fu intensamente utilizzata nella zona di Shanghai e sul fiume Yang-Tze-Kiang passando in riserva a Shanghai nel dicembre 1939 e venendo infine demolita nella seconda metà del 1941. Lo sviluppo delle politiche coloniali in Africa e in Asia pose le nazioni europee (e, successivamente, anche il Giappone gli Stati Uniti) nella condizione di dover ricoprire numerosi ruoli nei quali le “tradizionali” navi da guerra non potevano essere impiegate al meglio delle loro potenzialità: controllo del corso di grandi fiumi e di frastagliate zone costiere, protezione di porti e aree commerciali, “presenza” navale e soprattutto politica nei confronti di potentati locali speso ostili, attività di “polizia coloniale”, repressione di moti e rivolte e molti altri ancora. Tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta del secolo XIX nasceva così la cannoniera il cui aspetto – soprattutto per le unità di cui era previsto l’impiego fluviale – non sarebbe sostanzialmente mutato nel tempo: scafo molto basso sull’acqua, sovrastrutture dalle notevoli dimensioni, uno o due grandi fumaioli, apparato motore non potentissimo ma affidabile e di facile conduzione. L’Inghilterra e la Francia, per via dei notevoli impegni militari nei loro vasti possedimenti coloniali, realizzarono un grande numero di unità; tuttavia, all’inizio del Novecento anche il Giappone, la Russia, l’Italia, la Germania, l’Olanda e altri paesi costruirono un certo quantitativo di cannoniere il cui impiego, per l’appunto, si concentrò sui fiumi e nelle acque costiere cinesi . Come abbiamo visto, le vicende militari e politiche della Cina tra le due guerre mondiali resero necessaria una continua presenza in zona delle Marine occidentali, ed alcune cannoniere furono fatte costruire direttamente in Cina per accelerare i tempi del loro impiego ed evitare lunghi trasferimenti via mare o l’invio delle unità – smontate – dalla madrepatria. In questo contesto, navi di maggiori dimensioni (posamine, sloops, corvette, ma anche cacciatorpediniere e incrociatori) furono utilizzate come unità stazionarie, spesso con compiti diplomatici o per “mostrar bandiera” nell’espletamento di quella che – non a caso – è stata definita “politica (o diplomazia) delle cannoniere”. La seconda guerra mondiale portò alla nascita di un nuovo tipo di cannoniera, impiegata per l’appoggio ad operazioni di sbarco, per il contrasto al cabotaggio costiero nemico e per il trasporto di “commandos” e incursori. Si trattava di un’unità veloce e di piccole dimensioni, spesso ottenuta dalla conversione di motosiluranti a bordo delle quali – una volta sbarcati i siluri e le apparecchiature per il loro lancio – erano installate mitragliere di vario calibro, mortai o cannoni leggeri . Negli anni del secondo dopoguerra, ormai scomparsi gli imperi coloniali nei quali le cannoniere “tradizionali” avevano trovato un così grande impiego, ha avuto luogo l’evoluzione finale della cannoniera, direttamente derivata dalle unità appena descritte costruite tra il 1940 e il 1945.
[7] Non va dimenticato che anche molte Marine sudamericane utilizzarono cannoniere sui grandi fiumi del continente, non già nella conduzione di politiche coloniali ma – assai spesso – nell’ambito dei conflitti armati che, di volta in volta, videro coinvolti numerosi paesi della zona tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del secolo XX°.
[8] Numerose cannoniere di questo tipo, espressamente costruite o ricavate dalla trasformazione di mezzi da sbarco, furono utilizzate dalla “Riverine Force” dell’U.S. Navy nel corso della guerra del Viet-Nam.
Foto n.8 - L’incrociatore pesante britannico HMS Suffolk alla fonda nel tratto del fiume Hwangpu di fronte alla zona centrale di Shanghai nell’autunno del 1937. All’epoca, il Suffolk e il Cumberland erano le sole due unità tipo “County”, su un totale di tredici, ad imbarcare sistemazioni aeronautiche di nuovo tipo (catapulta brandeggiabile e un vistoso hangar) a poppavia dei fumaioli. Si noti l’idrovolante Supermarine “Walrus”, un velivolo che sarebbe stato intensamente impiegato dalla Royal Navy nel corso di tutto il secondo conflitto mondiale. Alla fine del 1937, la Royal Navy allineava in Estremo Oriente (“on China Station”), ben nove incrociatori: Birmingham, Capetown, Cardiff, Cornwall, Cumberland, Danae, Dorsetshire, Kent e Suffolk. Con l’adozione di missili antinave, apparecchiature radar per la scoperta e la direzione del tiro, cannoni a tiro rapido e apparati motore diesel o turbogas di grande potenza, le attuali cannoniere lanciamissili costituiscono uno degli “elementi di punta” di numerose Marine (non soltanto minori…) e, proiettate nel futuro, non mancano tuttavia di farci ricordare le unità del passato, ormai entrate nella storia, da cui hanno avuto origine.
Foto n.9 - Acque del fiume Hwangpu, estate 1938. Un’immagine tipicamente “coloniale” della Lepanto, attorniata da imbarcazioni locali che – secondo la migliore tradizione orientale – “assediavano” le unità occidentali proponendo transazioni commerciali di ogni genere e sorta. Si noti che parte dell’equipaggio (a prora, a poppa e sul cielo della tuga) è schierato per rendere gli onori, probabilmente in occasione dell’arrivo di qualche personalità imbarcata sulla motobarca (francese?) visibile a poppa della Lepanto.
La Regia Nave Lepanto, impostata nel 1925 presso i Cantieri Navali Riuniti di Ancona ed entrata in servizio due anni dopo, faceva parte – insieme alle gemelle Azio (unità capoclasse), Legnano, Ostia, Dardanelli e Milazzo – di una serie di unità progettate dall'allora colonnello (GN) Francesco Rotundi, nei primi anni Venti, come posamine e navi coloniali. Difatti, secondo il progetto originario, l’impiego principale degli “Azio” sarebbe stato quello di proteggere, mediante la posa di sbarramenti difensivi, le coste delle colonie e dei possedimenti italiani nel Mediterraneo e nel Mar Rosso.
Foto n.10 - Una vista laterale della Lepanto come appariva nel 1937/38, all’epoca dell’imbarco di Natale Cocchi.
Tuttavia, nel periodo tra le due guerre queste navi furono dei veri e propri "tuttofare" grazie, in primo luogo, alle loro eccellenti qualità nautiche che resero possibile lo svolgimento di una molteplicità di ruoli (cannoniera, nave scuola, nave idrografica, unità stazionaria all'estero, ecc.) tanto nelle acque nazionali quanto in quelle delle colonie e in lontane destinazioni oltremare. La velocità degli “Azio”, dopo l’aggiunta di pesi susseguente alle modifiche apportate durante la costruzione, risultò inferiore di almeno un nodo rispetto a quella prevista in sede di progetto, non precludendone – comunque – anche l’utilizzo in funzione di nave-scorta. Gli “Azio” furono allestiti con un certo lusso, anche in vista del’assolvimento di compiti di rappresentanza all'estero ed ebbero in dotazione, per lo stesso motivo, una potente stazione radio, disponendo nel contempo di isolamenti termici nella previsione di lunghe permanenze in climi tropicali. Il disegno dello scafo era molto simile a quello di similari unità (“sloops”, navi coloniali ecc.) che – tra gli anni Venti e gli anni Trenta – stavano entrando in servizio con le principali Marine: tagliamare pressoché diritto, notevole altezza di costruzione con conseguente elevato bordo libero, castello di prora che si estendeva per oltre un terzo della lunghezza dello scafo. A poppavia del castello di prora, una tuga di ampie dimensioni arrivava sino in prossimità della poppa; all’estremità poppiera del ponte di castello si elevava il blocco plancia/timoneria, su due livelli, con controplancia scoperta. Procedendo verso poppa si incontravano il fumaiolo, leggermente inclinato all’indietro, gli osteriggi del locale macchine e la stazione di governo secondaria. Gli alberi, verticali, erano due del tipo a stilo senza montanti. I locali equipaggio trovavano sistemazione nel sottocastello e, a proravia, sul ponte di primo corridoio; le cabine e i camerini degli ufficiali e dei sottufficiali di grado più elevato erano raggruppate anch’esse sul ponte di primo corridoio, a poppavia dei locali macchine. L’apparato propulsivo era costituito da due caldaie e da due macchine alternative per complessivi 1.500hp; due cannoni da 102/35 erano collocati – rispettivamente – sul ponte di castello a proravia del blocco plancia/timoneria, e sul cielo dell’estremità poppiera della tuga. La Lepanto, in particolare, imbarcava anche una mitragliera da 40/39, a differenza delle altre unità della classe il cui armamento secondario era invece costituito da un cannone antiaerei da 76/40. Le dotazioni marinaresche comprendevano numerose motobarche e imbarcazioni di servizio, le cui gruette erano collocate a centronave, sui due lati del ponte di coperta; come abbiamo già avuto modo di accennare, le doti di tenuta al mare e di manovrabilità erano ottime, sia per le caratteristiche molto marine dello scafo, sia per la suddivisione su due assi dell’apparato propulsivo.m. Durante la seconda guerra mondiale - oltre che come posamine, dragamine e navi pattuglia – Azio, Legnano e Ostia furono utilizzati anche in missioni di scorta al traffico e come navi sede comando. Nel 1931 una versione leggermente maggiorata di questi posamine – in grado di raggiungere, questa volta, i previsti 16 nodi – venne proposta in due esemplari come nucleo della nuova Marina dell'lraq, appena diventato indipendente. Le trattative furono però compromesse dall’improvvisa morte del sovrano iracheno; lo stesso programma fu in seguito proposto all'lran, che ordinò una versione aggiornata degli "Azio (classe "Badr”, su due unità). I successivi programmi della Regia Marina relativi alla riproduzione di questo riuscito tipo di nave (ulteriormente aggiornata e in un buon numero di esemplari), furono però sempre frustrati da carenze di bilancio che – addirittura – nell'estate del 1937 portarono a definire con il Venezuela la cessione proprio di due unità della classe (Dardanelli e Milazzo), in cambio della fornitura di una consistente partita di nafta per caldaie. Merita menzione, infine, il fatto che le indovinate linee d'acqua degli “Azio” vennero riutilizzate, nel 1941, in occasione della progettazione di quelle che sarebbero diventate le riuscite corvette della classe "Gabbiano".
Foto n.11 - Un picchetto armato a poppa della Lepanto nell’imminenza di una cerimonia o dell’arrivo a bordo di qualche personalità civile o militare. Si notino, da sinistra, un Capo di 3a Classe, un 2° Capo e otto marinai, apparentemente tutti “Comuni di 1a Classe” appartenenti a varie categorie. Foto estate 1937 o, alternativamente, 1938.
Mentre l’Azio sopravvisse al conflitto e fu radiato solamente nel 1957, Ostia e Legnano andarono perduti nel corso della seconda guerra mondiale: l’Ostia fu autoaffondata a Massaua l’8 aprile 1941, nell’imminenza della resa della piazzaforte alle truppe inglesi; il Legnano fu colpito e affondato nella rada di porto Lago (Isola di Lero), nel corso di un bombardamento aereo tedesco, il 5 ottobre 1943. Il Lepanto fu inviata a Shanghai nel 1935 per sostituire la cannoniera Sebastiano Caboto e affiancare l’Ermanno Carlotto nel servizio coloniale; da allora rimase sempre dislocato in Cina e, come abbiamo avuto modo di accennare in precedenza, fu autoaffondato dal proprio equipaggio subito dopo l’armistizio, il 9 settembre 1943, per evitare che cadesse sotto il controllo nipponico. Tuttavia, nel febbraio del 1944 l’unità fu recuperata dalla Marina giapponese che la reimmise in servizio, assegnadole il nome di Okitsu e sostituendo l’armamento originario con un cannone da 76 mm e 8 mitragliere da 25 mm. Al termine delle ostilità l’ex-Lepanto passò in carico alla Marina cinese, che – con il nome di Sien Ning – la mantenne in attività sino al 1956, anno della sua radiazione.
Posamine classe “Azio” – caratteristiche tecniche
Costruiti tra il 1925 e il 1927 – Cantiere Navale Triestino, Monfalcone (Ostia, Dardanelli e Milazzo) – Cantieri Navali Riuniti, Ancona (Azio, Legnano e Lepanto)
Dislocamento: 625 tonn
Lunghezza: 62,5 m – Larghezza 8,7 m – Immersione: 2,4 m
Apparato motore: 2 caldaie a nafta a tubi d’acqua tipo “Thornycroft” e due macchine alternative – 1.500 hp – 2 assi – Velocità: 15 nodi
Armamento: 2 cannoni da 102/35, 1 cannone da 76/40 (Lepanto: 1 mg da 40/39), sistemazioni per il trasporto e la posa di 80 mine
Equipaggio: 5 ufficiali e 69 tra sottufficiali, sottocapi e comuni
La cannoniera Ermanno Carlotto.
Al pari di altre Marine occidentali, anche la Regia Marina fece costruire una cannoniera direttamente in Cina, per evitare i costi di smontaggio, trasporto dall’Italia alla Cina e riassemblaggio “in loco” dell’unità. Si trattava della Ermanno Carlotto, costruita tra il 1914 e il 1921 (con una lunga pausa dovuta allo scoppio della prima guerra mondiale) dai cantieri Shanghai Dock Engineering; lunga 48,8 metri, aveva un ridottissimo pescaggio (0,8 m) al fine di facilitare la navigazione nelle acque più basse dei fiumi cinesi, un dislocamento di 180 tonn ed era armata con due cannoni da 76 mm. L’Ermanno Carlotto prestò un lungo e ininterrotto servizio a Shanghai e sullo Yang-Tse-Kiang sino alla data dell’armistizio; il 9 settembre 1943 – al pari del Lepanto – fu autoaffondato dall’equipaggio. Recuperato dai giapponesi, fu impiegato sino alla fine del conflitto con il nome di Narumi; nel 1946 passò alla Marina della Cina Nazionalista col nome di Kiang Kun. Affondato nel corso di un bombardamento comunista nel 1947, l’ex-Carlotto fu recuperato nel 1953 e immesso in servizio nella Marina della Cina Popolare, sempre con il nome di Kiang Kun. Fu definitivamente radiato nel 1958.
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La cannoniera Ermanno Carlotto portava il nome del s.t.v. Ermanno Carlotto, Medaglia d’Oro al V.M. alla memoria, nato a Ceva (Cuneo) il 30 novembre 1878. Allievo dell'Accademia Navale di Livorno dal novembre 1892, nell'agosto del 1896, conseguì la nomina a guardiamarina e imbarcò sull'incrociatore corazzato Carlo Alberto in procinto di salpare dall'Italia per una crociera addestrativa nelle Americhe e nei mari dell'Estremo Oriente. Nel 1900 conseguì la promozione a sottotenente di vascello, prendendo imbarco sull'ariete torpediniere Elba, stazionario nel Mare della Cina nell'ambito della Divisione Navale dell'Estremo Oriente. Nell'occasione della rivolta xenofoba in Cina, al comando di un drappello di 20 uomini sbarcati dall'Elba, partecipò alla difesa di Tien-Tsin assaltata dai Boxer; il 19 giugno 1900 cadde colpito gravemente mentre, allo scoperto, dirigeva il fuoco dei suoi uomini durante un cruentissimo assalto dei Boxer all'edificio della Scuola Militare che stava difendendo. Mori il giorno 27 dello stesso mese.
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Nel corso della campagna di Cina del 1900 furono concesse tre ulteriori Medaglie d’Oro al V.M.: al sottocapo torpediniere Vincenzo Rossi (alla memoria), al s.t.v. Angelo Olivieri e al t.v. Federico Tommaso Paolini.
La vicenda della USS Panay
La cannoniera Panay, costruita tra il 1925 e il 1928, insieme alla gemella Oahu, dal cantiere Kiangnan Dockyard and Engineering Works di Shanghai, prestò sempre servizio in Estremo Oriente, soprattutto sul fiume Yang-Tse-Kiang. Il 12 dicembre 1937, attorno alle 13.30, mentre scortava tre chiatte per il trasporto di combustibili a monte di Nanchino, fu attaccata da alcuni aerei giapponesi che la colpirono con numerose bombe causandone l’affondamento pochi minuti prima delle 16. Il comandante dell’unità – capitano di corvetta (Lieutenant Commander) J.J. Hughes – fu ferito nel corso dell’azione e due membri dell’equipaggio furono uccisi; undici uomini tra ufficiali, sottocapi e comuni, risultarono inoltre gravemente feriti. A bordo della Panay erano imbarcati, in qualità di corrispondenti di guerra, i giornalisti italiani Luigi Barzini jr. e Sandro Sandri: quest’ultimo morì in seguito alle numerose ferite da schegge riportate all’addome e il c.v. Alberto da Zara, comandante dell’incrociatore Montecuccoli all’epoca presente a Shanghai, richiese ed ottenne le scuse ufficiali giapponesi per la morte del giornalista. Inoltre, Da Zara fece mutare in Sandro Sandri il nome del piroscafo italiano Yung Kong impiegato nei traffici commerciali sullo Yang-Tse (*). Gli Stati Uniti ricevettero le scuse ufficiali nipponiche per l’affondamento della Panay; inoltre, un forte indennizzo fu versato a Washington dal governo giapponese. Tuttavia, i fatti concernenti la Panay possono essere intesi come uno dei primi segni del deterioramento delle relazioni nippo-americane che – poco meno di quattro anni dopo – avrebbe portato all’attacco di Pearl Harbor e all’ingresso degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale. L’epopea delle cannoniere dell’U.S. Navy in Cina ha trovato, in tempi più recenti, anche riscontri cinematografici: ricordiamo, in particolare il film The Sand Pebbles del 1966 (diretto e prodotto da Robert Wise, noto in Italia con il titolo di Quelli della San Pablo e interpretato da Steve McQueen, Richard Crenna, Candice Bergen, Richard Attenborough e Marayat Andriane). Tratto dal romanzo omonimo di Richard McKenna del 1962, il film ruota attorno sulle vicende dell’equipaggio di una cannoniera americana sul fiume Yang-Tse-Kiang alla fine degli anni Venti.
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(*) Il piroscafo era stato costruito in Cina nel 1935 ed apparteneva all’armatore Mario Rocco Cuzzi, residente a Shanghai. Andò perduto per cause imprecisate, nelle acque cinesi, successivamente all’8 settembre 1943.
La “Collezione Cocchi”
Elemento centrale del nostro studio, e fonte dell’inedita iconografia presentata su questo fascicolo e nelle sezioni espositive della Mostra “Mare Nostrum 2005”, è dunque la ricca collezione di fotografie scattate e raccolte da Natale Cocchi durante il servizio prestato nella Regia Marina, con particolare riferimento all’imbarco sul Lepanto e alle navigazioni nei mari della Cina. Riteniamo che, in abbinamento alle immagini più belle e significative, possa costituire motivo di interesse riportare i punti più importanti della relazione, redatta a suo tempo dall’autore, al termine del lavoro di riordino e catalogazione della collezione. Sarà così possibile inquadrare al meglio i principali aspetti che contraddistinguono la “Collezione Cocchi”, sicuramente una delle pochissime raccolte fotografiche riferite all’attività della Regia Marina in Cina negli anni Trenta e l’unica tra queste – sino ad oggi – ad essere stata studiata, valutata e, quel che più conta, portata a conoscenza del pubblico e degli appassionati.
Datazione
Purtroppo non è stato possibile reperire un “estratto matricolare” di Natale Cocchi in quanto, per i sottocapi e i “comuni”, né la Direzione del Personale (Maripers), né – tantomeno – l’Ufficio Storico della Marina Militare conservano in archivio tale documento per un periodo di tempo lungo come i quasi settant’anni trascorsi dall’epoca del suo arruolamento, servizio e congedo. Tuttavia, in considerazione della classe di nascita (1915) del nostro “marò”, della durata (all’epoca trenta / trentasei mesi) del servizio di leva in Marina, e confortati dalle date riportate sul retro di alcune fotografie della collezione riteniamo di poter redigere, con sufficiente precisione, uno “stato di servizio presunto” che riportiamo di seguito.
· Arruolamento nella Regia Marina verso la fine del 1935 e iniziale detinazione al “Deposito Marina” di Taranto.
· Imbarco sul cacciatorpediniere Freccia tra la metà del 1936 e la primavera del 1937.
· Destinazione a bordo del posamine/cannoniera Lepanto e trasferimento a Shanghai entro la metà del 1937.
· Permanenza a bordo del Lepanto sino a novembre del 1938 (compresa una crociera in Giappone nell’ottobre del 1938).
· Rientro in Italia e avvio in congedo tra la fine del 1938 e – al massimo – i primissimi mesi del 1939.
(10) Il documento ufficiale redatto dai competenti Organi ed Uffici della Marina ove sono registrate le destinazioni, la promozioni, i trasferimenti, le date di arruolamento e congedo, i richiami e tutti gli altri elementi di interesse relativi al periodo di servizio di un militare in seno alla Forza Armata.
La maggioranza delle fotografie della “Collezione Cocchi” sono comunque state scattate (o acquistate) durante l’imbarco sul Lepanto e, di conseguenza, risalgono tutte al periodò metà 1937 / fine 1938.
Aspetto della collezione fotografica.
La “Collezione fotografica ‘CocchI’” è composta da oltre 500 fotografie raccolte in quattro album e, in piccola parte, contenute in una busta. Tre album sono chiaramente di produzione cinese, due con copertina in legno laccato con disegni di paesaggi ed uno con una copertina in finta pelle. La copertina del quarto album riporta – ricamato a colori, su sfondo azzurro – lo stemma sabaudo sormontato dalla corona (come nella bandiera della R.M.), e reca il motto della R.N. Lepanto “In hoc signo vinces”. Le dimensioni dei quattro album sono circa di cm 25 x 35. La grande maggioranza delle fotografie (tutte originali dell’epoca, in bianco e nero) è di piccole dimensioni. I formati sono variabili: quadrati (cm 4 x 4, 5 x 5 ecc.) o rettangolari (cm 5 x 7 o 6 x 8); non mancano tuttavia fotografie in formato cartolina (cm 8 x 12 oppure 10 x 15). Infine, sono presenti alcune viste panoramiche di grandi dimensioni (ca. cm 10 x 25). Va rilevata l’ottima qualità delle immagini che, solo in minima parte, denotano “segni del tempo” quali macchie, pieghe o abrasioni che, peraltro, sono state facilmente eliminate in sede di restauro “informatico” della collezione.
Origine e provenienza delle fotografie
Un certo numero di immagini, raffiguranti soprattutto membri dell’equipaggio del Lepanto, particolari dell’unità, foto di altre navi italiane e di unità estere a Shanghai, appaiono scattate dal Cocchi stesso o da altri marinai del Lepanto. Alcune fotografie del Lepanto sono con certezza foto “ufficiali” dell’unità, raffiguranti la cannoniera alla fonda e cerimonie militari svoltesi tanto a bordo quanto a terra, con partecipazioni di picchetti armati dell’equipaggio. Infine, un quantitativo considerevole di fotografie è stato sicuramente acquistato “in loco” dal Cocchi soprattutto in Cina e – in piccola parte – in Giappone.
Foto n.12 - Estate 1938. Visita di un’alta carica del P.N.F. a bordo dell’incrociatore Raimondo Montecuccoli. Sullo sfondo (lato sinistro della barbetta della torre n. 3), è visibile il motto della nave “Con risolutezza con rapidità”, tratto dagli Aforismi di guerra dello stesso Montecuccoli e riferito all’elevata velocità delle unità di questa classe. Il Montecuccoli possedeva anche il motto non ufficiale “Centum Oculi” (riportato nel quadrato ufficiali), anch’esso attribuito al condottiero rinascimentale e che compendiava le sue virtù di attenzione e di apprezzamento della situazione tattica. Si racconta che nel corso della scontro di Pantelleria (15 giugno 1942), lo scoppio di un colpo a bordo avrebbe asportato la “O” di oculi senza causare altri danni: da allora, a ricordo della fortunata circostanza, il motto fu poi tramandato nella forma “Centum Øculi ”.
Immagini utilizzate e criteri di scelta
Dal totale delle immagini che costituiscono la “Collezione CocchI” (comprendente, come detto, oltre 500 elementi), sono state utilizzate 184 fotografie per la scelta delle quali ci si è rifatti alla serie di criteri di seguito indicata:
· Valore storico della fotografia in relazione ai fatti in cui il Lepanto e il suo equipaggio si sono trovati coinvolti.
· Evidenziazione di specifici aspetti storico-documentali.
· Aspetti della vita di bordo dell’equipaggio.
· Aspetti della vita quotidiana della popolazione locale.
· Interesse tecnico-documentale per quanto riguarda le fotografie di unità navali, sia italiane sia estere.
· Qualità della fotografia (luminosità, corretta esposizione, contrasto, supporto cartaceo ecc.).
Tecniche di scansione e supporti informatici
Tutte le fotografie sono state rilevate utilizzando uno scanner “Epson 1250” alla risoluzione di 500 dpi. I documenti così ricavati, in formato jpg, sono stati trattati con il programma “Adobe Photoshop 7.0” (su sistema operativo Mac 9.0) per migliorare, inizialmente, soprattutto la luminosità e il contrasto delle immagini. In questa prima fase di valorizzazione, si è inoltre provveduto a “centrare” maggiormente le fotografie eliminando bordi, parti laterali deteriorate, elementi non di interesse (porzioni troppo ampie di mare, di cielo ecc.). E’ stato successivamente portato a termine un restauro informatico qualitativamente esteso delle immagini per le quali era necessario eliminare macchie, righe, segni di piegatura ecc., curando peraltro di mantenere inalterati gli elementi fondamentali, il soggetto di ogni fotografia e l’aspetto generale del documento.
[11] Un certo numero di fotografie, inoltre sono state sicuramente scattate (o acquisite) da Natale Cocchi all’epoca del suo imbarco sul ct. Freccia.
Classificazione delle immagini
Al fine di classificare le fotografie, perlomeno in una sede iniziale di parziale raggruppamento in categorie, le 184 immagini prescelte sono state riunite in 14 gruppi così suddivisi (tra parentesi è indicato il numero di fotografie presenti in ogni gruppo):
· R.N. Lepanto (25) – Fotografie raffiguranti l’unità alla fonda a Shanghai o particolari delle installazioni di bordo, dell’armamento imbarcato, degli elementi dell’allestimento ecc.
· Navi Regia Marina a Shanghai (6) – Fotografie di altre unità italiane in acque cinesi dall’inizio degli anni Trenta al 1937.
· Navi altre Marine a Shanghai (26) – Immagini di unità navali francesi, inglesi, statunitensi, tedesche, olandesi, cinesi, giapponesi e di Marine minori presenti a Shanghai e sul fiume Hwangpu all’epoca della permanenza del Cocchi nella zona.
· Cannoniere (7) – Specifico gruppo di fotografie raffiguranti cannoniere di varie nazionalità, sicuramente il tipo di unità “stazionaria” maggiormente utilizzata dalle Marine occidentali in Cina sino agli anni precedenti la seconda guerra mondiale.
· Motobarche (3) – Alcune imbarcazioni di servizio di unità navali presenti a Shanghai nel 1937-38.
- Equipaggi (28) – In questo gruppo di fotografie sono raffigurati soprattutto marinai e ufficiali del Freccia e della Lepanto, sia a bordo sia a terra. Sono state incluse anche le fotografie di marinai imbarcati su unità estere scattate durante visite di questi ultimi a bordo della Lepanto.
- Shanghai città, architetture e paesaggi (18) – Viste di Shanghai, del fiume e delle strade principali del centro; immagini di pagode e monumenti più alcune viste “turistiche” dei fiumi Hwangpu e Yang-Tze-Kiang.
- Attacco giapponese (19) – Fotografie raffiguranti le truppe nipponiche che entrano a Shanghai durante la guerra cino-giapponese del 1937; alcune immagini documentano le distruzioni e i danni subiti dall’area urbana.
- Popolazione cinese (8) – Scene di vita della popolazione locale nelle vie di Shanghai.
- Giunche (10) – Fotografie di queste tipiche imbarcazioni impegnate nei traffici commerciali nel porto fluviale di Shanghai e lungo il fium Hwangpu.
- Bellezze locali (5) – Fotografie (alcune anche con dedica!) che testimoniano le “conquiste” dei marinai della Lepanto in Cina.
- Grande Muraglia (4) – Immagini della Grande Muraglia, probabilmente acquistate dal Cocchi a Shanghai.
- Giappone (6) – Durante l’imbarco sulla Lepanto, nell’ottobre 1938 il Cocchi fece scalo anche in Giappone (Tokyo, Kyoto e Yokohama). Il fatto è documentato da cinque immagini di monumenti di queste tre località e da un “biglietto di franchigia”, anch’esso conservato in uno degli album.
- Navi Regia Marina in Italia (20) – In effetti, si tratta di un gruppo di immagini “scorporato” dai precedenti: Natale Cocchi, come abbiamo visto, imbarcò sul ct. Freccia prima di essere destinato sulla Lepanto, ed il fatto è testimoniato da diverse fotografie dello stesso. Freccia, delle corazzate Doria e Duilio a Taranto, e di altre unità in porto sia a Taranto sia alla Spezia.
Foto n.13 - Un’inconsueta vista della zona centrale dell’incrociatore Raimondo Montecuccoli ripreso a Shanghai, nelle acque del fiume Hwangpu, durante la permanenza nella zona protrattasi dal settembre 1937 al settembre 1938. Si notino i due idrovolanti IMAM Ro.43 sulla catapulta, con la caratteristica colorazione bianca e rossa della superficie dell’ala superiore.
Le 184 immagini, il commento relativo a ciascuna di esse e tutta la documentazione acquisita e prodotta nell’ambito della valorizzazione della “Collezione Cocchi” sono stati salvati su una serie di CD-ROM al fine di permetterne la conservazione e il successivo utilizzo in ulterirori iniziative culturali, in accordo con la considerazione che la ricerca storica deve sempre nascere da un esame critico di tutti i documenti che è possibile rintracciare, compresi – come nel caso appena esaminato – quelli fotografici. Le fotografie che abbiamo presentato costituiscono l’anteprima di una collezione unica nel suo genere che – per la ricchezza qualitativa e quantitativa delle immagini che la compongono – assume un valore molto significativo nel campo della documentazione storica e dell’iconografia navale in particolare. Il “ritrovamento” e, soprattutto, l’aver potuto portare a conoscenza del grosso pubblico una raccolta fotografica vasta e articolata quale è per l’appunto la “Collezione Cocchi”, è una di quelle occasioni – ormai purtroppo sempre più rare, particolarmente nel campo navale – grazie alle quali è possibile rendere disponibili e fruibili archivi non ancora conosciuti e, al tempo stesso, completi e di grande valore. Se il ritrovare immagini navali inedite risalenti all’epoca della seconda guerra mondiale è, ai giorni nostri, un fatto piuttosto raro, è cosa ancora più rara e sorprendente venire a conoscenza di nuove e sconosciute fotografie scattate ancora in precedenza, nei primi decenni del secolo XX°. Ci sono poi fortunati casi – quale è stato per l’appunto quello della Famiglia Cocchi – in cui viene consentito di poter utilizzare una raccolta fotografica nell’ambito di un’approfoindita ricerca storico-documentale….. Ed allora, proprio grazie ad occasioni come questa, lo storico, l’appassionato o il semplice amante delle “cose di mare” possono sempre sperare che il mare continuerà ad essere un’inesauribile fonte di avventura, di sorprese, forse anche di vicende tragiche ma – sicuramente – anche fonte di un grande insegnamento e maestro di vita senza pari al mondo.
Foto n.14 - Artiglieria giapponese impiegata nelle operazioni che portarono alla conquista di Shanghai. L’immagine fu probabilmente acquistata “in loco” da Natale Cocchi, in tempi successivi all’occupazione della città da parte dei giapponesi.
Postfazione
. . . quello che non dovrebbe mai accadere
Non sempre, purtroppo, raccolte documentali e fotografiche “private” beneficiano di un’adeguata conoscenza da parte del pubblico e, assai spesso, album contenenti immagini d’altri tempi o cartelle ricche di testimonianze scritte di epoche passate languono in polverose soffitte, sul fondo di bauli o all’interno di cassetti dimenticati. Dal punto di vista della ricerca storica (e, più in generale, da quello della conservazione culturale), la situazione si fa poi spesso drammatica con la scomparsa di chi – magari con un certosino lavoro di anni – ha costituito e accresciuto nel tempo ragguardevoli collezioni, spesso inedite e insostituibili testimonianze di avvenimenti del passato. Archivi di assoluta importanza, tanto dal punto di vista quantitativo quanto – soprattutto – da quello qualitativo, alla morte dei loro “curatori” sono spesso dispersi dagli eredi che, quando non destinano alle discariche pubbliche materiali e documentazioni forse unici, alienano spesso il tutto ad antiquari e “bancarellari”, disperdendo in tal modo (e per sempre) elementi culturali di grande rilevanza. Addentrandoci nel più specifico campo del collezionismo fotografico navale, l’opportuna valorizzazione di raccolte dal grande valore storico-iconografico, quale è stato il fortunato caso, appena esaminato, dei quattro album della famiglia Cocchi, non è quindi – purtroppo – la norma. E’ questo uno stato di cose non limitato al solo nostro paese, e ritengo possa risultare interessante per i lettori ricordare un evento (nel quale mi sono trovato direttamente coinvolto) che ha riguardato la “dispersione” di un vasto archivio di fotografie navali, avvenuta in quella che può essere considerata la “patria” del collezionismo in generale, e di quello militare in particolare: la Gran Bretagna. Dal 1990 sono iscritto al “Naval Photograph Club”, un’associazione privata con sede in Inghilterra i cui membri – soprattutto inglesi ma alcuni dei quali residenti in altri paesi europei, negli U.S.A. e in Australia – sono legati dalla comune passione per la storia navale e per le fotografie di navi militari dalla seconda metà dell’800 ai giorni nostri. I soci del Club, tre/quattro volte all’anno, ricevono una “newsletter” contenente numerose informazioni ed un catalogo in base al quale è possibile acquistare, tramite la Segreteria del Club, fotografie (soprattutto di navi britanniche) di ottima qualità ad un prezzo più che accettabile. Con la “newsletter” della primavera del 1996 giunse la comunicazione che il Socio Ron Hinschliffe era deceduto e che la vedova – bontà sua! – metteva all’asta tra i membri del Club gli album fotografici del defunto marito. Anche se riferita alla sola Royal Navy, dalla descrizione si trattava a prima vista di una collezione piuttosto imponente: due album per le corazzate, altrettanti per le portaerei, tre per gli incrociatori, cinque e tre – rispettivamente – per cacciatorpediniere e sommergibili ed un ulteriore paio per le unità ausiliarie. Tuttavia, non avendo personalmente conosciuto Ron Hinschliffe, non sapevo assolutamente quali potessero essere la qualità e le dimensioni reali della sua collezione, e inviai quindi un’offerta sicuramente modesta sia nei termini economici sia in quelli “di scelta”: venticinque sterline per ciascuno dei due album delle corazzate, in seguito avrei deciso il da farsi… Fu perciò grande il mio stupore quando ricevetti la comunicazione che il mio “bid” era stato accettato: ritenni a quel punto che avrei presto ricevuto una delle tante “bufale” in circolazione nel nostro campo, costituite da poche foto conosciutissime, magari neppure in originale ma sbiadite riproduzioni di copie già di per sé scadenti e forse anche rovinate da macchie, scritte e tracce della più svariata natura. Misi quindi in conto di aver mal speso cinquanta sterline (più altre quindici per le spese postali): un centinaio di euro attuali che, sicuramente, dispiacerebbe a chiunque rimettere ma la cui mancanza non avrebbe certo cambiato radicalmente lo stato delle mie finanze. Quando ricevetti un voluminoso pacco ricoperto da numerosi francobolli delle Poste di Sua Maestà fui quasi colto dalla paura di aprirlo, temendo di veder materializzati i miei timori e di dover registrare tra le “perdite” le famose sessantacinque sterline.m Ma, incredibilmente, i fatti mi smentivano: davanti ai miei occhi si trovavano più di 400 splendide fotografie relative a tutte le corazzate che, nell’arco di un secolo, avevano prestato servizio con la Royal Navy: dalla pirofregata Warrior del 1861 alla nave da battaglia Vanguard, l’ultima corazzata britannica, entrata in servizio nel 1945 e radiata nel 1960. L’elemento più significativo e stupefacente non era però dovuto al numero delle immagini (già di per sé ampiamente ripagante della spesa), ma dalla loro qualità, e individuai subito parecchi originali degli studi Cribb e Wright & Logan, insieme a fotografie provenienti dalle raccolte dell’Imperial War Museum e del National Maritime Museum di Greenwich. Le sorprese non erano però terminate, perché nelle pagine dei due album si trovavano numerose altre fotografie, sicuramente inedite, scattate da membri dell’equipaggio di svariate unità durante le due guerre mondiali: non già le solite immagini “di gruppo” di marinai o ufficiali, ma belle viste d’insieme delle navi o dettagli dell’armamento e delle installazioni di bordo. Evidentemente Ron Hinschliffe aveva svolto un lavoro di grande ricerca e catalogazione, e sul retro di parecchie immagini erano annotati il nome e l’indirizzo dello studio fotografico o dell’antiquario presso cui la fotografia era stata acquistata nonché il prezzo, spesso congruo ma mai “fuori mercato”, a testimonianza della passione e della competenza che animavano questo collezionista d’oltremanica.
Foto n.15 - Natale Cocchi in franchigia a Shanghai, nell’estate del 1938, a bordo di un caratterisico “risciò”.
In ultimo, un particolare gruppo di fotografie attrasse la mia attenzione. Si trattava di qualche decina di immagini risalenti agli ultimi due decenni del secolo XIX° ed ai primi due del XX°, originariamente in bianco e nero ma colorate “a mano” secondo una delicata tecnica in uso proprio in quel periodo: queste fotografie erano state utilizzate come cartoline postali, e sul retro si trovavano non soltanto il testo e l’indirizzo del destinatario, ma era presente – soprattutto – il francobollo “d’epoca”, debitamente annullato con il timbro postale! Resomi conto del grande valore storico e documentale dei due album ora in mio possesso, non feci fatica ad immaginare che anche gli altri quindici potessero avere le medesime caratteristiche, e mi affrettai a contattare il Segretario del Club segnalandogli la mia intenzione di acquistarli tutti “in blocco”, ovviamente al medesimo prezzo di venticinque sterline l’uno.
[12] Termine inglese che sta ad indicare tanto la “puntata” in un gioco d’azzardo quanto l’offerta per partecipare ad un’asta.
Peraltro, come temevo, mi fu comunicato che la vedova di Ron Hinschliffe aveva già “alienato” tutto, e quel che è peggio, i vari album erano andati suddivisi tra più persone: un collezionista aveva acquistato quelli delle portaerei, i tre relativi agli incrociatori erano stati rilevati da un appassionato statunitense , quelli dei cacciatorpediniere – addirittura – erano stati suddivisi tra appassionati diversi, e così via… L’unica “consolazione” derivava dal fatto che tutti gli album erano stati acquistati da “professionisti” del settore, ed essi stessi tutti Soci del Naval Photograph Club: quindi, ognuno di noi – anche se residenti in diversi paesi – avrebbe continuato a conservare, sia pure in maniera “diffusa”, la collezione di Ron Hinschliffe la cui consistenza complessiva può venire valutata in più di 4.000 “pezzi”. Purtroppo, nei termini appena descritti andò definitivamente disperso l’ “unicum” costituito dall’interezza della collezione il cui valore – non soltanto economico, ma soprattutto storico, culturale ed iconografico – sarebbe stato notevolmente accresciuto dal poter conservare insieme i diciasette album, possibilmente in un singolo archivio, pubblico o privato che fosse. A riprova della ricchezza e della vasta organicità dell’ormai dispersa “Collezione Hinschliffe”, parecchie fotografie dei due album acquisiti dal sottoscritto sono state valorizzate in tre miei articoli comparsi sulle pagine di “Storia Militare”, il mensile della casa editrice Albertelli Edizioni Speciali (diretto dal noto storico navale Eminio Bagnasco), a cui collaboro sin dalla fondazione nel’ottobre 1993 . In aggiunta, ulteriori fotografie sono state utilizzate per illustrare parzialmente altri lavori miei e di altri “colleghi”, ed ho in progetto per il futuro almeno altri due articoli che, come corredo iconografico, utilizzeranno esclusivamente immagini rivenienti dai due album di cui – così “fortunosamente” – entrai in possesso nove anni fa. Il sentimento con cui concludere questa narrazione è, purtroppo, il rimpianto: il rimpianto di quale opera di divulgazione e valorizzazione sarebbe stato possibile realizzare avendo a disposizione l’intera collezione, originata dalla passione e dalla competenza di Ron Hinschliffe e così incoscientemente “dispersa” dalla sua ineffabile vedova.
Foto n.16 - L’interesse quasi “giornalistico” di Natale Cocchi per i diversi aspetti della vita della popolazione locale è testimoniato da questa serie di immagini che ritraggono scene quotidiane sul fiume Hwangpu e nelle strade di Shanghai. Negli anni Trenta, le condizioni di vita del cinese medio erano sotto taluni aspetti ancora quelle dei secoli passati, e queste fotografie costituiscono quindi un elemento di grande interesse in quanto testimonianza di situazioni e stili di vita ormai scomparsi dalla Cina contemporanea.
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[13] Venni in seguito a sapere che si trattava del noto storico navale Paul H. Silverstone, autore – tra l’altro – del volume U.S. Warships of WW II, edito dalla casa editrice inglese Ian Allan.
[14] 9 luglio 1940: un "punto di vista" inglese (n° 43 – aprile 1997). Si tratta dell’analisi di un assoluto “inedito”, ovvero l’unica immagine conosciuta di una nave da battaglia britannica (nella fattispecie l’HMS Warspite) sotto il fuoco italiano alla battaglia di Punta Stilo. – Gli incrociatori da battaglia della Royal Navy (n° 59 – agosto 1998). Un articolo fotografico relativo alle sedici unità di questo tipo che, in entrambi i conflitti mondiali, prestarono servizio con la Marina britannica. – Le navi da battaglia britanniche della Grande Guerra (n. 114 – marzo 2003). Un altro articolo fotografico, analogo al precedente, realizzato utilizzando numerose immagini inedite delle “dreadnought” inglesi della prima guerra mondiale.
Risorse Internet
(Sito “ufficiale” della Marina Italiana)
(Ottimo sito, riferito soprattutto all’attività delle cannoniere inglesi in Cina ma con elenchi completi e dettagli relativi anche alle cannoniere di altra nazionalità)
http://www.geocities.com/Vienna/5047/yangpatships.html
(Cannoniere dell’U.S. Navy in Cina)
(Attività delle cannoniere, soprattutto francesi, sui fiumi della Cina)
(Sito italiano sulla missione del Trento e dell’Espero in Cina nel 1932)
http://iaodb.ish-lyon.cnrs.fr/Shanghai/index.php
(Immagini e fotografie di Shanghai dall’800 ai giorni nostri)
http://www.mrash.fr/iao/cartSH/listmap.html
(Carte e mappe di Shangai)
Foto n.17 - La “corazzata di seconda classe” HMS Renown, entrata in servizio nel 1895, è qui raffigurata verso la fine del secolo XIX durante una crociera con alcuni membri della famiglia reale britannica a bordo. Si noti, difatti, il “Royal Standard” al picco dell’albero di maestra. (Coll. M. Brescia – già coll. R. Hinschliffe
Foto n.18 - L’incrociatore da battaglia HMS Hood in uscita da Portsmouth, agosto 1939. Tra le due guerre, l'armamento dell'Hood (otto pezzi da 381/42) ed il suo aspetto maestoso ed aggressivo ne avevano fatto l'unità più famosa della Royal Navy presso il grosso pubblico. Fu quindi enorme l'emozione suscitata in Inghilterra dall'affondamento dell'unità, avvenuto il 24 maggio 1941 nel Canale di Danimarca durante il noto scontro con la Bismarck ed il Prinz Eugen. (Foto Wright & Logan, coll. M. Brescia – già coll. R. Hinschliffe)
L’autore e l’organizzazione della Mostra “Mare Nostrum” ringraziano tutti coloro che hanno prestato un fattivo aiuto consentendo di realizzare questo lavoro di ricerca storica.
Una citazione particolare, innanzitutto, per i figli di Natale Cocchi – Pinuccia e Cesare – che hanno cortesemente messo a disposizione le immagini della straordinaria collezione fotografica “di famiglia”. La Casa Editrice Albertelli di Parma, da parte sua, ha autorizzato l’uso e l’adattamento di testi tratti dal volume di E. Bagnasco ed E. Cernuschi Le Navi da Guerra Italiane 1940-1945 (edito nel 2003), e pubblicherà un articolo relativo alla “collezione Cocchi” sulle pagine del mensile “Storia Militare”. Un ringraziamento a quanti hanno contribuito ad identificare le navi meno conosciute raffigurate nelle fotografie: Dr. Duncan Veasey (Presidente del Naval Photograph Club) e gli amici Fulvio Petronio, Deryck Swetnam e Vince O’Hara. Quest’ultimo, inoltre, ha seguito le fasi tecniche della pubblicazione di un articolo concernente la
Tuttavia, in tempi ancora più lontani, le spedizioni di Alessandro Magno e – successivamente – i resoconti di viaggiatori e commercianti bizantini avevano già fatto intravedere quali estensioni di terre (e quali ricchezze) caratterizzassero il medio e il lontano Oriente.
L’opera fu dettata, in francese, da Marco Polo a Rusticiano (o Rustichello) da Pisa, trovandosi entrambi prigionieri dei genovesi dopo la battaglia della Meloria (1284). Il titolo originale era Le livre de Marco Polo citoyen de Venise, dit Million, où on conte les merveilles du monde.
Nel corso dell’occupazione di Pechino, per rappresaglia contro l’esecuzione sommaria di alcuni prigionieri occidentali, le truppe britanniche al comando di Lord Elgin incendiarono il “Palazzo d’Estate” dell’imperatore cinese.
Macao è, a tutt’oggi, l’ultimo lembo di territorio cinese sotto la sovranità di uno stato europeo; in base agli accordi del 1842, Hong Kong è tornata sotto il controllo cinese (sia pure con ampie garanzie di autonomia politica ed economica) il 1° luglio 1997.
Non va dimenticato che anche molte Marine sudamericane utilizzarono cannoniere sui grandi fiumi del continente, non già nella conduzione di politiche coloniali ma – assai spesso – nell’ambito dei conflitti armati che, di volta in volta, videro coinvolti numerosi paesi della zona tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del secolo XX°.
Numerose cannoniere di questo tipo, espressamente costruite o ricavate dalla trasformazione di mezzi da sbarco, furono utilizzate dalla “Riverine Force” dell’U.S. Navy nel corso della guerra del Viet-Nam.
Parzialmente adattato da: Bagnasco, E., Cernuschi, E, Le Navi da Guerra Italiane 1940-1945, pag. 305/306, op. cit. in bibliografia.
Il documento ufficiale redatto dai competenti Organi ed Uffici della Marina ove sono registrate le destinazioni, la promozioni, i trasferimenti, le date di arruolamento e congedo, i richiami e tutti gli altri elementi di interesse relativi al periodo di servizio di un militare in seno alla Forza Armata.
Un certo numero di fotografie, inoltre sono state sicuramente scattate (o acquisite) da Natale Cocchi all’epoca del suo imbarco sul ct. Freccia.
Termine inglese che sta ad indicare tanto la “puntata” in un gioco d’azzardo quanto l’offerta per partecipare ad un’asta.
Venni in seguito a sapere che si trattava del noto storico navale Paul H. Silverstone, autore – tra l’altro – del volume U.S. Warships of WW II, edito dalla casa editrice inglese Ian Allan.
9 luglio 1940: un "punto di vista" inglese (n° 43 – aprile 1997). Si tratta dell’analisi di un assoluto “inedito”, ovvero l’unica immagine conosciuta di una nave da battaglia britannica (nella fattispecie l’HMS Warspite) sotto il fuoco italiano alla battaglia di Punta Stilo. – Gli incrociatori da battaglia della Royal Navy (n° 59 – agosto 1998). Un articolo fotografico relativo alle sedici unità di questo tipo che, in entrambi i conflitti mondiali, prestarono servizio con la Marina britannica. – Le navi da battaglia britanniche della Grande Guerra (n. 114 – marzo 2003). Un altro articolo fotografico, analogo al precedente, realizzato utilizzando numerose immagini inedite delle “dreadnought” inglesi della prima guerra mondiale.