W.TURNER - J.CONSTABLE, Pittori di Marina
William TURNER - John CONSTABLE
PITTORI DI MARINA
A partire dall’era Cristiana, le arti figurative si erano espresse prevalentemente sul piano religioso. In Italia nuovi orizzonti si aprirono con il Rinascimento e nel Nord Europa con la Riforma protestante e, soprattutto, con l’affermarsi della borghesia mercantile che incise e produsse molti cambiamenti di pensiero e moderne aspirazioni estetiche. Nuove fonti d’ispirazione artistica divennero il paesaggio, la natura morta, il ritratto e le innovative pitture legate al mondo del mare in tutte le sue attività. In particolare, questi ultimi dipinti traevano ispirazione dalle scogliere, dai porti, dalle tempeste e dai grandi vascelli che trasportavano mercanzie in tutti mari del mondo. La “pittura del mare” ebbe quindi la sua origine ed anche il suo successo, nei Paesi a grande tradizione marinara. In Olanda con i due Van de Velde, padre e figlio, e Abraham Storck nel 1600; in Inghilterra, tra ‘700 e ‘800 con Nicholas Pocock, John Higgings, Clarkson Stanfield, Georges Chambers, e naturalmente i più noti: William Turner e John Constable. In Francia troviamo i dipinti di Claude Gillé, di Claude Vernet e successivamente della famiglia Roux, Ange Joseph Antoine, Mathieu Antoine, Frederic e Francois Geoffroi. In Spagna ricordiamo Juan de Toledo e in Germania Claus Bergen J.Holst.
La “rappresentazione del mare” in Italia apparve intorno al XVI secolo con i grandi pittori veneti: Vittore Carpaccio e i vedutisti Canaletto e Guardi che misero in primo piano gondole, barche e velieri di ottima fattura. Nell’800 presero vigore le scuole liguri e campane in sintonia con la crescita delle loro flotte, e nacquero i “ritrattisti di navi” che anticiparono con i loro dettagliati dipinti quel ruolo che da lì a poco sarà esercitato dalla macchina fotografica. Ricordiamo Gian Gianni, i fratelli De Simone, Domenico Gavarrone, Angelo Arpe, Giovanni e Luigi Roberto dei quali sono ricche le pinacoteche e i Santuari di Liguria. Citiamo ancora i triestini Antonio e Vincenzo Luzzo e i livornesi Luigi e Michele Renault. Verso la metà dell’800 questo genere di pittura navale prese un nuovo slancio sulla scia dei famosi Clippers, delle nascenti navi a vapore e del mondo dei Yachts. Non rimasero escluse da questa carrellata marinaresca le navi militari, le cui imprese furono magistralmente dipinte da Agostino Fossati e Rudolf Claudus. Questi due celebri pittori sono presenti nei Musei e nei palazzi delle Istituzioni pubbliche in Italia e all’estero. Tra i pittori figurativi dei nostri giorni, alcuni dei più conosciuti ed apprezzati sono gli inglesi Louis Dodd e Tim Thompson, i francesi Albert Brenet e Roger Chapelet, e gli italiani Renzo Pauletta, Marco Locci, Marc Sardelli, Aurelio Raimondi, Silvio Gasparotti e Lorenzo Mariotti, Mark Sardelli, Allan O'Mill, Alfredo Acciari e Amleto Fiore. Infine altri artisti moderni dedicano il loro impegno creativo ad illustrare l'attività nautica e la simbologia del mare Gildo Becherini, Gianni Bruni, Antonio Cremonese, Pino Criminelli e Sabina Iacobucci. E' un genere d'arte con eccellente produzione e che consente ancora di essere acquistata a prezzi contenuti.
William TURNER
William Turner, autoritratto, olio su tela 1798, Tate Gallery, Londra
Joseph Mallord William Turner (Londra, 23 aprile 1775 - Chelsea, 19 dicembre 1851) è stato unpittore e incisore inglese. Appartenente al movimento romantico, si può dire che il suo stile abbia posto le basi per la nascita dell'Impressionismo, in particolare Claude Monet studiò attentamente le sue tecniche.
Turner non ebbe inizialmente unanimi consensi da parte dei critici, ma oggi è considerato l'artista che ha elevato l'arte della pittura paesaggistica ad un livello tale da poter competere con la pittura storica. È conosciuto con il soprannome di Il pittore della luce. La luce per Turner rappresentava l'emanazione dello spirito divino e questo è il motivo per cui nei suoi ultimi quadri trascurò di rappresentare oggetti solidi e i loro dettagli, concentrandosi sui giochi di luce riflessi dall'acqua e sullo splendore dei cieli e del fuoco. Anche se questi ultimi lavori potrebbero sembrare di tipo impressionista, Turner stava sforzandosi di ricercare un modo di esprimere la spiritualità nel mondo piuttosto che limitarsi a fornire un'interpretazione artistica ai fenomeni ottici ("Il sole è Dio" disse poco prima di morire).
Il talento di Turner fu apprezzato molto presto. La raggiunta indipendenza economica gli permise di dedicarsi liberamente al suo stile innovativo: le sue opere del periodo della maturità sono caratterizzate da un'ampia varietà cromatica e da una suggestiva tecnica di stesura del colore. Secondo quanto scritto da David Piper nella sua The Illustrated History of Art, i suoi ultimi lavori venivano definiti come "fantastici enigmi". Tuttavia Turner era pienamente riconosciuto come un artista di genio: il celebre critico d'arte inglese John Ruskin parlò di lui come dell'artista che più di ogni altro era capace di "rappresentare gli umori della natura in modo emozionante e sincero".
Soggetti molto adatti a stimolare l'immaginazione di Turner si rivelarono i naufragi, gli incendi (come l'incendio del parlamento inglese del 1834, un avvenimento a cui Turner corse ad assistere di persona e che immortalò in una serie di schizzi ad acquerello), le catastrofi naturali e i fenomeni atmosferici come la luce del Sole, le tempeste, la pioggia e la nebbia. Era affascinato dalla violenta forza del mare, come si può vedere in Mercanti di schiavi che gettano in mare i morti e i moribondi (1840).
Turner si servì di figure umane in molti dei suoi dipinti, da un lato per mostrare il suo amore per l'umanità (indicative le frequenti scene di persone che bevono, festeggiano o lavorano ritratte in primo piano), dall'altro per evidenziare la vulnerabilità e la volgarità dell'umanità stessa al confronto con la suprema natura del mondo. Suprema sta ad indicare una natura che ispira soggezione, di una selvaggia grandiosità, un mondo naturale che l'uomo non può dominare, segno evidente del potere di Dio. - Un tema che vari artisti e poeti dell'epoca stavano affrontando.
William Turner - La Battaglia di Trafalgar (1806)
William Turner – La valorosa Téméraire, 1839
W.Turner - Il Naufragio del “Minotauro”, 1793 – olio su tela
William Turner – Il Molo di Calais, 1803
William Turner, Tempesta di neve, battello a vapore al largo di Harbour’s Mouth 1842
William Turner, Incendio delle Camere del Parlamento 1834
William Turner
William Turner – Peace
William Turner – Mare in tempesta
William Turner - Attesa del Pilota
William Turner - L’amore per il mare
William Turner, Dutch Boats in a gale (1801)
William Turner - Bell Rock Lighthouse
William Turner, Barche da pesca con rivenditori
William Turner - the shipwreck (1805)
John Constable
Jonh Constable - Autoritratto
John Constable – spiaggia di Brighton con le navi a vela
John Constable – Nave Victory 1806
John Constable – Marina con nuvole 1827
John Constable – Faro di Harvich 1820
John Constable – Costruzione di una barca
John Constable - Wiew over London with double raimbow
John Constable - Shipping in the Orwell near Ipswich
I due pittori a confronto
(...anonimo)
Joseph Mallord William Turner (1775-1851) e John Constable (1776-1837) salirono alla ribalta della “grande” pittura inglese praticamente nello stesso periodo quando si stavano ormai concludendo le esperienze artistiche di William Blake e di altri pittori britannici (Beechey, Hoppner, Opie, Raeburn ecc.).
Entrambi si occupavano di paesaggi ed avevano alle spalle le esperienze di Thomas Gainsborough. A parte le differenti propensioni per i viaggi (Turner amava ad esempio venire in Italia e Constable era più attaccato alla sua campagna) ed i diversi approcci filosofici, Constable era meno sofisticato, tutti e due avevano molta attenzione per la "memoria". Sia Constable che Turner, all'inizio delle loro carriere, si ispirarono poi alle opere del Lorenese.
Constable era figlio di un mugnaio ma le sue doti artistiche richiamarono l'attenzione di un esperto. Dopo aver iniziato copiando importanti opere (incluse alcune di Annibale Carracci) si espresse fin dagli esordi con immediatezza. Anche nei paesaggi più consueti sapeva interpretare alcuni aspetti con grand lirismo. Successivamente, forse per gli studi fatti su Rubens, le sue opere divennero, anche per grandezza, più ambiziose. Elementi rilevanti dell'arte di Constable furono comunque la ricerca del "chiaroscuro nella natura" (contrasto fra vivacità della luce e le ombre) e degli aspetti realistici. Con l'attenzione alla verità metteva quindi da parte i motivi pittoreschi che spesso avevano avuto largo seguito. Alcune sue opere significative: Valle di Dedham, Cavallo Bianco, Stratford Mill, il Cavallo al Salto, il Campo di Grano, Il Carro di Fieno (esposto nel 1824 al Salon di Parigi con grande successo);
Turner era invece figlio di un barbiere londinese. Iniziò a lavorare come topografo e poi si avvicinò alla pittura per via di un lavoro sugli acquarelli di John Robert Cozens. Successivamente anche grazie a tanti studi (su Tiziano e diversi maestri italiani), riuscì ad esprimersi con originalità contribuendo all'affermazione del principio che gli artisti che esprimono paesaggi hanno la stessa validità degli artisti dediti ad altri generi pittorici. Dopo le fasi iniziali si dedicò particolarmente allo studio delle possibilità espressive di elementi quali il fuoco, l'acqua, l'aria, le condizioni atmosferiche ecc. e prestò attenzione al sublime che generano talora queste energie. Nelle sue opere più mature ci sono anticipazioni dell'impressionismo ma anche spunti di astrattismo (infatti in ampi spazi dei dipinti non ci sono figure). Pur ricercando, con grande capacità, taluni effetti (sorpresa, drammaticità ecc..) Turner sapeva offrire visioni romantiche della natura. Alcune delle sue più importanti opere sono: Levar del sole nella bruma, Didone che edifica Cartagine, Tormenta sul Mare, Pioggia vapore e velocità. Quest'ultimo grande quadro -del 1844- prende spunto da un elemento del tutto nuovo nei paesaggi inglesi: i convogli ferroviari. Diverse opere di Turner furono dedicate ovviamente ai suoi viaggi ed anche a Venezia dove soggiornò in tre occasioni. Alcuni contemporanei lo designarono come il "grande pittore del mare".
Carlo GATTI
Rapallo, 16 luglio 2015
SAN FRANCESCO DA PAOLA-Protettore della gente di mare
SAN FRANCESCO DA PAOLA
Paola, Cosenza, 27 marzo 1416 - Plessis-les-Tours, Francia, 2 aprile 1507 -
Nel 1943 papa Pio XII, in memoria della traversata dello Stretto, lo nominò
Protettore della Gente di Mare
La sua vita fu avvolta in un'aura di soprannaturale dalla nascita alla morte. Nacque a Paola (Cosenza) nel 1416 da genitori in età avanzata devoti di san Francesco, che proprio all'intercessione del santo di Assisi attribuirono la nascita del loro bambino. Di qui il nome e la decisione di indirizzarlo alla vita religiosa nell'ordine francescano. Dopo un anno di prova, tuttavia, il giovane lasciò il convento e proseguì la sua ricerca vocazionale con viaggi e pellegrinaggi. Scelse infine la vita eremitica e si ritirò a Paola in un territorio di proprietà della famiglia. Qui si dedicò alla contemplazione e alle mortificazioni corporali, suscitando stupore e ammirazione tra i concittadini. Ben presto iniziarono ad affluire al suo eremo molte persone desiderose di porsi sotto la sua guida spirituale. Seguirono la fondazione di numerosi eremi e la nascita della congregazione eremitica paolana detta anche Ordine dei Minimi. La sua approvazione fu agevolata dalla grande fama di taumaturgo di Francesco che operava prodigi a favore di tutti, in particolare dei poveri e degli oppressi. Lo stupore per i miracoli giunse fino in Francia, alla corte di Luigi XI, allora infermo. Il re chiese al papa Sisto IV di far arrivare l'eremita paolano al suo capezzale. L'obbedienza prestata dal solitario costretto ad abbandonare l'eremo per trasferirsi a corte fu gravosa ma feconda. Luigi XI non ottenne la guarigione, Francesco fu tuttavia ben voluto ed avviò un periodo di rapporti favorevoli tra il papato e la corte francese. Nei 25 anni che restò in Francia egli rimase un uomo di Dio, un riformatore della vita religiosa. Morì nei pressi di Tours il 2 aprile 1507.
Patronato: Calabria, Naviganti, pescatori.
Etimologia: Francesco = libero, dall'antico tedesco
Martirologio Romano: San Francesco da Paola, eremita: fondò l’Ordine dei Minimi in Calabria, prescrivendo ai suoi discepoli di vivere di elemosine, senza possedere nulla di proprio né mai toccare denaro, e di mangiare sempre soltanto cibi quaresimali; chiamato in Francia dal re Luigi XI, gli fu vicino nel momento della morte; morì a Plessy presso Tours, celebre per la sua austerità di vita.
Il MIRACOLO PIU’ IMPORTANTE DI
S. FRANCESCO DA PAOLA
San Francesco da Paola - CHARITAS
E’ il prodigio tanto famoso del passaggio dello stretto di Messina: prodigio, che, senza dubbio, non si riscontra se non raramente nella vita dei santi. Il nostro Taumaturgo meglio dell’apostolo Pietro, il quale per andare sulle acque incontro al Divino Maestro, dovette essere da lui sorretto, ci si presenta nel secolo XV quale figura dello stesso Cristo, quando incedeva sereno e maestoso sulle onde del lago di Tiberiade. Lo stretto di Messina divide le sponde calabresi da quelle siciliane, discoste non più di sei chilometri, e nel tratto di minor distanza poco più di tre chilometri. Il servo di Dio era giunto con i suoi compagni a Catona, villaggio nella provincia di Reggio, a cinque chilometri da Villa San Giovanni, che sorge dirimpetto al faro di Messina, ed è il punto più prossimo per l’imbarco dal continente alla Sicilia. In quella spiaggia s’apriva un piccolo porto, dal quale partivano ogni giorno barche da trasporto e, Francesco sperava che lui ed i suoi frati, sebbene sprovvisti di denaro, per carità avrebbero trovato posto in qualcuna di esse. Difatti, come narrano i testi, appena giunto al porto, una barca carica di legname da costruzione era sul punto di far vela per Messina. Il sant’ Uomo si avvicinò al padrone, per nome Pietro Coloso e, dopo averlo salutato cortesemente, lo pregò, per amor di Gesù Cristo, ad accoglierlo nella barca con i due confratelli per la traversata dello stretto. – Volentieri, rispose seccamente il Coloso, purchè mi paghiate. - Ma noi, o buon fratello, ci siamo rivolti alla vostra carità, perché non abbiamo neppure un soldo. – E che importa a me? Replicò con malgarbo. - Se voi non avete denaro da pagarmi, io non ho barca per portarvi -. Questa brusca ripulsa non turbò l’Uomo di Dio, il quale visti fallire i mezzi umani, ricorse con maggior fiducia all’aiuto divino. Senza più insistere avvertì i compagni di attenderlo un momento, mentr’egli avanzandosi lungo la spiaggia quanto un tiro di pietra, si mise in ginocchio a pregare per pochi istanti Colui, che altra volta, attraverso le acque del Mar Rosso, aveva aperto al popolo sicuro passaggio. Il Signore ascolta la sua preghiera e gli ispira il da farsi. Francesco si alza, benedice il mare, e in quell’istante, quanti erano presenti – tra i quali i nove viandanti che l’avevano accompagnato – lo vedono distendere il suo mantello sulle onde , montarvi sopra risolutamente, e tenendone stretto un lembo alla estremità superiore del suo bastone, come a servirsene di vela, procedere rapido e sicuro (solo o accompagnato?) verso le coste siciliane. All’insolito spettacolo gli astanti prorompono in grida di ammirazione e di gioia, mentre il nostromo Coloso, non so se più attonito che confuso, per riparare in qualche modo al malfatto, si affretta a prendere sulla barca uno o tutti e due i frati rimasti sulla riva; chiama indarno il prodigioso navigante e parte… Ma è vano ogni suo sforzo per raggiungerlo! Il santo Taumaturgo, senza voltarsi mai indietro, tira diritto verso l’altra spiaggia. E già era vicino a toccare terra, quando s’avvide che anche dal porto di Messina molta gente l’aveva scorto! Fu perciò che, a schivare le loro acclamazioni, piegando un poco verso destra, andò ad approdare in un punto alquanto discosto e solitario. Questo sostanzialmente il prodigio tanto celebrato del passaggio dello stretto di Messina, che avvenne nella piena luce del giorno, sotto gli occhi di numerosi spettatori: prodigio che non ci è trasmesso soltanto dalla tradizione, ma ci viene attestato da deposizioni giurate nei processi. … Vogliono alcuni scrittori che il Santo abbia preso terra a Messina, in quel punto della Spiaggia detta del Santo Sepolcro, dove nel 1503 fu edificato il nostro convento; o poco lungi, dov’è la chiesa della Madonna della Grotta; altri invece, e tra essi il Lanovio, che sia approdato direttamente a Milazzo, e infine gli Atti municipali di Milazzo, notano espressamente che egli “passò il faro ed approdò sotto il Casale del Gesso”. Ma la maggioranza dei biografi che l’attestano, sia il fatto stesso che il Servo di Dio si spinse fino a Catona, donde ordinariamente le barche non fanno viaggio che per Messina, rendono insostenibile l’opinione di quei pochi, che lo fanno sbarcare presso Milazzo. …. Parimenti nelle lezioni storiche del Breviario romano si legge che il Santo traversò quel tratto di mare sul suo mantello, in compagnia di un altro frate. Così pure nel citato documento dell’archivio municipale di Milazzo, vien detto ugualmente “ch’egli distese il suo mantello su l’acque assieme col p. Francesco Majorano, religioso milazzese, passò il Faro, ecc.“ Ricorderò i belli epigrammi con cui il Frugoni ha illustrato questo portentoso avvenimento:
Già sei anni dopo papa Leone X nel 1513, lo proclamò beato e nel 1519 lo canonizzò; la sua tomba diventò meta di pellegrinaggi, finché nel 1562 fu profanata dagli Ugonotti che bruciarono il corpo; rimasero solo le ceneri e qualche pezzo d’osso. Queste reliquie subirono oltraggi anche durante la Rivoluzione Francese; nel 1803 fu ripristinato il culto. Dopo altre ripartizioni in varie chiese e conventi, esse furono riunite e dal 1935 e 1955 si trovano nel Santuario di Paola; dopo quasi cinque secoli il santo eremita ritornò nella sua Calabria di cui è patrono, come lo è di Paola e Cosenza.
Quasi subito dopo la sua canonizzazione, furono erette in suo onore basiliche reali a Parigi, Torino, Palermo e Napoli e il suo culto si diffuse rapidamente nell’Italia Meridionale, ne è testimonianza l’afflusso continuo di pellegrini al suo Santuario, eretto fra i monti della costa calabra che sovrastano Paola, sui primi angusti e suggestivi ambienti in cui visse e dove si sviluppò il suo Ordine dei ‘Minimi’.
San Francesco da Paola - Santuario dei marinai (Genova). Il Santuario di San Francesco da Paola, posto nella zona Principe, sovrastante il porto, con vista a mare, retto dai Padri Minimi di S. Francesco da Paola, è stato annoverato tra i Santuari dopo che Papa Pio XII ha proclamato S. Francesco "Patrono della gente di Mare", il 27 marzo 1943. Il Santo Paolano, grande taumaturgo, ha soccorso i suoi fedeli con grazie e miracoli nel corso dei 600 anni della sua azione nella Chiesa. Lo testimoniano numerosi "ex voto" esposti nell'atrio d'ingresso della Basilica. Una targa di bronzo che lo raffigura nell'attraversamento dello stretto di Messina viene posta sul ponte di comando delle navi. "La campana del mare" suona ogni sera in memoria dei defunti in mare. La festa del Santo con processione nel porto si celebra la prima settimana di maggio: la cerimonia prevede il lancio in mare della corona in memoria dei caduti.
Tradizionalmente, fissata sul ponte di comando di molte navi italiane (circa cinquecento di oltre 100 società marittime), viene posta una targa di bronzo, ideata e progettata a Genova da p. Nicolini e dal cap. P. Castello, per le navi e le Società Armatoriali, per onorare San Francesco di Paola, patrono della gente di mare.
Sempre a Genova la Campana del mare, voluta da p. Giacomo Tagliaferro, con i suoi rintocchi, ogni giorno ricorda ai vivi gli eroi vivi e morti del mare.
I genovesi usavano chiamare i frati minimi "i religiosi del principe di Oria", perché alla costruzione del convento di Genova Caldetto contribuirono benefici patrizi e cittadini tra i quali gli antichi biografi hanno annoverato, come uno dei più insigni per devozione e generosità, il principe d’Oria.
CARLO GATTI
Rapallo, 13 Giugno 2015
SULLE ROTTE DEL GUANO
SULLE ROTTE DEL GUANO
A cura di Pietro BERTI
Queste bottiglie, conservate per tanto tempo in alcune case di Camogli sono state donate al Museo dal Cap. Ag. De Gregori, Rosa Marciani, Davide De Ferrari e Gemma Cuneo. Come abbiamo visto, il traffico del guano contò su una vasta presenza italiana e soprattutto ligure. In quest’ambito i camogliesi fecero la loro parte, pur se impegnati a maggior titolo in altre rotte, egualmente lucrose. Tra i camogliesi citati assume comunque un ruolo di rilievo l’armatore Ansaldo che, stando a questi dati,fu il maggior interessato all’impresa del guano. Il traffico del guano durò alcuni decenni e lo stesso Gropallo conclude il capitolo citando gli ultimi velieri destinati a questa attività, e soprattutto alle Ballestas e a Lobos de Tierra e de Afuera. Questi velieri furono il Regina Elena, Giacomo, Erminia, Emanuele Accade, Antonio Padre, e probabilmente ultimo in assoluto il Mae Diarmid, presente alle isole ancora nel 1914. Inutile dire che buona parte di quest’ultimo gruppo di velieri fu anch’esso armato o comandato da camogliesi. Pur non disponendo di una piùcompleta documentazione in merito, siamo riusciti ad individuare due scritti che ci consentiranno di illustrare meno vagamente il caricamento del guano. Nello scritto “ A peruvian guano island “ apparso nel volume “ The pictorial tour of the world “, un volume stampato presumibilmente nell’ultimo quartondell’800 da James Sangster di Londra, apprendiamo come, dopo aver sfruttato il deposito di guano dell’isola Ichaboe (Africa) gli inglesi abbiano volto la prora delle loro navi verso le isole Chinchas e come veniva caricato il guano nelle stesse. La descrizione offerta concorda, salvo un dettaglio non indifferente, con quella data dal Gropallo ne “ Il romanzo della vela “. Molto interessante è pure la stampina Xilografata che appare nel testo e che ci mostra la fase essenziale del caricamento.
Dato che lo sfruttamento del guano era monopolio dello Stato peruviano, le navi adibite a questo traffico dovevano sostare a Callao per ritirare l’autorizzazione governativa, quindi partire per le isole, dove, se il posto era libero e il tempo lo permetteva, si procedeva al carico. Le isole si presentavano come enormi scogli brulli, quasi del tutto inaccessibili, con alti strapiombi sul mare e nessuna cala ad uso di porto. In questi luoghi torridi non pioveva mai,non cresceva vegetazione e non v’era acqua. La vita doveva essere organizzata con provviste portate periodicamente da navi, ma l’accosto di queste era sempre precario perché la forte risacca rischiava di sbatterle sugli scogli. Il guano ricopriva tutto e, deposto da secoli, formava uno spesso strato, una vera miniera. Sull’orlo dello strapiombo, sfruttando le naturali fratture del terreno, si formava un vasto deposito di guano già estratto da altri punti dell’isola. Sul margine esterno di questo deposito, trattenuta da pali piantati nel guano e rafforzati con catene, vi era l’imboccatura di una manichetta di robusta tela, sufficientemente ampia di modo da far cadere il guano per gravità, fino al livello del mare. La bocca inferiore della manichetta era fissata ad una apposita boa e poteva essere strozzata per mezzo di una apposita cima. Secondo il testo inglese il corpo inferiore della manichetta era assicurato sull’albero maestro della nave sotto carico e la sua bocca passava alternativamente da una mastra di stiva all’altra in modo da caricare regolarmente la nave e di consentire al personale di stivare bene il carico ricevuto. Per compiere questa operazione la nave doveva accostarsi quanto più possibile allo strapiombo ormeggiandosi saldamente con cavi ed ancore. Secondo lo scritto del Gropallo la nave restava ancorata più al largo, mentre le barche di bordo si recavano sotto la manichetta a caricare il guano, che, una volta giunta la barca sottobordo, veniva trasbordato in stiva per mezzo di coffe. Quest’ultimo sistema, forse più sicuro per la nave, rendeva la caricazione molto più lunga, mentre il primo metodo, a detta dell’autore consentiva di caricare una nave di 7/800 tonnellate in 2 o 3 giorni. Il lavoro in stiva e a terra era svolto dai “ coolies “ cinesi, un’insieme di contadini rovinati dalla siccità, debitori insolventi, galeotti liberati e altro ancora, che avevano lasciato la Cina, allettati da promesse di facili guadagni.In realtà, già all’atto dell’imbarco su navi che poco differivano dai vascelli negrieri, questi si accorgevano dell’inganno subito. Non a caso su alcune di queste navi scoppiarono delle sanguinose rivolte che portarono all’uccisione di interi equipaggi. Ricordiamo ad esempio il caso del Perseveranza, veliero il cui maggior caratista era la Casa Figari del callao (Perù).
Nel marzo del 1867, 500 cinesi, reclutati a Macao, si rivoltarono provocando la “scomparsa“ di 4 ufficiali e 45 marinai. Alle isole poi le condizioni di vita erano miserissime ed i “coolies“ morivano come mosche. Basti pensare che lavoravano con lunghi orari sia diurni che notturni, con un’alimentazione razionata anche per le difficoltà di approvvigionamento, e che normalmente vivevano dentro una nube incessante di polvere di guano, fonte di infezioni patogene e di malattie respiratorie. Anche per i naviganti la vita non era facile: pesava su loro la doppia rimontata di Capo Horn, il clima torrido, e il pericolo delle lnghe attese al largo con la minaccia di maremoti e tempeste. Ricordiamo ad esempio il 7 luglio 1877, quando per un improvviso gonfiarsi del mare finirono contro gli scogli 7 velieri, mentre altri 25 subirono gravi avarie. Una volta fatto il carico, le navi dopo u viaggio di circa 120/140 giorni, raggiungevano l’Inghilterra, il maggior cliente ricevitore di questa merce. E’ evidente come i velieri del guano cercassero zone di carico alternative a quelle sudamericane. La nave camogliese Fedeltà, costruita a Saint Malò come Ange Marie nel 1868, armata da Fasce e Gardella e comandata in periodi diversi da G.B. Fasce e Lorenzo Gardella, fu tra quelli. Questa nave divenne nota nell’ambiente marittimo dell’epoca per un rapporto sul caricamento del guano all’isola Browse (stretto di Torres - Australia), presentato al console italiano di Londra dal cap. Gardella il 5 aprile 1886, e parzialmente pubblicato, su cinque pagine della “ Rivista marittima “ di quell’anno. In questo rapporto il gardella si lamenta di come gli equipaggi delle navi fossero costretti ad eseguire da loro stessi il carico del guano. Giunto all’isola il 14 giugno 1885, ancora la nave vicino un barco inglese il cui comandante cerca praticamente di dissuaderlo dal caricare, lamentando il troppo lavoro da fare in confronto al risultato. Nonostante tale quadro pessimo, il Gardella, il 18 giugno, dopo aver portato la nave in altra zona dell’isola dov’era possibile scaricare, sbarca con una parte dell’equipaggio per preparare il lavoro a terra. L’isola è di forma circolare, ampia circa un chilometro, e l’unico posto libero per cavae guano è distante 300 metri dalla piccola ferrovia attrezzata per portare il guano alla spiaggia. Oltre a questo, per poter accedere alla cava si debbono rimuovere circa 250 tonnellate di corallo spezzato, ammucchiato dalla gente arrivata prima.Questa operazione viene compiuta comunque in tre interi giorni di lavoro. Scrive il Gardella: “ ……la cava si presentava come un muro alto 7 piedi inglesi (metri 2,24 circa) formato da strati di corallo bianco e di guano. Un primo strato di corallo di circa 2 piedi e mezzo (cm. 70 circa) alla superfice, mezzo piede di guano secco e soffice, un secondo strato di corallo di circa un piede, un altro strato di guano umido di circa due piedi, quindi la roccia. Il lavoro più faticoso è la rottura della prima crosta di corallo (omissis). Il mezzo più agevole era quello di scavare sotto questa crosta (la prima NdA) lo strato di guano, e romperla poi a forza di mazza del peso di 25 libbre inglesi (kg.5,443 – NdA) (omissis). Ottenuto il primo strato di guano e franta la crosta di corallo, si rompeva col piccone il secondo stato di corallo, lo si asportava e si levava il secondo strato di guano che per essere umido bisognava allagare a parte per farlo asciugare. Insaccato quindi il guano bisognava portarlo a spalle per una distanza di 300 metri (distanza che col procedere del lavoro sarebbe aumentata), caricare i sacchi sui carri della ferrovia, trascinare questi per mezzo miglio alla spiaggia, e quindi nuovamente a spalle per 40 metri di spiaggia di sabbia e corallo rotto. Quest’ultima operazione era oltre che faticosa, pur anche dolorosa per i pezzi di corallo rotto e tagliente che il mare getta con forza nelle gambe dell’uomo carico. Se si considera poi che tutto questo lavoro viene fatto sotto la sferza del sole cocente, si avrà idea della fatica che costa, e non faràmeraviglia come, lavorando con sei o sette uomini dalle 4 del mattino alle 7 della sera si arrivi a imbarcare una media di 8 tonnellate di guano.
Anche per la squadra di bordo i guai non sono lievi, perché la risacca, se il mare è appena mosso, rischia di far affondare la lancia di bordo con carico e uomini, La stessa nave da parte sua rischia di arare con le ancore perdendosi contro la scogliera, specie nei momenti in cui il mare ingrossa, ma per fortuna, grazie ai provvedimenti presi dal Gardella, che non citiamo per brevità, tutto alla fine và per il meglio. Nel rapporto il Gardella si lamenta pure per L’atteggiamento dei capitani delle altre navi, e del manager della Compagnia Melbourne, a causa dei limiti delle cave e delle precedenze sull’uso della ferrovia, .2 ma, come egli scrive, la costanza colla quale si lavorava, senza riguardo a ore, e domeniche, che era di incoraggiamento e di esempio ai loro equipaggi, ed i favori di cui potei loro essere utile essendo meglio fornito, me li resero da ultimo amici “. Dopo 125 giorni il carico, ormai sufficiente, permette la partenza della nave, il 18 ottobre 1885 viene mandata a bordo l’ultima lancia di guano, il 19 gli attrezzi e il 20 alle 10 del mattino, la nave finalmente leva l’ancora. “ Dopo cento e sette giorni di navigazione felice – scrive ancora – arrivai a Falmouth, avendo prima toccato Cape Town per rifornirmi di provviste”. L’articolo termina avvertendo che “ secondo il capitano Gardella, l’isola Browse deve considerarsi oggi come sfruttata”. Esaminando le date dell’articolo possiamo calcolare la durata del viaggio, tra l’arrivo all’isola e l’arrivo a Falmouth, in circa 8 mesi ai quali va aggiunto un mese circa che corrisponde tra l’arrivo a Falmouth e la data del rapporto al console italiano a Londra. Per la parte precedente del viaggio e per il rientro in Italia non abbiamo documentazioni.
ALBUM FOTOGRAFICO
A cura di Carlo GATTI
Raccolta del guano
Il guano visto da vicino
Rocce ricoperte di guano
Isole Ballestas. Questo Non é un ponte crollato, ma un pontile da cui si carica il guano sulle navi che le navi trasporteranno in Europa. Qui sarà venduto come fertilizzante - concime.
Una bella immagine...
No comment...
Montagne di guano
Neve? No – Guano!
Rapallo, 22 Maggio 2015
LA GUERRA DEGLI ...ALTRI GENOVESI
La guerra degli … altri genovesi
Senza che nessuno lo potesse sapere, stava per finire quella che, poi, si ricorderà come l’ultima estate di guerra; gli anglo-americani erano ormai padroni assoluti del campo e, in mare, da tempo, non c’era un’imbarcazione italiana e neppure più quelle poche della marina tedesca. Un’ordinanza nazi-fascista vietava infatti l’uso di barche a chicchessia per paura che, fra queste, potesse esserci chi l’avrebbe utilizzata per tenere contatti con sommergibili nemici.
Correva voce che al largo incrociassero navi alleate con tanto di portaerei, indispensabili basi agli aeroplani per continuare a bombardare il Nord-Italia; dopo si seppe che quegli sciami di bombardieri che vedevamo passare, partivano dagli aeroporti del Centro e del Sud-Italia, già in mano loro. Anche in cielo non volavano né aerei tedeschi e, meno che meno, italiani.
Contraerea italiana
Fortezze Volanti - Bombardamento a bassa quota
Mediterranean Allied Air Force-Un B-26, soprannominato “Little Chum” in volo su un obiettivo
Batteria Bunker in Liguria
I cannoni delle nostre antiquate batterie contraeree, mai ammodernati, avevano gittata utile solo per tentare di colpire i vecchi aerei ma non per arrivare alla quota cui volavano le nuove fortezze volanti che quindi, in pieno giorno e con visibilità ottima, scorgevamo arrivare dall’orizzonte, passarci sopra le teste e andare a portare devastanti distruzioni, nell’entroterra.
Contraerea in azione contro bombardieri USA
Formazione di B-26 in volo verso l’obiettivo
Viste così, geometriche formazioni compatte, sembravano fazzoletti di coriandoli d’alluminio luccicanti al sole; l’uno a seguire l’altro, distanziati da un brevissimo intervallo, questi rettangoli rombanti, avanzavano indisturbati. Sotto di loro, nel tentativo di salvaguardare l’onore nazionale, si perdevano i colpi sparati vanamente dai nostri asfittici cannoni; riuscivano solo a disegnare un disordinato tappeto di bianchi batuffoli di cotone, oltre i quali s’intravedeva il greve, indisturbato avanzare degli aerei. Solo dopo aver capito che per noi non c’era più gioco o, semplicemente, perché non avevamo più munizioni, si decisero a far tacere quegli inutili rumorosi ferri vecchi, risparmiandoci le pericolose piogge di schegge che ricadevano, sparpagliate, ad ogni deflagrazione.
Nei primi anni di guerra i bombardamenti avvenivano di notte perché, con il buio, aerei che ancora non volavano molto alti potevano contare sul fatto di non essere individuati.
Aerofoni in azione
Aerofoni e mitragliere da 13,2
Il nostro sistema d’allarme, leggermente antiquato, era basato sull’intercettazione fonica del rombo dei motori; dei non vedenti erano appollaiati alla base di aerofoni posti in altura per poter spaziare e, grazie alla loro acuta percezione, avvertivano i rumori degli aerei in avvicinamento. A questo punto partiva l’allarme che veniva diffuso alla popolazione attraverso l’urlo di apposite sirene.
Quando il rombo era percepibile anche da noi, si accendevano le fotoelettriche, i riflettori militari che sciabolavano il cielo nella speranza, a volte ripagata, di “agganciare” qualche aereo, così da potere concentrare su quel puntino riflettente luce che procedeva contro un cielo nero, tutti i tiri; a volte, lo colpivano. E pensare che i nostri avversari possedevano già il radar.
Sul finire della guerra invece, le nuove formazioni aeree, dopo essere transitate cariche di bombe, ritornavano indisturbate e scariche; il cupo rumore iniziale emesso dai motori sotto carico era, al ritorno, meno pesante del primo, non per questo però meno lugubre.
Bombardieri USA sopra i cieli di Liguria
Recco (Genova) alla fine della guerra
Recco, il ponte ferroviario completamente distrutto dai bombardamenti
Recco. Ricostruzione del ponte ferroviario distrutto
Tutto quell'andare e venire sopra le nostre teste, per fortuna, non interessò chi abitava lungo la battigia, se si esclude Recco e, rispetto agli anni che precedettero l’armistizio, si aveva l’impressione che gli obiettivi che intendessero colpire, ora fossero meglio individuati e più mirati. Evidentemente prima, quando le incursioni avvenivano di notte, erano condotte in maniera anche indiscriminata; l’importante era colpire, annientare il nemico e fiaccare i civili, non essendo facile, al buio, distinguere ogni specifico bersaglio in città rigorosamente oscurate.
Il cielo illuminato da potenti bengala
Riflettori alla ricerca dei bombardieri notturni
Razzi illuminanti
Se invece lo dovevano assolutamente individuare, lanciavano alcuni “bengala” (razzi illuminanti) che scendendo lentamente, trattenuti in aria da dei piccoli paracadute, illuminavano la zona a giorno, per un tempo tale da consentire d’individuare bene l’obiettivo.
All’epoca era ormai operante il movimento per la Libertà o dei Partigiani, il termine <Resistenza> l’imparammo dopo e, chi ci bombardava, da lì a poco sarebbe, come amico e liberatore, arrivato proprio nelle stesse zone che, appena il giorno avanti, aveva distrutto. E’ innegabile che una certa “confusione” regnava ovunque perchè, in quello stesso periodo, parte di Italiani uniti ai tedeschi, combattevano gli alleati ed i partigiani.
A proposito dei bersagli mirati, fui testimone di due indicativi episodi. Il primo è stato la distruzione di un tratto vitale della ferrovia che collega l’Italia con la Francia, proprio sulla costa a levante di Savona in zona disabitata; solo qualche tempo prima, Novembre 1943, pur di distruggere un simile obiettivo ferroviario, non esitarono a radere al suolo l’intera cittadina di Recco effettuandovi decine di bombardamenti, il cui centro abitato è, da sempre, scavalcato dal gran ponte ferroviario, punto nevralgico e vitale per collegare Ventimiglia con La Spezia.
Da sinistra, bomba d’aereo tedesca, italiana, americana. Le bombe differiscono solo dalla coda con le alette.
Torniamo all’episodio che ho iniziato a descrivere; nella tarda mattinata di quel giorno soleggiato, preceduti dal consueto lugubre e appesantito rombo dei motori, arrivarono dal mare gli aerei che, compiendo un ampio semicerchio, si portarono sul bersaglio, volando paralleli alla spiaggia. Da ogni formazione vidi sganciare una quantità di bombe lucide come confetti d‘argento, il cui scoppio, data la distanza dalla quale, emozionato, osservavo la scena, subito non avvertii; mano a mano che le bombe toccavano terra, si vedeva elevarsi un parallelepipedo di fumo che si allungava nella stessa direzione della loro marcia, come gigantesco bruco grigio scuro dalle zampette rosso fuoco che, mantenendo ferma un’estremità, distenda lentamente il suo corpo segmentato. Il fragore della spaventosa, prolungata esplosione giunse qualche istante dopo, assieme all’allarmante sobbalzare della terra su cui poggiavo i piedi, come scossa da un innaturale sussulto.
Lo sbarco Alleato in Provenza
Solo dopo si seppe che quello che avevo visto era uno dei tre bombardamenti strategici, effettuati pressoché simultaneamente, nell’Agosto del ’44 per evitare che truppe tedesche fresche, accorressero a dar man forte ai camerati impegnati in Provenza a contrastare lo sbarco degli Alleati, fra Cannes e Tolone, effettuato nell’ambito dell’operazione <Dragoon >.
L’altro episodio, verificatosi proprio sopra la mia testa, avvenne nella stessa estate del gran bombardamento descritto; quella mattina, al solito, passarono aerei carichi di bombe e dopo un po’, mentre noi ragazzi stavamo ancora giocando, avvertimmo il familiare rombo degli aerei scarichi, di ritorno dall’ennesima missione. Qualche istante dopo, uno, volando insolitamente solo e a bassa quota, ci passò sopra in fiamme, sorvolò l’Aurelia sfiorando il Castelluccio, un vecchio fortilizio anti-saraceni al confine fra le spiagge di Prà e di Pegli, sul quale avevano installato una mini batteria antiaerea dotata di un cannoncino rapido ma di piccolo calibro. Appena giunto sul mare, vi sganciò il residuo micidiale carico di bombe ancora a bordo per poi, poco più avanti, inabissarsi. Non avemmo neppure il tempo di spaventarci, tanto fu rapido e spettacolare il susseguirsi degli eventi. Una cosa però ricordo bene; se si è nei pressi dell’obiettivo che intendono bombardare, si vedono le bombe cadere a grappolo avvertendo il caratteristico penetrante sibilo prodotto dalle loro alette mentre fendono l’area per mantenerne posizione e direzione, ma se ti trovavi sul bersaglio, quel sibilo sopra di te si trasforma in un assordante e convulso frullare d’ali che cessa solo al momento della lacerante esplosione a seguito della quale, se hai fortuna, ti ritrovi scaraventato a terra da una fortissima, irrefrenabile ventata d’aria calda che travolge quella respirabile.
Quel giorno, passata la paura, uscimmo dal pertugio dove c’eravamo ritrovati senza volerlo, e cercammo di scorgere se, in mare d’ove era caduto il bombardiere, ci fosse qualcuno o galleggiasse qualcosa. Si vedevano solo militari tedeschi che, di guardia sulla spiaggia, si affannavano per trovare una barca da varare per catturare il pilota che loro, con i binocoli, avevano scorto galleggiare; non trovarono alcunché perché, essi stessi avevano imposto che le spiagge fossero sempre sgombre, avendovi fatto costruire degli inutilizzati muraglioni di vallo, intercalati da fortilizi, pronti a difenderci dagli sbarchi Alleati, che non erano neppure nei loro piani mancandone i presupposti logistici e strategici.
Restammo a guardare per cercare di individuare anche noi cosa loro vedessero, quando improvvisamente spuntò, volando a pelo d’acqua e controluce in direzione della terra, un aereo che, arrivato all’altezza del fortilizio, cabrò improvvisamente mostrando sotto le ali, l’inconfondibile stella, simbolo dell’aeronautica americana; dopo un mezzo “loop”, come uno squalo che in acqua mostri, rivoltandosi, il ventre, fulmineamente si allontanò.
Presi in contropiede, gli addetti al cannoncino, giovani bersaglieri arruolati nel nostro ultimo esercito raccogliticcio, non restò che sparargli pateticamente dietro in ritardo e mentre si allontanava; contemporaneamente, inosservato, un idrovolante alleato ammarò vicino al luogo del naufragio, recuperò il pilota e, sempre indisturbato, se ne ripartì mentre tutti erano ancora impegnati a colpire l’aereo, “falso scopo”.
Fui felice per quell’uomo perché, coraggiosamente e rischiando la propria vita, sganciò le bombe solo all’ultimo momento e in mare, un attimo prima di cadere; poteva alleggerirsi prima, per garantirsi una maggior autonomia che gli permettesse d’allontanarsi di più dalla costa a lui nemica ma, così facendo, avrebbe raso al suolo parte dell’abitato di Prà e di Pegli.
Quest'episodio sarebbe rimasto come uno dei tanti fatti bellici a sé stanti se, ogni tanto, qualche giovane aitante funzionario della Soprintendenza alle Antichità della Liguria, stimolato ed indirizzato dai sempre interessati difensori del territorio, non scoprisse, ignorando i precedenti, che proprio nel sito in cui caddero quelle bombe esistono, sparpagliati sul fondale, dei minuti reperti di cocciame antico, già studiati e classificati “insignificanti” da chi la materia la conosceva bene. L’ultima volta bloccarono ritardandolo, spensierati ed impuniti, l’avanzare del porto commerciale di Voltri e affossarono il progetto di un porticciolo turistico, ultimo tentativo di risollevare Pegli dalle ormai perdute speranze di farla risorgere.
Questo costosissimo fervore, è certamente imputabile al fatto che, chi subentra al precedente funzionario, per far sapere che c’è, si precipita a ritrovare a Pegli ciò che tutti ormai sanno esistere: anonimi, minuti cocci di terracotta romana.
Reperti archeologici “Nave Romana di Albenga”
Quei reperti, di cui è piena la nostra costa, furono oggetto di una campagna di studi subacquei già nel 1952, condotta dal Professor Lamboglia, padre dell’archeologia sottomarina italiana, che concluse ritenendoli <non interessanti > come risulta da <La nave romana di Alberga - Vol.18, 1952- Rivista Studi Liguri >. Ciò nonostante, regolarmente, si emettono ordinanze di divieto di transito per i natanti e per i pescatori e, per alcuni giorni, pagati ovviamente dai contribuenti, gruppi specializzati nelle ricerche archeologiche sottomarine delle forze dell’ordine, sono inviati sul posto ad effettuare ormai vane ricerche; i lavori vengono regolarmente sbandierati sulla stampa cittadina ma i risultati poi, regolarmente, tenuti ben nascosti in un cassetto di una qualche scrivania istituzionale. Ad aumentare la tensione degli “scopritori” c’è anche il fatto che, fra tutto quel cocciame, ogni volta scoprono dei frammenti di legno, subito attribuiti a schegge di nave romana ma che, invece, appartengono a “chiatte” da lavoro, barconi un tempo in uso in porto, lì inabissati dall’Università di Genova in accordo con l’Autorità portuale, sia per liberarne il porto alla fine della guerra che richiedeva nuove tecnologie di lavoro che per tentare di ricreare un habitat ittico allo scopo di ripopolare di pesci il sito. Vana speranza.
Nel classificare la zona come archeologicamente non interessante, il Lamboglia scriveva < ..si è avuta la certezza che non eravamo di fronte ad un relitto di nave, ma semplicemente a un avanzo di carico di una nave o capovoltasi o affondata e trasportata altrove dalle correnti.>
Pochi però sanno, e certamente meno che meno lo sapeva quel pilota che, se si continuano a ritrovare <scarsi oggetti interi e così “insolitamente” sparpagliati >, la colpa è anche di quel sant’uomo che salvò parte di Pegli e, tornando alla base da quella sfortunata azione, non avrà neppure verbalizzato di aver, piuttosto che niente, distrutto gli avanzi di una vecchia, anzi vecchissima, nave.
RENZO BAGNASCO
Rapallo, 11 Maggio 2015
LA MIA GUERRA fra PRA' E PEGLI
LA MIA GUERRA TRA PRA' E PEGLI
10 giugno 1940. Mussolini dal balcone di palazzo Venezia. Il discorso della dichiarazione di guerra.
Il giorno in cui fu dichiarata l’ultima guerra ero, con la famiglia, in villeggiatura a Visone, un paesino vicino ad Acqui Terme; sentimmo l’annuncio, anche se di quel messaggio io capii ben poco. Dall’evidente immediata preoccupazione dei miei genitori e dall’improvviso silenzio che piombò nelle vie del piccolo borgo, in contrasto con il clangore che dalla Piazza di Roma la radio faceva arrivare sino a noi, avrei dovuto capire che qualcosa di grave stava succedendo ma, si sa, i ragazzi, privi d’esperienze di riferimento e sensibili solo alle cose che vedono, non avvertono il pericolo se non quando ormai lo stanno correndo.
Mio padre, che aveva combattuto nella prima guerra mondiale e mia madre, che quella guerra l’aveva subita, compresero subito il dramma; io ci arrivai solo dopo qualche anno.
La prima reazione dei miei fu di ritornare subito a casa come se, una volta là, fossimo al sicuro; ma la “tana” é pur sempre, in emergenza, il luogo istintivamente più protettivo in cui rifugiarsi.
Trascorso il primo anno, la guerra promessa come veloce e facilmente vincibile, si rivelò, per chi sapeva esaminarla obiettivamente, aver preso ben altra piega. A mano a mano che il tempo passava, sempre più frequentemente si sentiva riferire da conoscenti che loro amici, rientrando dal fronte di guerra per curarsi da ferite sofferte o per una convalescenza seguita a quelle, riportavano notizie d’enormi inspiegabili sbagli, di presunti sabotaggi perpetrati dai nostri contro i nostri combattenti e di un’allarmante generale impreparazione.
Tutte queste cose contrastavano con quanto quotidianamente si sentiva dalla radio o io leggevo sul giornalino il <Balilla >, che il “regime” distribuiva nelle scuole; però anche sul <Vittorioso >, Romano vinceva sempre.
Ben presto, la mamma, sorella di un “marcia su Roma” e promotrice essa stessa di una colletta per erigere, nel suo paese natale, un monumento al fante italiano caduto per la Patria nella prima guerra, cominciò a disapprovare quello che stavano facendo i nostri governanti; come tutte le madri aveva intuito, per istinto, che la strada imboccata era quella sbagliata.
I versi che Vito Elio Petrucci ha voluto dedicarle, mi pare centrino il personaggio:
….a cammin-na in to tempo
comme’ na ciossa attenta
a-e vire do farchetto….
Libera traduzione: …e cammina nel tempo come una chioccia attenta ai volteggi del falco…
Mio padre, questa nuova guerra non la capì mai perché era partito, nel 1915, volontario in marina per combattere e vincere, come fece, i tedeschi; a lui che per onorare la parola una volta data era disposto a tutto, non andava proprio giù doverli accettare adesso come alleati. Così facendo avrebbe dovuto considerare nemici da combattere, i figli di quelli che, ventitré anni prima vide arrivare da altri continenti per dargli una mano e molti morire al suo fianco mentre, assieme, combattevano l’austriaco nemico comune.
Credo che questo fosse lo stato d’animo di molti italiani, sicuramente di quelli che, da sempre, rappresentano la maggioranza silenziosa, nel subire la tragedia che ci coinvolgeva.
Noi ragazzi scoprivamo le cose giorno dopo giorno, maturando più in fretta di quanto non lo avesse fatto la generazione che ci aveva preceduto e certamente più di quella che, dopo poco, ci seguì e così le successive; c’entusiasmavamo ad ogni atto eroico del “Balilla” di turno, colpiti anche dalle illustrazioni sempre puntuali d’Achille Beltrame sulla <Domenica del Corriere >, una specie di C.N.N. di allora, non certo per la tempestività dell’informazione ma per la dovizia di particolari disegnati che facevano rivivere al lettore la drammaticità dell’episodio evocato.
A fronte delle festanti “oceaniche” adunate, documentate dalla stampa e dal cinegiornale Lux, contrastavano gli improvvisi, disperati scoppi di pianto in casa dei vicini, dopo che un carabiniere n’era uscito frettolosamente; qualcuno doveva pur portare le ferali notizie. Sempre più andavo prendendo coscienza che il tutto non fosse un gioco.
Le notti poi, destati di soprassalto dal lugubre ululato delle sirene d’allarme, bisognava fuggire nei rifugi antiaerei, veri e propri cantieri mai finiti, sommariamente avvolti in coperte e con in gola l’immancabile alitosi sulfurea dovuta alla levataccia che interrompeva la digestione; ad ogni incursione aumentava sempre più la gente che ricorreva alle gallerie-rifugio, assolutamente inadatte perché ancora in costruzione. Era gente tremante, infreddolita e rannicchiata in quegli acquitrinosi cantieri, mentre il cielo si rischiarava, a sprazzi, per i laceranti, fragorosi scoppi delle cannonate della contraerea. Tutte queste cose innescarono paure mai più sopite; ancor oggi continua a mettermi a disagio il sentire lo scoppio lacerante del “colpo tonante” che avverte della fine dei fuochi d’artificio, sparati in occasione di feste patronali.
A noi però bastava una successiva giornata di sole per dimenticare, apparentemente, la squassante notte, ma non così per gli adulti che assommavano alla loro, anche la paura per la nostra incolumità, con davanti, ogni giorno, sempre più nere prospettive.
Il 25 Luglio del ‘43 ed il successivo 8 Settembre, sconvolsero la vita della mia famiglia; l’alleato tedesco, sentitosi tradito dai nostri governanti, si tramutò di colpo in aguzzino, cercando di evitare che il soldato italiano gli sgusciasse fra le grinfie, rivestendosi in borghese con abiti rimediati, aiutati in ciò dalla popolazione e per di più convinto, visto che nessuna autorità lo smentiva, che la guerra fosse davvero finita e, comunque, da sfuggire. Non voleva essere lui a pagare le colpe di codardi pasticcioni che in quel dramma ci avevano trascinato e poi, felloni, erano fuggiti lasciandoci soli e senza guida.
Era obiettivamente difficile capirci qualche cosa; noi ormai parteggiavamo per quello che, ufficialmente, avrebbe dovuto essere ancora il nostro nemico.
Ascoltavamo i suoi notiziari, diffusi da Radio Londra nel buio della sera; si cercava di captarla, sintonizzandosi sino a che non si sentiva l’inconfondibile lugubre ripetitivo tambureggiare che segnalava l’inizio del notiziario, subito seguito dalla trasmissione vera e propria che, ancorché disturbata dalle interferenze emesse dalla censura fascista, riuscivamo, in qualche modo, a sentire, compreso i criptici <messaggi speciali > che l’emittente mandava in onda in chiusura e rivolti ai partigiani per coordinarli; ognuno di noi, sentendoli, li interpretava a modo suo, decifrandone ad orecchio l’astruso significato.
The Gost Plane “Pippo” – De Havilland Mosquito
Erano i nuovi alleati che, da nemici, erano tornati amici come nel ’15 -’18, anche se continuavano a bombardarci o tenerci svegli con il loro onnipresente “Pippetto”, l’estenuante ricognitore De Havilland “moschito” costruito per non essere facilmente individuabile da eventuali radar che noi non avevamo e idoneo al volo notturno.
Mio padre, non avendo aderito alla causa fascista, non trovava facilmente lavoro e, buon per noi che, almeno alla fine ci sia riuscito, rimediandone uno insolito e “asettico”; poco prima dello sfascio nazionale, lo accettò anche perchè fuori Genova: il cercatore d’oro alle Ferriere, due cascine poste sopra il lago di Lavagnina, nella zona di Lerma, ad Ovada. Và anche detto che quelle miniere erano già state sfruttate e abbandonate dalle legioni romane e, poi, dai napoleonici.
Solo ora capisco che la società che gli garantì il lavoro, sicuramente aveva, all’italiana, trovata la strada per ottenere un qualche finanziamento per il recupero e la riattivazione di vecchie miniere d’oro, nell’intento, ormai vitale, di procurare nuove ricchezze da buttare nel divorante crogiuolo della guerra.
Per la verità, d’oro se n’estraeva una quantità ininfluente, ma evidentemente sufficiente ad ottenere nuovi finanziamenti, specie se elargiti da mano compiacente. A tutte queste cose però all’epoca nessuno pensava e, meno che meno, mio padre che, concordato lo stipendio, si buttò nella nuova avventura con l’entusiasmo che lo contraddistinse in tutte le sue intraprese che, prima di tutto, per attirarlo dovevano stimolarlo. Molto giocò sulla scelta il fatto di poterci portare lontano dai pericoli insiti nel restare a vivere in Città.
Mi ricordo di quando si inventò un’attività, sempre per cercare di sbarcare il lunario durante il conflitto senza dover arrivare a compromessi con le sue convinzioni contrariamente a molti suoi colleghi che invece lo fecero ritrovandosi, alla fine, ricchi e incensurati. Il suo atteggiamento d‘allora, ancor oggi condivido. Ma torniamo alla nova iniziativa: si mise a rigenerare le lime perchè durante quegli anni terribili non si trovava quasi nulla, essendo tutto finalizzato alla produzione bellica. Immaginarsi quindi l’acciaio che era divenuto, al di fuori del giro bellico, introvabile per chi, artigiano, lavorava senza poter accedere alle “commesse” militari. Realizzò dei vasconi di legno che riempì con soluzione elettrolitica e, nei quali immergeva vecchie lime usurate; la corrente galvanica che le attraversava, corrodeva uniformemente le superfici esposte, rimodellando in qualche modo le asperità iniziali. Meglio che niente!
Tutta la famiglia, non appena noi figli terminammo il lacunoso anno scolastico, frequentato a singhiozzo fra un allarme aereo ed un bombardamento, si trasferì nel basso Piemonte a Cravaria, ai piedi delle Ferriere e poco prima della diga che formava il lago della Lavagnina, zona lontana dalle incursioni e che, essendo agricola, garantiva la farina, il latte delle vacche locali ed un forno a legna per cuocervi del pane casereccio e potervi arrostire la selvaggina che mio padre, abile cacciatore, ci procurava. Per noi ragazzi tutti quei prati da potersi godere in assoluta libertà ci facevano scoprire un’indipendenza inattesa; la fantasia era poi stimolata da dei grandi cumuli di sassi, ancor oggi esistenti, ammonticchiati lungo il fiume da generazioni successive di cercatori d’oro, che immaginavamo rovine di vecchi castelli, crollati sotto i nostri assalti. E’ paradossale ma in tempo di guerra si gioca alla…..guerra.
Lì ci sorprese l’8 Settembre del 1943.
Con mio fratello, dopo aver procurato ai pochi soldati italiani presenti in zona a protezione della menzionata diga, degli abiti civili per consentir loro di tornare alle rispettive case, andammo ad ispezionare le due batterie di mitragliatrici pesanti antiaeree, sistemate ai lati di quello sbarramento e proprio sopra la casa del guardiano. Arrivati, anche se non molto pratici, c’industriammo per sabotare quelle armi e, tanto toccammo e girammo, che riuscimmo a smontarne tutti gli otturatori, gettandoli poi nel sottostante lago assieme alle cassette contenenti i pezzi di ricambio. Convinti di non essere stati visti da alcuno, dopo l’irreparabile sabotaggio rientrammo a casa senza far menzione della nostra impresa; purtroppo le cose non andarono lisce come noi pensavamo. Il guardiano pare ci avesse visto e subito riferì ai suoi superiori; questo è almeno quello che ci siamo sempre sforzati di credere per scartare la delazione politica, che ci avrebbe visto, all’epoca, nei panni di vendicatori impietosi.
Fatto si è che due giorni dopo una colonna militare motorizzata, composta di quattro o cinque mezzi tedeschi, sbucò dalla polvere sollevata dalla strada di terra battuta che arriva da Lerma, fermandosi al bivio di Cravaria davanti all'allora nostra casa; ancor oggi, proseguendo in piano, si va alla centrale elettrica mentre, salendo, si arriva alla diga.
Mia madre, alla quale avevamo poi raccontato quel segreto per noi troppo grande, seguì, celata dalla tendina, i movimenti di quei militari, cercando di capire, attraverso gli atteggiamenti e i gesti, quali ne fossero le intenzioni. Dalla prima anfibia, che seguiva la staffetta in moto, dopo un concitato parlottare e sbattere di tacchi, si staccò un Maresciallo dei Carabinieri, certamente guida e interprete, che si diresse senza titubanze verso di noi e bussò alla porta.
Facile immaginare l’effetto che quel battere fece su tutti noi; quando mia madre aprì, papà era per fortuna a lavorare, credo le si leggesse in viso tutto il dramma. Il Maresciallo, usando un linguaggio volutamente burocratico, fece finta di non averci identificati ma ci fece chiaramente capire che sarebbe stato meglio, anzi, molto meglio se quando fossero ritornati dalla loro ispezione, dopo aver attinto maggiori notizie dal guardiano delatore, non ci fossimo fatti più trovare. Per il momento avrebbe preso tempo, riferendo che non gli eravamo sembrati i ricercati.
Sono convinto che la nostra famiglia gli debba la vita; da quel giorno ho capito perché l’arma è nota anche come “Benemerita”. Quel sant’uomo, che non abbiamo mai più rivisto, speriamo non abbia pagato con la vita, altri gesti di generosità compiuti, come questo, per puro altruismo.
Tornati a Pegli, per noi ragazzi ci fu un solo scopo; continuare a fare quello che iniziammo lassù. C’intrufolammo fra i tedeschi che occupavano la zona, giocando alla guerra con divise e finte armi simili alle loro ma da noi confezionate, in modo da accattivarci le loro simpatie; alcuni erano padri e altri addirittura nonni, richiamati alle armi come truppe d’occupazione, così da liberare i loro giovani per poterli mandare a morire al fronte.
Stivali da ufficiale della Wehrmacht
Di loro mi è rimasto l’acre afrore del sego, largamente usato per mantenere morbidi gli stivaletti e le pelletterie, parte importante dell’abbigliamento e l’insolito gusto e odore della loro gialla margarina spalmata sullo squadrato, acidulo pane di segale. Da queste frequentazioni ricavammo la notizia che stavano ultimando di minare i sentieri e i dintorni che portavano alla batteria contraerea della Bastia, posta sulla punta del colle che accoglie la Torre Cambiaso, a Prà, subito a ponente di quella della Marina installata sul Castellaccio, una collina che sovrasta il Lido di Pegli.
Decidemmo di “dare una mano agli alleati” anglo-americani, sminando quei sentieri. Il pomeriggio stabilito mio fratello, il cucino Franco ed io c’intrattenemmo, più a lungo del solito in modo che, al primo buio, anziché tornare a casa, avevamo informato i nostri ignari genitori che saremmo rimasti più tempo colà, c’inerpicammo per le “fasce” per raggiungere la zona prefissata.
Mina antiuomo tedesca: Schrapnellmine (S-mine) anche chiamata: “Bouncing Betty”
La luce della luna, sbucando ogni tanto fra le smagliature delle nuvole che correvano veloci sfilacciate dallo scirocco, rischiarava ad intermittenza non prevedibile, la zona, stagliando, ogni volta contro il cielo scuro, ma non del tutto nero, la sagoma della sentinella armata che, alla sommità della collina, faceva la guardia girando fra le varie piazzole della batteria camminando sul basso muretto che le contornava. Noi, inerpicandoci dal di sotto, eravamo nascosti alla sua vista dalle lunghe ombre dei cespuglietti mentre, lei, era visibile ogni volta che ispezionava quelle proprio sopra di noi; raggiunto il sentiero, avanzando carponi, dovevamo innanzi tutto capire dove e com’erano state sotterrate le mine antiuomo, congegni anch’essi a noi sconosciuti. Più tardi scoprimmo che erano scatolette di legno con, appena appoggiato sopra, un coperchio mobile e imbottite d’esplosivo; pigiando inavvertitamente con il piede sul coperchio, questi si rincalcava sulla scatola sfilando la sicurezza che tratteneva la molla con il percussore che, colpendo il detonatore, innescava l’esplosione.
Mine tedesche: Tellermine 29
Camminavamo gattonando in fila indiana; il primo sondava con un bastoncino di legno il tratturo antistante nel tentativo di scoprire almeno un po’ di terreno smosso; al primo indizio, scavammo con delicatezza e vedemmo che avevano sotterrata quella mina vicina al ciglio esterno dello stretto percorso, mentre, al centro, la terra appariva compatta; lentamente, con le mani la dissotterrammo scoperchiandola, così da evitarci brutte sorprese in caso d’inavvertita pressione.
Chi la scavò la passò, aperta, a chi lo seguiva e, da questi, una volta neutralizzato il percussore-detonatore, al terzo che doveva riporla in un sacco. Riprendemmo, sempre acquattati, a ricercare la seconda; impresa non facile per chi, come noi, non aveva la più pallida idea di come le avessero dislocate. Bisognava, ad ogni bagliore di luna, individuare altra terra smossa, prima di poter avanzare o appoggiare le mani su un territorio così infído; occorreva anche controllare che la sentinella non ci scorgesse, ogni qual volta il suo ripetitivo giro di ronda la portava sopra di noi.
Finalmente ecco la seconda mina; era occultata alla base della scarpata, dalla parte opposta della prima, sul lato verso monte del sentiero, ma mezzo passo più avanti della prima trovata; fu facile poi scoprire lo schema perché le avevano seppellite a scacchiera lungo i lati del percorso, distanziate dello spazio di un normale passo, lasciando invece accessibile il centro. Trovata la chiave, proseguimmo estraendo la terza e poi la quarta; la quinta, nel passarcela di mano, sfuggì alla presa.
Trattenemmo il fiato mentre la scatoletta, per fortuna senza più il coperchio che, rotolando, avrebbe potuto far scattare il percussore nel bel mezzo di un campo minato, ruzzolava balzellando lungo la scarpata. Morti di paura ad ogni suo cozzare contro un ostacolo, la seguivamo senza neppure più respirare; finalmente si fermò e, tutto quello che a noi sembrò un trambusto, non fu avvertito dalla sentinella che si trovava in quel momento, evidentemente, dalla parte opposta. Senza parlarci ma con gli occhi dilatati, decidemmo di abbandonare l’impresa e, quatti quatti, tornare a casa.
Finita la guerra, solo vedendo i film sui marines intuimmo il perché di quell’inspiegabile posizionamento; vedemmo che abitualmente avanzavano in fila, camminando sui cigli, così da lasciar sgombra la corsia centrale per usi di servizio ed, in oltre, in caso d’attacco aereo era più facile sottrarvisi, buttandosi al riparo delle scarpate, piuttosto che rimanere facile bersaglio, visibile a centro strada.
Naturalmente, come capita ai ragazzi, una volta che scoprimmo il “giochino” ne scemò anche l’interesse e non vi ritornammo più; la paura del pericolo scampato non c’influenzò più di tanto, perché solo ora ne capiamo il vero rischio di quello che, all’epoca, ci sembrava un eccitante gioco.
Per fortuna gli alleati non aspettarono il nostro contributo per venirci a liberare.
Nel frattempo, eravamo agli inizi del ’44, alla Lavagnina e dintorni, molti ragazzi genovesi in età di leva, vi si rifugiarono per non partire per il fronte, essendo voce comune che la guerra, ormai definitiva persa, da lì a poco, sarebbe finita; l’idea di <resistenza > venne dopo, anche se proprio in quel periodo iniziarono a coagularsi le Brigate partigiane, che capitanate da ex ufficiali dell’esercito italiano cominciarono a darsi un’organizzazione, collegandosi con gli alleati.
La presenza in zona di sempre più numerosi “renitenti” che i nazisti chiamavano “banditi”, non passò inosservato ai tedeschi sino a che, un brutto giorno, una nutrita autocolonna risalì quelle strade, non più accompagnata da comprensivi Carabinieri ma, questa volta, spalleggiata dalle squallide Brigate Nere con il compito di fare piazza pulita di tutti quei giovani disarmati. Fu una carneficina; un folto gruppo fu tradito dal fanciullesco attaccamento ad un cagnolino randagio, che, adottatolo, portarono con loro a nascondersi nel buio delle gallerie delle miniere d’oro, i cui lavori, ripresi da mio padre, erano nuovamente sospesi per il precipitare degli eventi. Al vociare dei perlustratori, il bastardino iniziò ad abbaiare, tradendo il gruppo. Nessuno si salvò.
Un altro, studente di medicina all’Università di Genova, fu ferito in un bosco, di là del fiume, proprio davanti a Cravaria e lì dovette morire dissanguato, fra lamenti strazianti, perché fu proibito ai contadini di portargli soccorso; la prima a scoprirlo fu un'anziana pia donna, tale fu davvero la pietosa signora Volpe, che sino a che il giovane era in vita, nonostante le lacrimevoli perorazioni, non riuscì ad impietosire il responsabile di quella carneficina. Solo quando, dopo quarant’otto ore, la voce non si avvertì più, le fu concesso di avvicinarsi al corpo di quel martire che, a furia di sfregare la nuca a destra e sinistra per il dolore, aveva lasciato nel terreno un incavo.
Mi piace pensare, e questo ho sempre detto ai miei figli, che anche da quella piccola cavità, sia germogliato l’albero della nostra libertà.
Dovettero passare molti anni per non sentire più, nelle notti di vento, quelle strazianti invocazioni di soccorso, inutilmente emesse da un giovane, non ancora ventenne, rimasto anonimo e che non accettava una morte così atroce ed inutile.
7.4.1944 - Qui furono fucilati i martiri della Benedicta (Genova)
Tutti quei giovani, anche quelli i cui nomi non sono incisi nel marmo, ma che egualmente caddero, sparpagliati, nelle zone vicine, sono e debbono essere accomunati con i <Martiri della Benedicta >.
Ogni qual volta ritorno in quella vallata salendo da Lerma, fermo la macchina poco più avanti del bivio con Casaleggio e, nel silenzio di quei luoghi non frequentati, nell'ascoltare dall’alto lo sciacquio del sottostante torrente Lavagnina, penso a quanto scrisse il poeta Edoardo Firpo né <Ai Martiri di Crovasco >
………………………………
Ma in ta gran paxe di monti
se sente l’eco de l’aegua
lontan ch’a-i ciamma, ch’a-i ciamma.
Libera Traduzione: ■ Ma nella gran pace dei monti si sente l’eco dell’acqua lontana che li chiama, che li chiama.
In quel periodo, noi tre, sempre più affiatati, eravamo consapevoli di appartenere alla medesima “banda”; nonostante imbevuti di spirito patriottico che, come Balilla, c’era stato inculcato il senso dell’onore e della patria, come per tutti i ragazzi, la libera “banda” d’appartenenza, era cosa più importante. Certo una mano ad alimentare il nostro disincanto ce la davano, senza saperlo, anche i famigliari, evidenziando gli errori che commetteva chi governava l’Italia in quei tempi.
Il termine <partigiano > cominciò a circolare poco dopo, anche se loro, per i nazisti e per i residui fascisti erano ricercati, lo abbiamo già visto, come <banditi>; a noi, tali non parevano e fu quindi naturale che il nostro giovanile spirito di contraddizione ce li facesse, al di là delle nostre convinzioni, ammirare; decidemmo di stare con loro visto che molti di loro erano nostri amici anche se un po’ più anziani di me. La ricostituzione dell’esercito italiano dopo l’otto Settembre, avvenne al Nord, sotto il pungolo e il controllo nazista che, allo scopo, manovrava i fascisti aderenti alla appena inventata Repubblica di Salò; crearono reggimenti che, almeno nel nome, usurpavano pagine di gloriose eroiche epopee passate, nella vana speranza di accattivarsi le simpatie del popolo. Ricostituirono così gli alpini, gli assalitori di marina, la X MAS ed, in fine, i bersaglieri.
Contemporaneamente un altro esercito si era ricostituito sotto l’egida alleata e capitanato dai vecchi comandanti, iniziò, al fianco di quelli, a risalire l’Italia per liberarla. Di loro e di tutti i loro morti, la strumentalizzata propaganda del dopoguerra non ne parla mai, così come non menziona mai i seicentomila militari italiani lasciatisi marcire nei lager nazisti pur di non aderire al nuovo governo fantoccio che continuamente li blandiva assicurando loro una mendace libertà. E si che gli uni e gli altri sono stati, a tutti gli effetti, combattenti e morti per la nostra libertà, quindi dovrebbero essere commemorati ogni qual volta si parli di Resistenza. Ma si preferisce esaltare chi molto spesso occupò le città solo dopo che i tedeschi occupanti se ne erano andati, vedi Genova e Milano.
Al confine fra Prà e Pegli, nella grande area delle ex ferriere Ratto, poi divenuta ILVA, c’erano dei capannoni abbandonati con un gran piazzale che li univa, attraversato e servito da binari dell'abbandonata rete ferroviaria interna che, un tempo, collegava il vicino pontile sul mare cui attraccavano i battelli che fornivano il minerale ferroso, alle fonderie e, da queste, alla rete ferroviaria nazionale. Queste peculiarità fecero sì che tutti gli eserciti che si sono succeduti, utilizzassero il sito come prima zona d'accorpamento e successivo smistamento. Iniziarono i tedeschi che la occuparono in forze così come fecero con il resto dell’Italia non ancora liberata dagli alleati; poi, ricostruito l’esercito italiano fantasma, vi acquartierarono i giovani di leva, chiamati a difendere il nuovo regime, ma che non avevano però pienamente aderito da poter essere inquadrati fra le forze fasciste, tipo Brigate Nere o Muti. A loro bastava non essere considerati renitenti.
Furono accorpati in un raccogliticcio reggimento di bersaglieri e, proprio lì, completavano il loro addestramento; n'approfittarono anche per utilizzarli, come comparse, in documentari cinematografici che il regime faceva “girare” nei boschetti di Villa Doria a Pegli, ambientandovi improbabili azioni anti-partigiane che, distribuiti nelle sale cinematografiche sotto il loro controllo, dovevano figurare essere avvenute sul serio e in montagna.
Quando toccò il turno degli Alleati, anche loro la requisirono per mettervi a riposare, nell'attesa d'ordini, i loro uomini stanchi del fronte. Noi della “banda”, a quel tempo, abitavamo in quella che era stata una vecchia masseria dei Marchesi Cambiaso, proprio al di qua del muro di cinta di quel piazzale e non potevamo quindi che subire l’influenza e il fascino di tanta variegata umanità in divisa.
Carro Leggero Italiano L6/40
Durante l’occupazione dei bersaglieri e della Wehrmacht, quel parco ferroviario con annesse officine, divenne luogo ove raggruppare per effettuare riparazioni e manutenzione, treni ricolmi di mezzi cingolati avariati sui vari fronti; un giorno arrivò un convoglio stracolmo di carri armati leggeri italiani, nuovi di fabbrica, con la tipica mimetizzazione da utilizzarsi nella guerra d’Africa; peccato però che nel frattempo l’avevamo già persa unitamente al Sud e al Centro d’Italia.
Di notte il treno era minuziosamente sorvegliato mentre, di giorno, vista la contemporanea presenza di tanti militari, aveva fatto ritenere superfluo un tale impegno. Nell’ora del rancio, mio cugino Franco, senza avvisarci, salì su di un vagone, s’infilò nel carro armato più vicino al gran cancello in disuso, arrugginito, rabberciato e utilizzato solo raramente come uscita d’emergenza dei treni. E’ poi rimasto un mistero come, lui ragazzino, possa essere riuscito, ci disse di essersi aiutato utilizzando gli attrezzi in dotazione al carro trovati all’interno, a smontare e trascinare fuori la mitragliatrice che affiancava il cannone, il cui peso è elevato; basti pensare alla canna esterna che, per proteggerla dalle armi nemiche, era costruita con esuberanza di acciaio. A cose fatte ci venne a chiamare e, poco prima del coprifuoco, allora ormai in vigore, andammo a prelevare l’arma da lui sommariamente nascosta, per riporla nel nostro nascondiglio segreto che, ben presto, si riempì d’armi d’ogni tipo, tutte sottratte a quello che, nel frattempo, era divenuto il nemico della nostra “banda”.
Tutta quest'attività non poteva poi che sfociare nelle Squadre d'Azione Partigiana, nel frattempo formatesi e operanti in Città in appoggio coordinato con i partigiani sui monti; l’unico rammarico fu che, solo mio fratello, il più anziano dei tre, fu accolto nel locale 334 Brigata Partigiana di Prà. La nostra “banda” però continuò ad operare come prima ma, adesso, fiancheggiando chi si era prefissata un’azione orientata al bene comune; questa decisione ci diede la prima vera responsabilità.
Senza saperlo avevamo dato l’addio al ragazzino che ormai non era più in noi.
RENZO BAGNASCO
Rapallo, 4 Maggio 2015
TRE FISCHI PER IL VECCHIO MARINAIO
TRE FISCHI PER IL VECCHIO MARINAIO
Passaggio sottocosta a Camogli
Nota: La foto mi è stata gentilmente donata dall’amico “Poeta”Andrea Bodrati (aveva il negozio di alimentari sul piazzale del boschetto), con la seguente dedica A Mario :
"La foto di un mare calmo in cui giocavi da bambino; poi hai dovuto confrontarti con le sfide degli oceani ! Andrea".
Riporto questo articolo scritto sul Secolo XIX, il 20 agosto 2000, dalla Sig.ra Tina Leali Rizzi di Camogli, quando i passaggi delle navi sotto costa erano considerati tradizione marinara.
Camogli. Era una bella tradizione, quella dei comandanti camogliesi, quella di passare con le navi a salutare i vecchi marinai (marinai – Capitani e macchinisti navali) ospitati nella casa di riposo sul mare. Tre fischi dalla nave che passava “rasente” agli scogli grazie ad una perfetta conoscenza dei fondali, mentre sul pennone della terrazza delle casa di riposo i vecchi marinai commossi alzavano la bandiera. A mantenere viva la tradizione è il comandante Mario Terenzio Palombo, camogliese. Domenica uscendo dal porto di Genova ha puntato su Camogli con la splendida Costa Victoria per un omaggio alla cittadina e un saluto al suo anziano padre Francesco “Cechino”, 93 anni, ospite della casa dei marinai. La nave, imponente e maestosa, dopo i tre fischi di saluto si è fermata vicinissima, per poi ripartire lentamente, dopo altri tre fischi, tra lo stupore di tutti.
CSLC Mario Terenzio PALOMBO
Rapallo, 23 Febbraio 2015
CAMOGLINI, uomini di mare
CAMOGLINI, uomini di mare
Così, come il vecchio sagrestano che, per eccessiva familiarità ormai non si genuflette più passando davanti all’altare, altrettanto capitava ai genovesi che, eterni dirimpettai del mare, raramente si lasciavano irretire dall’esotica, suadente pubblicità delle crociere; e pensare che, all’epoca, la più grande Compagnia specializzata nel ramo era genovese ed aveva sede proprio a Genova.
Mia moglie ed io invece ce ne lasciammo tentare; felice scelta. Ci fece scoprire e gustare un mare sino allora insolito; era la crociera di fine d‘anno che, passato in navigazione quando i figli sono ormai grandi, ti fa rivivere tempi e ritmi dimenticati, fugando immancabili malinconie.
Per il pranzo del primo dell’anno eravamo ospiti del Comandante, genovese D.O.C.; attraverso i velari delle vetrate della grande sala da pranzo, s’intravedeva una fredda ma soleggiata giornata illuminare il mare piatto e lucido, quasi fosse mercurio.
In tavola caviale, salmone e certamente a seguire, da quanto l’inizio lasciava intuire, ogni ben di Dio; la garrula signora del tavolo accanto disquisiva, con quella sua voce penetrante, sulla temperatura di servizio del caviale e del “bouquet” dello champagne che lo accompagnava.
Occupammo i nostri posti e il cameriere, garbatamente, accompagnò la poltrona mentre mi accingevo a sedermi di fronte al Comandante; non so perché ma, per un attimo pensai, “metto i piedi sotto la tavola” e, con il poeta Vito Elio Petrucci, anch’io pensai:
E gambe sott’ä töa
euggi che rïan in gïo:
derrùe o mondo che mi l’ammio.
Libera traduzione; Le gambe sotto alla tavola occhi che ridono in giro: crolli il mondo che io lo sto a guardare.
Inaspettata, una rasoiata di sole s'infilò fra le tende appena discoste e il suo riflettersi nel piatto, mi abbacinò; quel lampo, mentre ancora cercavo di capire il perché quella frase mi fosse affiorata proprio in quel momento, m'illuminò un ricordo legato al mare.
Il Santuario della Madonna del Boschetto
A Camogli ho conosciuto un Comandante, forse l’ultimo cresciuto e vissuto all’antica perché aveva imparato l'abbecedario del mare facendo il mozzo sugli ultimi velieri e, anche lui, come tutti i camoglini, era devoto alla Madonna del Boschetto. Anticamente quella Vergine, per loro, non era solo la Regina dei Mari ma anche una “socia”; e che socia!
Fu proprio in questa cittadina che nacque il moderno concetto di multiproprietà; allora fu inventato per permettere alla marineria locale di trovare i soldi necessari per costruirsi e gestirsi i propri vascelli. Il piccolo paese, dalle scarse risorse e dai bassi redditi, non avrebbe mai potuto, contrariamente a Genova dove poche, ricche casate, erano le vere proprietarie dell’intera flotta della Repubblica, permettersi di possedere velieri. Con questo marchingegno finanziario invece, riuscirono a costruirsi bastimenti a vela, contando sull’autofinanziamento reperito fra più persone che si univano per sostenerne gli oneri, con la prospettiva di dividersene gli utili.
Basti pensare che con questo sistema di finanziamento, nella seconda parte dell’ottocento, la flotta camoglina registrata poteva contare su oltre 800 velieri, escludendo i grossi Leudi e le Bilancelle.
Ognuno poteva partecipare comprando quote dette “carati” da un unico soggetto responsabile: l’armatore. Ogni carato corrispondeva alla ventiquattresima parte del valore del vascello ma, a loro volta i carati erano cedibili dividendoli per due, quattro e così via, in modo da permettere anche a molti piccoli risparmiatori di partecipare. Per snellire la gestione ed avere la rappresentatività anche delle piccole parti che altrimenti avrebbero potuto intralciarne l’operare, abbiamo visto che, inizialmente, la totalità dei carati interi veniva sottoscritta da un armatore che ne rispondeva quale responsabile unico ma, a sua volta, suddividendoli nel modo sopra detto, li rivendeva a tanti che da lui si facevano rappresentare. Ancora oggi questo “modus operandi” ha fatto la fortuna di armatori coraggiosi ma con poche sostanze personali da impegnare.
Un’ulteriore peculiarità, tutta camoglina, consisteva nell'accattivarsi la benevolenza divina, indispensabile a quei tempi per chi andava per mare, devolvendo una delle tante carature alla Madonna del Boschetto. Per evidenti ragioni pratiche, quel carato era consegnato al Parroco “pro tempore”, identificando in lui il legale rappresentante della Vergine…. quantomeno in quel di Camogli e limitatamente a quel frangente.
A quest’ultima insolita compartecipazione, molti concorrenti dell’epoca attribuivano le leggendarie fortune dei marittimi del borgo; senza voler sminuire l’intervento soprannaturale, questo vincolarsi l'uno all’altro, senza perciò farsi concorrenza ma anzi agendo come una sola flotta, fece la loro fortuna.
Si potevano possedere carati di più navi, come pure partecipare in molte iniziative; tutti erano interessati al buon esito, a cominciare dagli stessi Comandanti che, a loro volta, spesso erano comproprietari del vascello di cui erano al comando e, contemporaneamente, anche di altri che navigavano per i mari sotto il comando di colleghi camoglini. Sempre con lo stesso principio crearono anche un sistema di copertura assicurativa, che poi verrà ripresa dai mitici Lloyd’s di Londra.
Di Camogli e della sua flotta ce ne parla il poeta Nicolò Bacigalupo (1837 – 1904) nella sua <Camogli>
Camogli, bella naiade accuegâ
Coi pê in te l’aegua e a testa sotto i pin,
Che ombrezzan dal’artùa de Portofin
A valle dove ti te spegi in mâ,
Ricca e bella t’han reiso i brigantin
Che andavan da-o to porto a caregâ
O carbon, che ò t’ha faetro guadagnâ
Di milioni adreitùa de cavorin.
………………………………..
Libera traduzione: Camogli, bella naiade sdraiata con i piedi nell’acqua e la testa sotto i pini che ti fanno ombra dall’altura di Portofino sino a valle dove ti specchi in mare, ■ ricca e bella t’hanno resa i brigantini che andavano dal tuo porto a caricare carbone, che ti ha fatto guadagnare milioni, addirittura in pezzi da due lire.
L’attuale Stemma di Genova
A Genova invece, l’abbiamo visto, ciascuna delle potenti famiglie in eterna lite l’una contro le altre, possedeva le proprie navi, poi passate alla storia come la <flotta della Repubblica >; ma non era per nulla così. Ogni qual volta si riteneva necessario che una flotta di Genova dovesse combattere un nemico comune, in genere un concorrente commerciale, si riunivano le famiglie più importanti, che erano poi le più interessate e, allestite e armate le proprie navi per la guerra, provvedevano alla bisogna sotto un unico gonfalone, quello della Repubblica di Genova affidando il comando ad un solo capo responsabile; prima di farlo però ottenevano il beneplacito e la garanzia della rifusione dei costi, dal Senato della Repubblica, guarda caso anch’esso formato da membri delle stesse famiglie dominanti.
L’aver invece cointeressato anche il comandante alle fortune della nave posta sotto il suo comando fece sì che, quelli di Camogli più d’ogni altro, agissero sempre portando a termine ciascuna intrapresa, badando primariamente al bene del battello nel quale avevano investito anche il loro personale patrimonio; non a caso erano stimati e apprezzati in tutti i porti del Mediterraneo.
Torniamo però a “quell’ultimo” Comandante da me conosciuto; di taglia robusta, eterno signorino, era cresciuto sul mare avendo avuto come maestri, ai quali seppe carpire i più remoti segreti, gente del livello degli Schiaffino, i Ferrari o i Mortola, veri e propri miti della marineria locale. Dal diverso “arzillo” dell’aria o dall’umidità che avvertiva nei capelli, prevedeva infallibilmente il tempo del giorno dopo, cognizione indispensabile per non trovarsi, impreparati, in mezzo ai guai anche se ormai non si navigava più con i velieri.
Appena finita la guerra, comandava le petroliere quando il trasporto dell’oro nero dava utili inimmaginabili; era noto perché, ogni primavera e sempre in anticipo sugli altri, inaugurava la rotta artica. Infilava la sua prua fra le crepe che l’iniziale disgelo apre nella banchisa che ricopre, per mesi, il mare del Nord, risparmiando preziose giornate di viaggio fra oriente e occidente, a discapito della concorrenza che quella rotta non osava ancora solcare. Una vera fortuna per i suoi armatori che, nel tempo, gli rimasero sempre fedeli, cosa insolita in un'epoca in cui, offrendo di più, si cercava di accaparrarsi i Comandanti migliori sulla piazza perché, i più validi, erano purtroppo defunti nell’ultima guerra da poco terminata. Logico quindi che lo coccolassero come fosse una prima genitura dalla salute cagionevole e, ogni suo eventuale capriccio, era da loro esaudito; ma lui di "capricci" non ne fece mai.
Una sola debolezza lo rendeva irrazionale; quando, dopo mesi di navigazione senza sbarcare per più di un giorno, non potendone proprio più, inviava agli armatori il solito telegramma con il quale li avvisava, appunto, di <non poterne più >. Al primo porto concordato, puntuale come un orologio svizzero, non a caso i suoi armatori erano per l’appunto elvetici, c’era ad attenderlo il supplente e lui, a costo di trasvolare tre quarti del globo, tornava diritto a Camogli. Certamente, anche lui, si sarebbe ritrovato nella poesia di Vito Elio Petrucci intitolata <Se no ghe fïse > dove, meglio di ogni altro poeta, ha saputo descrivere l’amore viscerale che lega i genovesi alla loro terra:
Se no ghe fïse un ciaeo,
se no ghe fïse lunn-a e manco stelle,
s’avesse i euggi bindae a ancon serrae
comm un figgieu in nascion;
e fïse a-o largo con un mâ de ciappa,
sensa ‘na bava d’äia;
se mettesse o mae cheu in sce’n timon
mì m’attrovièva a-a Foxe
Libera traduzione : Se non ci fosse un lume, se non ci fosse la luna e neppure le stelle, se avessi gli occhi bendati o ancora chiusi come un bimbo quando nasce; ■ e fossi al largo con un mare piatto, senza un filo d’aria; ■ se mettessi il mio cuore sopra un timone mi troverei alla Foce. (la foce del Bisagno, primitivo porto di Genova.)
A qualunque ora arrivasse, abbracciata la madre che sempre più invecchiava ma ogni volta, come quand’era ragazzo, qualcosa da lagnarsi aveva sempre, andava alla vecchia Manuelina (non ancora nel luogo del nuovo ristorante che oggi onora Recco, né era altrettanto famosa) in allora gestito dalla prima proprietaria, capostipite della famiglia, una sempre disponibile e tollerante matura “Sporcacciona”, dal soprannome che nei vecchi borghi si appioppava con tanta incosciente facilità.
Lì saziava la sua nostalgia degli aromi che gli avevano profumato l’infanzia, le sue uniche irrinunciabili radici. Era un formidabile mangiatore, come oggi se ne vedono sempre meno, che non ha mai sofferto di mal di testa né tanto meno di pesantezza allo stomaco. Molte volte, noi giovani nottambuli, finivamo le nostre serate ritrovandoci, a tarda ora ma sarebbe più corretto dire sulle prime del giorno dopo, nella stessa, tollerante, trattoria; a volte lo incrociavamo mentre usciva per rincasare e allora, regolarmente, rientrava unendosi al nostro gruppo per ricominciare a cenare sino a che, alla fine, si usciva tutti quando il chiarore iniziava ad illuminare le ultime nicchie scure della notte nel sottostante torrente Recco.
Così trascorreva il suo tempo a terra da “sbarcato” ma, giorno dopo giorno, ci avvedevamo delle sue crescenti manifestazioni d’insofferente irrequietezza, lo stesso stimolo che in precedenza lo aveva indotto a sbarcare. Il suo potere a bordo, monarca assoluto, qui non gli era riconosciuto e tutte le nostre quotidiane vessazioni, per lui divenivano insopportabili; era costretto perfino ad attendere il suo turno, in fila, prima di essere servito nei negozi. Era intollerabilmente troppo e così, come i primi sintomi ci avevano lasciato presagire, inviava un altro telegramma, questa volta per segnalare la sua ritrovata disponibilità; e subito, in qualche parte del globo, gli restituivano il comando.
Al momento dell’ultimo tradizionale brindisi conviviale, sapevamo che per molti mesi non lo avremmo più rivisto ma, di una cosa eravamo certi: il mezzogiorno di Natale, ogni anno, fermava le eliche in qualunque mare si trovasse, perché tutti dovevano pranzare “da fermi e con i piedi sotto la tavola, come dei veri cristiani”. Lui, già dal primo mattino era sceso nelle cucine e aveva preparato, personalmente, i ravioli misti alla genovese, perpetuando la tradizione del Natale, nel modo che suo padre gli insegnò; quello doveva essere <giorno dell’uomo, non delle macchine >
Altra figura camoglina, oggi scomparsa, era il “Comandante”, dal soprannome che lo individuava ma che in realtà, questo grado, mai volle raggiungere, per sua scelta.
A detta di chi lo conosceva bene, era il miglior “Secondo” che un comandante potesse desiderare perché tutti i porti del mondo, il mare, lo stivaggio, l’equipaggio, per lui non avevano segreti; li conosceva a memoria come l’<Angelo di Dio >.
Sempre gioviale, era fisicamente una specie di tenente Kojak, ma grande e grosso il doppio o, forse meglio, un’incarnazione di <Poldo mangiapanini > dei cartoons, ma senza i caratteristici baffi.
Omone dai modi un po’ affettati, più familiari ad un Commissario di bordo che non ad un graduato di coperta, specie su una nave mercantile, ha vissuto con l’incubo di passare “Comandante”, riconoscimento che l’età e il curriculum ampiamente meritavano. Non avrebbe retto alla responsabilità diretta che il grado, e lo stipendio, comportavano, anche se in pratica, a bordo, in più di un’occasione si comportò come se lo fosse perché, lo abbiamo già visto, a quei tempi circolavano certi Comandanti che solo la moría bellica dei migliori, aveva promosso a quell’immeritato ruolo. La responsabilità totale, quella che solo in mare spetta a chi comanda, lo terrorizzava; il sapere che un altro, per contratto, se l’era assunta, lo rendeva deciso, scaltro, coraggioso e accorto.
Un brutto giorno o, meglio, una brutta notte, chi n’aveva il ruolo, spirò senza lasciargli alternativa alcuna; vittima di un secco infarto che, con il fulmineo arrivo e la subitanea dipartita, si portò via, oltre all’anima del comandante di ruolo, anche la tranquillità del nostro amico. Lui, novello Cireneo, si trovò a farsi carico di condurre la nave al porto più vicino programmato e, raggiuntolo, si sbarcò con effetto immediato, nonostante l’armatore lo blandisse con un'alettante offerta.
Traumatizzato, si rifugiò a Camogli per riprendersi dallo shock patito e la cosa durò alcuni anni. Era continuamente sollecitato da chi ricercava gente in gamba, onesta e di provata perizia ma, ogni profferta, era per lui come se una mano sadica gli rigirasse un coltello arrugginito in una piaga ancora sanguinante; dopo qualche anno, ormai uscito dal giro, gli capitò l’occasione d’imbarcarsi nel suo ruolo “naturale” di Secondo e partì da Camogli. L’età non era certo più compatibile con il grado, ma lui, entusiasta come lo fu al suo primo imbarco da <Allievo di prima nomina >, partì dopo averci invitati, la sera prima, tutti dalla solita Manuelina.
Anche lui era una formidabile forchetta e, durante il convivio, gli piaceva parlare delle molte cucine che, per il mondo, aveva avuto la ventura di assaporare; affascinante affabulatore, con quella sua voce baritonale, trasformava il locale in cui era nel ponte dei cannoni, in piena battaglia di Trafalgar.
Durante l’ultima guerra questo suo timbro da bombarda gli servì per sovrastare il frastuono di una taverna nel porto di Buenos Aires, all’epoca territorio neutrale. Un’orchestrina, a pagamento, suonava le canzoni richieste dal miglior offerente.
Capita sovente ai marinai che per tanto tempo stanno lontani da casa di ricercare il “calore” nell’alcool o nelle facili avventure; lo stesso accadde al Nostro quando, prima inconsciamente poi dando al gioco valore di sfida, si trovò a competere con altri per far suonare la propria canzone del cuore.
A mano a mano che la posta aumentava per la ripicca di qualcuno, uno dopo l’altro i vari concorrenti rappresentanti mezzo mondo, da giocatori si tiravano fuori, divenendo spettatori; lui si ritrovò da solo a fronteggiare un gruppo di marinai americani, unici, irriducibili concorrenti. I vari perdenti avrebbero potuto far proprie nei suoi confronti le parole che Plinio scrisse a proposito della conquista della Liguria < difficilius erat invenire quam vincere >.
D’altra parte, sulla puntigliosità ligure, il Nostro aveva precedenti assai più illustri in Genova.
La Basilica di Carignano, quella le cui inconfondibili cupole dominano il cuore della Città ben visibili da chi vi giunge dall’autostrada e percorre la Sopraelevata, è opera cinquecentesca dell’Alessi, da sempre Cappella privata, gestita dalla Curia, ma non di sua proprietà. L’opera sorse a seguito di una motivazione, quantomeno, inusitata. Questa monumentale Chiesa fu il frutto di una ripicca ad uno sgarbo subito dalla contessa Fieschi quando, una Domenica, inviò un suo servo dai marchesi Sauli nella cui loro Chiesa, Santa Maria in Via Lata lì vicino, la Fieschi si recava abitualmente a santificare la festa, con la richiesta di voler, eccezionalmente per quella mattina, ritardare l’inizio della funzione di mezz’ora perché lei, impegnata, vi sarebbe altrimenti giunta in ritardo; i Sauli, per tutta risposta, le fecero sapere che <Chi vuole dei comodi, se li procuri >. Detto fatto: la risposta fu….. l’attuale Basilica di Carignano.
Immaginarsi quindi il Nostro davanti ai continui “rilanci” degli americani; lui offriva lire, moneta dei perdenti e quelli, dollari dei vincitori. Si dissanguò bruciandosi l’intero ingaggio del viaggio ma, alle prime luci dell’alba l’orchestra intonò, quale canzone vincente di quella notte brava, la sua < Ma se ghe penso >.
Lui aveva vinto mentre noi, dall’altra parte del mondo, stavamo definitivamente perdendo.
Questi erano i marinai di un tempo, aperti al mondo ma legati come bambini cocciuti alla loro casa, l’unica che riconoscevano come vera patria.
RENZO BAGNASCO
Rapallo, 10 Febbraio 2015
NOLI - Repubblica Marinara dal 1192 al 1797
NOLI
REPUBBLICA MARINARA DAL 1192 AL 1797
Alla scoperta di un piccolo angolo di medioevo sull'antico mare della Liguria
Il primo incontro con la cittadina di NOLI, in provincia di Savona, risale al mio primo viaggio da allievo Ufficiale di coperta su una petroliera, ed avvenne tramite un giovane 3° Macchinista nativo di quella Repubblica Marinara Minore. All’epoca la mia testa era piena di punti nave, “rette d’altezza”, caricazioni di “crude oil” in Golfo Persico e scaricazioni del medesimo, per ben sei volte, nei porti del Giappone. Ascoltavo con finto interesse il glorioso racconto del passato di Noli, che però registravo in qualche cellula della mia mente ripromettendomi di verificare a tempo debito quelle notizie che, per la verità, mi sembravano un po’ esagerate. Tuttavia, dopo averne ammirato più volte, soltanto di passaggio, la golfata, i castelli e la bella passeggiata a mare, venne il giorno che decisi di fare una gita proprio a Noli.
Prendendo le sembianze di un turista qualunque, mi armo di macchina fotografica e di una valida “guida” del Touring che consulto prima di addentrarmi nel centro storico.
“Il termine Repubbliche Marinare venne attribuito tra il X e il XIII secolo a quattro città costiere italiane: Amalfi, Pisa, Genova e Venezia, poiché le flotte di queste città dominarono nei commerci l'intero Mediterraneo. Questo titolo però venne anche assegnato ad altre città quali Ravenna, Comacchio, Noli, Gaeta, Palermo e Brindisi. Le Repubbliche marinare rappresentano una variante alla civiltà comunale dove i mercanti istituirono le prime forze economiche di capitalismo: coniarono monete d'oro, misero a punto nuovi generi di trattative, brevettarono nuovi sistemi di contabilità e incentivarono progressi nella navigazione”.
Il mio amico Piero aveva ragione! E voi avete capito bene! Noli é quel Comune di 2.797 abitanti in provincia di Savona che dal 1192 al 1797 fu capitale della Repubblica omonima che ebbe forti legami con la Repubblica di Genova. Continuo a documentarmi: Le antiche pergamene conservate nell’Archivio storico del Comune di Noli comprovano, insieme alle altre vicende storiche della Repubblica, anche i trattati di alleanza stipulati con Genova dai quali emerge chiaramente che Noli, già dal 1202, fu sempre “alleata paritaria” e mai “succube” della Repubblica genovese.
Noli, tuttavia, vanta origini blasonate ben più lontane. Antico centro dei Liguri, fu municipio in Epoca Romana . Nel Medioevo collezionò botte e occupazioni provenienti da ogni direzione: fu base Bizantina . I Longobardi la distrussero nel 641 fu dominio anche dei Franchi di Carlo Magno. Allo smembramento dell'Impero Carolingio fu inserita, assieme alla vicina Varigotti, nei possedimenti della Marca Alemarica e della famiglia Del Carretto, del ramo di Savona. La gloriosa storia di Noli iniziò alla fine del primo millennio quando divenne compartimento di una notevole flotta e quindi un importante centro marinaro. Diventò famosa quando prese parte alla Prima Crociata nel 1099 ricevendo privilegi politici, ma soprattutto commerciali, dal re di Gerusalemme Baldovino I, dal signore feudatario Boemondo I d'Antiochia e da Tancredi di Sicilia.
Noli aveva la fortuna di affacciarsi su un golfo riparato, all’interno del quale le navi del tempo davano fondo l’ancora e facevano operazioni commerciali. Nell’epoca del suo massimo splendore la Repubblica era più vasta e comprendeva anche parti dei vicini territori di Orco, Mallare, Segno e Vado. La potenza e la grandezza di Noli raggiunsero l’apice durante le Crociate e durarono sino alla fine del secolo XIV. Il limite della sua espansione economica fu l’assenza di un vero porto che fosse in grado d’accogliere i traffici del cabotaggio. Fu così che Noli uscì dalle rotte commerciali e cadde nell’isolamento. Da audaci navigatori, avveduti commercianti e persino corsari, i nolesi si trasformarono in pacifici pescatori.
Il suo declino seguì le sorti della Repubblica di Genova, alla quale rimase sempre fedele ricevendone adeguata protezione. Nel 1797 passò sotto la dominazione francese perdendo la propria indipendenza dopo settecento anni di sostanziale libertà.
Panorama della cittadina. Da qualche anno, Noli fa parte dei "Borghi più belli d'Italia".
La Torre Comunale e parte del Palazzo Civico. Alta 33 metri, in pietra verde locale con merli ghibellini. Oggi restano otto case-torri delle 72 originarie. Edificata sul finire del XIII secolo è attigua al palazzo comunale. Pressoché intatta e terminata da merli a coda di rondine, presenta un basamento in pietra verde del luogo e con una parte soprastante in mattoni.
Il Palazzo Comunale, già sede di governo dell’antica Repubblica Marinara di Noli
Inizio il “tour” dalla Loggia della Repubblica, situata a fianco del palazzo del Comune, sotto la quale vi sono delle targhe commemorative di illustri personaggi storici nati nella località o che vi hanno trascorso un periodo della loro vita, come Cristoforo Colombo, Giordano Bruno e Antonio Da Noli.
Di fronte alla loggia si può ammirare una bellissima piazza in cui, con delle piastrelle marmoree, sono rappresentate le bandiere delle Repubbliche Marinare e di Noli che nel decimo secolo era la Quinta Repubblica Marinara.
Sottostante il Palazzo Comunale si trova la Loggia della Repubblica (secc.XIV.XV) con due grandi archi in laterizi che poggiano su una colonna ottagonale con capitello a bugnato tipico della fine del ‘300 - inizi ‘400. Interessanti sono le lapidi infisse nel muro della Loggia stessa, proprio davanti alla porta della prigione bassa o Paraxetto e all’anello di ferro usato per la tortura detta dei tratti di corda. Esse ricordano alcuni uomini illustri che a Noli nacquero o soggiornarono. Da Noli, infatti, passò Dante: “Vassi in San Leo e discendesi in Noli” (Purgatorio IV, 25).
Dalla rada di Noli partì Cristoforo Colombo il 31 maggio 1476 per iniziare, dal Portogallo, il lungo cammino che lo avrebbe portato alla scoperta del Nuovo Mondo. A Noli visse per alcuni mesi, nel 1576, Giordano Bruno insegnando a’ putti la gramatica et legendo la sfera a certi gentilhuomini, prima di morire bruciato come eretico, nel 1600, in Piazza delle Erbe a Roma.
Qui nacque Anton da Noli che scoprì, nel 1460, le isole di Capo Verde.
La Loggia conserva, però, un’altra lapide molto interessante; è la prima a destra verso la Porta di Piazza. Non parla di personaggi ma è l’unico ricordo marmoreo delle ferree leggi che vigevano nella Repubblica.
Poiché nel 1666 gli Antichi Decreti di buon governo, specialmente quelli stabiliti nel 1620 che imponevano, per i forestieri, la sicurezza in cambio del pagamento di 300 scudi, venivano disattesi, il Mag.co Consiglio grande de’ quaranta in legitimo e sufficiente numero congregato deliberava: “Che si facci registrare la sostanza di detto decreto in una pietra marmorea da ponersi ad una delle colonne del pubblico Palazzo, affinché in l’avvenire si tenghi in viridi osservanza, e ogn’uno sappia quello che converrà fare e si guardi bene a non contravenire.”
Questo editto si trova ora infisso sotto la Loggia a perenne ricordo! (Gandoglia, op. cit., pp. 279-280
Al termine di via Sartorio, la vecchia linea ferroviaria che attraversava Noli, ha risparmiato l’unica grande Torre ancora alta fino alla sommità, la Torre del Canto, o dei “Quattro Canti”. così denominata perché situata nel centro geometrico della città e all’angolo della via proveniente da monte. Essa è curiosamente trapezoidale e non quadrata, ed è forse la più antica fra quelle conservate, avendo ancora abbondanza di elementi romanici e poche aperture in alto ...”
L'alta torre è a forma trapezoidale con fusto compatto e con rade aperture in stile romanico nella parte bassa.
La chiesa di San Paragorio, prima cattedrale di Noli
Lasciando la piazza e proseguendo per i caratteristici vicoli, si possono raggiungere le varie Chiese del paese, tra cui quella di San Paragorio, dedicata all’omonimo martire giunto a Noli durante il dominio bizantino e che è stata dichiarata monumento nazionale. PRIMA CATTEDRALE DELLA REPUBBLICA S. PARAGORIO
La chiesa, uno dei monumenti protoromanici più importanti della Liguria, sorge fuori dalle mura cittadine ed è circondata da un’area cimiteriale bizantina e altomedievale. Nella sua forma attuale è databile al primo periodo romanico (sec. XI). Gli scavi, avviati nel 1889 da A. D’Andrade, ripresi da N. Lamboglia, fondatore dell’Istituto Internazionale di Studi Liguri, che proseguono tuttora per opera della Sovrintendenza archeologica della Liguria ed hanno evidenziato, sotto l’attuale edificio, la presenza di una chiesa paleocristiana.
Casa Pagliano. Costruita nel XIV secolo e restaurata nel 1906 da Angelo Demarchi, assistente dell'architetto Alfredo d'Andrade, il suo interno fu notevolmente trasformato in tale rivisitazione. L'esterno si presenta come la tipica casa medievale nolese: un basamento in grossi conci in pietra verde locale e con poche aperture e una parte superiore in mattoni con bifore e trifore. Fu sede delll'Ordine dei Cavalieri di Malta.
Torre e Porta Papona delXIII-XIV secolo. Edificata fuori le mura antiche del borgo e collegata, con un arco in mattoni, al camminamento che scende dal Castello di Monte Ursino, l'edificio fu nei secoli deposito di armi e munizioni della Repubblica. Presenta bifore e monofore in stile gotico.
La Porta Papona, munita di porta ferrata, si trovava di fronte alla Torre omonima. Nei tempi della Repubblica aveva grande importanza strategica, in quanto sbarrava l’accesso al Monte Ursino che fu sempre l’estremo rifugio degli abitanti di Noli in caso di assalti nemici. La Torre (secc. XIII - XIV), con monofore e bifore gotiche, è posta appena fuori della prima cinta muraria (secc. XI - XII) ed è collegata, con un arco in mattoni, al camminamento delle mura che scendono dal Castello. La Torre servì come deposito per le armi e le munizioni della Repubblica. Dai libri dei conti, conservati nell’A.S.N., si può ricavare che, nel 1581 “il maistro Francesco Colombo era intento a chiudere li barchoni della Torre di Papone, ove si mettevano in deposito le polveri, armi e munizioni portate col leudo di patron Benedetto Badetto”. La polvere da sparo si comprava in barili sia a Genova che a Toirano “al prezzo medio di lire 10 e mezza il rubbo”
Il castello di Monte Ursino (XII-XIV sec.)
Inoltre non bisogna dimenticare il Castello di Monte Ursino, situato sulla collina e che può essere raggiunto a piedi o in macchina e le torri medievali “sparse” per il paese. Il Castello di Monte Ursino, nella sua forma attuale, risale ai rifacimenti che Genova volle venissero effettuati, nel 1552, dal Capitano Andrea da Bergamo per adeguare torri e mura ai nuovi tipi di armi da combattimento come, ad esempio, bombarde e spingarde che impiegavano la polvere da sparo. il Castello è formato da un recinto poligonale irregolare che racchiude il poderoso maschio circolare; ai lati sono visibili i resti di due torri più recenti. La collina di Monte Ursino racchiude, però, altri “tesori”. “Occorre ricordare che, prima dello sviluppo dell’abitato al piano, nel sec. XII, il primitivo borgo feudale, al riparo del Castello dei Del Carretto, aveva cominciato a svilupparsi sulle ripide pendici del monte e presumibilmente fin sul mare mediante una serie di costruzioni in grandi blocchi, simili alle «casazze» di Calvisio a Finale; di esse restano numerosi avanzi fra le fasce e gli uliveti inclusi nella cinta del sec XIII”
Le pietre antiche di Noli hanno un fascino misterioso cui é difficile sottrarsi, tuttavia ciò che mi ha colpito maggiormente é la storia ancor più misteriosa del suo più importante ed emblematico personaggio: Antonio da Noli.
Il Monumento alle Scoperte venne costruito nel 1960 a Lisbona per commemorare i 500 anni dalla morte di uno dei più famosi personaggi della storia portoghese: Enrico il Navigatore, uno dei più grandi imprenditori di spedizioni marittime di scoperte.
Costruito ai piedi del fiume, nel quartiere di Belém a Lisbona, si distacca per la sua magnificenza: 52 metri d´altezza. L´opera venne disegnata da José Ângelo Cottinelli Telmo e Leopoldo de Almeida e rappresenta una caravella e tutto il gruppo della marina comandato per Enrico il Navigatore che si situa sulla prua della barca in cemento. Dietro di lui e per ordine di importanza, troviamo altri eroi marittimi che collaborarono alle scoperte.
Una delle cose più interessanti del monumento è che si può esplorare nella sua interezza e ci sono sia delle scale che l´ascensore che vi porteranno fino al sesto piano, dove potrete ammirare tutta la costa del fiume e la regione di Belém.
La costruzione ha due lati, ovest ed est, ma visitare il monumento e vederlo da ponente è un´esperienza indimenticabile,dato che il sole aiuta a far prendere quasi vita ai marinai dell´imbarcazione.
Da Noli a Capo Verde
Il più antico documento in cui si riferisce l'origine di Antonio de Noli afferma che era un navigatore «di nazionalità genovese e di sangue nobile». L'origine genovese del navigatore è stata confermata nel manoscritto antico Famiglie di Genova. Antiche, e moderne, estinte, e viventi, Nobili, e populari trovato nel 2008 a Genova, che descrive il navigatore come membro della stessa famiglia di Giacomo de Noli, il quale nel 1315 divenne membro del Consiglio di Genova "XII –Anziani” sotto il governo del doge Nicolò Guarco. In questa fonte è indicato anche che l'origine della riferita famiglia Noli di Genova "si può supponere dalla piccola città o Castello di Noli".
Si sostiene che Antonio de Noli sarebbe nato intorno al 1419, forse a Serra Riccò, dove esiste da tempi antichissimi una frazione con il nome di Noli, oppure a Voltri (nel tempo di Antonio Noli anch'essa facente parte della Repubblica di Genova). In passato, alcuni autori legati alla città di Noli (ad esempio Gandoglia, 1919) hanno dichiarato che il navigatore è nato a Noli, provincia di Savona. Nondimeno, né documenti né prove sono mai stati presentati a sostegno di questa ipotesi. Gli stessi autori hanno usato il nome “Antonio da Noli” (una versione portoghese del nome), dove "da" avrebbe significato "proveniente” dalla Città di Noli.
Il navigatore è detto anche Anton da Noli, e potrebbe essere la stessa persona conosciuta come Antoniotto Usodimare, anche se l'identità fra i due non è accertata, né universalmente riconosciuta. Inoltre, la maggior parte degli storici ha fatto riferimento al navigatore genovese nella letteratura italiana e internazionale come Antonio de Noli.
Nel 1449, per ragioni politiche, partì da Genova insieme al fratello Bartolomeo e al nipote Raffaele, con tre galee di sua proprietà e si recò in Portogallo per ottenere l'appoggio dell'"infante" Enrico il Navigatore, noto finanziatore di esplorazioni. Su mandato di questi, tra il 1456 e il 1460 esplorò le coste atlantiche dell'Africa, spingendosi ad esplorare le Isole Bijagos, il fiume Gambia e le isole del Capo Verde delle quali, secondo alcuni, fu il vero scopritore nel 1460. In questo periodo navigò anche con Alvise Cadamosto, fatto che contribuì a far crescere l'incertezza sulle attribuzioni delle scoperte.
Nel 1462 ottenne dal re Alfonso V il riconoscimento ufficiale di scopritore delle isole, insieme al possesso dell'isola di Santiago (conosciuta dai navigatori anche come "Isola di Antonio"). Qui venne fondata Ribeira Grande, dove il de Noli si stabilì per avviare la colonizzazione delle isole. Nel 1466 ottenne l'autorizzazione di esercitare la tratta degli schiavi africani. Nel 1472 venne nominato governatore delle isole del Capo Verde.
Durante la Guerra di successione castigliana iniziata nel 1475 i castigliani occuparono le isole di Capo Verde. Antonio de Noli inizialmente rimase come governatore, ma dopo fu preso prigioniero e portato in Spagna. I portoghesi non chiesero il rilascio di Antonio de Noli mentre era prigioniero in Spagna. Dopo essere stato liberato nel 1477 per ordine del re Ferdinando di Castiglia, se ne persero definitivamente le tracce. Non è documentato cosa in concreto successe ad Antonio de Noli e la sua sorte dopo il recupero di Capo Verde da parte dei portoghesi. Il navigatore aveva una figlia, Branca Aguiar e fonti portoghesi riportano che qui il navigatore aveva anche un figlio che lo accompagnò poi nelle campagne di Gambia. Manoscritti che si trovano presso la Biblioteca Malatestiana indicano che il figlio sarebbe stato Simone de Antonio Noli Biondi (Simone “figlio de Antonio Noli”), della famiglia "oriunda" che era arrivata a Cesena alla fine del Quattrocento e aveva comprato seggi nel Consiglio di Cesena, pagandoli in oro. La figlia Branca Aguiar era stata sposata con un nobile portoghese (Dom Jorge Correia de Sousa, fidalgo da casa real) e quindi le piantagioni dei de Noli a Capo Verde sarebbero diventate patrimonio della Corona portoghese.
Il nome "Antonio da Noli" è stato dato ad un cacciatorpediniere della Regia Marina italiana (vedi foto) che operò durante la seconda guerra mondiale e ad una nave freight-liner della Società di Navigazione ITALIA di 11.245 TSL in servizio di linea tra Genova e Vancouver via Canale di Panama dal 1972 al 1979.
Nel 2009 è stata fondata a Serra Riccò (Genova) dal professore universitario svedese Marcello Ferrada de Noli la rete di ricerca internazionale Antonio de Noli Academic Society.
Carlo GATTI
Rapallo, 4 Dicembre 2014
Ö DRIA de Pegi: l’Andrea di Pegli
Ö DRIA de Pegi: l’Andrea di Pegli
‘Na nuvia un pö ciù larga,
na giornâ de maccaja
e o cheu ti l’ae in ti pê.
Libera traduzione: Una nuvola un po’ più larga, una giornata di tempo umido e afoso, e il cuore ce l’hai nei piedi.
Questi versi, di Vito Elio Petrucci, ci fanno capire quanto la gente di mare sia sensibile al mutare del tempo.
I vecchi marinai sono sempre riusciti a prevederlo, confortati dalla saggezza dei proverbi che, come tutti gli adagi, sono il filtrato d’antiche esperienze riferite a fatti che, in pari condizioni, si ripetono eguali nel tempo.
Anni fa, a questo riguardo, ho conosciuto un vero fenomeno di nome Andrea; Dria, in dialetto.
Pegli, località che abbiamo visto essere stata sino al 1932 Comune a sé, poi inglobato ad altri per dare vita alla “Grande Genova”, possedeva, fino a pochi decenni fa, le più ampie ma anche le più attrezzate spiagge della Città, rese accoglienti anche da un invidiabile clima tanto che il Graviers, nella sua <Guide de Gênes > del 1837, la definisce <lieu charmant >.
Da prima le frequentarono alcuni regnanti europei con le loro corti, arricchite dagli immancabili cortigiani e, a decrescere anno dopo anno, da prima la nobiltà quindi i grandi industriali, i cui rampolli rappresentavano possibili e ambiti “partiti” per nobili dal nome orecchiabile ma dal patrimonio dilapidato ed, in fine, la solida, oculata e ricca borghesia.
Il parco di Pegli
Al Lido di Pegli c’erano le più ambite spiagge perfettamente attrezzate, protette dalla vista della retrostante ferrovia da un’ininterrotta fila di cabine balneari, l’una a seguire l’altra. Solo il diverso colore dava a capire a quale stabilimento appartenessero; il vasto antistante arenile permetteva di essere arredato con tutte le indispensabili attrezzature.
Ciascun stabilimento aveva la sua classica veranda che facilitava gli incontri, protetta da finestrate decorate con formelle di vetri dalle variopinte trasparenze, disposti a scacchiera secondo la moda dèco dell’epoca; il sole vi filtrava creando atmosfere esotiche.
Sempre lì si potevano gustare piatti locali, preparati alla casalinga, in cucine improvvisate sul retro e, sovente, la giornata finiva con “intrattenimenti danzanti”.
In mare galleggiavano, ancorate al fondale, boe rettangolari di legno colorato come le cabine, raggiungibili a nuoto e, una volta arrivati, con la scusa di riposarsi, possibilmente, cercare di “rimorchiare”; i più bravi si esibivano tuffandosi dai giganteschi trampolini protesi a superare la battigia. Sorretti da grosse ruote che li slanciavano verso l’alto, erano talmente lunghi che la loro punta arrivava sul mare sino a dove è abbastanza profondo da consentire, ai più spericolati, di tuffarsi in armoniosi voli come fossero angeli, fra gli<hoo> d’ammirazione delle signore. In fine le immancabili seggiole a sdraio allineate, quasi pennellate di colore sulla chiara arena che, con il variare del loro cromatismo, segnalavano anch’esse il cambio di stabilimento. Una staccionata colorata, divideva l’uno dall’altro.
In quella zona l’abbondanza di profonde e lunghe spiagge ne decretò il nome; il Lido.
Il mare vi espletava il suo equilibrato apporto di sabbia secondo una millenaria paritetica ripartizione, grazie all’eterno lavoro di ripascimento. Da sempre le burrasche di scirocco prelevavano il materiale inerte, eroso e trascinato a valle dai vari corsi d’acqua che sfociavano alla destra della zona interessata per depositarlo sulle spiagge limitrofe mentre, la successiva mareggiata, quella di libeccio invece ne distribuiva altro lungo la costa situata alla sinistra delle foci stesse.
Quest’indispensabile alternativo lavorío di trasporto e deposito degli inerti, residui dei fiumiciattoli e dei rivi, una volta a manca e la successiva a destra, s'interruppe quando l’uomo ha ridisegnato, alterandolo, il naturale profilo del territorio, costruendovi dighe, tombando tratti di mare, realizzando dissennate barriere protettive per non farsi portar via ciò che ormai aveva mal costruito. L’insieme di queste sconsiderate opere artificiali, ha sconvolto le correnti marine del paraggio con il risultato che le varie mareggiate, non potendo più apportare nuovi inerti prelevandoli da dove si depositavano, li sottrasse alle ultime spiagge rimastre, fagocitandosele.
Il Dria, che io ho sempre conosciuto anziano, asseriva d’aver, fin da ragazzetto (ma lo sarà mai stato?) navigato questo mare, dapprima come mozzo e poi in qualità di marinaio, imbarcato sui “leudi” o le “bilancelle” che esercitavano il piccolo cabotaggio, lungo la costa che proprio lì vicino aveva un pontile per lo scarico. Poi il fratello, più anziano, lo convinse a sbarcarsi e a dargli una mano nella conduzione dei Bagli Lido, quelli un tempo situati ai piedi del Castelluccio di Pegli, il fortilizio anti-pirati.
Accettò e in quello stabilimento balneare visse tutto il resto della sua vita, nel senso più letterale del termine perché lì vi abitò stabilmente. Aveva, come un tempo si diceva, le “mani d’oro” e a tutto provvedeva lui; si vedeva sempre attivo fra quelle dritte sfilate di cabine colorate, allineate come Guardie della Regina in estiva immobile parata. Raramente parlava e, quando lo faceva si esprimeva in dialetto; impossibile quindi per lui comunicare con i clienti “furesti”, prevalentemente lombardi o piacentini, all’epoca frequentatori assidui delle spiagge del Lido di Pegli. Schivo com’era la cosa non lo rattristava; lui non li capiva, né loro, lui. Ciò non di meno era da tutti ben voluto perché, anche senza parlare, come capita a chi intuisce d’istinto, preveniva i loro desideri.
Era un taciturno dal breve corpo tozzo e asciutto, forte e nodoso come un ulivo di Liguria; come un capo branco, fiutava in anticipo ogni mutare del tempo, pronto ad intervenire. Avrebbe potuto fare suoi, se avesse saputo leggere, i versi del più noto e sensibile fra i poeti genovesi, Edoardo Firpo, là dove scrive:
No so s’à cante o s’à cianze:
l’anima mae a l’è unna spunda
dove quest’onda a se franze.
Libera traduzione: Non so se canta o pianga: l’anima mia è una sponda dove quest’onda si frange.
A lui, effettivamente, bastava vedere come si dissolvessero, rincorrendosi, le nuvole o come volavano i nevrotici gabbiani emettendo rauchi richiami o, addirittura, che tipo di pesce in quel momento abboccava all’immancabile pescatore, accosciato su uno dei massi di pietra buttati per difendere dall’erosione la retrostante ferrovia, per prevedere il tempo dell’indomani.
La sensibilità acquisita negli anni, gli permetteva di averne conferma anche osservando l’angolo che la schiuma dell’onda forma quando, omai smorzata, pigramente raggiunge, scivolando sulla rena, la riva e s’interseca con quella di ritorno, giusto un attimo prima che quest’ultima venga risucchiata dalla sabbia della battigia. Quei segnali gli erano sufficienti per cominciare a porre in salvo tutti gli arredi che la imminente mareggiata poteva ghermire o distruggere; e anche i colleghi, concorrenti, erano attenti al suo andarivieni con, sotto le braccia, fasci di sdraio ripiegate e ombrelloni richiusi. Quello era la conferma che il tempo si metteva al brutto; lui non aveva mai sbagliato e loro lo sapevano. Altro che gli attuali satelliti.
Quel suo volto asciutto, brunito dal sole, con l’eterna barba del giorno prima, non l’ho mai visto rasato, ma neppure con la barba lunga, quel naso adunco, testimonianza d’antiche scorribande saracene con le donne della costa, non lasciava mai trapelare emozione alcuna.
Una brutta notte però, il mare, esasperato dai folli lavori dell’uomo che gli contrastavano il suo inestinguibile ripetitivo moto, senza preavviso, si portò via tutti gli stabilimenti balneari della zona, Bagni Lido compresi, portandosi via pure, irrimediabilmente, la spiaggia che da sempre ripasceva.
Purtroppo “ö Dria” aveva imparato a leggere perfettamente la natura ma, ahinoi, non i giornali, che proprio in quei giorni sbandieravano, con trionfalistica enfasi, la notizia che l’uomo ancora una volta aveva vinto il mare, strappandogli le onde e colmando quella ferita con la terra. L’uomo, presuntuoso e maldestro imitatore del Creatore, non si accorgeva che stava squassando irreparabilmente un equilibrio, messo a punto dopo millenni di prove.
E’ l’eterno apparentemente indecifrabile rapporto fra l’uomo e il mare; prendiamo in prestito i versi di Gabriele Dannunzio, poeta che visse il mare, e leggiamo:
là dove le coste
sono più scoscese
e il flutto più rimbomba
nelle caverne più nascoste
con le eterne risposte
alle eterne domande
Renzo BAGNASCO
Rapallo, 3 Dicembre 2014
GENOVA PRA' E GLI EX VOTO
GENOVA PRA’ e gli ex voto
Da ragazzino, per andare a scuola, attraversavo l’unica piazza a Prà degna di questa definizione; era eternamente battuta dalla tramontana che, da lì, si dipartiva per spazzare tutti i “carruggi” del mio paese. D’estate, svoltando l’angolo, poteva rappresentare un refrigerio ristoratore, specie se, come spesso capitava, ci si arrivava sudati dopo una lunga corsa per determinare chi fosse il primo; ma d’inverno, proprio no.
Si faticava, pur inclinati in avanti, ad attraversarla per la forza di quel vento gelido che ti respingeva, facendoci arrivare a scuola intirizziti, specie quando, ancora piccoli, frequentavamo le prime classi elementari; indossavamo i pantaloncini ricuperati dal fratello maggiore e non era certo lo smunto cappottino a ripararci le gambe rosse dai geloni, afflizione che oggi, con il benessere, è scomparsa.
Per fortuna, grazie alla pesante cartella, nessuno di noi è mai volato via col vento.
Sul fondo, proprio da dove arrivava la tramontana, quasi a chiudere la piazza, c’era una piccola chiesa dipinta a strisce orizzontali bianche e nere, la cui minuta sagoma non riusciva a deviarne le raffiche.
Era dedicata a San Rocco, il santo francese pellegrino, protettore dalla peste e sempre raffigurato mentre, sollevando un lembo della tonaca, mostra la gamba affetta da un bubbone; al suo fianco, accosciato, l’immancabile “bastardino” che tiene un pane in bocca.
Era, se pur minuta, l’unica chiesa della zona, ma tanto piccola e dimessa da non essere mai arrivata a divenire Parrocchia, anche se le anime che raccoglieva, ampiamente lo avrebbe giustificato,
La vera parrocchiale, Santa Maria Assunta dal nome altisonante rispetto all’altra, era un’antica pieve in Palmaro, situata al confine con il paese successivo e ancor più vicina ai canaloni lungo i quali scende a buttarsi in mare la tramontana, ma molto decentrata rispetto al paese di cui era Parrocchia.
S. Rocco, l’avevano costruita proprio dove un tempo c’era la spiaggia; così la vollero i pescatori che, anticamente, contribuirono ad erigerla. Pensarla lì, vicino alla spiaggia mi fa venire in mente i versi del poeta Vincenzo Cardarelli, là dove nella sua <sera di Liguria > scrive:
Sepolto nella bruma il mare odora
le chiese sulla riva paion navi
che stanno per salpare
La edificarono lì sulla battigia perché, in caso di improvviso, impenetrabile “caligo”, agli uomini sul mare dava la certezza di poter tornare: bastava, in quella improvvisa impenetrabile nebbia, orientare le prue al suono delle sue campane, appositamente suonate a martello, per rientrare dalle loro donne, sempre in ansiosa attesa.
Lungo il lato di levante della vecchia chiesetta, scorreva un rigagnolo nel quale le donne lavavano i panni per poi asciugarli stesi tutt’attorno, sulla tiepida rena.
All’inizio del secolo scorso, quando costruirono la ferrovia, sottrassero al paese una fetta di spiaggia proprio davanti a San Rocco; sul tratto rimasto verso monte, vi pavimentarono quella piazza che io dovevo attraversare contro vento. La Domenica era, da quando la fecero, luogo d’incontro fra i contadini del circondario e i pescatori del borgo. L’estate poi, una serie di panchine di ghisa, ombreggiate dalle piante che ne contornavano il quadrato confine, permettevano agli anziani di ritemprarsi alla brezza della sera.
In tempi recenti hanno demolito la chiesetta e realizzato una diversa e più moderna piazza. La nuova soluzione, quando la decisero a tavolino in un qualche Ufficio dell’Urbanistica Comunale della Grande Genova, avrebbe dovuto essere un luogo di “aggregazione sociale”; divenne invece una disordinata zona di parcheggi. Ancora una volta, ciò che i semplici popolani non vollero fare, lo attuarono i moderni, pretenziosi urbanisti.
All’interno di quella chiesetta, proprio appeso al centro del soffitto dell’unica piccola navata, c’era un grande modello di veliero navigante…nell’aria sopra le nostre teste, armato con mille sottili sartie che non ho mai capito se erano veri fili o ragnatele ricoperte da antica polvere; ogni volta che andavo la sotto a sognare, con lui navigavo nel mare della mia fantasia. M'avevano detto che era un “voto”; ma allora perché, mi chiedevo, al parroco hanno dato, come voto, un così bel regalo e invece a me, sulla pagella, pur chiamandoli con lo stesso nome mi rifilano sfilze di bassi e temutissimi “numeri”?
Solo quando non fui più capace di sognare, ne compresi la differenza sostanziale.
Quello è il primo “ex voto” che ricordo; in tutte le chiese legate alla vita di mare, ce ne sono o, meglio, ce n’erano, sino a che i fanatici interventi censori di Calvino e Lutero e successivamente quelli persecutori dei seguaci della rivoluzione francese a ciò sospinti dal vento che la seguì, ne fecero piazza pulita. In fine, ciò che era scampato da queste ottuse bufere, non sopravisse alla mal digerita voglia di modernità che sconvolse molti parroci subito dopo la fine dell’ultima guerra; li dispersero, vendendoli a privati o ad antiquari spregiudicati, favoriti in ciò anche dall’abituale incuria con la quale custodiamo le “cose di tutti”. Si è persa così, per sempre, una tangibile testimonianza della pochezza umana davanti al temutissimo strapotere della natura o del destino.
Certo, anche inconsciamente, ad alimentare l’insicurezza di chi andava per mare c’era la fredda statistica che, al riguardo, parlava chiaro; dai registri navali si deduce che, nel 1800, su cento navi varate, solo trenta arrivavano alla “pensione” operando; tutte le altre finivano distrutte prima.
Questa vera e propria ecatombe, ben nota agli interessati, é alla base delle promesse fatte dal marinaio al suo Dio non solo per scaramanzia, anche se quest’ultima, si dava come imbarcata assieme all’equipaggio; era tangibilmente evocata, sotto forma di scritte o simboli, ben visibili sugli scafi, ad evidente scopo “preventivo”.
L’occhio di cubìa, il foro attraverso il quale oggi passa la catena dell’ancora, è un retaggio dell’antico occhio magico fenicio, un tempo dipinto a protezione sulle prue delle imbarcazioni, ma che ancor oggi lo si trova in molte barche del Sud e lungo la riviera Adriatica.
Queste testimonianze di patti, rispettati e sciolti tutte le volte che veniva superato il rischio, erano, per più della metà, dedicati a ricordare uno scampato naufragio, il pericolo più temuto, ma anche il più frequente documentando, nel frattempo, che l’aiuto soprannaturale, specie quello della Vergine, non è mai stato disgiunto all’innegabile perizia dei vecchi lupi di mare, nocchieri di quelle imbarcazioni.
L’esigua quantità d’ex voto arrivati sino a noi, riproducenti l’attimo in cui il singolo, ormai impotente, si sia salvato dal fortunale grazie al determinante aiuto divino o per essere stato sottratto ai marosi dal coraggioso intervento dei compagni di sventura, attesta che la sopravvivenza in mare era cosa rara e quasi mai riservata al singolo, assolutamente “disarmato” contro le forze scatenate della natura.
Ricorda Omero che lo stesso Agamennone, non appena la sua flotta raggiunse i lidi di Troia, offrì voti a Nettuno; come si vede, da sempre la marineria e gli ex voto hanno “navigato” di concerto.
Queste tangibili testimonianze, siano esse bassorilievi, quadri, sculture, sbalzi, incisioni o tele ricamate, documentavano l’episodio accaduto, visualizzando il sentimento di gratitudine dell’interessato per lo scampato pericolo; raramente furono eseguiti di pugno dell’offerente e, quei pochi realizzati, sono oggi facilmente riconoscibili perché ricchi di minuti dettagli, noti all’interessato ma non certo ad un pittore “routinier”, specializzato in ex voto a cui, all’epoca, spesso ci si rivolgeva.
Sono sempre eseguiti con tecnica ingenua e, sovente, dipinti su frammenti di rozze tele, le stesse utilizzate per riparare le vele o, se oleate, recuperate fra quelle pronte per rattoppare teloni impermeabili. Altri sono dipinti su fogli di rame, certamente scovati in cambusa fra i ricambi per rimpiazzare le tessere dello stesso metallo che rivestiva l’opera morta e che, molto spesso, venivano strappati dai più imprevedibili urti o strisciate. In tutti questi casi i colori utilizzati erano inequivocabilmente pitture grasse, sempre presenti a bordo per i ritocchi di manutenzione. L’autore, ormai in simbiosi con la nave sulla quale, spesso, vi aveva trascorso anni di navigazione senza più aver visto i propri congiunti, ne descriveva minutamente i particolari che ben conosceva, a scapito del “respiro artistico” che oggi ricerchiamo ma che lui, normalmente, non possedeva. Lo stesso ragionamento vale per le barche racchiuse in bottiglia e per le tipiche “mezze navi” incorniciate e sotto vetro e con i fiocchi di cotone impolverati a sopperire il mare.
La maggior parte degli ex voto, o come un tempo si diceva “tabelle votive”, giunti sino a noi, sono stati invece sovente realizzati da artigiani anonimi, che avevano bottega o presso i Santuari più frequentati dai marinai o lungo i moli dei porti. Nell’attesa dei clienti, si preparavano già un abbozzo di quadro per meglio valorizzarlo al momento di esibirlo al committente che n’avesse fatto richiesta; poi, a pagamento, apportavano quelle poche, indispensabili varianti o semplici specifiche per far sì che aderisse il più possibile all’episodio descritto loro dal cliente. In molti casi quindi, le navi o i panorami raffigurati non ci danno testimonianza di verità. Possono addirittura ritrarre imbarcazioni immaginarie che, però, divengono credibili grazie ai nomi e alle didascalie poste a chiarimento; quelle sì sempre veritiere.
Brigantino "N.S. del Monte Allegro" - 25 maggio 1858: Il Capitano Bartolomeo Rossi ed il suo equipaggio sono tratti in salvo dopo aver naufragato. (Autore: Domenico Gavarone)
Naturalmente le “tabelle votive” possono anche avere lampi artistici, secondo il sentire dell’artigiano che le ha realizzate, senza dimenticare che molto spesso giocava un ruolo importante il prezzo pagato dal committente, che poteva lievitare, non perché ne riconoscesse il maggior pregio, ma semplicemente perché desiderava far apportare quelle poche, ma indispensabili modifiche ad opere pressoché finite, così da rendere il più possibile aderente alla realtà la raffigurazione del fatto realmente accaduto. E’ intuibile che non tutto filasse liscio; il compromesso, anche qui, era indispensabile per far quadrare i magri risparmi di cui il marinaio poteva disporre, con l’ineludibile pressione morale che gli imponeva di sciogliere il voto, così come pattuito, <costi quello che costi >.
Nei casi in cui si fosse impegnato a scioglierlo al <primo porto che toccherò >, è naturale che dovesse orientare la propria scelta su qualcosa di quasi pronto, a scapito della veridicità dell’accaduto perché, se non poteva ritirarlo alla successiva franchigia, una volta aggiornato lo portava, seduta stante al Santuario e, di nascosto dai compagni. Quella promessa era una delle poche cose intime che poteva e doveva restare tale, fra chi era invece costretto a condividere diuturnamente tutto con tutti. O al Santuario prescelto o, se diversamente pattuito, lo donava poi a quello più prossimo al primo porto che avesse toccato.
Però non erano rari i casi in cui l’intero equipaggio si tassasse per donare un ex voto, degno del loro vascello.
A volte capitava che, versato il primo acconto, il committente sparisse per lungo tempo, per quello strano destino che accompagna la gente di mare e che faceva scrivere a Vittorio G. Rossi <sul mare l’uomo non lascia traccia di sé >.
Passato un ragionevole lasso di mesi, chi subentrava come acquirente allo “scomparso” che l’aveva commissionato, poteva ottenere forti sconti dal pittore, perché parte del prezzo lo aveva già pagato il primo; bastava, al solito, non richiedere molte varianti, per fare un affare con buona pace dei posteri, convinti di poterci sempre leggere una veritiera pagina di cronaca.
Molti furono anche gli “ex voto” realizzati su carta, rivelatasi poi facilmente deperibile per l’umidità sempre presente nelle vecchie Chiese, specie quelle vicino alle spiagge costruite, all’epoca, utilizzando la stessa sabbia di mare circostante, carica di sale mentre, altri, raramente arrivati sino a noi perché troppo fragili, erano dipinti su vetro anche se sarebbe più corretto dire “dietro il vetro”, con la stessa tecnica utilizzata dai cinesi per decorare, dipingendole dall’interno, le “sniff-bottles”; si tratta di raffigurare per primo, ciò che deve apparire in “primo piano” per chi guarda il vetro e poi sovrapponendovi i successivi “retro-piani” sino al fondale con le nuvole e, per ultimo, il cielo così che guardandolo appaia come il più lontano. Quelli che sono giunti sino a noi, si sono salvati perché il vetro li ha protetti dalla corrosione della polvere, dalle rare e grossolane ripuliture e dai fumi delle candele o dell’incenso che, proprio in quelle cappelle e per le stesse motivazioni devozionali, ardevano, sostentate da chi, a casa, aspettava pregando, il ritorno incolume del congiunto.
Non si hanno tracce di lavori eseguiti da artisti già affermati all’epoca mentre si conoscono alcuni nomi degli artigiani che andavano per la maggiore presso i committenti; firmavano le opere e, in molti casi, indicavano pure l’indirizzo della bottega. Si sa, da sempre, la pubblicità è l’anima del commercio.
Molto ricercati sono gli ex voto, oggi rarissimi perché oggetto d'interessata speculazione, scolpiti o incisi su avorio, ricavato da denti di capidoglio o similari; ormai veri e propri pezzi da museo, quelli istoriati nell’attorcigliato corno del narvalo, cetaceo dei mari artici.
Santuario di N.S. di Montallegro – Rapallo. L’ex-voto su lamina d’argento raffigura la “caracca ragusea”, simbolo di destrezza e perfezione tecnica. C’è capitato di scoprire proprio a Dubrovnik (ex-Ragusa) altri esempi di Ex-Voto marinari, molto simili ai nostri e quasi sempre rappresentati con la “caracca di epoca colombiana”.
Nel caso in cui l’ex voto fosse stato “solenne”, in altre parole, voluto dall’intero equipaggio, era fatto sbalzare su lastra d’argento (da non confondersi però con quelli a forma di cuore o arti che sono altra cosa) e raffigurava sempre il vascello “miracolato”; in questo caso, poiché tutti contribuivano alla spesa, ci si poteva permettere di far realizzare dal <fravego > (l’argentiere), un’opera di maggior impegno e costo.
Il Comandante, coinvolto in prima persona quale “coadiuvante della Divinità”, mai avrebbe voluto dare l’impressione ai devoti del luogo, specie se in zona era conosciuto, di aver lesinato sull’ex voto. Ne sarebbe andata della sua onorabilità, giacché nel cartiglio sempre appariva, oltre al nome del vascello, anche il suo che, è certo, in quel terribile frangente l’aveva abilmente pilotato a salvamento, naturalmente con l’indispensabile e decisivo aiuto dalla Vergine che, normalmente, era effigiata, quale apparizione, sopra l’albero di maestra.
I rischiosi viaggi in Terra Santa, i pericoli per raggiungere nuovi mercati e gli abbordaggi dei pirati, hanno per anni alimentato questa pratica, contribuendo non poco a quel florido mercato fra gli artigiani del settore.
Santuario di N.S. Montallegro - Rapallo – Nave a palo
FRANCISCA 1874. Lamina d’argento sbalzata.
In aggiunta a queste paure c’erano poi le intrinseche limitate sicurezze offerte sia dai velieri che dai precari ridossi utilizzati a mo’ di porti, spesso non protetti da ogni tipo di fortunale. In quelle cale generalmente i battelli sostavano direttamente davanti alla spiaggia prevista, insabbiandovi la prua per facilitare lo sbarco e la consegna delle merci; venivano assicurati piantando nella spiaggia due ancore divaricate fra loro e, di poppa, stessa misura ma con due ancore calate in mare. Questi accorgimenti evitavano che l’onda di poppa li potesse spiaggiare irreparabilmente né, in contrapposizione, che il risucchio li riportasse al largo.
Così ormeggiati, i marinai e gli uomini di fatica scaricavano la merce, utilizzando per sbarcare, precarie lunghe passerelle formate da tavole di legno sorrette da taccate, sulle quali camminare caricati della merce da recapitare; per farlo senza spezzare quelle sottili passerelle congiungenti i vari sostegni, era indispensabile adottare un armonioso passo ritmico, quasi di danza che, grazie al sincrono appoggiare dei piedi nel mentre l’asse “ritornava” dalla flessione precedente, permetteva a chi vi transitasse di caricarla nel punto, altrimenti debole, proprio nell’attimo in cui, inarcata verso l’alto, garantiva il massimo della resistenza.
Gli "ex voto" non furono però un fenomeno solo Mediterraneo ma, come si riscontra sovente nella marineria mondiale, tutti gli addetti hanno, da sempre, adottati comportamenti equivalenti. Certo da noi, poiché il nostro mare fu il primo ad essere navigato, i marinai, come tutti coloro che appartengono alle fasce più indifese e maggiormente esposte ai pericoli, hanno da sempre affidato le loro vite al Soprannaturale, unica assicurazione gratuita, vecchia quanto l’uomo.
Non sempre i voti erano necessariamente sciolti nei nostri porti; per il marinaio, vero cittadino del mondo, ogni approdo era buono per “onorare” il debito di riconoscenza contratto in momenti terribili.
Il brigantino a palo ITALIA, costruito nei Cantieri di Varazze per l’Armatore Dall’Orso di Chiavari nel 1882, naufragò sull’isola di Tristan da Cunha nell’ottobre 1892.
Questa è la ragione per la quale si trovano testimonianze un po’ ovunque; si ha notizia di nostri ex voto, a Tristan de Cuna nelle omonime isole sperdute nell’oceano, dove esiste ancor oggi una comunità di liguri, sino ad arrivare alle lontane Falkland. Ad offrirli non erano però solo marinai nostrani; era pratica comune ai greci, ai francesi, agli spagnoli, ai tedeschi, agli austriaci, ai portoghesi ed agli Inglesi e poi, scoperte le Americhe, anche i marinai di laggiù continuarono la tradizione, retaggio dei loro padri europei. Persino i freddi nordici, ad iniziare dai Vichinghi, offrivano ex voto ai loro protettori che spesso, com’è facile immaginare, non coincidevano con i nostri: ma pur sempre d’ex voto offerti con lo stesso spirito si tratta!
Possiamo concludere con quanto ha scritto il Rettore del Santuario di Nostra Signora di Montallegro che domina il Golfo del Tigullio e, nel quale, forse più che altrove, si custodiscono il maggior numero di ex voto marinareschi, nella prefazione del bel volume “Ex voto a Montallegro”, edito dal Comune di Rapallo e redatto con perizia e amore da Maria Angela Bacigalupo, Pier Luigi Bennati ed Emilio Carta, appassionati e puntuali ricercatori, là dove conclude < Visti nel loro valore religioso, risultano un segno rivelatore dell’apertura trascendentale dello spirito umano e, riferiti all’evento mariano, costituiscono una chiara testimonianza di come esso viva e s’incarni specialmente nella cultura popolare. Per questo è legittimo l’appello: salviamo gli ex voto, custodiamoli con intelletto d’amore, sappiamo coglierne il messaggio.>
Renzo BAGNASCO
Rapallo, 11 Ottobre 2014
Tratto dal libro: “Liguria amore mio” – Mursia Editore