GENOVA LA BANDIERA PER IL NUOVO PONTE - LA CHIESA DI SAN GIORGIO

 

GENOVA

LA BANDIERA PER IL NUOVO PONTE "ITALIA" (?)

LA CHIESA DI SAN GIORGIO

Con il posizionamento dell’ultimo impalcato, la struttura del nuovo ponte per Genova è conclusa. Una grande emozione e un grande traguardo non solo per la Liguria ma per l’Italia intera, un modello, quello del cantiere del ponte, per un Paese intero e guardato da tutto il mondo con grande ammirazione.


Partiamo da questo felice EVENTO facendo riferimento alla bandiera di San Giorgio, simbolo di Genova che collega la storia antica a quella moderna nel segno della lotta perenne contro il male e gli infausti accadimenti.

Qualche settimana fa, proprio per ricordare e commemorare le gesta di questo Santo importante e popolare per la nostra regione, ci siamo soffermati sul panoramico Santuario che svetta a Portofino su quel promontorio dove il mare si sposa con le nostre verdi colline.


La Chiesa di San Giorgio a Genova é ubicata nella omonima piazza al centro della mappa (goccia blu)

Oggi, andiamo alla scoperta di San Giorgio in una chiesa nascosta nei caruggi appena dietro il Porto Vecchio. Un tempio dalla storia antica, travagliata, appoggiato tra le case civili che lo sostengono per non farlo cadere nell’oblio. Eppure esso rappresenta uno di quei frammenti che la Grande Storia lascia cadere durante il suo tortuoso cammino, ma che poi vengono provvidenzialmente raccolti e conservati dalle nostre chiese, veri “musei della fede” che noi dimentichiamo, nascondiamo e qualche volta demoliamo perché impediscono l’espansione della città.

La piccola suggestiva piazza San Giorgio fu nel secolo XI il primo mercato della città e da allora funge da sagrato a due chiese rotonde e attigue: San GiorgioSan Torpete, un santo venerato dai pisani. Genova e Pisa si facevano la guerra ma sapevano anche intrattenere proficui rapporti commerciali e intorno a questa chiesa aveva residenza la comunità pisana.


La chiesa di San Giorgio fu fondata prima dell’anno mille, ma fu ricostruita nelle forme attuali dai Teatini (il fondatore fu San Gaetano di Thiene) tra il 1695 e il 1700 con pianta centrale e cupola rotonda, mentre la facciata risale al 1859. La torre medievale degli Alberici, sopra al palazzo a sinistra della chiesa, venne curiosamente adattata a campanile.

San Torpete, costruita intorno al 1100, divenne chiesa gentilizia della famiglia Cattaneo e fu ricostruita nel 1730. L’interno è impreziosito con decorazioni a stucchi e nella controfacciata si può ammirare l’opera di Carbone “San Torpete illeso tra le fiere”.

La Chiesa di San Giorgio non è l’unica basilica di Genova con antichissime origini e il santo guerriero non è il patrono della città; ma il culto di San Giorgio e l’importanza data alla chiesa che porta il suo nome sono eccezionalmente significativi, soprattutto a partire dalle Crociate, quando l’immagine del santo che trafigge il drago sotto la bandiera con la croce rossa su fondo bianco fu portata in tutto il Mediterraneo.

La chiesa ha una pianta ottagonale: lo sguardo di chi entra é catturato dallo spazio che si allarga, e si spinge verso la cupola, illuminata da grandi finestroni.

Tra le ricche decorazioni, si segnalano gli affreschi e le tele di importanti pittori genovesi e non, come San Gaetano di Thiene che riceve dalla Vergine il Bambino di Domenico Piola, Martirio di San Giorgio di Luca Cambiaso, seconda metà del ‘500 appartenenti alla chiesa precedente), la Pietà di A. Sanchez Cohelo (Sec.XVI),  il Cristo paziente e Santa Caterina Fieschi di Domenico Guidobono e poi sono presenti altri due artisti: Santo Panario e Giuseppe Isola
Lo stile neoclassico di metà ‘800 degli esterni si amalgama  con il tessuto del centro storico genovese: l’ampia facciata ricurva con le decorazioni in stucco bianco su fondo verde pastello crea un bel contrasto con la scura e stretta prospettiva dei caruggi.


Attraverso i secoli, anche dopo la caduta dell’impero romano, si conserva la funzione del foro come centro della vita della città: nell’Alto Medioevo qui si convocava il popolo e si teneva un fiorente mercato.

Le prime fonti certe sulla chiesa partono dall’anno 964, e si ritiene che nei primi secoli del nuovo millennio l’originaria basilica o cappella fosse divenuta collegiata. (Il titolo di collegiata veniva dato dalla Santa sede poiché vi era un collegio di canonici e l'Arciprete insieme ai beneficiati. Oggi nelle parrocchie non vi sono più né canonici né beneficiati, a mala pena un sacerdote; queste chiese hanno perso questo titolo, a mala pena ce ne sono ancora in cattedrale.)

Nel secolo XI la piazza omonima era un fiorente mercato (il più antico fra quelli cittadini situati immediatamente a ridosso dell'area portuale), posta in posizione strategica lungo l'asse - l'odierna via Giustiniani - che collegava il porto con Porta Soprana.
Nulla rimane, però, dell'edificio primitivo: infatti il tempio venne rifondato alla fine del XVII secolo dai padri Teatini, che l'avevano acquisito nel 1629. La costruzione, a pianta ottagonale, si presenta con cupola rotonda e facciata curvilinea, rifatta a metà dell'Ottocento e decorata in stile neoclassico; il campanile risulta impostato su di una casa vicina, poiché si tratta del riadattamento della torre medievale degli Alberici.

Perché vi ho parlato di questa chiesa? Essenzialmente per alcuni suoi primati storici che oggi vanno ricordati:

La BANDIERA E LA RINNOVATA VIABILITA’

1) - Si suppone che il luogo sacro fosse intitolato al santo della Cappadocia fin dalla sua fondazione, avvenuta quando il culto di San Giorgio giunse a Genova con la milizia bizantina di cui era protettore. Il legame tra esercito e santo guerriero rimarrà per secoli, visto che la chiesa di San Giorgio, Santuario della Patria, conservava il vessillo della Repubblica, che era consegnato al capitano generale dell’armata navale genovese quando salpava a protezione verso una missione. La chiesa bizantina era sorta sull’area dell’antico foro romano: un raro slargo pianeggiante allo snodo tra il riparo naturale del porto antico e il nucleo abitativo originario – al tempo castrum - sulla collina di Sarzano.

2) - Per avere un’idea della rilevanza di questo sito, si pensi che la piazza fungeva da punto di origine per la misurazione delle distanze in miglia romane sulle vie Aurelia e Postumia che qui si incrociavano. Questa pratica diede origine a una serie di toponimi riferiti alle pietre miliari come QuartoQuintoSestri (IV, V e VI milium ab urbe Janua), Pontedecimo (Pons ad X milium). Il fatto che tali toponimi siano giunti fino a noi, suggerisce il ruolo svolto da questo incrocio di assi viari nella millenaria genesi del territorio.

3) - Inoltre aggiungerei l’importanza della Chiesa di San Giorgio per la sua vicinanza alle calate interne del Porto Antico: un luogo di culto che nei secoli ha rappresentato per la gente di mare e per i pellegrini, il luogo d’incontro di civiltà, di religioni e di pacifica convivenza.

La chiesa è attualmente affidata in gestione temporanea alla comunità ortodossa genovese; in particolare vi vengono officiate le funzioni della Chiesa della Santissima Trasfigurazione del Signore dipendente dal Patriarcato di Mosca. Essa é promotrice e coordinatrice di alcune missioni ortodosse in Liguria (La Spezia, Varazze e Chiavari in cerca di sede stabile). Pertanto oggi, grazie alla Chiesa Ortodossa Russa, la chiesa di San Giorgio e la piazza omonima, “rivivono” e cantano la loro “antica storia” per la gioia dei fedeli, dei turisti e degli amanti di questa splendida città. Padre Marian (Mario) Selvini, originario di Uscio,  é il chierico parrocchiale che ho avuto il piacere di conoscere. L'altro presbitero parrocchiale é P. Ioann Malish, ucraino.

“Genova è un’antica città italiana situata sulle rive del Mar Ligure. La città è conosciuta come il più grande porto d’Italia e del Mediterraneo. I genovesi, come gli altri italiani, sono in gran parte cattolici romani. A Genova ci sono chiese ortodosse di tre giurisdizioni: del Patriarcato Ecumenico, di quello di Romania e di quello di Mosca. La più grande chiesa (come quasi ovunque in Italia) è quella romena. Alla chiesa del Patriarcato Ecumenico vanno per lo più i greci locali (la chiesa greca di Genova è stata la prima a essere fondata). La chiesa più diversificata etnicamente e, a quanto pare, più missionaria è quella del Patriarcato di Mosca”.


Si noti il campanile, inglobato in una casa vicina, riadattamento della torre medievale degli Alberici.



La cupola

Il volto di un angelo in bassorilievo


Le icone bizantine venerate dagli ortodossi


L’altare Maggiore parzialmente protetto dall’Iconostasi


La Grande Pasqua Russa - Le uova rosse…





MARIAM SELVINI a destra  é con l'altro presbitero P.IOANN MALISH (ucraino)

 

LA PASQUA ORTODOSSA


La data della Pasqua ortodossa non coincide con quella della Pasqua cattolica, dato che la chiesa ortodossa segue il calendario giuliano e non quello gregoriano, anche se a volte le due festività cadono nello stesso giorno. La Pasqua ortodossa viene celebrata la prima domenica dopo la prima luna dall’equinozio di primavera.

Una settimana prima della Pasqua gli ortodossi, come tutti i cristiani, festeggiano l'ingresso di Gesù a Gerusalemme o la Domenica delle Palme. In Russia l'entrata del Signore a Gerusalemme non si chiama Domenica delle Palme, ma dei salici: nella fredda Russia le palme non crescono, però secondo la credenza popolare proprio in questo periodo ogni anno spuntano le gemme dei salici. Ecco perche questo giorno si chiama in Russia la "Domenica dei Salici". Gli ortodossi hanno l'usanza di conservare nel corso dell'anno i rametti dei salici benedetti e usarli per abbellire le icone e per proteggere le case dalle malattie.

Alla Domenica dei salici segue la settimana santa di Passione, la più rigida per quanto riguarda il digiuno. Da lunedì a sabato compreso, chi osserva il digiuno rinuncia non soltanto alla carne, al latte e al pesce, ma anche all'olio vegetale. Mercoledì e venerdì, quando si commemorano il tradimento di Giuda e la crocifissione di Cristo è preferibile non mangiare nulla. Il lunedì santo, e soltanto una volta all'anno, il Patriarca russo celebra la cerimonia della benedizione del crisma. Il crisma è una miscela particolare di oli profumati, resine e altre sostanze. Viene distribuito a ciascuna parrocchia per compiere il rito del battesimo e della cresima e dell'unzione degli infermi. Per questo esiste anche il detto: "Siamo tutti unti dallo stesso olio", abbiamo cioè tutti qualcosa in comune. Il luogo in cui avviene questa ceremonia è il monastero Donskoj di Mosca.

La preparazione liturgica alla Pasqua inizia il mercoledì, quando ha luogo la prima celebrazione importante, dedicata alla Passione del Signore. Anticipa la celebrazione mattutina del giovedì durante la quale gli ortodossi ricordano l'Ultima cena e accorrono in chiesa a comunicarsi in ricordo della prima Eucarestia. Durante il Giovedì Santo i credenti si preparano alla Pasqua in cucina: cuociono e dipingono le uova, preparano in una particolare forma di legno la Paskha di tvorog e mettono in forno i kulich. Gli ortodossi hanno appena il tempo di sistemare la casa per poi andare di sera di nuovo a messa dove vengono letti i dodici passi del Vangelo che descrivono la passione di Cristo. Tutto il giorno seguente, il Venerdì Santo, è dedicato esclusivamente alle liturgie: la mattina, al posto della messa tradizionale, si leggono le Ore. Quindi alle 14 inizia la "compieta santa", nella quale si ricorda la morte di Gesù e la sua Deposizione. Al centro della chiesa si espone un lenzuolo con la raffigurazione del Cristo morto. La "piccola compieta", che inizia alle 17, ha termine con la "sepoltura" del sudario che viene portato all'altare.

Il sabato è il giorno in cui si dovrebbe commemorare la presenza di Cristo nel sepolcro, ma in realtà nelle case russe e nelle strade regna un'atmosfera vivace: i padroni di casa si affrettano a imbandire una ricca tavola, i bambini e gli anziani corrono in chiesa a benedire i kulich, le Pashka e le uova preparate il giovedì prima. Il sabato a mezzanotte i fedeli si riuniscono, accendono ognuno il proprio cero e seguono la croce che viene portata in processione. Le campane suonano a festa e tutti si abbracciano tre volte; poi inizia laliturgia pasquale che dura fino all’alba. La mattina del giorno di Pasqua le famiglie si recano sulla tomba di un parente, dove viene consumato il pranzo. Durante i quaranta giorni successivi alla Pasqua, è di rito salutare chi si incontra con "Cristo è risorto"(Khristos voskres) ed è consuetudine ricevere in risposta "Veramente è risorto" (Voistinu voskres).

Durante il pranzo di Pasqua, famiglia e amici si riuniscono intorno a un grande tavolo, coperto con piatti di pesce e carni fredde. Al centro della tavola viene posta la cesta delle uova colorate. Il pranzo inizia con la tradizionale battaglia delle uova: ognuno sceglie un uovo e lo tiene in modo che si veda solo un estremo, che il vicino cercherà di colpire. E’ un’occasione di festa, sia per i credenti che non, i brindisi sono molti e sicuramente si riuscirà a gustare un pranzo delizioso. Per la chiesa ortodossa la Pasqua è la festa più importante, che si trascorre in famiglia e con gli amici, mentre durante l'intera settimana santa si hanno celebrazioni speciali. Alcune tradizioni legate alla Pasqua, al pari di molte altre tradizioni russe, abbinano credenze cristiane e pagane. Una di queste risale ai primi cristiani e vuole che il giorno di Pasqua si indossino soltanto vestiti nuovi (simbolo di vita nuova). Un’altra tradizione consiste nell’alzarsi all’alba per prevedere come sarà il tempo nell’estate seguente. Gli altri giorni del periodo pasquale sono tutti abbinati a un significato particolare: al mercoledì non si lavora, altrimenti il raccolto sarà rovinato dalla grandine; il giovedì è il giorno dedicato al culto dei defunti; e il venerdì è il giorno nel quale chiedere e ottenere il perdono dai propri cari e dai propri amici. Il Sabato Santo, i fedeli portano in chiesa i piatti tradizionali, preparati in casa, per farli benedire: le uova colorate, la paska, torta di ricotta con frutta candita, mandorle e uva passa, e il kulič, dolce cilindrico simile al panettone. Al centro vengono infilati dei ceri accesi con il sacerdote che si appresta a spargerli di acqua benedetta.

Non c’è Pasqua senza uova… Una fase obbligatoria delle preparazioni è la consuetudine a dipingere uova, meglio se con la tinta naturale. Questa tradizione è collegata al fatto che la Pasqua coincide con l’inizio della primavera, anticamente era celebrata con riti per la fecondità ed il rinnovamento della natura. Dipingere uova insieme ai bambini significa trasmettere loro i nostri valori, raccontare il senso di una grande festa. L’uovo di cioccolato della Pasqua occidentale è praticamente sconosciuto in Russia. Sono invece molto popolari e diffuse le uova di Pasqua fatte a mano, solitamente dipinte semplicemente di rosso per rappresentare il sangue di Cristo, ma in giro si trovano anche uova molto più elaborate.

NATALE ORTODOSSO

Gli ortodossi utilizzano il calendario giuliano e non quello gregoriano. Di conseguenza, ricorrendo al calendario istituito da Giulio Cesare e non quello da Papa Gregorio XIII, la data è posticipata. Le due Chiese, però, oltre ad avere la differenza del calendario, hanno altri piccoli particolari che si distinguono tra loro. Ecco quali sono le differenze! Differenze tra Natale Ortodosso e Natale Cattolico Tutti i Cristiani festeggiano il Natale, anche se le Chiese Cristiane lo celebrano in modo differente. Il Natale Ortodosso e quello Cattolico, oltre ad avere due date completamente diverse, hanno altre piccole differenze tra loro. Ad esempio, il Presepe non è un simbolo che appartiene alla Chiesa Ortodossa rispetto ai Cattolici che lo utilizzano come simbolo principale religioso della festa.

Oltre al Presepe, anche l’albero di Natale non viene inserito in tutte le confessioni religiose ortodosse, ma solo in alcune. I cristiani, invece, se ne prendono molto cura andando nei minimi particolari per farlo sempre nel modo giusto. Il simbolo del Natale Ortodosso, invece di essere il Presepe o altre icone particolari che i cattolici utilizzano, è una candela.  La Vigilia di Natale cristiana prevede festeggiamenti dalla sera tardi fino alla mezzanotte del 25 dicembre per poter celebrare in compagnia di parenti e amici la nascita di Gesù. Grandi cene, divertimento e giochi da tavola sono i protagonisti della Vigilia, l’opposto di ciò che fanno gli ortodossi. Quest’ultimi, infatti, non festeggiano assolutamente allo stesso modo. Inoltre, l’Avvento, il periodo religioso che anticipa il Natale, è sostanzialmente diverso ed è caratterizzata da un sacrificio che chi è religioso deve effettuare, ovvero il digiuno. Infatti questo periodo si può anche chiamare digiuno della natività o quaresima invernale o di Natale. Inizia, per chi adotta il calendario giuliano, il 28 novembre; invece per altri il 15 dello stesso mese. Una festa ortodossa, quindi, che è molto diversa da quella cattolica a cui siamo abituati.








Il P. Giovanni La Michela, originario di Genova, é il parroco della comunità

COMMENTI ED OPINIONI DEI VISITATORI

La chiesa dal particolare colore verde mare ha una storia molto travagliata con una ricostruzione nel medioevo e una successiva dopo la seconda guerra mondiale fino ad arrivare ai giorni nostri quando la chiesa si trasforma in un luogo di culto ortodosso. Ancora oggi all'interno tutte le decorazioni sono perfettamente conservate ma si affiancano a quelle del culto ortodosso. Spettacolare la Cappella di S. Caterina attribuita al Guidobono e quella dedicata a S. Gaetano di Thiene con il dipinto di Domenico Piola. La chiesa è aperta raramente vicino al portale gli orari delle celebrazioni se si arriva un po' prima è possibile visitare la chiesa.

Il campanile e il cavalcavia

Sempre mi ha stupito il cavalcavia che collega la chiesa alle case, sovrastando via dei Giustiniani, ma mai avevo notato il campanile che spunta sopra i tetti delle case, inglobato in un edificio, trasformazione della torre medievale degli Alberigi.
Dalla piazza parte la misurazione delle distanze sulle vie Aurelia e Postumia.
La Chiesa è spesso chiusa, ma ricordo di esservi entrata durante una celebrazione ortodossa molto partecipata ed affascinante.
Per non dire delle tele di Luca Cambiaso!

Quanta storia è passata di qua

Si tratta di una piccola chiesa situata nella piazza omonima, nel Centro Storico di Genova, accanto alla chiesa di San Torpete.
Già la posizione è storica, infatti piazza San Giorgio corrisponderebbe al foro della città romana. La chiesa di San Giorgio risalirebbe a prima dell'Anno Mille e in questa chiesa era custodito lo stendardo di guerra della Repubblica di Genova, che aveva San Giorgio come patrono. Attorno al Cinquecento fu ricostruita perché pericolante. Da allora ha subito numerose ricostruzioni, tanto che la facciata è di metà Ottocento.
Anche i bombardamenti della seconda guerra mondiale l'hanno gravemente danneggiata. Singolare che la statua della Madonna sia rimasta intatta in mezzo alle macerie!
Ora c'è ancora un cantiere. La facciata è singolare, curvilinea e di color verde pallido.
C'è anche una bella cupola.

Ringrazio Il prof. Giorgio Karalis, Teologo ortodosso ed autore di molti autorevoli libri, per avermi introdotto nell’affascinante Mondo dell’Ortodossia.

 

CARLO GATTI

Rapallo, 29 Aprile 2020

 

 

 


PORTOFINO - LA CHIESA DI SAN GIORGIO

 

PORTOFINO

LA CHIESA DI SAN GIORGIO


In questa stupenda fotografia di Fabio Merlo, la chiesa di San Giorgio si nota a destra sulla dorsale che scende a picco sul mare

Un tempo, come abbiamo già pubblicato su questo sito, molti santuari della nostra regione venivano costruiti in posizioni panoramiche di rara bellezza e di grande utilità: erano facilmente difendibili ed assumevano un ruolo polifunzionale, come si direbbe oggi, di stabile vedetta e presidio, con compiti d’allertare le autorità locali dagli imminenti pericoli dal mare; ma questi “Avvisatori Marittimi” non si sottraevano neppure  al compito di contattare i velieri di passaggio, in tempi di pace, ed ottemperare alla vecchia consuetudine di consegnare la posta, con scambi di cibo e regali; inoltre avevano anche l’utilissima funzione di liaison tra i Comandanti ed i loro Armatori quando il veliero era diretto al porto di Genova.

Tutto ciò avveniva nei secoli precedenti la scoperta del telegrafo senza fili, e di lì a poco anche della Radio di G. Marconi che modificò il modo di navigare ed anche il ruolo di questi bellissimi Santuari che ritornarono lentamente alla loro originaria missione religiosa.

… MA ORA E’ TEMPO DI DI PREGHIERA …

Contro il coronavirus

Portofino – È l’abbraccio di San Giorgio a Portofino, alla Liguria e al Paese intero. Un abbraccio a tutti coloro che soffrono, che lottano e che combattono senza tirarsi indietro. Don Alessandro Giosso ha da poco esposto le reliquie di San Giorgio e invocato la sua protezione rivolto verso la piazzetta di Portofino. “Benedire come per custodire la certezza che questo disastro finirà e che tutti ripartiremo” ha precisato don Giosso spiegando il significato di un rito iniziato a porte chiuse; sul sagrato solo il sindaco Matteo Viacava e un agente della polizia locale.

Dal sacro al profano …

”Passòu o monte de Portofin moggé caa, torno fantin.”

“Passato il monte di Portofino cara moglie ritorno single”

Questo simpatico proverbio ci parla della nota località turistica di Portofino, che non appena oltrepassato, permette ai mariti genovesi, imbarcati sulle navi, di ritenersi liberi da ogni legame matrimoniale, forse per questo Portofino è così amato dai genovesi !!!!! Una specie di porta d’ingresso nella libertà.

L’incantevole Faro di Portofino

Ma per comprendere meglio il contesto: natura, religione e difesa, dobbiamo ora avventurarci in un seppur breve percorso storico.

Intorno all’Anno 1000 Portofino mise a disposizione della Repubblica di Genova esperti marinai per le galere che si recavano in Terrasanta e fu proprio di ritorno da uno di questi viaggi che i portofinesi portarono nel loro borgo delle preziose reliquie di San Giorgio che si trovano oggi in un sacrario scavato nella dura puddinga sotto l'altare maggiore della chiesa.

CHIESA DI SAN GIORGIO

Raffaello – San Giorgio e il drago – 1505 National Gallery of Art, Washington

LA LEGENDA AUREA - Jacopo da Varagine († 1293) nella sua “Leggenda Aurea”, fissa la sua figura come cavaliere eroico, che tanto influenzerà l’ispirazione figurativa degli artisti successivi e la fantasia popolare.

Si narra che in una città chiamata Silena, in Libia, vi fosse un grande stagno, tale da poter nascondere un drago, che, avvicinandosi alla città, uccideva con il fiato tutte le persone che incontrava. Gli abitanti gli offrivano per placarlo due pecore al giorno ma, quando queste cominciarono a scarseggiare, furono costretti a offrirgli una pecora e un giovane tirato a sorte. Un giorno fu estratta la giovane figlia del re. Il re, terrorizzato, offrì il suo patrimonio e metà del regno per salvarle la vita, ma la popolazione si ribellò, avendo visto morire tanti suoi figli. Dopo otto giorni di tentativi, il re alla fine dovette cedere e la giovane si avviò verso il lago per essere offerta al drago. In quel momento passò di lì il giovane cavaliere Giorgio, il quale, saputo dell'imminente sacrificio, tranquillizzò la principessa, promettendole il suo intervento per evitarle la brutale morte. Poi disse alla principessa di non aver timore, che l'avrebbe aiutata nel nome di Cristo. Quando il drago si avvicinò, Giorgio salì a cavallo e protettosi con la croce e raccomandandosi al Signore, con grande audacia affrontò il drago che gli veniva incontro, ferendolo gravemente con la lancia e lo gettò a terra, disse quindi alla ragazza di avvolgere la sua cintura al collo del drago, il quale prese a seguirla docilmente verso la città. Gli abitanti erano atterriti nel vedere il drago avvicinarsi, ma Giorgio li tranquillizzò, dicendo loro di non aver timore poiché «Iddio mi ha mandato a voi per liberarvi dal drago: se abbraccerete la fede in Cristo, riceverete il battesimo e io ucciderò il mostro». Allora il re e la popolazione si convertirono e il cavaliere uccise il drago e lo fece portare fuori dalla città, trascinato da quattro paia di buoi.


Gustave Moreau, San Giorgio e il drago, 1889/90, National Gallery, Londra National Gallery, Londra

La leggenda nacque al tempo delle Crociate dalla dubbia interpretazione di una raffigurazione dell'imperatore Costantino che trafigge un enorme drago, simbolo del maligno. In seguito, la fantasia popolare giocò un ruolo importante e il racconto, attraversando l’Egitto, dove San Giorgio era venerato in molte chiese e monasteri, si trasformò nella intramontabile leggenda che tutti conosciamo.

Per la cronaca, é anche facile confondere San Giorgio con San Demetrio o San Teodoro anch’essi impegnati vittoriosamente nella stessa impresa contro il maligno.

Nel Medioevo gli ideali della Cavalleria si fondono in San Giorgio e la lotta contro il drago diviene il simbolo della lotta del bene contro il male. Il culto del soldato vincitore del drago, il grande martire e il trionfatore diventa popolarissimo nel mondo cristiano di allora.

Vari Ordini cavallereschi portano oggi il suo nome e i suoi simboli: l’Ordine della Giarrettiera, l’Ordine Teutonico, l’Ordine Militare di Calatrava, il Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, il Reale e militare ordine di San Giorgio della Riunione e molti altri.

L’Ordine Cavalleresco del Santo Sepolcro, il più antico, fu istituito per la difesa del Sepolcro di Cristo, nel 1103 da Goffredo di Buglione che ne affidò l’incarico a suo fratello Baldovino I.

Ma il più famoso di tutti fu l’ORDINE DEI TEMPLARI, fondato dall’aristocratico Hugo di Payns nel 1118 su richiesta di San Bernardo di Chiaravalle al termine della prima Crociata. Il primo nucleo era composto da 11 monaci guerrieri, di cui San Giorgio era il Santo patrono e protettore. Il loro il compito era di scortare e difendere (dagli infedeli) i pellegrini che viaggiavano lungo le strade sante fra Jaffa e Gerusalemme. Fu affiliato ai Canonici del Santo Sepolcro e diventerà il più potente e famoso Ordine Cavalleresco durante il Medioevo Europeo.

San Giorgio è patrono d’Inghilterra, del Portogallo, della Lituania, del Montenegro, della Georgia e dell’Etiopia.

Ovviamente in Italia il culto per il Santo Soldato è assai diffuso e le città e i comuni di cui è patrono sono più di cento, dei quali uno – Campobasso - é capoluogo di regione, e tre sono capoluoghi di provincia (Ferrara, Ragusa, e Reggio Calabria); inoltre si contano ben ventuno comuni che portano il suo simbolo, tra cui appunto PORTOFINO.

La chiesa di San Giorgio è un piccolo tempio costruito sulla suggestiva scogliera del promontorio che scende a picco sul mare. Dedicato a San Giorgio Martire, la sua prima costruzione risale al 1154.

Fu bombardato quattro volte e venne ricostruito ogni volta. Notare la pavimentazione del sagrato a “risseu”. Il culto del Santo è fortemente sentito dagli abitanti del luogo: ogni marinaio, oggi come in passato, prima di allontanarsi da Portofino rivolge uno sguardo ed una preghiera al Santuario. Testimonianza di questa devozione è rappresentata dagli innumerevoli ex-voto conservati in una sala della sacrestia.

La bandiera di San Giorgio che sventola nella foto sopra, è costituita da una croce rossa in campo bianco. Originariamente era il vessillo della Repubblica di Genova che fu poi utilizzata dai crociati e in seguito adottata da molte altre città. La Croce di San Giorgio venne pertanto scelta come simbolo dei pellegrini che partivano per pregare sul Santo Sepolcro a Gerusalemme.

Nel 1095, anno di conquista di Gerusalemme da parte dei Turchi, cambiò lo scenario e i pellegrini si trasformarono in guerrieri armati di croce e di spada, decisi a liberare la terra ove nacque e visse Gesù Cristo e per conquistare l’impero Bizantino.

Nel 1099 la bandiera fu adottata da Goffredo di Buglione, a seguito della presa di Gerusalemme, in onore delle forze Genovesi ("Praepotens Genuensium Praesidium") al seguito di Guglielmo Embriaco i quali, giunti dopo un lungo assedio, risolsero le sorti della battaglia con un contributo decisivo nella conquista della Città Santa.

La scelta della bandiera crociata da parte dei genovesi, pare risalire ad epoche ancora più antiche, quando l’esercito bizantino stanziava nella città e il vessillo della guarnigione (una croce rossa in campo bianco) veniva portata per essere benedetta nella piccola chiesa di San Giorgio.

La bandiera, storicamente utilizzata dalla Repubblica di Genova, aveva un valore di “difesa si direbbe automatica”, infatti, le imbarcazioni nemiche, quando la vedevano garrire al vento, subivano una sorta di sortilegio che li spingeva a virare di bordo e a darsi alla fuga.

… UNA CURIOSITA’ …

Una leggenda, purtroppo non supportata da una documentazione originale, vorrebbe che nel 1190 i regnanti di Londra avessero ottenuto l'uso della bandiera per la flotta britannica, ma in cambio di un tributo annuale da pagare alla Repubblica di Genova.

Nel luglio 2018 l’attuale sindaco di Genova Marco BUCCI ha inviato una lettera alla Regina Elisabetta II del Regno Unito chiedendo il pagamento di 247 anni di tributi arretrati in quanto non fu più pagata la concessione del vessillo dal 1771.


Descrizione Araldica dello dello Stemma di Portofino: Castello in mattoni grigi con sfondo di azzurro chiaro come cielo ed azzurro intenso come mare alla base del castello, con delfino che nuota, il tutto contornato da rami di pino e pigne sormontato da una corona grigia.

 


L’attuale chiesa nacque come Pieve in stile romanico-gotico risalente al 1000. Fu poi modificata da numerosi rifacimenti rinascimentali e barocchi.
E’ dedicata a San Martino di Tours, anche se, a partire dall’anno 1120, a seguito dell’elezione di San Giorgio martire a Protettore di Portofino, lo stesso ne divenne Contitolare.


10 giugno 1548 – Anno della consacrazione, avvenuta dopo il rinvenimento sotto la mensola dell'altare maggiore, di una scatola contenente reliquie dei santi martiri Dorotea, Cassiano e Vincenzo.
1130
- Papa Innocenzo II decide di attribuirne la proprietà ai monaci dell’Abbazia di San Fruttuoso;

1550 – La proprietà rientra nei possedimenti di Andrea Doria e dei suoi eredi.

Alla fine del 1800 - la Chiesa dapprima appartiene alla Diocesi di Genova ed in seguito alla Diocesi di Chiavari, istituita, quest’ultima, nel 1892 con Bolla del Papa Leone XIII e riconosciuta dal Regio Governo nel 1894.
Il visitatore che si trova sul sagrato della chiesa, viene attratto da un pregevole portale bronzeo, realizzato dallo scultore milanese Costanzo Mongini, che raffigura San Giorgio che protegge il borgo dall’assalto dei pirati scatenando una tempesta, evento miracoloso risalente al Settecento.
Al suo interno è possibile ammirare, fra le altre opere, una grande scultura lignea, opera di Anton Maria Maragliano ed una statua, sempre in legno, dell’Addolorata.
Il Sagrato è decorato con il tipico risseu, mosaico ornamentale costituito dall’alternarsi di piccoli ciottoli levigati dal mare ed accostati a formare elementi figurativi di grande pregio.


L’interno della chiesa di San Giorgio. In una sala della sacrestia sono raccolti gli ex voto donati dai marinai nel secolo scorso. Si tratta di tele di varia grandezza, suggestive espressioni di ingenua ma affascinante arte popolare.


Un cimitero particolare, vista mare, che accoglie i residenti del paese e illustri ospiti, come l’eroe della X Mas, Luigi Durand De La Penne. Ammiraglio e simbolo di Portofino.


Il 15.2. 2014 - In occasione del centenario della nascita della Medaglia d’Oro al Valor Militare (M.O.V.M.) ammiraglio Luigi Durand de la Penne, la Marina Militare ha ricordato l’ufficiale genovese con una cerimonia che si è svolta a bordo del cacciatorpediniere che porta il suo nome.

Chi ha avuto la fortuna di conoscere questo personaggio, come il sottoscritto, ancora oggi si meraviglia di quanti inestimabili valori di intelligenza, semplicità, umanità e amore per la Patria potessero concentrarsi in una sola persona! Luigi Durand De La Penne appartenne ad una stirpe di Liguri Eccellenti che andrebbero studiati a fondo e fatti conoscere alle nuove generazioni come fulgidi esempi di “GRANDI ITALIANI”.






 

Carlo GATTI

Rapallo, 25 Marzo 2020

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GLI EROI DELL'IMPRESA DI ALESSANDRIA di Carlo GATTI

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=299;alessandria

 

 


A L'EA GENTE NAVEGÂ,..

A L'EA GENTE NAVEGÂ ...

 

Le coste italiane hanno uno sviluppo complessivo di 7.456 chilometri per cui si dice che gli italiani siano "NAVIGATORI" oltre che poeti ed eroi ed altro.  Il concetto compare sulla facciata del Palazzo della Civiltà Italiana o "COLOSSEO QUADRATO" a Roma.

MA IO HO UN'ALTRA OPINIONE!


 

La maggior parte degli italiani ancora nel XX secolo non avevano mai visto il mare:

gente dell’entroterra, di pianura, di campagna e di montagna che ne sentiva certamente parlare senza capire bene cosa fosse… interpretandolo, fin dai tempi più lontani, come la via d’accesso più insidiosa a pirati e razziatori da cui occorreva difendersi arroccandosi nel più profondo interno sulle colline tra mura e bastioni armati. Gente di terra che non temeva il maestrale, il libeccio e le tempeste atlantiche… perché non sapeva neppure come immaginarli …

Per i nostri avi, gente della costa, il mare era invece l’unica via di scampo per sopravvivere: l’amico-nemico che fin da piccoli si doveva imparare a rispettare e farselo amico per necessità; era l’orco marino con cui si giocava senza prendersi troppa confidenza perché aveva un carattere imprevedibile: voleva essere ossequiato e temuto perché lui percepiva e gradiva l’odore dei marinai veri. Un tempo si diceva:

Il buon marinaio lo si vede nella burrasca!

Il mare ha sempre punito i suoi sfidanti, quelli con la mentalità da tempo buono, arroganti e saccenti che fin dai tempi antichi costruivano navi, dighe e porti pensando al “mare forza olio”….

Purtroppo questa genia esiste ancora!

 


Verso Capo Horn...

Da grandi poi occorreva immaginarlo sempre incazzato e furioso. Da prevenuti e guardinghi si era sempre pronti ad affrontarlo con le armi create con l’esperienza dei “sopravvissuti” ai naufragi, alle demolizioni d’interi pezzi di costa, a paesi spariti insieme alle case e i rifugi delle imbarcazioni.

Gente dell’entroterra “condannata” a vivere nelle nebbie di pianura tra le dolci colline o sui monti innevati; gente di mare “condannata” a guardare oltre l’orizzonte per scoprire l’ignoto e conquistarlo per trovare qualcosa che valesse più di quella terra dura da arare e da domare negli esigui spazi tra i muretti a secco.

Pensieri diversi, mentalità talvolta opposte: di apertura e di chiusura, di coraggio estremo nell’affrontare l’ignoto marino, o di paura sulla terraferma per le improvvise guerre fratricide. Orizzonti diversi che hanno forgiato due razze diverse, due Italie che forse non si sono mai capite… non per odio, ma per un destino diverso che li ha posti su pianeti diversi.

Non occorre andare troppo distanti nel tempo. Allora parliamo dei nostri nonni che vissero a cavallo dell’800-900 quando nel Nord Italia si affacciò la Rivoluzione Industriale portando l’elettricità, i prodotti chimici ed il petrolio che sconvolsero il sistema economico e sociale nel suo insieme: una gtrasformazione che dura ancora oggi.

Ma vi siete mai chiesti da quanti secoli la gente della costa costruiva navi per solcare gli oceani e, in modo del tutto autonomo, era impegnata in una rivoluzione industriale indipendente che progrediva sia sul piano civile che militare per tenersi al passo degli altri Paesi concorrenti di tutte le sponde?

Eminenti storici ci hanno tramandato: nei secoli XIII e XIV, i Rapallini svilupparono una rilevante attività commerciale-marittima, soprattutto col Levante, ad opera della numerosa colonia rapallese dislocata a Cipro. In essa emersero naviganti, armatori e commercianti dai nomi ormai dimenticati: i Ruisecco e i Pastene. Un Domenico Pastene (fine del ‘300) diventa il più grande commerciante dell’isola, viaggia molti anni in Egitto, Siria, Asia Minore, Mar Nero, sino al golfo Persico, inviando interessanti relazioni diplomatico-commerciali alla Repubblica di Genova, lasciando infine tutte le sue ricchezze al Banco di San Giorgio. E Rapallo manda persino sulle rive del Lago di Ginevra un Sacolosi ed un Andreani, quali maestri d’ascia per la costruzione di galee sabaude. Pure alla fine del ‘300 un Antonio Colombo di Rapallo è Comandante di galee.

Durante il 1400 un rapallese è consacrato alla storia quale esperto comandante di armate navali: è l’ammiraglio Biagio Assereto, vincitore della battaglia di Ponza, la più grande del secolo XV. Tra gli uomini illustri assume particolare rilievo Giovan Battista Pastene, Almirante del re di Spagna, Pilota Major do Mar do Sud, fondatore di Valparaiso (1544). A questo punto si devono ricordare: Bartolomeo Canessa, Capitano di galeazza con Patente di corsa della Repubblica Genovese; Agostino Canevale, Comandante della galea Lomellina alla battaglia di Lepanto e Gio Bernardo Molfino, Capitano della fregata Il Cacciatore, che a metà del ‘600 corseggiava nei mari del Levante. Pressappoco alla medesima epoca, gli abitanti del Capitanato di Rapallo elargiscono una forte somma per la costruzione di una nuova galea, da incorporarsi col nome di Santa Maria del Monte Allegro, nella flotta genovese.

Durante il periodo conosciuto come “l’Epopea della Vela”, Rapallo diede figure eminenti di Capitani di Lungo Corso, da Emanuele a Giacomo Bontà, a Pietro Felugo e a Cap. Agostino Solari, da Agostino G. B. Macchiavello a Valentino Canessa e a Biagio Arata (comandante di grandi velieri in lunghe navigazioni oceaniche), tutti valenti navigatori sulle rotte oceaniche mondiali. Parecchi rapallesi si contavano anche fra gli equipaggi della Real Marina Sarda.

Génte navegâ …. Questa espressione rimasta nell’uso comune si riferisce ancora all’esperienza internazionale della nostra antica “gente di mare”, veri ambasciatori sparsi nel mondo, Comandanti che sapevano come procurarsi i noli entrando nella politica non solo economica del Paese che li ospitava, ma facendosi apprezzare fino a diventare agenti diplomatici, consoli e consiglieri di Governi.

Questa gente “navegâ” portava in patria informazioni “reali ed affidabili” su risorse naturali da esportare ed importare, notizie su rivoluzioni in corso e sulle varie instabilità che si alternavano con molta frequenza. I nostri equipaggi erano i media dell’epoca, osservatori privilegiati che portavano alla luce scenari altrimenti sconosciuti in Europa. Padri Comandanti che iniziavano i figli alla navigazione tenendoli a bordo quattro anni per lasciargli il Comando, per poi rientrare a casa ed aprire Cantieri Navali e Società di navigazione.

Questa era la gente navegà! Gente che parlava tutte le lingue del mondo marittimo, che conosceva la storia, la geografia e l’economia del mondo di allora. L’esempio tipico di persona navegà é sicuramente Giuseppe Garibaldi, la punta di un immenso iceberg umano se pensate che la sola Camogli armò 1200 velieri e non fu un caso che l’Eroe dei due mondi staccasse il proprio libretto di navigazione su un veliero di Camogli:

Non c’é famiglia nella nostra Riviera di Levante che non abbia o non abbia avuto parenti in Cile e in Perù. Di una cosa siamo certi: occorreva essere uomini di ferro prima che grandi marinai. Quella di Capo Horn fu un’EPOPEA che dovette pagare un prezzo molto alto: due/tre velieri su cinque affondavano; si parla di oltre 800 navi e di 10.000 persone perse in quel mare.

I primi marinai che emigrarono in Sud America furono i nostri avi che per un motivo o per l’altro (paura di ripassare Capo Horn, malattie, incidenti di navigazione ecc....) non rientrarono più a bordo, in pratica si stabilirono nelle principali città del Sud Pacifico e diedero vita ad attività di pesca e vendita del pescato, altri si diedero all’agricoltura, altri ancora diventarono commercianti aprendo negozi o magazzini (ALMACIEN). I più fortunati e intraprendenti iniziarono con piccoli laboratori artigianali che divennero via via fabbrichette sempre più importanti le quali fecero nel corso degli anni da calamita per tanti loro parenti amici che poi lasciarono la Liguria in cerca di fortuna.

A metà ‘800 si passò dal romanticismo dei “Capitani Coraggiosi” ad una classe di professionisti. In quel secolo, quasi ogni paese della Riviera di levante ha ospitato un cantiere navale di piccole o grandi dimensioni, in un angolo del proprio litorale. Molti furono, quindi, i velieri, i pinchi, le tartane, i leudi e i gozzi che nacquero sotto gli occhi dei “mastri geppetto” che, da queste parti, si chiamano maestri (mastri) d’ascia. Il loro ricordo, per fortuna, si perpetua ancora attraverso qualche raro figlio o nipote che professa questa arte, quasi di nascosto, con la stessa maestria di un tempo.

Lungo la passeggiata a mare di Rapallo, prima di arrivare al monumento di Colombo, sorgeva un cantiere navale che nel 1865 raggiunse una notevole importanza. Vi si costruirono non solo tartane, golette e scune, ma anche grossi bastimenti oceanici di oltre 1000 tonnellate, quali l’Iside, l’Espresso, il Genovese, il Ferdinando, il Siffredi, il Giuseppe Emanuele ed il maestoso Caccin di 1500 tonnellate, sotto la direzione di grandi costruttori navali come G. Merello, Graviotto ed Agostino Briasco.

 


 


 

Rapallo ebbe anche una buona e frequentata SCUOLA NAUTICA che esisteva nel 1865, diretta dall’astronomo Salviati (vicino alla porta delle Saline n.d.r.).

Cantieri e Scuole Navali sorgevano dirimpettai, perché legati ai “bisogni” della nuova industria marittima che sentiva avvicinarsi il rombo del motore della Rivoluzione Industriale e quindi la necessità di essere pronti per il passaggio epocale dalla marineria velica a quella moderna in ferro e poi acciaio. Non ci si può quindi meravigliare se anche Rapallo, così vicina a Genova ed alla formidabile tradizione di Camogli, fosse presa dal vortice del rinnovamento e facendo riferimento sulla notevole tradizione dei suoi naviganti ed emigranti si candidasse come sede di una Scuola Nautica Privata che, infatti, ebbe il suo riconoscimento nel 1853 da parte del Ministero dell'Educazione Nazionale.

Le vicissitudini belliche del periodo pre-unitario rinviarono l'apertura della Scuola Nautica al 19.11.1861. Ma fu con l'arrivo del preside Edoardo Salviati che gli alunni salirono dall'esiguo numero di 12 agli 82 iscritti, dei quali il 50% erano residenti a Rapallo.

Ma non erano solo rose e nel 1869 una prima Commissione Governativa invitava l'Amministrazione ad assumere docenti che la potessero rendere “Un'Istituzione vera e seria e non un'illusione come lo è al presente”. Il rigore mostrato dal Governo funzionò e nel 1870-1871 Rapallo divenne sede di esame anche per conseguire il grado di Capitano di Lungo Corso.

Nel 1872-1873 la Scuola Nautica di Rapallo ottenne il tanto atteso Riconoscimento Governativo e raggiunse l'apice della sua esistenza. Un “Rapporto Elogiativo” redatto da Giovanni Ardito, Presidente della Giunta di Vigilanza ne rimarcò la crescita per numero di alunni, oltre 300 e per la promozione, 67%. La Scuola acquisì sussidi straordinari dal Ministero ed un posto di rilievo nel Levante, nonostante l'apertura delle scuole di Recco e Chiavari che erano temibili concorrenti rispetto al potenziale bacino d'utenza.

la Scuola continuò ad essere frequentata da un buon numero di allievi, ed il 14 febbraio 1875 fu dichiarata - SCUOLA GOVERNATIVA - e nel marzo 1876 - REGIO ISTITUTO NAUTICO -.

LA SVOLTA

Rapallo, città turistica già nota all’estero per le sue bellezze naturali e climatiche, fu una delle prime città a scegliersi un destino diverso: il turismo di élite, dotato di strutture alberghiere di altissimo livello. La sua rinuncia alla cantieristica navale fu quindi obbligata dall’impossibile convivenza tra il rumoroso scalo posto sul bagnasciuga e la tranquillità cercata dal turista proveniente dal nord, già pesantemente industrializzato e inquinato dai ‘fumi carboniferi’.

Il tramonto dei velieri rapallesi coincise, quindi, con le crescenti e svariate opportunità che il nuovo secolo andava dispensando. Spesso, i nuovi investitori sul turismo erano emigranti italiani di ritorno dalle Americhe che puntarono sulle località rivierasche, già pubblicizzate nelle Americhe per il clima da sogno, i bagni di mare, le escursioni culturali di arte profana e religiosa, l’arte eno-gastronomica, ma anche per quelle ludiche, con i celebri impianti dei campi da golf, tennis ecc...

Giunti a questo punto, corre l’obbligo di porci parecchie domande. Dove é finita questa immensa tradizione imprenditoriale? Dove é finito quell’enorme patrimonio umano di cui non si parla più ormai dal dopoguerra? Forse abbiamo perso la memoria di quello che eravamo? Perché siamo diventati quasi tutti “terrazzani”? Perché ci siamo “liberati” totalmente della nostra cultura e non riusciamo più a costruire NULLA di efficiente che sappia fronteggiare le nuove sfide del mare?

Oggi, purtroppo, assistiamo al crollo di dighe e di porti… la gente ha paura del mare e persino di sfruttare le vie di collegamento via mare con le località limitrofe. Ci siamo tuffati nel mare dell’assurdità consegnandoci ai grandi professori della parola, dei comunicatori, dei filosofi …. Quasi dimenticando chi siamo “dentro”!

Noi non abbiamo la competenza per rispondere a tutti questi temi. Altri lo faranno…

Noi, come Associazione MARE NOSTRUM RAPALLO , con la blasonata rivista mensile IL MARE, oggi MARE NEWS che ci dà ospitalità, da circa trent’anni tentiamo di tenere accesa la fiaccola della MEMORIA, convinti come siamo che solo in essa possiamo ritrovare I NOSTRI PERDUTI VALORI.

 

Carlo GATTI

L'articolo é stato pubblicato nel mese di Marzo 2020 sul

MARE NEWS

Rapallo

 


PIETRO ARDITO a 15 Anni dalla morte

 

PIETRO ARDITO

a 15 anni dalla morte

 

LA VIGNETTA: UNA VERA ARTE

La vignetta è il disegno di una breve storia, con o senza testo, che può a volte assumere, in due o tre casi, la forma di un fumetto. I vignettisti sono degli artisti, ma ugualmente giornalisti, titolari di una tessera di stampa. Rispecchiano la realtà sotto forma di illustrazione, umoristica in generale. La vignetta gioca anche il ruolo di effetto visivo.

La finalità della vignetta? Far ridere.

Di fronte alle polemiche, lo dimentichiamo troppo spesso. Pertanto, i vignettisti illustrano l’attualità con uno sguardo umoristico, ironico, sarcastico…Gli aggettivi sono numerosi! La vignetta piace per il suo lato spinto, rivelatore e incisivo. Rivelare, commentare, spiegare, denunciare, criticare, far reagire, scioccare, provocare un dibattito…Fanno anche parte degli obiettivi della vignetta a vari livelli. In ogni caso, la vignetta risveglia il senso critico dei lettori.

Tra disegno umoristico e satirico, c’è una linea sottile. Bisogna riconoscerla.

Il disegno umoristico non userà gli stessi codici. Può essere realizzato solamente per far ridere, rilassare il lettore di un giornale ad esempio. Scoprire l’ultimo disegno del proprio giornale preferito, fa parte delle attese dei lettori. La vignetta satirica è spesso scioccante. Non avrà lo stesso effetto su tutti in base ai temi trattati. Questo dipende in effetti dalle opinioni di ognuno. La satira tocca elementi tabù, persino sacri. È per queste ragioni che fa male ed è spesso soggetta a polemiche. Ad esempio le caricature di Maometto in Charlie Hebdo.

Come disegnare per la stampa?

I disegnatori usano molti metodi per raggiungere il loro obiettivo: la caricatura, la provocazione, gli stereotipi, l’ironia, i giochi di parole, l’umorismo nero, il confronto, l’allegoria, l’esagerazione. L’autoironia, la risata e l’umorismo permettono anche di sdrammatizzare una notizia, fare un passo indietro, usare il buon senso ed esprimere un’opinione. I vignettisti non per questo sono tutti “ingaggiati” in senso stretto. Sono prima di tutto degli osservatori del mondo che ci circonda. Si ispirano alla realtà per far ridere.

Come affermava Cabu:

“Non siamo portatori di messaggi. Siamo semplicemente dei clown, degli intrattenitori (…). L’umorismo è un linguaggio che ho sempre amato. Il nostro compito e di denunciare la stupidità facendo ridere.”

Dopo questa premessa è il momento di RICORDARE un vignettista di altissimo livello a cui teniamo in modo particolare perché ha dato tanto PRESTIGIO alla nostra Rapallo.


PIETRO ARDITO

 


 

15 ANNI SENZA IL GRANDE ARDITO...

Sono passati 15 anni dalla tua dipartita, ma noi conserviamo nel nostro cuore tutte le centinaia di vignette che ci hai donato nel corso di 30 lunghi anni di collaborazione.
Caro Pietro Ardito, continua a far divertire gli angeli in Cielo... (e ricordati di inviarci qualche caricatura del buon Dio... Lo sai che Lui è Persona di... Spirito, e non si offende...).


Ringrazio Nadia Molinaris a nome della ASSOCIAZIONE MARE NOSTRUM RAPALLO per averci ricordato un anniversario triste, ma molto significativo per i rapallini, i rapallesi… e per la storia di Rapallo.


OGGI 28.02.20 il Circolo della Pulce vuol ricordare i 15 ANNI della morte di un nostro grande: PIETRO ARDITO, con qualcosa di inedito grazie a Paolo Melani, che spero vogliate leggere perché gli uomini che han fatto la storia e la cultura devono essere conosciuti e ricordati. Grazie
Un quadernone datato 1945, con la copertina scura e quel profumo che ormai ha solo la carta ingiallita dal tempo. Appena lo apri hai quasi timore a toccarlo e sfogliarlo, ma da subito comprendi di avere tra le mani qualcosa di raro valore leggendo la dedica: “al Signor Nespolo con stima e riconoscenza Pietro Ardito – Rapallo 15 gennaio 1946”
Non nascondo che è stato emozionante, ogni volta nel girar pagina, trovare i capolavori inediti delle prime vignette giovanili del pittore, scrittore e caricaturista “Rapallino”.
Già perché il 28 febbraio ricorrono i 15 anni dalla morte di Pietro Ardito, così Paolo Melani, oggi erede del quaderno, ha pensato che era giusto ricordarlo e si è rivolto al Circolo della Pulce portando “in dote” uno spezzone di vita privata e di disegni inediti del grande artista. Un quaderno ricevuto in dono da Dora, la sua madrina di battesimo, figlia guarda caso, proprio di quel Nespolo della dedica.
Siamo negli anni ’40 quando nasce l’amicizia divenuta poi fraterna tra Nespolo ed Ardito, entrambi figli di emigrati della nostra città, arrivano dal sud America, il primo dal Cile e Pietro dall’Argentina, con una lingua che li accomuna, insieme a quell’ indissolubile sentimento molto Ligure, di orgoglio delle proprie radici che li fa sentire entrambi Rapallini. Una immagine di una Rapallo ben diversa da oggi, dove ci appare Nespolo come titolare dell’Agenzia Riviera di Piazza Cavour, ma anche costruttore dei due bei palazzi di Corso Assereto di fronte all’odierno Scarpamondo, il nonno “Dino” di Paolo Melani, con la sua officina di maniscalco, in mezzo agli orti di S. Anna (di fronte all’attuale Croce Bianca), gestita durante la guerra dalla moglie Cesarina e, Pietro, giovane magro col cappello e col suo quaderno in mano a disegnare i primi personaggi delle sue famose vignette. Non sapremo mai le confidenze che, magari in lingua spagnola, si scambiarono i due amici, ma di una cosa siam certi, entrambi vennero a Rapallo perché si sentirono Rapallini, nella nostra città lasciarono un segno importante e per quella conoscenza comune con Cesarina, oggi abbiamo la fortuna, nel ricordare doverosamente il nostro illustre concittadino Pietro Ardito, nel 15° anno della sua morte, di ammirare alcune delle sue prime e inedite caricature. Un grazie a Pietro Ardito, ma anche a Paolo che ci ha permesso di condividere una pagina di vita del grande vignettista.

Pulce Nadia Molinaris

 

Un po’ di biografia

PIETRO ARDITO (Buenos Aires, 21 marzo 1919 – Rapallo, 28 febbraio 2005)

E’ stato un pittore, disegnatore e caricaturista italiano. Nato in Argentina da genitori italiani emigrati, si trasferì giovanissimo a Rapallo, paese d'origine dei familiari.
Adempiuti gli obblighi di leva in Libia, iniziò la sua carriera professionale negli anni quaranta come collaboratore per spettacoli teatrali e disegnatore di tessuti per importanti ditte nel settore tessile di Como e della Toscana.

Successivamente, intraprese la carriera di caricaturista, un'attività che lo renderà famoso per la spiccata creatività che lo ha portato a collaborare con giornali e riviste italiane come Nazione SeraIl GirondinoSettimana IncomRivista MilanoIl LavoroIl Secolo XIXIl Quaderno del Sale.
Famose sono le sue caricature di intellettuali e scrittori realizzate per l'inserto
Mercurio del quotidiano La Repubblica e la pubblicazione di alcune vignette sul giornale tedesco Die Tageszeitung.
Nel corso della sua carriera, Ardito ha approfondito la propria attività di pittore in senso stretto realizzando opere esposte in musei locali e nazionali.
Nel
1984 collaborò con la RAI alla trasmissione Prisma, trasmessa su Raiuno.
Negli stessi anni
Indro Montanelli lo invitò a partecipare quotidianamente con le sue caricature alla illustrazione di un fatto del giorno de Il Giornale.
La pubblicazione in Germania di un suo libro -
Psicografie - contribuì ad accrescere poi la sua popolarità anche all'estero.
Le opere di Ardito sono esposte in diversi musei italiani, come il Museo Internazionale della Caricatura di Tolentino e il Museo del Cinema di Torino, nonché in altri siti culturali esteri a Basilea, Istanbul e al Kunstsammlung di Düsseldorf.
Molti i riconoscimenti internazionali ricevuti da Ardito in carriera: nel
1985 e nel 1989 è stato premiato al Salone Internazionale dell'Umorismo di Bordighera;

L'Istituto Italiano per gli Studi Filosofici ha organizzato nella sede di Palazzo serra di Cassano, nel 1997, una mostra delle sue caricature dal titolo: "I Filosofi e il Caos", a cura del filosofo Alessandro Di Chiara. Nel centenario della morte di F. Nietzsche la città di Rapallo ha patrocinato, insieme al Dipartimento di Filosofia dell'Università di Genova, con la direzione scientifica di Alessandro Di Chiara e la collaborazione di Carlo Angelino, un Simposio Internazionale dal titolo "F.Nietzsche 1900-2000", al quale hanno partecipato alcuni tra i più noti pensatori contemporanei; tra le attività collaterali al Simposio anche la Mostra di Ardito intitolata " Nietzsche precursori e epigoni" e curata dallo stesso filosofo della mostra napoletana.

Nel 1997 ha realizzato il volume Caricature in linea e, nel 2003, il libro Le caricature di Pietro Ardito, entrambe dedicate alle sue umoristiche caricature.
A Rapallo ha dedicato un originale volume umoristico,
Rapallini & Rapallesi
, raffigurante personalità di rilievo della città ruentina disegnate con semplici tratti di china, tipici del suo stile artistico.

Il 15 febbraio del 2005 il comune di Rapallo ha dedicato all'umorista una mostra personale al Castello sul mare, presentando al pubblico il suo volume Biografia e bibliografia di quel genio della caricatura che risponde al nome di Pietro Ardito. La mostra fu peraltro funestata la mattina del 28 febbraio (ovvero tredici giorni dopo l'apertura) dalla notizia dell'improvvisa morte del disegnatore.

Un anno dopo, il 28 febbraio 2006, il comune rapallese gli ha intitolato la piazzetta antistante la sua abitazione.


La fama di Ardito nasce dal suo modo di lavorare che consisteva prima nel fare uno studio del personaggio, poi eseguire una prima caricatura, alla quale togliere ciò che non è saliente: una sorta di ermetismo del disegno. Arrivato giovanissimo a Rapallo dall’Argentina, Ardito per la sua abilità ottiene che le sue opere vengano pubblicate su riviste in Italia e all’estero: Girondino, Settimana Incom, Le Ore, Nazione Sera, Mercurio. Suoi lavori sono esposti in musei di Basilea, Berlino, Baiardo, Istanbul, Tolentino e Torino.
A Rapallo, che lo ha accolto e valorizzato, ha dedicato un originale volume umoristico «Rapallini & Rapallesi» raffigurante personalità di rilievo della città ruentina disegnate con semplici tratti di china, tipici del suo stile artistico.


ALCUNE DELLE VIGNETTE FAMOSE DI PIETRO ARDITO

Il vignettista Pietro Ardito colui che “ha raccontato l’Italia attraverso trent’anni di satira”

Pietro Ardito (Buenos Aires, 1919 – Rapallo, 2005), è stato pittore e disegnatore. Come caricaturista ha raggiunto una sintesi efficacissima e una stilizzazione molto personale: il suo tratto ricorda il grande artista Olaf Gulbransson del quale si dice che ricorresse più alla gomma che al pennino.
I disegni originali qui esposti, con arguzia, ma senza cattiveria, ritraggono illustri personaggi italiani e stranieri (Rapallo, 1982).


Sandro Pertini


Giovanni Spadolini


Enrico Berlinguer


Amintore Fanfani


Giorgio Almirante


Filippo Maria Pandolfi


Ronald Reagan


Ayatollah Khomeyni


Mao Zedong


Gandhi


Giovanni Paolo II


Preti sulla barca


 


Churchill



San Totò

Onassis


Napoleone


Buster Keaton

Dalla Raccolta Govi


 

a.c. di

CARLO GATTI

 

Rapallo, 2 Marzo 2020


LA COLLINA DEGLI ULIVI - Poesia

LA COLLINA DEGLI ULIVI

 

 

La collina degli ulivi

Sulla collina dell’infanzia

caduti gli ultimi frutti,

si assopivano

le aeree chiome

degli antichi ulivi.

Improvvisi

libeccio o scirocco

–in gara con i marini flutti-

in argentee onde

le agitavano.

Nella notte

al cigolar dei rami

la casa

–nei sonni –

diventava un veliero:

in tempestose acque

ci trasportava

verso le lontane isole

sognate.


Maria Grazia Bertora

Scritta nel 2007 inedita

 

 

Rapallo, 30 Gennaio 2020


ABBAZIA DELLA CERVARA - NOTA MARINARESCA

ABBAZIA DELLA CERVARA

NOTA MARINARESCA

 

DIETRO LA LAPIDE

Memoria del passaggio di papa Gregorio XI alla Cervara


Il papa Gregorio XI nacque il 9 maggio 1330 nel Castello di Maumont presso Rosiers-d'Égletons, nella regione francese del Limosino, morì a Roma il 27 marzo 1378. Fu l'ultimo dei Papi di Avignone, poiché nel 1377 riportò a Roma la sede papale dietro le preghiere di Caterina da Siena.

Fece una precoce carriera ecclesiastica e studiò all'Università di Angers. Nel 1342 canonico del capitolo della cattedrale di Rouen, poi di quello di Rodez e quindi di quella di Parigi, di cui divenne anche arcidiacono. Morto papa Urbano V nel 1370, venne eletto suo successore con voto unanime. Non essendo ancora divenuto sacerdote, dovette essere ordinato presbitero e vescovo prima dell'incoronazione ufficiale. Pierre Roger de Beaufort è stato il 201º Papa della Chiesa cattolica dal 1370 alla morte.

Una visita illustre arricchisce la storia della Cervara, efficacemente ricordata da una lapide marmorea nel chiostro.

Gregorio XI, alla fine di ottobre del 1376, era in viaggio per mare verso Roma col proposito di riportarvi la sede papale quando, scoppiata una tempesta, trovò rifugio a Portofino e ripartì l’indomani. Il viaggio però non poté continuare di nuovo per il maltempo. Servì quindi un ritorno al borgo nel giorno della solennità di Tutti I Santi festeggiati grandiosamente al monastero della Cervara, per la quale occasione concesse indulgenza ai futuri visitatori della chiesa abbaziale nella stessa ricorrenza (Archivio di Stato di Genova, Archivio Segreto, 1550).

Gregorio XI, l’ultimo papa di Avignone, era stato eletto nel conclave del 29 dicembre 1370 e incoronato il 5 gennaio 1371 a 42 anni. Limosino, il suo nome era Pierre Roger ed era nipote di un altro papa avignonese, Clemente VI (1342-1352) che, destando qualche scandalo, lo aveva creato cardinale appena diciottenne. Nelle biografie viene presentato amante degli studi, compiuti soprattutto in Italia, a Perugia, di buoni costumi e di salute cagionevole.


Il cammino per riportare la sede papale a Roma era iniziato da Avignone il 13 settembre 1376 per continuare via mare da Marsiglia il 2 ottobre. Le dimensioni della flotta erano notevoli: trentadue galee e moltissime imbarcazioni tanto da sembrare una città sul mare.

Prima di Portofino un altro piccolo borgo aveva ospitato il papa per sosta forzosa infatti, poco dopo Marsiglia, si fermò alcuni giorni a Villefranche, a causa di una tempesta. Ripartito si fermò a Genova per undici giorni, dove celebrò la festa dei Santi Simone e Giuda. Quindi l’episodio portofinese e la visita alla Cervara: “ivit ad quoddam monasterium monachorum nigrorum, quod vocatur Sancti Hieronymi et distat a portu per tria milliaria; ubi celebravit et fuit factum officium solemniter”.

La presenza papale nel monastero fu occasione di gioia della comunità per quell’inaspettata speciale festa di Tutti i Santi; una lapide ricorda l’evento anche nel monastero.  San Gerolamo della Cervara all’epoca della visita di Gregorio XI era un’istituzione benedettina in vigore da quindici anni, essendo stata fondata nel 1361 sotto l’impulso dell’allora vescovo genovese Guido Scetten.

Il viaggio di Gregorio XI continuò con altre soste, fu a Natale a Corneto (Tarquinia) e giunse trionfalmente a Roma il giorno 17 gennaio 1377. La parte romana della sua vita fu breve; un biografo lo descrive indebolito dal viaggio e carico di preoccupazioni, fino alla morte avvenuta la notte tra il 26 e il 27 marzo 1378.

A cura di Carlo GATTI

Rapallo, 16 Gennaio 2020

Nota bibliografica

B. Guillemain, Il papato ad Avignone in Storia della Chiesa (vol. XI) a cura di A. Fliche-V. Martin, Milano, 1994

L. A. Muratori, Vitae Romanorum Pontificum a sancto Petro usque ad Innocentium VIII in Rerum italicarum scriptores, Milano, 1734 (ristampa anastatica 1983)


LA CERVARA - ABBAZIA -S.Gerolamo al Monte di Portofino

LA CERVARA

ABBAZIA DI SAN GIROLAMO AL MONTE DI PORTOFINO

(XIV-XX SECOLO)



La posizione panoramica della Cervara, Abbazia di San Girolamo al Monte di Portofino, a picco sul mare tra Santa Margherita Ligure e Portofino rappresenta l’incontro tra il cielo ed il mare, tra la fede e l’umanità. Si tratta di una Abbazia che ha le caratteristiche di una  fortezza con compiti di vedetta e difesa contro gli attacchi improvvisi dei saraceni.

In questa fotografia scattata da un drone, si nota la sua vicinanza a Portofino sullo sfondo.

Ma quando ci si rende conto che l'antico edificio di origine trecentesca è, in realtà, circondato da un meraviglioso giardino monumentale all'italiana, l'unico della Liguria, il desiderio di raggiungerla e visitarla si fa ancora più forte. Sebbene, infatti, il complesso abbaziale abbia conosciuto, nel corso dei secoli, periodi di alterne fortune, il recente restauro ne ha fatto oggi un luogo di grande fascino che, non a caso, si è trasformato in un'ambita location per eventi privati, meeting, concerti e convegni. Con il valore aggiunto di poter accogliere i propri ospiti per la notte in una delle 9 stanze ricavate nell'edificio principale dell'Abbazia e nell'antica Torre Saracena.


Il complesso abbaziale é qui visibile nella sua interezza. Ai suoi piedi sul mare, lo scoglio della CAREGA sovrastato dal Pino di Aleppo ancora in salute (?) dopo la recente mareggiata. Sullo sfondo a sinistra il Castello che ospita le famiglie Berlusconi.


L'Abbazia della Cervara, o Abbazia di San Girolamo al Monte di Portofino, è un ex complesso monastico, luogo di culto cattolico. Nel medioevo questo luogo, come tutto il tratto di costa affacciata sul golfo del Tigullio che scende a picco sul mare verso Portofino, era detto Silvaria (da silvas, la parola latina che significa "boschi"), perché era fitto di vegetazione. Il termine Silvaria venne poi italianizzato in "Cervara".

L’Abbazia di S. Gerolamo della Cervara é il tipico luogo in cui il tempo si è fermato ed invita a riscoprire la sua secolare storia. Con questa magica idea si sentono risuonare secoli di storia nelle sale e negli splendidi giardini. La Cervara risale al 1361, quando fu iniziata la costruzione di un monastero di San Girolamo. Si racconta che sia stato visitato da religiosi e persone celebri: dal sommo Petrarca a Santa Caterina da Siena e a numerosi papi, dal condottiero Giovanni d’Austria al letterato Piccolomini e allo scienziato Marconi. Ma le tracce più significative furono lasciate da Francesco I, il re di Francia, sconfitto e imprigionato nella torre a strapiombo sul Golfo del Tigullio.


Chi entra per la prima volta nell'abbazia della Cervara ha immediatamente la sensazione di scoprire un luogo selvaggio e solitario che pare essere il posto ideale per la meditazione e la preghiera. Questa percezione attirò l'interesse di Padre Lanfranco di San Siro, che vi soggiornò per qualche tempo. Fu lui ad avere l'idea di edificare un monastero di Benedettini nell'antica Villa della Cervara. Il 18 marzo 1360 i monaci Certosini, proprietari del terreno, acconsentirono alla vendita, e in pochi anni, con l'aiuto dell'arcivescovo di Genova Guido Scetten, venne fondato il monastero dedicato a San Gerolamo del Deserto.

ARTE

Nel 1506, Vincenzo Sauli commissionò al noto pittore fiammingo Gerard David un superbo polittico per l'altare maggiore della chiesa di cui la famiglia ottenne il giuspatronato. Il polittico, oggi smembrato in tre parti, é custodito rispettivamente al museo genovese di Palazzo Bianco, al Louvre e al Metropolitan Museum di New York, raffigura la Madonna con il Bambino, San Mauro e San Gerolamo, l'Annunciazione, la Crocifissione e Dio.

Dal punto di vista della storia dell'arte il monastero divenne il simbolo della diffusione della cultura fiamminga in Liguria, fatto di cui si ricorda anche il trittico portatile con l'Adorazione dei Magi (ora conservato nelle sale di Palazzo Bianco a Genova) di Pieter Coeke van Aelst, autore fiammingo della metà del Cinquecento, attivo ad Anversa, che stilisticamente guarda al manierismo italiano.
“I tre scomparti compongono uno spazio unitario, reso continuo dallo scorcio del pavimento, dalla struttura architettonica del trono e dall’arazzo “millefiori” che fa da sfondo alla Vergine e alle figure dei due santi. Questo tipo di arazzo veniva ritenuto metafora del Paradiso, popolato dalle diverse categorie di eletti – ai martiri alludono le rose, ai confessori le viole, i gigli alle vergini – e contribuisce a connotare come paradisiaco lo spazio che accoglie i sacri personaggi.
Al centro, assisa su un trono, Maria tiene in braccio Gesù e lo aiuta a staccare un acino da un grappolo d’uva, che allude al sacrificio della croce e al vino eucaristico salvezza. La gemma che riluce in fronte alla Vergine, applicata a una striscia di tessuto prezioso su cui è ricamato l’incipit dell’Ave Maria, allude alle parole del Salmista: “Vergine regale, ornata delle gemme di tante virtù, luminosa per lo splendore dello spirito e del corpo”, mentre la regalità di Maria, che le deriva dall’appartenere alla stirpe di David e dall’essere madre e sposa del Re dei Cieli, è ribadita dai versi del Salve Regina, ricamati in caratteri aurei lungo l’orlo del manto.
Il gesto della Madre e il suo apparente distacco sono segno della dolorosa accettazione del destino che attende il figlio così come lo sguardo di Cristo, unico fra tutti gli attori di questa silenziosa e solenne scena che fissi gli occhi dello spettatore, rammenta che per la salvezza di ciascuno Egli verserà il suo sangue”.

LA CHIESA ED IL CHIOSTRO

L’Abbazia vista dal lato di Levante

Interno della chiesa – Navata centrale

La pianta della chiesa è a croce latina; la sua abside inclinata é resa suggestiva dalla caratteristica abside inclinata che simula il capo reclinato di Cristo.

Le colonne che separano le tre navate appaiono essere costruite con blocchi alternati ardesia e marmo, nel tipico stile architettonico ligure, sono in realtà di mattoni ricoperti da intonaco bicolore.


Il chiostro è di forma quadrangolare a due ordini di volte.


Galleria dell’Imperatore - Scalone

 

La camera che ospitò papa Pio VII reduce da Savona

Durante i recenti lavori di restauro è stata scoperta una sepoltura che, con ogni probabilità, è dell’Arcivescovo di Genova Guido Scettin, poeta e letterato, compagno di studi e amico di Francesco Petrarca.

Gettiamo un primo sguardo sui giardini…

La Cervara è da sempre avvolta da un alone di fascino misterioso


Giardino monumentale all’italiana


LA STORIA DELLA CERVARA

Il luogo selvaggio e solitario dove sorge l'abbazia, ideale per la vita monastica, semplice e appartata, impregnata di meditazione e di preghiera, attirò l'interesse di Padre Lanfranco di San Siro, che qui soggiornò per qualche tempo. Fu lui ad avere l'idea di edificare un monastero di Benedettini nell'antica villa della Cervara. L’originaria costruzione fu innalzata il 18 marzo 1360 dai monaci Certosini di San Bartolomeo di Rivarolo, proprietari del terreno. In questo primo periodo di grande prosperità, il convento acquisì un notevole patrimonio immobiliare e, in pochi anni, con l'aiuto dell'arcivescovo di Genova Guido Scetten, venne fondato il monastero dedicato a San Gerolamo del Deserto.In breve il monastero divenne un'importante congregazione benedettina e nelle sue sale molti sono gli ospiti illustri che vi soggiornarono: nel 1376, su consiglio di S. Caterina da Siena, in contatto epistolare con il priore del monastero, Papa Gregorio XI si fermò alla Cervara durante il suo trasferimento da Avignone a Roma, vi officiò messa solenne e concesse al monastero privilegi papali. Nel 1496 vi soggiornò Massimiliano I Imperatore d'Austria, chiamato in Italia da Ludovico il Moro. Nel 1525 fu la volta di Francesco I di Valois, in un soggiorno forzato nella torre prigione, dopo la sconfitta di Pavia ad opera di Carlo V, prima del suo trasferimento verso la Spagna.


La storia della Cervara alterna periodi di grande gloria e potere ad altri di declino: all'inizio del '400 venne gravemente danneggiata durante il conflitto tra Guelfi e Ghibellini. Nel
1435 il pontefice Eugenio IV fa eseguire alcune restaurazioni, dando facoltà ai monaci benedettini della Cervara di assolvere usurai e ladri, purché, pentiti, facciano una congrua offerta al monastero. Grazie alla protezione del Papa il monastero rifiorisce, incorporando il cenobio di S. Fruttuoso ormai decaduto dagli antichi splendori, e radunando i maggiori monasteri del nord Italia.

Nel 1546 il priorato della Cervara venne innalzato al rango di abbazia da Papa Paolo III.

Nel 1550 iniziò la costruzione del chiostro, mentre nel 1553 iniziò quella di una poderosa torre difensiva in asse con l'ingresso della chiesa. Il manufatto riprende tutti gli elementi tipici delle torri di difesa e avvistamento; è purtroppo completamente perduto il grande affresco raffigurante San Gerolamo, che lo arricchiva sulla facciata prospiciente la chiesa.
Nel corso del XVII secolo, grazie alla munificenza della famiglia Sauli, furono effettuati più interventi di rimaneggiamento su tutto il complesso.

A seguito della democratizzazione della Repubblica di Genova, nel 1797 e della successiva nazionalizzazione dei beni degli enti religiosi, anche il complesso della Cervara subì una decisa spoliazione. I beni dell'abbazia furono distribuiti alle chiese parrocchiali della zona: in particolare molti degli arredi e degli apparati liturgici furono trasferiti alla chiesa di Nozarego e sono attualmente esposti al museo diocesano di Chiavari.

In seguito a violente scorrerie viene fortificata con torri di difesa e subisce notevoli trasformazioni architettoniche, fra cui la costruzione dei chiostri.


Nel
1798 comincia una rapida decadenza: in seguito alla soppressione delle corporazioni religiose, voluta dalla Rivoluzione Francese, il monastero viene abbandonato, saccheggiato, ridotto a casa colonica e abitazione.
Nel
1804 il complesso viene affidato ai frati trappisti che vi aprono una scuola; le difficili situazioni politiche, determinate da Napoleone, costringono però i frati ad andarsene, lasciando ricadere il monastero nell'abbandono e nella rovina.

 

Nel 1868 il complesso venne acquisito dal marchese Giacomo Durazzo, che ne eseguì importanti lavori di recupero e decise poi di venderlo ai Padri Somaschi, affinché la presenza dei religiosi potesse riportare il monastero a rivivere gli splendori del passato.

Nel 1901 il convento venne occupato dai Certosini di Montrieux (tra Marsiglia e Tolone) che vi rimarranno fino al 1937 quando la Cervara venne acquistata dai conti Trossi. Venne dichiarata monumento nazionale nel 1912.

 

Successivamente, i Padri Somaschi vendettero la Cervara a un gruppo di Certosini provenienti dalla Francia: i nuovi monaci ebbero gran cura dell’abbazia e anche del suo giardino, ma furono costretti a vendere nel 1937, anno in cui la Cervara fu definitivamente destinata a dimora privata.

Nel 1990 venne acquistata dall’attuale proprietà e divenne oggetto di consistenti lavori di restauro portati avanti con la supervisione della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici della Liguria.
Il complesso è circondato da un incantevole giardino monumentale, anticamente orto dei monaci, esteso su due livelli, entrato a far parte del circuito dei grandi Giardini Italiani.
Oggi la Cervara è sede di rilevanti eventi culturali. E’ inoltre possibile organizzarvi riunioni, feste, incontri di lavoro e ogni altro tipo di evento.

LA TORRE SARACENA


La Cervara diventa Abbazia nel 1546: in seguito a violenti attacchi viene fortificata con torri di difesa e subisce notevoli trasformazioni architettoniche, fra cui la costruzione dei chiostri.

“Una prigione niente male”. Deve aver pensato re Francesco I di Francia quando, sconfitto a Pavia nel 1525 dalle truppe di Carlo V di Spagna fu costretto alla prigionia nella piccola torre a strapiombo sul mare dell’Abbazia di Cervara. E' questo, infatti, uno dei panorami più belli sulla baia di Portofino, un punto strategico da cui un tempo si scrutava il mare per difendersi dai possibili attacchi dei nemici e da cui oggi guardano alcune delle camere che fanno della Certosa una romantica maison de charme”.

I GIARDINO DEL COMPLESSO DELLA CERVARA

Nato come hortus di un’Abbazia benedettina, possiede uno dei rari giardini monumentali in Liguria, con pergole e terrazze a picco sul mare di Portofino. Tra le rarità botaniche un secolare albero del pepe e un glicine viola pluricentenario.

Il giardino de La Cervara rappresenta l’unico giardino storico in Liguria che si affaccia sul mediterraneo ed ha una struttura all’italiana. Di solito un giardino non è mai situato direttamente a picco sul mare, poiché i fiori e le piante sono danneggiati dalla salsedine. Invece il giardino all’italiana del complesso della Cervara, fiorisce splendido sul mare del Tigullio. Visitando ogni suo angolo si ha la netta sensazione di essere circondati dal mare ma sempre immersi in un’oasi di verde unica e originale.


Giardino all’italiana visto da un’altra prospettiva


In questa immagine ripresa da un drone, il complesso abbaziale svela anche i suoi segreti architettonici visti dalla prospettiva collinare.

Nella parte a monte, si trova un altro giardino, ricavato da un terreno una volta coltivato a fasce, da dove si perde la vista del giardino monumentale, ma non quella del mare, e si guadagna la cornice della caratteristica macchia mediterranea: l'antico bosco mediterraneo è pieno di aromi e di fruscii. Il leccio domina incontrastato nella macchia, il pino d’Aleppo, il lentisco, il viburno, il corbezzolo e tutte le altre essenze gli fanno corona. Ognuno si è ritagliato una nicchia nella quale prospera e fiorisce. Sempre nella parte rivolta verso il monte, è stato mantenuto il tradizionale orto in cui i monaci, fin dal medioevo coltivavano i "semplici" (varietà vegetali con virtù medicamentose), piante officinali ed erbe aromatiche del promontorio di Portofino; basse siepi di bosso riquadrano particelle che alternano tali coltivazioni a rari esemplari di agrumi in vasi di cotto, come era tradizione nelle abbazie.

Una porzione del giardino in cui sono coltivati, tra gli altri, il cedro pane, il limone ritorto, il limone fiorentino, il bergamotto, il chinotto, l’arancio amaro, il pompelmo, il calamondino variegato, il nadarino cinese o Nagami, la fortunella ovale, e le “mani di Buddha”.


(sopra e sotto) La statua del putto



Il giardino dei semplici


LA STATUA DEL PUTTO

Intorno al giardino e all'edificio principale, terrazze e giardini si alternano incorniciati da pergole, colonne dipinte o di mattone, piante rare e fioriture eccezionali che si rubano l'attenzione a seconda della stagione: una ombreggiata corte prende il nome da una ultra secolare e di dimensioni monumentali pianta di glicine. Le colonne del giardino superiore sono interamente ricoperte da gelsomino profumato la bougainvillea, i rari caperi rosa, la bigonia, l’uva, l'albero del pepe rosa, le camelie, le rose, le ortensie, le sterilizie e diverse altre specie.

Il giardino "dei Semplici" e quello "delle Esperidi"

Il giardino delle Esperidi è un luogo leggendario della mitologia greca. Era stato donato da Gea a Zeus che, a sua volta, lo aveva dato ad Era come regalo nuziale ed in esso cresceva un melo dai frutti d'oro che era custodito dal drago Ladone e dalle tre Esperidi.

Nell’Eden in cui siamo immersi, la vita brulica di esseri grandi e piccoli: dalla rara splendida farfalla Charaxes jausius che si nutre solo delle foglie dell’Arbutus unedo, all’upupa schiamazzante,  dell’Arbutus unedo, ad una schiera di altri svariati uccelli presenti, ma assolutamente invisibili. S'intravedono le tracce della volpe e quelle inequivocabili del cinghiale.

 






… angoli di paradiso…


… quando anche i profumi si sposano…





… senza parole…



LA CERVARA OGGI

Il progetto di recupero

Nel 1990 Gianenrico Mapelli acquista l'abbazia e dà inizio ad un’opera di restauro senza precedenti che restituisce al monastero la sua antica bellezza. Grazie alla Cooperativa Arti e Mestieri, ogni prima e terza domenica del mese è possibile visitare questa splendida abbazia e suoi giardini all'italiana. La visita, guidata da storici dell'arte, inizia dal seicentesco portale, da dove è possibile godere di un panorama che abbraccia tutto il Golfo del Tigullio. Dal cortile, con la cinquecentesca torre di difesa assai simile a quella dell'abbazia di San Fruttuoso di Camogli, si raggiunge il chiostro inferiore e la cappella, passando per la porticina dei monaci. Ad accompagnare questa parte della visita c'è un sottofondo di musica sacra che ci rimanda ad atmosfere lontane di vita quotidiana dei monaci. Splendido il giardino superiore, formato da 60 pilastri ricoperti da gelsomini e buganvillee. Inoltre, è possibile visitare la nuova "sala della colonna", un ambiente sotterraneo, forse antica cripta o primitiva fondazione monastica che ospiterà l'archivio storico del monastero.
Suite rifinite con tessuti pregiati, pavimenti in ardesia o legno e mobili antichi, ricavate oltre che nella Torre Saracena nel corpo centrale dell'Abbazia. Ambienti dove si respirano tutti i sette secoli di storia de La Cervara.

Dal cortile, con la cinquecentesca torre di difesa assai simile a quella dell'Abbazia di San Fruttuoso di Camogli, si raggiunge il chiostro inferiore e la cappella, passando per la porticina dei monaci. Bello il giardino superiore, formato da 60 pilastri ricoperti da gelsomini e buganvillee. E' possibile anche visitare la nuova "sala della colonna", un ambiente sotterraneo, forse antica cripta o primitiva fondazione monastica che ospiterà l'archivio storico del monastero.

I lavori condotti alla Cervara, dichiarato Monumento Regionale della Liguria nel 1996, si sono svolti sotto la supervisione della Soprintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici, che si sono avvalsi dell'intervento di Pinin Brambilla Barcilon, la celebre restauratrice del Cenacolo di Leonardo.

Per chi desiderasse ammirare questi capolavori dell'uomo e della natura, la Cervara apre le porte al pubblico durante la bella stagione, da marzo a ottobre, prima e terza domenica del mese alle 10.00, alle 11.00 e alle 12.00, offrendo ai visitatori l'opportunità di esplorarla su prenotazione attraverso interessanti visite guidate che portano alla scoperta dei suoi angoli più belli. Fiore all'occhiello dell'elegante complesso panoramico è proprio il giardino monumentale. Un magnifico spazio verde su due livelli collegati da una rete di pergole e gradini di raccordo. Non è affatto un caso se nel 2012 La Cervara è stata insignita del primo premio Grandi Giardini Italiani per il più alto livello di manutenzione, buon governo e cura di un giardino visitabile. Grazie alla realizzazione di una nuova terrazza dedicata, la massiccia opera di restauro ha saputo valorizzare a pieno il sistema di terrazze esistenti ed il prezioso glicine monumentale. E grazie al contributo di un gruppo di stagisti della Fondazione Minoprio il giardino è stato arricchito di una importante collezione di piante mediterranee.


ULTERIORI ISTRUZIONI PER LA VISITA DELLA ABBAZIA

Una guida della Regione Liguria ti accompagnerà a scoprire i segreti del giardino e dell’Abbazia della Cervara.

Le visite guidate sono alle ore 10.00, 11.00 e 12.00

Puoi prenotare anche chiamando il Numero verde 800-652110 oppure inviando una mail a visite@cervara.it

Visite guidate istituzionali

Biglietto intero Euro 12,00 | Biglietto ridotto Euro 10,00 (aderenti Fai, Touring Club e over 65)
Biglietto omaggio per i ragazzi sotto i 14 anni (accompagnati da un adulto).

Le visite alla Cervara si tengono sempre, da marzo a ottobre, la prima e la terza domenica del mese. Calendario delle visite guidate: http://www.cervara.it/visite/calendario-sante-messe-e-visite-guidate?mc_cid=1bcb614f39&mc_eid=bf942c865c

Gruppi

Con un minimo di 30 persone e prenotazione obbligatoria, è possibile visitare l’Abbazia ogni giorno dell’anno accompagnati da guide accreditate anche in lingua inglese, tedesca, spagnola e francese.
È inoltre possibile far seguire alle visite un aperitivo o un pranzo a buffet.

La Cervara - Una gita a - L'abbazia di Cervara https://www.giardinaggio.it/giardinaggio/una-gita-a/la-cervara.asp#ixzz6AqPnlp9H

 

Bibliografia

 

Guida d’Italia – Liguria – Touring Club Italiano

LIGURIAN GARDENS

Fiori di Liguria – G.Nicolini – A.Moreschi

Musei di Genova

Città Metropolitana – Fuori Genova

Genovagando furiporta

Associazioni Albergatori

Wikipedia

Visite Guidate all’abbazia della Cervara

FlorArte

Turismo.it

Turismo in Liguria

Mondointasca – Turismo e cultura del viaggiare

Tigullio news

VANITY FAIR

La maggiorana – Persa

Protagonisti alla Cervara

 

CARLO GATTI

Rapallo, 15 Gennaio 2020

 

 

 

 

 

 

 


GENOVA CITTA’ DEI PAPPAGALLI…


GENOVA CITTA’ DEI PAPPAGALLI…

Robinson Crusoe è un romanzo di Daniel Defoe pubblicato nel 1719 con il titolo originale The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe e considerato il capostipite del moderno romanzo di avventura e, da alcuni critici letterari, del romanzo moderno in generale. Tutti noi futuri uomini di mare ci siamo abbeverati a quella fonte, ma non solo noi ovviamente… Tuttavia, in noi quel romanzo ha lasciato delle tracce che ogni tanto affiorano, come oggi …

Il romanzo racconta le fantastiche avventure del ragazzo di nome Robinson Kreutznauer, figlio di un mercante tedesco trasferitosi a York, chiamato da tutti Crusoe, che, desideroso di avventure fra i sette mari, si imbarca su una nave all' età di 19 anni. La nave naufraga, ma Robinson non si scoraggia.

Purtroppo viene catturato durante un altro viaggio da pirati di Salè e rimane prigioniero per alcuni mesi. Fortunatamente Robinson riesce a fuggire e si ritrova in Brasile, dove allestisce diverse piantagioni.

La sfortuna non abbandona Crusoe; durante un nuovo viaggio intrapreso allo scopo di acquistare schiavi, la nave su cui viaggia affonda al largo del Venezuela, presso la foce del fiume Orinoco e il giovane si ritrova ad essere l'unico sopravvissuto di tutto l'equipaggio. Crusoe, dopo un momento di smarrimento, esplora l'isola e pian piano la colonizza tutta. Vi rimarrà ventotto anni, solo, senza compagnia, ma si adatta con facilità alla nuova vita e cattura per compagnia un pappagallo parlante. Durante la permanenza su quest'isola scrive un diario in cui racconta le sue esperienze e avventure. In seguito scopre la presenza di alcuni cannibali, li attacca e ne libera uno che tiene con sé, a cui dà il nome "Venerdì", insegna la Lingua inglese e che converte alla fede cristiana attraverso la lettura della Bibbia.

Dopo tante peripezie torna in Inghilterra dopo un'assenza di 35 anni, scopre di possedere 600.000 sterline grazie alla rendita della piantagione brasiliana, divenuta nel frattempo fiorente, e per poco non muore di sorpresa. In seguito, richiamato da una sorta di nostalgia, vende la sua piantagione redditizia e si trasferisce sull'isola dove era naufragato, di cui assume il ruolo di governatore.

La vera storia dei pappagalli e dei pirati

Il cliché che vuole i corsari accompagnati dai simpatici uccellini è, anche se non ci crede nessuno, del tutto vera. Erano ottimi compagni di viaggio.



“perchè un tempo i pirati portavano un pappagallo sulla spalla?”.


“Da sempre l’iconografia riguardante i pirati li rappresenta con un pappagallo colorato sulla spalla: come mai proprio quest’animale?! Alla nostra domanda ci viene spiegato: Innanzitutto si dice che i pappagalli affascinassero i pirati per il loro piumaggio dai mille colori; inoltre, come si sa, questi animali parlano e sono molto dotati nel fare le imitazioni. Questo apportava un po’ d’animazione nei lunghi viaggi che i pirati dovevano compiere alla ricerca di navi da predare. I pappagalli, poi, si dice che potessero predire i cambiamenti metereologici: se si lisciavano le piume, era segno di temporale in arrivo, mentre se parlavano senza cessa e si agitavano di notte, era segno di tempo incerto e perturbato”.

La gamba di legno, l’uncino, le bandane, barbe, la benda sull’occhio. Sono alcuni dei tratti tipici del pirata caraibico che imperversava nei mari delle Antille tra seicento e settecento, senza dimenticare il più importante di tutti: il pappagallo, come animale di compagnia.

Tra tutti gli stereotipi del filibustiere, questo è – incredibile a dirsi– del tutto vero. Personaggi come Long John Silver, nato dalla penna di Robert Louis Stevenson, avevano un pappagallo con sé. Sulla spalla, in gabbietta. Non si trattava di una geniale invenzione letteraria: nell’età d’oro della pirateria c’erano davvero, e accompagnavano i pirati - e/o corsari - e/o filibustieri a seconda dei casi nelle lunghe traversate sul mare. Da un’isola all’altra, da un veliero all’altro, le giornate passate navigando erano tante e molto noiose.

E allora, un compagno simpatico, che non chiedeva troppo cibo, che non necessitava di spazio, sgargiante e divertente era proprio il benvenuto. Il pappagallo, così, si prestava alla perfezione a questo compito.

E in più, se ci si stufava anche dei pappagalli, li si poteva rivendere. Erano apprezzati per il colore e per la voce, perciò avevano un buon mercato. Sbarcando in un porto qualsiasi, purché non si venisse riconosciuti dalla polizia e messi in galera, non era difficile piazzarli a qualcuno. Certo, poi la bestiola avrebbe ripetuto le bestemmie dei pirati, ma forse anche questo era parte del divertimento.

All’epoca, i pappagalli più richiesti provenivano dai dintorni di Vera Cruz, una regione della costa messicana. E anche oggi, fanno notare gli studiosi, la zona è un centro per il traffico clandestino di pappagalli. Perché i pirati non ci sono più, ma le tradizioni, anche quelle peggiori, restano.

Abbiamo ricreato un po’ di atmosfera per introdurre un argomento d’attualità che interessa Genova, il nostro capoluogo che, non a caso, é terra di naviganti e avventurieri da sempre.

 


Parrocchetti dal collare

La prima coppia di pappagalli era arrivata negli anni Settanta e aveva messo su famiglia a villa Gruber. Si trattava di due parrocchetti dal collare, che hanno dato origine al "quartiere" dei papagalli: oggi sono centinaia, stanno sugli alberi di alto fusto e tendono a dormire in gruppo. Si possono osservare anche nei giardini del centro: "Sono molto diffusi a Levante e in centro, occupano il 28% del reticolo urbano e sono in continua espansione", spiega Aldo Verner veterinario della Lipu ed esperto di fauna selvatica. Sono verdi con il collare nero e di medie dimensioni, (tra i 38 e i 42 centimetri) si riconoscono per la coda lunga, le ali arrotondate e il volo molto rumoroso: "E' soprattutto interessante notare come i parrocchetti dal collare siano riusciti a passare l'inverno e a riprodursi" - aggiunge Vernier.

Amazzone fronte azzurra

Capita di frequente di vederli volare tra gli alberi dei parchi e anche in pieno centro, e infatti Genova viene definita la città dei pappagalli. In particolare, è presente una specie esotica proveniente dalla giungla amazzonica. Si tratta dell’amazzone fronte blu, un uccello che può vivere fino a 70 anni, dalla voce altissima e che in diverse decine ha nidificato all’ombra della Lanterna. La presenza degli amazzoni fronte azzurraosserva Verner – è straordinaria perché sono animali della giungla amazzonica ed è abbastanza strano che riescano a sopravvivere d’inverno. Nidificano nei buchi dei muri e degli alberi e sono presenti nella zona di piazza Corvetto, a Castelletto e in corso Firenze.


Parrocchetto Monaco


Già negli anni ’70 questi pennuti dalla parlantina facile erano presenti ma, spiega ancora Aldo Verner della Lipu di Genova, “sono in aumento, grazie soprattutto alla grande adattabilità di questi animali. Inoltre, se le altre specie presenti, come il parrocchetto monaco (diverse centinaia), popolano anche altre città d’Europa, tra cui Londra.

“Solo a Genova – spiega Enrico Borgo, esperto del museo di Storia naturale ‘Doria’ – troviamo l’amazzone fronte blu in diverse decine di esemplari. Un fenomeno raro, la cui origine è da attribuirsi alla proliferazione dei pappagalli importati sfuggiti alla cattività. La verità è che, mentre il loro numero cresce progressivamente, i pappagalli si stanno espandendo in territori dove prima non si erano mai spinti e questo può diventare un problema.

 

Sono tanti, si stima tra i cinque e i seicento in città, un numero triplicato rispetto a soli pochi anni fa. E proprio ora che se ne avverte meno la presenza nei quartieri dove è iniziato il loro insediamento, i grandi pappagalli verdi - i parrocchetti dal collare e i più rari e pregiati esemplari di amazzone dalla fronte blu (che si trovano allo stato libero, così numerosi, solo a Genova) - minacciano di diventare un pericolo.

Verner è il primo a disegnare un quadro inquietante in cui gli stormi verdi si stanno spingendo - dai luoghi di nidificazione ormai consolidati, in centro e a levante attorno ai parchi - verso la Valpolcevera. Ma anche, sempre più in profondità, nella valle del Bisagno, in zone di campagna dove già la scorsa primavera avevano iniziato a attaccare i peschi ancora in fiore malgrado i tentativi di proteggerli con reti di plastica, inesorabilmente strappate a colpi di becco. “I parrocchetti si nutrono dei vegetali più diversi: spaziano dai piselli, di cui sono ghiotti, a limoni e arance selvatiche che riducono in poltiglia, mangiano i frutti delle magnolie e i semi delle conifere, col loro becco possono frantumare i gusci più duri. E si stanno espandendo, sicuramente per l’alimentazione e forse per la riproduzione, in zone dove prima non si spingevano”.

I parrocchetti dal collare ed Amazzoni nidificano nel cavo degli alberi; meno frequentemente in cavità artificiali. Molto più tipica è la nidificazione dei Monaci che li differenzia da tutte le altre specie di Psittacidi. Essi, infatti, usano costruire un grosso nido comunitario, con diverse camere d’incubazione, abitato dall’intera colonia. Allo scopo usano rami di vario calibro che trasportano alacremente su di un albero ritenuto sicuro per edificare l’abitazione della colonia. Alcuni nidi possono raggiungere dimensioni ragguardevoli (anche alcuni metri di diametro), rappresentando un serio problema nel momento in cui i rami dell’albero non dovessero più essere in grado di reggerne il notevole peso. Purtroppo i parrocchetti monaci, che fanno i nidi all’esterno, sono facile preda di taccole, cornacchie e ratti.

Sono vivaci, rumorosi, colorati e intelligenti ma c’è chi non li ama. Le colonie di pappagallini di un bel verde brillante, i parrocchetti dal collare, sono in espansione a Genova dove trovano un clima ideale. Sono un problema? Le opinioni sono contrastanti. A rigore sono una specie che proviene dall’Africa e sulle nostre coste proprio non ci dovrebbe essere, però ormai c’è. E non vive bene solo a Genova, anche Roma ne ospita colonie molto numerose così come Palermo e Cagliari e diverse altre città italiane.

Fa notare la Lipu – delle specie autoctone. Sono quasi scomparsi invece i primi pappagallini che si ambientarono a Genova negli anni Sessanta,

La sfida è ora come contenere l’aumento di questi uccelli sapendo che per quelli che già vivono nelle nostre città non è più possibile effettuare dei controlli numerici. Il fenomeno non va sottovalutato.

 

CARLO GATTI

Rapallo, 27 Dicembre 2019

 

 


LA GRANDE SPERANZA

 

LA GRANDE SPERANZA

 


Il presepe di BANSKY a BETLEMME. Bansky, tra gli artisti contemporanei più famosi del mondo, ha realizzato un presepe nel suo piccolo albergo a Betlemme, in Palestina. La nuova scena della natività mostra Gesù bambino, Maria, Giuseppe, il bue e l’asinello davanti a un muro di cemento che ricorda quello fatto erigere dal governo di Israele per isolare la Cisgiordania. Nel muro c’é una breccia – che simboleggia la cometa – prodotta da un lancio di mortaio. Sul muro vi sono graffiti con le scritte “Love” e Pax”.

Erano passati più di duemila anni dalla nascita di Gesù a Betlemme. Da allora, ogni anno in tutto il mondo Gesù era tornato a nascere nelle chiese, durante la messa di mezzanotte portando il suo messaggio di pace e di speranza.

Da quel lontano dicembre di Betlemme qualcosa era cambiato nel mondo: era sparita la schiavitù, c’era più giustizia per le donne e i bambini, una vita più lunga per i vecchi, ma non dovunque, non abbastanza.

Quell’anno Gesù voleva tornare sulla Terra per portare il suo messaggio agli uomini che, anche tra l’incenso e le candele, sembravano ciechi e sordi.

Dialogò a lungo con il Padre e infine decise così:

- Padre quest’anno vorrei rinascere uomo vero. Non più nascosto nell’ostia  o raffigurato nelle statue. Voglio essere carne, ossa, sangue: uno, dieci, mille uomini e vedere se qualcosa cambierà.-

- Veramente li avevo creati liberi di scegliere il bene o il male. Così facendo Tu limiterai la libertà di quegli uomini nei quali Ti incarnerai. –

- Solo per un giorno, Padre. Il giorno di Natale. Forse qualcosa resterà nella mente e nel cuore di quegli uomini, anzi di quei bambini, perché sceglierò dei bambini per la mia missione, Padre. – implorò Gesù.

Il Padre, come sempre, accondiscese.

Arrivò il giorno di Natale di quell’anno lontano più di duemila anni dalla prima nascita di Gesù.

In Palestina Omar, un ragazzino di undici anni sta osservando il mucchietto di pietre che ha raccolto, le soppesa ad una ad una per capire se sono giuste per un buon lancio. Gli hanno insegnato che bisogna essere sempre pronti a lanciare pietre contro gli Israeliani, se si presentassero con i loro fucili e le loro odiate divise. In verità i grandi capi stanno trattando la pace, ma il capo del villaggio non si fida e vuole che i ragazzini si mantengano allenati.

Omar ha una pietra in mano e la forte tentazione di lanciarla contro il figlio di un colono, un ragazzo antipatico che si avvicina in bicicletta.

-       Omar, apri la mano e lascia cadere quella pietra. –

La voce è strana, comprensibile eppur debolissima. Omar si guarda intorno, ma non vede nessuno. La sua mano però ubbidisce al suggerimento e si apre, lasciando cadere la pietra. Intanto il figlio del colono si sta riavvicinando e, giunto alla sua altezza, sterza di colpo impolverandolo con la ruota posteriore. Omar in un altro momento l’avrebbe rincorso, afferrato e colpito. Questa volta si limita a scrollare via la polvere, scuotendo la testa. Shimon, il ragazzo israeliano, stupito dalla mancanza di reazione, abbandona la bicicletta e, fischiettando, con le mani in tasca, si dirige a zigzag verso di lui.

Omar lo guarda avvicinarsi e, per la prima volta, vede i suoi occhi, il colore dei capelli, una piccola cicatrice sullo zigomo e si stupisce nel constatare quanto gli assomigli. L’altro gli arriva davanti, gli mette una mano sulla spalla e chiede: - Giochiamo? –

Quel giorno, le pietre preparate per ferire servono per giocare a bocce.

Più a nord, nella fredda Sarajevo una donna sta per partorire un figlio, frutto della violenza e destinato all’abbandono. La ragazza non vede l’ora di sbarazzarsi di quell’essere, che l’ha invasa e fatta soffrire oltre ogni immaginazione. E Gesù diventa Irma, una bambina mussulmana, che la madre ha deciso di allontanare da sé senza uno sguardo. Ma Irma, appena nata spalanca due occhi incredibili: innocenti e saggi, come se conoscesse tutta la storia del bene e del male. Con la manina afferra l’indice della madre, che è costretta a voltarsi verso di lei. Allora, come per incanto la rabbia si trasforma in pianto: Il pianto lava via il dolore, l’umiliazione, l’odio e lascia solo la vita. La ragazza si sente mamma e stringe a sé quell’incredibile figlia dagli occhi saggi e innocenti.

E’ l’alba. Un’alba calda e umida alla periferia di Manaus, quando Conchita si sveglia. Conchita ha appena nove anni, ma già lavora. Un lavoraccio pesantissimo: il suo corpo viene usato per il piacere dei minatori della zona. Anche quel giorno il camioncino passerà e la caricherà insieme ad altre bambine e ragazzine di quella città piena di gente e di miseria. Oggi si sente diversa però, più forte e più ribelle, come scossa dal torpore nel quale abitualmente vive.

Mr. O’Connor è già nella strada e strombazza il clacson per sollecitarla. Conchita prima pensa di non andare, di nascondersi, poi pensa alla sua famiglia che ha bisogno di soldi per mangiare e alle sue compagne di sventura e decide di organizzare qualcosa con loro. Vede la situazione chiaramente e capisce che non può più sopportarla. Sale sul camion che si avventura nella foresta. Le ragazzine dietro nel cassone sono assonnate, tristi e intorpidite e si lasciano sballottare come sacchi senza vita. L’autista urla: Cantate qualcosa voi laggiù. Forza, un po’ di allegria. - Le bambine come automi iniziano una nenia, ma Conchita ordina: - Zitte, non abbiamo motivo di cantare.  - Vi piace la vita che facciamo? – La nenia si smorza e qualcuna risponde timidamente: - No. - Altre aggiungono: - Ci fa schifo. – Altre ancora: - Ma moriremo di fame se non lavoriamo. – Ascoltatemi – mormora Conchita Io non ci sto più. Dobbiamo trovare una soluzione. –

Appena il camion rallenta al guado, scappiamo via. – esclama una bimba.

- E poi? Ci perderemo nella foresta. – replica una più grandicella.

- Non c’è scampo – mormora tra le lacrime la più giovane.

- No, non è vero. Non so ancora come fare. – riprende Conchita - Intanto    preghiamo. Lo conoscete quell’inno alla Madonna che ci hanno insegnato alla Missione? Incominciamo a cantare. Forza! –

“Bella sei come il sole

bianca come la luna

e le stelle, le più belle

non son belle

al par di Te…”

Le voci, prima incerte e tremanti acquistano via via forza e sicurezza e le parole dimenticate ritornano in mente sull’onda della musica.

All’autista, per un attimo, sembrò di tornar bambino a Dublino, quando sua madre lo teneva per mano nella chiesa tra i fumi dell’incenso e la musica dell’organo. Quanto tempo era passato?  Più di una vita gli sembrava.  Era talmente cambiato un’altra persona.  Quelle stupidelle gli facevano venire il nodo alla gola, come si permettevano?  Le avrebbe messe a posto lui adesso.

O’ Connor frena, scende dal camion e di nuovo i ricordi lo subissano. E’ Natale oggi. Questo pensiero lo fulmina e gli impedisce di mettere in atto le sue intenzioni. Lentamente guarda le ragazzine ad una ad una, mentre cantano, e vede le loro facce, la loro età, la loro miseria.

Ragazze, torniamo indietro. Oggi ve la pago io la giornata e.. tra quindici giorni non     so. Arrangiatevi perché io non passerò più a prendervi per portarvi alla miniera. -

A Mogadiscio il camion della Croce Rossa distribuisce pane, zucchero, latte e frutta. La ressa e il vociare attorno sono assordanti e permettono solo ai più forti di avvicinarsi.

Alì è stanco morto, cammina non sa più da quanto. Ha abbandonato il villaggio, la sua capanna bruciata, i suoi genitori morti, ha camminato verso la speranza di sopravvivere. Ormai non ha neanche più fame, vorrebbe solo stendersi e dormire. Qualcuno vicino a lui lo fa, cade a terra senza più forze. E’ un bambino più piccolo di lui, più malconcio. Alì si fa forza, si trascina verso quelle donne con la cuffia in testa e il sorriso sul viso. Allunga una mano, riceve pane frutta, latte. Di colpo gli è tornata la fame, vorrebbe mangiare tutto subito, non fare neppure un passo, ma non può. Una forza sconosciuta lo fa tornare indietro. Raggiunge il bambino a terra, a fatica gli bagna le labbra con il latte, poi sempre di più, finché quello apre gli occhi e beve. Ora anche lui può mangiare e bere. Anche Alì sorride, come le donne con la cuffia, chissà perché, si chiede.

E Gesù quell’anno a Natale fu Omar, fu Irma, fu Conchita, fu Alì.. fu Salvatore, Enrico, Annamaria e… Chissà forse Gesù sei stato anche tu. Non te ne dimenticare.

di  DA BOTTINI

 

Rapallo, 23 Dicembre 2019



TAGAN - IL COLTELLO GENOVESE

TAGAN

IL COLTELLO GENOVESE

Il coltello é, probabilmente, lo strumento più antico nella storia dell’uomo.

Il coltello (dal latino cultellus, diminutivo di culter (cioè coltello dell’aratro). La lama é stata utilizzata come utensile ed arma dall'età della pietra, all'alba dell'umanità. Gli antropologi ritengono che il coltello sia uno dei primi attrezzi progettati dagli esseri umani per sopravvivere.

Le prime lame erano di selce o di ossidiana, scheggiata o levigata ad un bordo, a volte dotate di un manico. Più tardi con gli sviluppi della fusione e della metallurgia le lame sono state sostituite prima dal rame, poi dal bronzo, dal ferro e infine dall’acciaio.

L'importanza dei coltelli come arma è un po' oscurata dalla nascita di armi più efficienti e specializzate, ma una lama è in dotazione dei militari di qualsiasi esercito al mondo.

Dopo questa inevitabile premessa, si può tranquillamente affermare che ogni nazione al mondo abbia sviluppato nel tempo un proprio originale coltello che sopravvive nella tradizione popolare e nella propria storia.

Lo sapevate che il TAGAN fa parte della Storia di Genova?

A partire dal X secolo, a Genova si formò una

Scuola di Scherma Genovese

che prevedeva l’uso di armi tipiche come appunto il coltello genovese, la spada d’abbordaggio genovese e lo spadone genovese.


Questa é la versione moderna del TAGAN


TAGAN - Coltello genovese  di lusso

Versione originale di un TAGAN ritrovato e restaurato

Fonti archivistiche riportano la presenza, fin dalla seconda metà del XII secolo, di un'arte dei coltellieri.

In latino l'arma veniva chiamata cultellus januensis. Coltelli di foggia simile si trovano anche in altre parti d'Italia e Corsica e nelle colonie genovesi d’oltremare, tanto così che spesso l'arma viene denominata coltello alla genovese o all’uso Genovese. Si tratta di un coltello che, oltre che essere stato utilizzato nelle varie attività della vita quotidiana dei genovesi, rappresentava anche un'arma di facile impiego e che spesso veniva utilizzata, purtroppo, in episodi delittuosi sia da persone comuni che da malavitosi. Proprio per questo il suo uso venne in varie occasioni limitato o proibito dalle autorità cittadine. Ad esempio il 9 settembre 1699 il Consiglio dei X della Serenissima Repubblica di Genova assunse uno specifico provvedimento per rinnovare la proibizione dell'uso di tale coltello nella zona del porto.

I genovesi dell’epoca cercarono di camuffare da utensile questo tipo di coltello, ad esempio facendolo passare da attrezzo per conciatori o sellai, in modo da eludere le leggi che vietavano la produzione nella Repubblica di "ferri taglienti". Tale produzione, nonostante le limitazioni, era però diffusa e anche piuttosto apprezzata. Il coltello genovese è caratterizzato da un manico privo di “guardia” con la base marcatamente stondata (smussata, arrotondata).

La lama può essere di varie lunghezze ed è dritta, appuntita ed in genere a un filo e mezzo, ovvero affilata oltre che nella parte inferiore anche nella zona anteriore di quella superiore. Per realizzarne il manico a volte veniva utilizzato il legno di bosso.

Se volete saperne di più su quest'arma, vi segnaliamo la principale opera sull'argomento: A. Buti, "Il coltello genovese. Storie di lame, di armi proibite e di caruggi", Genova 2011.

Orgoglioso senese della "contrada del Nicchio", genovese d'adozione e collezionista da sempre, il professor Andrea Buti, già docente di tecnica delle costruzioni presso la facoltà di architettura, ha ricostruito attraverso la storia di un oggetto particolare, il coltello genovese, una parte inedita e misconosciuta della storia della Superba.

“Nel 1600 e nel 1700, ma già da prima, Genova fu al vertice della produzione e commercializzazione di armi da taglio proibite. I coltelli genovesi appunto, lame micidiali, simili a stiletti, furono messe al bando dal governo della Repubblica e da molti antichi Stati italiani. Vi fu un tempo in cui l'arte dei coltellieri, fondata a Genova nel 1262, annoverò fino a 329 iscritti. Esisteva in città il molo dei coltellieri in fondo a via S.Lorenzo, ma anche una ripa e una loggia dei coltellieri che pullulavano di botteghe in cui si affilavano le lame forgiate con l'acciaio delle ferriere dell'entroterra, a loro volta rifornite col ferro dell'Elba.

Si può ipotizzare che non ci fosse uomo del popolo o dell'aristocrazia genovese che non possedesse un tipico coltello a stiletto, infilato nei calzoni, o celato dentro un'altra arma a punta stondata e apparentemente inoffensiva, magari camuffato da attrezzo per cucire le vele. Il coltello genovese, fu la "spada del popolo", l'arma dei sicari molto prima delle pistole. La statua della Vergine, posizionata per la prima volta nel 1654, era in bilico. Quando fu rimossa sotto due tonnellate di marmo furono ritrovati incastrati alcuni coltelli. Erano stati lasciati come atto votivo dalle maestranze del '600. Li consegnai al museo Diocesano. Ma è l'unico esempio, - si duole Buti- di coltelli genovesi musealizzati”.
Per il resto nulla, questa città continua a ignorare la storia di una sua antica e significativa industria manifatturiera. Lo ha fatto anche quando ho proposto a enti locali di patrocinare il mio volume che peraltro aveva già un editore. Niente, la città è fatta così.

Buti si riferisce a "Il Coltello genovese: Storia di lame, di armi proibite e di caruggi", il volume di cui è autore, appena pubblicato dalla Casa d'aste San Giorgio (100 €), specializzata in armi antiche. Non un catalogo, ma un "mixage", composto da 146 pagine di testo divulgativo, in cui vengono definite le caratteristiche tipiche del coltello genovese rispetto ad altre armi bianche, si ricostruisce la storia materiale dell'oggetto attraverso documenti, spesso inediti, degli Archivi di Stato di Genova e Savona e si rievocano celebri delitti del passato come gli omicidi del pittore Pellegro Piola e del compositore Alessandro Stradella.

Seguono 263 pagine di schede di esemplari di collezioni private o appartenenti a musei, non genovesi. Il volume è illustrato da foto e raffinati disegni. E' in vendita alla casa d'aste a palazzo Boggiano-Gavotti in via S.Lorenzo.

Nella prefazione Vito Piergiovanni, professore di storia del diritto medievale e moderno alla facoltà di giurisprudenza, scrive:

"Sul pesto non avevamo dubbi, sui cantautori anche, ma che si potesse vantare una peculiarità anche negli oggetti da taglio, utensili ed armi volta a volta, in realtà ci sfuggiva. Davvero Genova antica non finisce di stupire!
Il coltello a lama mobile fu sempre arma popolare: a causa dell'ingombro limitato e del costo ridotto, e a causa delle discriminazioni sociali o legali che riservavano il porto delle armi bianche lunghe ai soli nobili. Il “fenomeno” divenne macroscopico quando le autorità decisero, invocando ragioni di pubblica sicurezza, che il popolo non potesse portare armi. Ma, nel caso dei coltelli, divenne arduo stabilire il limite oltre il quale cessavano di essere utensili e diventavano armi, né dall'altra parte il popolo poteva rinunciare, oltre che a un utensile di indubbia utilità, a un'arma da difesa cui si era ormai abituato. Ne seguì una lunga diatriba che vide l'autorità impegnata a proibire le lame eccedenti una certa lunghezza e il popolo industriarsi per forgiare lame sempre più corte, ma di fogge all'occorrenza estremamente pericolose. Come quelle a foglia di salvia, veri pugnali larghi e a doppio taglio, o quelle a foglia di olivo, strette e molto acuminate. Un tipico esempio fu
il coltello “alla genovese” che ebbe larga diffusione nell'Italia del XVII secolo e che in pratica riprendeva la spada “alla frantopino” bandita in numerosi Paesi d'Europa per l'insidiosità. Il coltello aveva un'impugnatura in legno o corno e una lama larga al tallone, che si assottigliava decisamente nel debole a formare uno stiletto a quattro facce con punta acutissima. Venne bandito anch'esso, ma poi riprese forma con una cruna che attraversava la punta e destinazione d'uso - ufficiale - di strumento da sellaio. Poteva perciò essere portato da chiunque dal momento che il cavallo era l'abituale mezzo di locomozione. In Italia i centri di produzione di coltelli, soprattutto a lama mobile, a causa della frammentazione politica del Paese e anche della scarsa circolazione dei prodotti, furono numerosi e ognuno creò proprie tipologie. La ricchezza di forme “italiane” non trova riscontro in altri Paesi europei, sia per il coltello con caratteristiche offensive sia per quello inteso come strumento di uso quotidiano. La scherma di daga e stiletto, insegnata dai maestri d'armi nel periodo che andava dal XIV secolo all'XIX, nel XVII secolo condizionò la creazione di metodi di maneggio che poi si svilupparono in un'arte raffinata ed efficace, continuando poi a evolversi nei miglioramenti sino ai primi decenni del XX secolo. Le regioni del nord Italia, in parte quelle centrali, alcune meridionali e insulari, erano prive di maestri, ma esistevano persone che possedevano solo la conoscenza di poche, definitive, azioni tecniche. L'apprendimento di tali tecniche era detenuto sia dalla malavita, sia dalla normale popolazione. Lo sviluppo di una vera arte di maneggio del coltello si verificò invece in sei regioni: Lazio, Campania, Puglia, Calabria, Sicilia e Corsica. Nelle scuole (ovviamente clandestine) dove s'insegnava ad adoperare il coltello, si seguiva un preciso metodo diverso da regione a regione. Spesso poi gli allievi elaboravano nuove interpretazioni delle azioni tecniche che differivano da quelle dei maestri e capiscuola. Accadeva così che in una stessa città o cittadina, oltre a uno o due metodi principali, ve ne potevano essere altri “contaminati”. Il ritardo, rispetto a vari altri Paesi europei, nel passaggio all'industrializzazione (o almeno a una produzione semi-industriale) nel settore della coltelleria, ha consentito una più lunga sopravvivenza di tipologie legate alla fabbricazione artigianale. I centri di produzione ancora attivi sono Maniago (Pn), sicuramente il più fertile oggi (ma quasi privo di connotazioni tradizionali), nato intorno al 1400, Premana (Co), specializzato soprattutto nelle forbici, Scarperia (Fi), che risale al 1400 fin da principio con la coltelleria, i cosiddetti “ferri taglienti”, Campobasso e Frosolone (Is), anch'essi molto antichi, Pattada (Ss), molto più recente (fine XIX secolo)”.

CARLO GATTI

Rapallo, Mercoledì, 11 Dicembre 2019