CHIAVARI - RIONE SCOGLI in Guerra
IL CANNONE DELLE GRAZIE
(vedi Storia Navale di questo sito) si arricchisce dei ricordi del Comandante Ernani Andreatta e del pittore Amedeo Devoto. Nel 1935 i due personaggi nascono nel Rione Scogli di Chiavari, dove il primo vi risiede ancora in Piazza Gagliardo, mentre il secondo, purtroppo, é mancato di recente. A cavallo della Seconda guerra mondiale, i due amici d’infanzia trascorrono la loro gioventù tra postazioni e nidi di mitragliatrici della Wehrmacht, proprio nella zona da noi presa in esame: dal Santuario delle Grazie all’attuale Piazza Gagliardo.
Come abbiamo già avuto modo di vedere, i tedeschi non trascurarono neppure l’ipotesi di uno sbarco Alleato sulle spiagge di Chiavari, Lavagna, Cavi di Lavagna e Sestri Levante, i cui alti fondali ben si prestavano ad una rapida conquista della Via Aurelia e della Ferrovia che transitano, tuttora, a pochi metri dal bagnasciuga.
Le numerose “tracce” delle difese costiere in cemento armato lasciate dalla TODT nella Riviera di Levante per contrastare l’eventuale sbarco degli Alleati, sono visibili ancora oggi lungo tutto il litorale, come vedremo.
Ricordi di Ernani Andreatta del 25 Aprile 1945.
Nel 1945 avevo 10 anni essendo nato nel 1935 appunto. Ricordo molti episodi di quella guerra che ho vissuto a contatto della gente per una ragione molto semplice. L'ingresso alla galleria come rifugio antiaereo aveva l'ingresso al N. 31 di corso Buenos Aires proprio nel mio giardino. Villa Andreatta era stata costruita da mio padre Ernani (mio omonimo di nome e di professione) con i sacrifici di 35 anni di navigazione effettiva di cui parte passati sui sommergibili dal 1915 al 1918 e parte internato in Tailandia per ben sei anni dal 1940 al 1946, dato che tornò da quella specie di prigionia passata nella giungla per ben tre anni dopo l'auto affondamento della propria nave, la M/n Sumatra del Lloyd Triestino, ovviamente per non cadere in mano degli Inglesi, dato che si era rifugiato nella rada di Pucket in Thailandia. Mia madre era religiosissima e la sua gran fede la sostenne per tutto il periodo della guerra dove tra l'altro, oltre al marito lontano, nel 1943, aveva anche il figlio più grande Giuseppe detto Beppino o Ron, Ufficiale della marina militare al di là del fronte in quel di Brindisi. Giuseppe diventò poi un apprezzato Ingegnere Navale Senior Surveyor nell'American Bureau of Shipping. Morì nel 1979 per un incidente sulla nave del Lloyd Triestino "Nipponica".
Casa mia, essendo a pochi passi dall'ingresso della galleria rifugio, era diventata nei suoi fondi o cantine un vero e proprio dormitorio di persone che volevano appunto essere il più possibile vicino a questo rifugio. Ricordo il Signor Cipriani (Cinema Astor), il signor Marcucci (cinema Mignon), tanto per fare qualche nome. Ed anche noi ragazzi, ricordo che i miei genitori ebbero 5 figli, dormivamo in letti o brandine insieme a tutti questi ospiti.
Quando suonava la sirena dei bombardamenti imminenti tutti correvamo in galleria ma, alla sera, con l'oscuramento dovuto alle incursioni del famoso Pippo, dormivamo sempre nei fondi di casa mia al n. 31 di Corso Buenos Aires appunto. Soltanto la notte del 24 Aprile 1945, il giorno dopo sarebbe finita la guerra, mia madre non volle sentire ragioni e impose a tutti, noi ragazzi per primi, di dormire in galleria, insieme naturalmente a tutti quelli del vicinato. Ricordo benissimo che alcuni degli ospiti dissero a mia madre, che la guerra sarebbe finita il giorno dopo, ma lei determinata sbarrò la strada dei fondi di casa e disse con fermezza che quella notte dovevamo dormire tutti in galleria, senza peraltro darne una ragione plausibile; in tutta la guerra nessuno di noi ci aveva mai dormito e quell'ordine perentorio ci parse molto strano e incomprensibile. Ma quando ci alzammo al mattino e uscimmo dalla galleria per entrare in casa, forse solo in quel momento ne capimmo la ragione. Una granata perforante sparata da un carro armato Tank-Sherman americano era entrata ad un metro d'altezza dal terreno nello spesso muro di casa (circa un metro), andando a esplodere nel pavimento proprio in mezzo alle decine e decine di letti che erano tutti intorno. Nel mezzo del pavimento trovammo un buco non molto profondo dato che la deflagrazione era avvenuta proprio in quel punto e miriadi di schegge si erano sparse conficcandosi in tutti i letti attorno. Ricordo benissimo che con mio fratello Luigi detto "Ciuilli" e le mie sorella Palma e Isa facevamo a gara a trovare le schegge nei cuscini e nei materassi di lana. I più vicini al punto dove la granata era scoppiata ne avevano certamente più degli altri. I fondi erano anche allagati e senza luce elettrica che a quel tempo era normalissimo !
Il n. 76 di corso Buenos Aires era la villa costruita da Luigi Gotuzzo e venduta a Protti nel 1924. Ancora adesso dopo quasi 70 anni mi chiedo che cosa ha spinto mia madre a non farci dormire nei fondi di casa, ripeto, solo quella notte. La fede incrollabile o il destino spesso imperscrutabile, sicuramente ebbe un effetto straordinario in quella decisione che salvò la vita a tutti, dato che, se avessimo dormito in casa saremmo stati tutti massacrati da quella orribile granata. E' un fatto personale che racconto, ma la guerra mi è passata molto vicina a quel tempo ed è ancora viva e profondamente scolpita nella mia memoria. C’é ancora un fatto che mi preme raccontare. Ogni tanto in corso Buenos Aires, cioè davanti a casa mia, si accampavano truppe che a volte erano Italiane e a volte tedesche. Ebbene le truppe tedesche erano ordinate ed educate e chiedevano sempre a mia madre se potevano entrare anche in giardino per accamparsi. Al che mia madre, naturalmente, dava il consenso a tale richiesta. Anzi, per noi bambini era una festa, dato che i soldati tedeschi ci regalavano le loro appetitose pagnotte nere di segala, o qualche scatoletta di carne. Ammiravamo quei possenti mezzi meccanici e i loro altrettanto robustissimi cavalli con le criniere nelle gambe oltre che nel collo. Ricordo al contrario con rammarico quando arrivavano ad accamparsi le truppe italiane che non chiedevano il permesso a nessuno: entravano in giardino, e nell'orto rubavano tutto quello che c'era. Poi usavano le piane del retro casa come latrine e per settimane nessuno poteva più andarci per non rimanere "impantanati", diciamo. E' una realtà che ho vissuto di persona e che ho voluto raccontare anche se le atrocità commesse da certi tedeschi sono ancora vive nella memoria di tutti.
Villa Andreatta in Corso Buenos Aires negli anni '70.
Il n. 31 di Corso Buenos Aires contrassegnava Villa Andreatta che negli anni 90 circa fu venduta da Maria Luisa Andreatta. La targa del n. 31 è ancora gelosamente conservata come ricordo da Ernani Andreatta nell'Antica Casa Gotuzzo.
La fine della guerra era imminente e il 25 Aprile del 1945, se non era per l'intuizione della loro madre Adele Gotuzzo, i cinque fratelli Andreatta avrebbero potuto morire tutti proprio in quell'ultimo giorno di guerra, come descritto sopra.
LA CASA NATIA DI AMEDEO DEVOTO
La prima signora a destra è la mamma di Amedeo Pina Verdi
In queste inedite foto si vede la casa natia di Amedeo Devoto prima che nel 1944 fosse evacuata e distrutta dall'esercito tedesco per costruirvi un bunker che vediamo nella foto sotto.
Questa è l'esatta ubicazione della casa natia di Amedeo Devoto (nella foto) rispetto alla colonia Piaggio. Era la casa più a ponente di Chiavari ben oltre la colonia marina dei Piaggio. Il padre di Amedeo, Eugenio detto "Genin" ne era il custode e viveva in questa "dependance" dove nel piano fondi, come ricordava sempre Amedeo, veniva costruito per le feste di Natale uno straordinario presepe tutto animato con le meravigliose statuette in legno del Maragliano.
Questo é quanto resta del bunker costruito proprio sopra la casa natia di Devoto demolita dai tedeschi.
Alcune interessanti planimetrie del 1944
Per g.c. del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari
In questa planimetria del Rione Scogli, le macchie gialle si riferiscono alle cave esistenti nel 1940/45.
Nelle planimetrie sopra riportate viene rappresentato, sia in panoramica che nel particolare, l'ubicazione esatta del cannone delle Grazie che si trovava proprio sotto la casa privata che è sotto la chiesa. Il disegno è stato estratto da una delle tre planimentrie conservate al Museo Marinaro di Chiavari disegnate e ricostruite da Amedeo Devoto per gli anni rispettivamente del 1888, 1906 e 1940/45 che riguardano tutta la zona del Rione Scogli.
La Planimetria n.1 riporta (in alto) la GALLERIA DELLE GRAZIE (S.S.Aurelia), (al centro) il Santuario N.S. DELLE GRAZIE e (sotto) il tratteggio della batteria con la scritta: “BUNKER CON CANNONE DELLA MARINA BINATO”.
La Planimetria n.2 mostra le opere difensive antisbarco. A sinistra sono leggibili le scritte: Galleria Vecchia – Deposito munizioni e cannone. Al centro: Muro antisbarco. A destra: Fico – Uliveto – Rudere – Bunker – Arenile.
La planimetria n.3 mostra le seguenti strutture costruite dalla Todt: a sinistra, il massiccio “muro antisbarco” quasi toccato dal “RELITTO DI UNA NAVE TEDESCA” arenata sulla spiaggia. Il muraglione antisbarco prosegue verso il centro del disegno mostrando un bunker e più sotto (nel punto più vicino alla spiaggia) una postazione per mitragliatrice. A destra, a protezione della costruzione n.3 é disegnato un tobruk per contraerea.
La planimetria n.4 mostra il “cuore marinaro” di Chiavari: Il Rione Scogli, con Piazza Gagliardo, ex Ciassa di Barchi, sede e scalo del Cantiere navale Gotuzzo che costruì 125 velieri a cavallo del ‘900. L'antica casa Gotuzzo (n.27) fu costruita nel 1652 e tuttora appartiene alla famiglia Andreatta-Gotuzzo. L’antica costruzione è intessuta della storia del cantiere che il proprietario, comandante Ernani Andreatta, coltiva con attaccamento e competenza.
Nella foto é segnalata l’esatta posizione della casa di Amedeo vista da ponente. In lontananza si vede la Colonia Fara
L'ingresso della ex galleria del treno è ora sbarrato da una robusta rete metallica.
Da un dipinto di Amedo Devoto vediamo sulla sinistra l'ingresso col portico del Santuario delle Grazie e sulla destra una casa rossa dove proprio al di sotto era ubicato il cannone binato tedesco.
Chiavari 1937 – Rione Scogli -
2010 – olio su tavola – 70x50 dell’artista chiavarese
Amedeo Devoto
La didascalia riporta il seguente fatto storico:
"La casa dove sono nato e dove ho passato i primi dieci anni della mia infanzia. Posta a ponente dell’attuale Colonia Piaggio venne demolita durante l’occupazione tedesca verso la fine del 1943 per edificarvi un bunker. Sulla destra si nota la galleria della vecchia ferrovia deviata più a monte nel 1908 e il pontone di “Penco” che costruisce la prima diga."
ANTICA CASA GOTUZZO SENZA TETTO! CHE TEMPI!
La guerra, non risparmiò nemmeno l'Antica Casa Gotuzzo che vediamo nel 1945 senza tetto e senza finestre nella sua parte verso il mare.
Il Museo Marinaro Tommasino-Andreatta era situato nella stessa casa padronale, ma da qualche anno, avendo acquisito un notevolissimo numero di reperti, si é trasferito nella Caserma delle Scuola Telecomunicazioni FF AA di Caperana-Chiavari. E' ormai in corso di definizione l'accettazione di questo Museo Marinaro da parte dello stato Maggiore della Marina Militare che è stato integrato con la Sala Storica della Scuola Telecomunicazioni.
Nel 1943, Adele Gotuzzo in Andreatta ricevette l'ordine dai tedeschi di svuotare la casa paterna, cioè l'antica Casa Gotuzzo situata in Piazza Gagliardo perchè al suo posto dovevano costruirvi un bunker. La casa fu immediatamente svuotata di tutto ciò che fosse usabile come anche le persiane e le finestre di legno che furono tutte bruciate per fare il sale nelle famose lamiere come si usava in tempo di guerra. Il bunker fu costruito poi in realtà sulla Piazza e non al posto della casa. Dopo la guerra, Adele Gotuzzo precisamente nel 1948, volle assolutamente ricostruire e rimettere in ordine la casa paterna dei Gotuzzo contrariamente all'opinione di altri parenti che avevano una quota nella casa stessa. Questi parenti non parteciparono in nessun modo alla ricostruzione adducendo il fatto che avrebbe "buttato i soldi in mare". In realtà, come si vede in questa foto del 1955 il mare stava avanzando sempre più e la casa era in serio pericolo. Ma poi si salvò, dopo importanti difese del litorale chiavarese operate negli anni 1955/60, e attraverso inenarrabili vicissitudini con i parenti che non volevano fosse ricostruita, Ernani Andreatta ne diventò unico proprietario negli anni settanta. Il merito di tale "sofferta operazione" è da attribuire sopratutto alla moglie Marisa Bacigalupo recentemente scomparsa il 12 Aprile di quest'anno e a suo fratello Luigi Andreatta detto "Ciuilli" scomparso a soli 49 anni nel 1976 in seguito ad un tumore alla testa. Era un valente avvocato di fama internazionale accreditato anche ai tribunali di New York e San Francisco per la sua perfetta conoscenza dell'Inglese.
Soltanto negli anni '60 si pensò ad una difesa seria e imponente del fronte mare Chiavarese e i pericoli di distruzione non solo di questa, ma anche di altre case fu finalmente scongiurato. Ricordiamo che dal 1821 sino al 1950 circa ben 43 palazzi furono abbattuti dalle mareggiate su tutto il lungomare di Chiavari.
Ernani ANDREATTA
Rapallo, 25 Agosto 2014
webmaster Carlo GATTI
CHIAVARI - RIONE SCOGLI
UN MONITO PER NON DIMENTICARE....
La fotografia (sotto) ritrae i PANNELLI che il Comandante Ernani Andreatta, ha già l'autorizzazione Comunale, esporrà in Piazza Gagliardo in modo permanente, per ricordare ai passanti la splendida Storia del suo Rione Scogli.
Brigantino a palo “Fido” costruito da Francesco Gotuzzo a Chiavari in Ciassa di Barchi e varato nel Settembre 1861. I grandi Velieri varati dai Gotuzzo a Chiavari nel Rione Scogli furono oltre 120, da Matteo Tappani "u sciu Mattè" 55 e da altri costruttori circa una trentina.
Chiavari - 1904 - Cantiere Navale Gotuzzo
La nave Goletta “Luisa” è quasi pronta al varo. Questo tipo di veliero, per la sua ottimale velatura veniva chiamato dagli inglesi “best bark”. I genovesi storpiarono il nome in “barco bestia”
Affinché il Rione Scogli conservi la sua memoria storica e marinara
Sala Storica del Museo Marinaro
Tommasino-Andreatta
presso la Scuola Telecomunicazioni FF.AA.
Via Parma, 34 – Chiavari
PIAZZA DAVIDE GAGLIARDO
un tempo chiamata
«CIASSA DI BARCHI»
1° Pannello
Su questa piazza e in quest'area del Rione Scogli, nei Cantieri Navali Gotuzzo, furono costruiti e varati, tra il primo '800 e il 1935, da Francesco Gotuzzo detto «Mastro Checco» (1808- 1865) il capostipite, da suo figlio Luigi (1846-1919) e dal nipote Eugenio detto «Mario» (1883-1935) oltre 120 grandi velieri: 11 Brigantini, 41 Brigantini a palo, 32 Brigantini Goletta, 7 Navi Goletta, e 30 tra Bovi, Rimorchiatori, Chiatte, Leudi e grosse barche da trasporto. Quando «Mastro Checco»morì nel 1865, come da liquidazione ereditaria del 25/4/1866 aveva ben 9 Velieri in costruzione sugli scali di questo Rione. Due quinti di tali costruzioni vennero assegnati a Matteo Tappani, «u sciu Matté» (1833-1924), per l'assistenza prestata nella costruzione e tre quinti a Luigi Gotuzzo. Matteo Tappani imparò quindi l’arte della costruzione Navale dal suocero «Mastro Checco», avendone sposato la figlia Giulia. Negli anni seguenti, Tappani vi costruì oltre 55 grandi velieri: 35 Brigantini a palo, 9 Brigantini Goletta, 4 Navi Goletta, e 7 tra Bovi e Leudi. Una trentina di grandi velieri furono costruiti dai Briasco, Brigneti, Piceni Gessaga, Sanguineti, Beraldo e Raffo: 6 Brigantini, 2 Brigantini a palo, 4 Brigantini Goletta, e 18 tra Leudi e Bovi. In totale più di 200 velieri presero il largo da questo Rione per rotte in tutti i mari del mondo.
La tradizione cantieristica di maestri d’ascia e calafati continuò nel dopoguerra con costruttori di gozzi e imbarcazioni da diporto. Dopo «l’Epoca Eroica della Vela», verso gli anni ‘30, la Piazza cambiò tipologia diventando sede di famiglie di pescatori e, nel gergo popolare, venne così denominata:
Ciassa di Barchi - 1889 - Varo del Brigantino a palo “Nemesi” dai Cantieri Navali dei Gotuzzo che a quel tempo costruivano proprio sulla Piazza Gagliardo
PIAZZA DEI PESCATORI «CIASSA DI PESCÖI»
Rione Scogli - 1912
La ferrovia è già stata deviata a monte in seguito a terribili mareggiate che ne avevano compromesso la sicurezza. In primo piano il ricovero Torriglia. Le cosidette “Case Canepa” sulla destra della foto, di lì a pochi anni saranno tutte abbattute dal mare. Notiamo il Cantiere Navale dei Gotuzzo con un veliero in costruzione. Le dieci case di Corso Valparaiso (già Via Olearia) stanno per essere completamente demolite. Corso Buenos Aires, alla sinistra della ferrovia, è appena tracciato.
Rione Scogli - I “Seroi” (segantini)
Quando non esisteva ancora la forza motrice le tavole, ricavate da pesanti tronchi, venivano segate a forza di braccia dai segantini che usavano una speciale sega a quattro mani detta anche “31”. Nella foto, abbiamo riconosciuto Adriano Leoni (in alto) e Checco Pastorino Tacchetti.
2° Pannello
RIONE SCOGLI
COM’ERA E COME SI VIVEVA
Scriveva Vittorio G. Rossi, noto giornalista e scrittore: il mare parla, “nessuno sa cosa dice, ma lui parla”. Questo agli “Scogli” lo hanno sempre saputo, o meglio lo hanno sempre sentito nel cuore.
Il mare continua a mandare messaggi con i suoi odori, che cambiano quando cambia il vento, con i suoi colori, che specchiano il cielo, con il rumore delle sue onde, con il suo moto incessante che
incanta i nostri occhi stupiti nella varietà delle sue forme, del fluire e del rifluire, del frangersi e del ricomporsi. Ed il mare qui agli “Scogli”, è sempre lo stesso, ma il Rione, la piazza e le spiagge sono cambiati profondamente nel tempo.
Piazza Gagliardo - 1886 - Impostazione della chiglia del Brigantino a Palo “Nemesi”
Notare sulla destra le “case Raffo” costruite nel 1815. Ben dieci di questi edifici furono distrutti dalle mareggiate tra il 1821 e il 1913. Sulla sinistra l’edificio dove era ubicata la trattoria di Pastorino Tacchetti demolita anch’essa, questa volta dall’uomo, negli anni ‘70 per far posto all’attuale costruzione del cantiere navale
Un tempo la piazza, che era parte integrante dei Cantieri Navali Gotuzzo, come ricordava Franco “Mario” Tommasino, si popolava ogni giorno di maestri d’ascia e di serroi (segantini) che operavano il taglio del legname destinato alle chiglie ed al fasciame dei velieri che si costruivano nel cantiere. Grazie alla testimonianza di Tommasino e agli straordinari dipinti di Amedeo Devoto, definito da tanti un genio, ancorchè poco conosciuto, possiamo tracciare una fisionomia intatta e precisa di questo rione, un caso unico nella storia di Chiavari.
Piazza dei Pescatori -1909
Le case vecchie degli Scogli, cosi si presentavano nei primi anni del ‘900
Nel secolo scorso le famiglie erano poche e molto affiatate, spesso composte di numerosi individui e comunque non ricche. Alcuni emigravano nelle Americhe, altri sceglievano di navigare, altri ancora lavoravano nei cantieri, altri infine vivevano di pesca o facendo gli ortolani. Va osservato come spesso, qui in Liguria, il pescatore curava anche un piccolo orto, irrigato grazie a un pozzo con l’acqua attinta per mezzo dell’antica “sigheugna” (bilancino).
La gente viveva dalle finestre la vita del cantiere, sin dalla mattina, quando la sirena chiamava i dipendenti.
Allora l’aria si riempiva dei rumori del lavoro degli operai e dei calafati, dell’odore del legno tagliato e del catrame, finchè arrivava il giorno del varo del veliero. Era un giorno importante: dopo la benedizione impartita dal Parroco, tutti avevano appena il tempo di trasalire mentre scendeva in mare, per la prima volta, il frutto di tante fatiche.
Una visione panoramica di Piazza Gagliardo nel 1901.
Il veliero pronto al varo è il Guglielmo Augusta. Quello in costruzione è il Luisa, di 1648 Tonnellate di stazza, uno dei più grandi varati nel 1904 nel rione Scogli.
A quei tempi le case erano sprovviste dell’acqua corrente nè vi erano gli allacci del gas e dell’elettricità.
Le famiglie attingevano l’acqua dalla pompa all’angolo di Piazza Gagliardo dove si trovava una fontana pubblica, oppure, quando furono installati, i “treuggi” (lavatoi) nel lato ponente della piazza.
Tuttavia, quando il mare ingrossava, l’acqua assumeva uno sgradevole sapore di salmastro e per attingerne di potabile era necessario andare fino alla fonte che si trovava in fondo a corso Buenos Aires, vicino alla cava di pietra. Le case e le strade erano illuminate grazie a lampade a petrolio e solo nel 1925 la luce elettrica raggiunse la piazza. II gas arrivò solo nel 1936.
Le attività di un cantiere navale degli Scogli ai primi del ‘900
Sulla destra il progettista e costruttore navale Matteo Tappani, “u sciu Mattè” . Da sinistra si notano i “serroi” (segantini) che ricavano le tavole dai tronchi segandole a mano; si nota il “trincaballe”, carro speciale a due ruote per spostare grandi tronchi, e un maestro d’ascia che sagoma una ordinata.
La fontana pubblica o fontanella che era ubicata sotto un grande albero nell'angolo di Piazza Gagliardo, aveva una grande maniglia che azionata manualmente con un certo vigore, consentiva di tirare su l'acqua direttamente dal pozzo sottostante. Dopo che si smetteva di pompare l'acqua fuoriusciva ancora per un minuto o due ed inoltre, tappando l'erogazione con la mano l'acqua zampillava da un piccolo foro consentendo di bere più comodamente.
RIONE SCOGLI
COM’ERA E COME SI VIVEVA
3° Pannello
Antica Casa Gotuzzo sotto mareggiata
Siamo nel 1955, il mare ne aveva già lambito le fondamenta, poi per fortuna le imponenti difese degli anni '60 scongiurarono il pericolo di essere spazzata via. Ma dal 1821 al 1950 circa, ben 43 palazzi o caseggiati, lungo il litorale di Chiavari, furono abbattuti dalle incessanti mareggiate per il contemporaneo avanzare del mare
A volte le mareggiate più violente oltrepassavano l’Antica Casa Gotuzzo e il mare, non trovando ostacoli, invadeva la piazza e giungeva a lambire la ferrovia.“In quei giorni era quasi impossibile uscire di casa e bisognava arrangiarsi in tutto” racconta Franco Tommasino.
Piazza Gagliardo fine ‘800
Sulla destra le case Raffo. Corso Valparaiso a quel tempo si chiamava Via Olearia. Le case sul litorale verso il mare erano state costruite dagli armatori Raffo e Casaretto con i profitti realizzati per il commercio dell’olio di oliva per rifornire le fabbriche di sapone di Marsiglia e Savona. Per questo la chiamarono Via Olearia, quasi un ringraziamento a questo redditizio commercio.
La pesca era praticata in forme del tutto diverse da quelle attuali: le reti erano di dimensioni ridotte, in cotone, e venivano tinte periodicamente con il “tannino“ (colorante estratto dalla corteccia dei pini) per ragioni di mimetismo e per aumentarne la durata. Il calderone per tingere le reti era proprio nel mezzo della Piazza verso lo scalandrone, per varare le barche, che erano quasi esclusivamente gozzi o piccole barche da pesca. Il diporto era ancora di là a venire.
Erano le mani esperte dei pescatori e delle loro donne a riparare le reti: pochissimi ormai ricordano che pochi lustri fa, le reti venivano stese ad asciugare sul viale “Nuovo” cioè Corso Buenos Aires, in una lunga teoria che da via Argiroffo arrivava oltre le serre dei fiori della ditta Crovetto.
Le donne che cucivano le reti avevano l’occhio attento e, con la mano veloce, trattenevano e tendevano la rete con l’aiuto di un alluce e grazie ad una “navetta” di legno o di osso ne ricucivano gli strappi.
L’attività del pescatore era faticosa, senza orari, assai poco redditizia. Oltre a ciò, prestare soccorso a chi si trovava in difficoltà in mare era estremamente difficile e i punti di riferimento per la navigazione erano ottici: le cime dei monti, i campanili, i fari, le stelle. Quando la notte, approssimandosi un fortunale, il mare “entrava”, qualcuno correva sempre di porta in porta a svegliare tutti, si che la gente si affrettava sulla spiaggia per portare al riparo le barche che erano sulla battigia, cominciando da quelle più minacciate. Altre volte, sempre sotto le stelle, i pescatori giungevano a terra con le “manate” colme di pesci “immagliati” e questa era un’altra causa di risvegli improvvisi per il rione; nessuno però si faceva pregare per portare aiuto e liberare le reti dai pesci. A operazione finita il “Gin Gin Tirone“ ed il “Tacchetti” spedivano i ragazzi a comprare della focaccia calda che poi veniva distribuita a
tutti assieme al vino ed a un po’ di pesce fresco che il “Beppe Gambadilegno” si incaricava di cuocere sulla “ciappa”. II modo di lavarsi dei ragazzi era abbastanza spiccio: un tuffo in mare: poi, via! A scuola .... qualche volta ...
1870 - Scorcio dei Cantieri Navali Gotuzzo e di Corso Valparaiso
Già via Olearia (1815-1888) e poi via al Cantiere (1888-1938). Sulla destra le case Raffo.
1870 - Questa è la foto antica dalla quale Amedeo Devoto ha dipinto il quadro qui riprodotto. Notare nelle case Raffo che il primo magazzino ha già subito una iniziale demolizione da parte del mare. Notare altresì l’abbigliamento delle persone ritratte.
4° Pannello
RIONE SCOGLI
COM’ERA E COME SI VIVEVA
1880 - Retrospettiva del Rione Scogli nella parte di ponente.
Nei primi anni del ‘900 questi edifici furono tutti distrutti dalle mareggiate. Erano le cosidette “Case Canepa”. La colonia Fara, inaugurata nel 1938, fu edificata nell’area occupata dalle due case di sinistra dopo che, nel 1908 era stata deviata anche la ferrovia più a monte per via dell’avanzare del mare.
In questo piccolo mondo le porte di casa non erano mai chiuse a chiave, si che quando era necessario allontanarsi per le festività della Madonna delle Grazie, le chiavi, dimenticate in qualche cassetto, erano spesso introvabili.
La vita di questa piazza è stata talmente legata al mare che tutte le cose agli “Scogli” ne erano impregnate o ne portavano i segni: gli intonaci delle case, di colori così solari, ma che non duravano mai troppo a lungo, i gradini rialzati delle porte, le barche con le scalmiere consumate e i paglioli opachi e stinti, gli scantinati che odoravano di antico e di acciughe sotto sale.
Sale che, sciolto in dose robusta nei pentoloni dove si bollivano i “bianchetti”, garantiva in modo semplice ma efficace la loro conservazione durante il trasporto fino ai mercati del Nord Italia; quello stesso sale che durante l’ultimo conflitto mondiale rappresentò per la gente di qui una piccola ricchezza da barattare
con il necessario, allora introvabile. “Scogli”.... Questa piazza offre ancora, ogni giorno, uno spettacolo indimenticabile: sono le sue luci, che cambiano con le stagioni e con l’ora del giorno, che trascorrono sui suoi tetti e sul suo selciato tessuto di arabeschi di porfido.
Ogni alba ed ogni tramonto dipingono negli occhi lo stesso stupore: quello di una cosa nuova, mai vista prima. E’ un tripudio di colori, una tavolozza che spazia dal violetto al rosso, al verde e al giallo o all’arancione ed ogni nube o fiocco di vapore “si tinge di incredibile“; e il mare riflette questi colori: li assorbe e se ne appropria per restituirli a chi guarda, più luminosi ancora, ricchi del suo baluginìo e del suo sfavillare, dell’oro e dell’argento, del suo incessante movimento.
Gli uomini e le donne di questo incantevole angolo del Tigullio erano gente semplice, ma solida, gente non comune. II mare, che colorava la pelle dell’uomo e ne scavava le rughe, donava loro, testimoni le fotografie, uno sguardo diverso, quasi surreale. In quegli sguardi si poteva leggere la libertà, la tenacia e l’onestà; la consapevolezza di ciò che è essenziale, e la fede salda e sincera di chi, da secoli viveva ai piedi di un Santuario: quello della Madonna dell’Olivo, sulla collina di Bacezza. Ora è cambiato tutto qui agli “Scogli”. Di questo cambiamento fa parte anche la struttura immobiliare dello Cantiere Navale dei Gotuzzo costruito nel 1908 e sostituito da quello attuale negli anni ‘70; ma il mare no, nei suoi movimenti è sempre lo stesso per fortuna, anche se le spiagge specie in estate, non sono più piene di barche di pescatori ma di ben altro. Così, abbiamo pensato valesse la pena di ricordare questo “mondo antico“ che non esiste più.
Ma l’inesorabile scandire del tempo che cambia e spesso stravolge tutto, fa parte della vita di ognuno di noi e, nostro malgrado, dobbiamo accettarlo, anche se, grazie ad Amedeo Devoto ed ai suoi dipinti, lo possiamo solo ricordare, con infinita nostalgia.
Piazza Gagliardo nel 1937 circa
Sono già sparite dieci delle 13 Case Raffo costruite nel 1815. Il mare risparmiò soltanto le treccostruzioni tra il Nelson Pub e il Bar 4 Archi. Pastorino Tacchetti a sinistra rigoverna la rete sotto la sua osteria. Sulla destra al centro l’Antica Casa Gotuzzo e l’attuale edificio del Ristorante Vecchio Borgo già “Copetin”.
1919 - Veduta dei Cantieri Navali Gotuzzo con 3 velieri in costruzione.
La goletta “Montalto” è pronta al varo. Notare sulla destra l’edificio del Cantiere Navale Gotuzzo con i portici ad arco ed il tetto di tegole rosse tipo “marsiglia”. La pratica per l'ampliamento e la costruzione del nuovo Cantiere Navale dei Gotuzzo cominciò il 20 settembre del 1857 terminando nei primi decenni del '900. Ci vollero pertanto oltre 50 anni di burocrazia per costruire il nuovo cantiere navale. Un capannone che nella sua semplicità si intonava perfettamente con le costruzioni della zona, conferendole un aspetto piacevole e di buon gusto.
1919 - Veduta dei Cantieri Navali Gotuzzo con 3 velieri in costruzione; un quarto è pronto al varo ed è il Brigantino Goletta MONTALTO
1900/1945 - Piazza degli Scogli
Così come veniva chiamata da Franco “Mario” Tommasino che è anche il costruttore del plastico conservato nell'Antica Casa Gotuzzo. E' la topografia esatta di Piazza Gagliardo.
Bibliografia: “Chiavari Marinara dall’Epoca Eroica della Vela - Storia del Rione Scogli” edito nel 1993 (testo tratto da un articolo di Luca Gibelli).
I quadri e le fotografie riprodotte fanno parte della collezione privata di Ernani Andreatta. Amedeo Devoto (1935-2013) è l’autore dei dipinti riprodotti.
A cura del webmaster Carlo GATTI
Rapallo, 12 Agosto 2014
I MITICI CARAVANA - Prime Regolamentazioni
I MITICI Caravana
Le prime regolamentazioni del lavoro
Prima che il Regno Sabaudo annettesse Genova ai suoi territori, i rapporti di lavoro erano regolamentati, si fa per dire, direttamente fra gli interessati; una stretta di mano e…vinca il più forte, che poi era sempre lo stesso. Non a caso, all’epoca, il datore di lavoro, si chiamava “padrone”.
Arrivato il Regno, bisognava far capire che eravamo una comunità moderna ed allora s'istituì, per la prima volta a Genova, un vero e proprio “libretto di lavoro” che portasse a conoscenza delle parti contraenti, le norme previste dalla nuova legge, promulgata per disciplinare la materia.
Nel ricercare documenti del nostro passato, me n’è capitato per le mani una copia, fra le prime stampate, risalente all’inizio della seconda metà del ’800.
Il documento, scritto in italiano e francese, quest’ultima era lingua in uso a Casa Savoia e fra l’alta borghesia torinese, doveva essere conservato dal datore di lavoro per tutto il tempo che durava il rapporto; quello che ho visto si riferiva ad una domestica che, da diciotto anni, lavorava sotto il medesimo padrone.
Leggendo le norme, si riceve la sensazione che il dipendente fosse ritenuto un irresponsabile, quasi equiparato ad un qualsiasi animale domestico presente nella casa. Di tutte le infrazioni sarebbe andato incontro non obbedendo, avrebbe certamente “filato liscio” o pagata cara la mancanza. Duecento anni prima, una necessità assai simile deve aver suggerito l’idea di costruire, in Genova, un gran ricovero entro il quale riunire tutti i poveri: l’Albergo dei Poveri, per l’appunto.che egli avrebbe potuto commettere verso terzi, ne rispondeva direttamente e pienamente il suo datore di lavoro che poi, a sua volta, aveva diritto di rivalersi sul dipendente colpevole. Così, ogni nuovo padrone, prima di assumere o pagare il dipendente, doveva controllare se gli interrotti rapporti con il precedente, fossero stati pienamente soddisfacenti per quest’ultimo, pena il rifondere lui stesso quanto ancora fosse rimasto in contenzioso.
Chi sovrintendeva a questi rapporti era nientemeno che il Commissario di Pubblica Sicurezza competente al quale, in caso di licenziamento e nell'attesa che il disoccupato avesse trovato un nuovo lavoro, bisognava riconsegnare il libretto; doveva provvedere lui a che il nominativo del disoccupato, fintanto che rimaneva tale, fosse iscritto direttamente nelle liste dei…..sospetti.
Questa classificazione la dice lunga su com’era trattato il dipendente; le misere paghe correnti all’epoca, evidentemente era notorio, non gli avrebbero permesso di poter accantonare qualcosa per sopravvivere sia lui sia la sua famiglia, ad un periodo di disoccupazione; ciò lo avrebbe indotto a delinquere per vivere e allora, vivaddio, tanto valeva, per evitare inutili passaggi burocratici, iscrivendolo subito fra i possibili “sospetti”, indipendentemente dall’aver già commessa o meno, colpa. Prima o poi ci sarebbe cascato.
Il dubbio è che quella legge, più che disciplinare i rapporti di lavoro, servisse a controllare i poveri, schedandoli e localizzandoli. Non potendo la Polizia tenerli tutti sotto controllo, responsabilizzando i padroni, avrebbero provveduto loro a che tutto filasse liscio facendo valere, con la consueta durezza, coperta dalla più totale impunità, il loro potere; il dipendente, sapendo a quale alternativa sarebbe andato incontro non obbedendo, avrebbe certamente “filato liscio” o pagata cara la mancanza.
Albergo dei Poveri - Genova
Duecento anni prima, una necessità assai simile deve aver suggerito l’idea di costruire, in Genova, un gran ricovero entro il quale riunire tutti i poveri: l’Albergo dei Poveri, per l’appunto.
Fu scelto un sito appena fuori le mura, nella parte Nord Occidentale della Città, nella valletta della Carbonara, dove ancor oggi l’imponente edificio si trova. Non fecero però neppure a tempo ad iniziarlo, che una delle ricorrenti epidemie di peste ne interruppe i lavori per due anni.
La città, all’epoca in piena espansione e benessere, attirava ogni genìa di persone che, nell’abbondanza, potevano trovare come rimediare un pasto e, forse, anche una cena; fu quindi invasa da mendicanti, pezzenti e prostitute. La cosa preoccupò sia la nobiltà sia il potere (all’epoca le due autorità coincidevano) di quel tanto che se ne presero cura o, meglio, si protessero riunendo appunto in quel palazzo-ricovero tutti i bisognosi; controllarne ogni entrata od uscita verificandone costantemente la presenza, fu assai più facile e meno dispendioso che girare per la città a prevenire i disordini.
Per le prostitute invece operava un apposito <Illustrissimo Magistrato >, un lenone istituzionale, che, fin dal 1418, badava a riscuotere la quota spettante alla Repubblica, ancor prima che fosse consumata la marchetta, ritirandola proprio all’ingresso di una bella fetta di città, recintata e a loro riservata; con quei soldi, per anni, la Repubblica finanziò l’Opera della Porto e del Molo.
Da un altro libercolo d’epoca, si rileva che Vittorio Emanuele II, Re di Sardegna, di Cipro e di Gerusalemme, Duca di Savoia, di Genova, Principe di Piemonte, ecc. ecc., promulgò un < Regolamento e Tariffa pel servizio dei Facchini di Genova > dove, fatte salve le speciali disposizioni per i facchini da grano, da vino, e quelli del Ponte Spinola, del Ponte Reale e del Ponte Legna (in sostanza le zone dove hanno sempre operato i “camalli”), si affermava che tutti i cittadini possono, se scelti, esercitare tale mestiere all’interno della Città e, fra questa e i Ponti (gli attuali moli). Nell’occasione erano equiparati ai genovesi i cittadini sardi quivi residenti, sino allora parzialmente emarginati, con l’avvertenza, all’Articolo 6, che < Niuno potrà far parte, ad un tempo, delle due categorie >. L’Articolo 4, ci fa capire come all’epoca il porto funzionasse <I facchini delle suddette categorie (quelle dell’elenco sopra riportate) non potranno impedire ai negozianti di sbarcare le merci a quel Ponte che loro converrà…> Il monopolio, che questo articolo tendeva ad eliminare, invece lentamente strozzò il porto e, per oltre un secolo, condizionò l’attività portuale e, attraverso questo mal concepito cooperativismo, parte del benessere della Città; la politicizzazione poi, fece il resto.
Anticamente la corporazione dei portuali ha rappresentato per Genova un punto di forza ma, data l’importanza vitale per l’economia cittadina, poteva anche rappresentare un latente pericolo, specie in un’epoca in cui, XIV e XV secolo, le faide fra le potenti famiglie sovvertivano continuamente il potere nella città. Tradizionalmente, in porto, lavoravano i bergamaschi, forti e pacifici lavoratori che, non essendo genovesi, si sentivano estranei alle “beghe” locali; ma se si fossero schierati, avrebbero potuto sovvertire le sorti a favore di chi avessero difeso, determinando la sconfitta certa per l’avversario. Allora, per garantirne la neutralità senza perdere la loro preziosa e determinante presenza in porto, il Senato decretò che il posto di <caravana >, scaricatore, sarebbe stato appannaggio esclusivo dei cittadini bergamaschi; per poter essere però dichiarati tali, era indispensabile certificare di essere nati nella “Bergamasca”. Così avveniva che le madri incinte, se volevano garantire ai figli sicuri posti di lavoro, dovevano sobbarcarsi un estenuante viaggio per andarli a partorire nei territori d’origine, e, con gli attestati dimostranti che il figlio non era nato a Genova, rinunciavano a che ne divenisse cittadino compresi tutti i conseguenti diritti che quello status, comportava; in questo modo Genova si garantì la totale estraneità dei camalli, gente robusta e dalle mani pesanti, alla vita pubblica locale. Il dizionario Genovese–Italiano del Casaccia, alla voce “caravana” puntualizza: <Chiamavansi già da noi con tal nome alcuni individui, nativi di Bergamo, ammessi per la loro buona condotta e fedeltà a facchineggiare nel nostro Portofranco: oggidì furono sostituiti dai nostri>.Questo come gli altri Dizionari analoghi, editi pressoché contemporaneamente in tutta Italia sul finire dell‘800, li volle Casa Savoia, impegnata a far parlare italiano l’intera comunità nazionale; diede incarico ad eminenti professori locali affinché, in ogni Regione, ne pubblicassero uno che traducesse in italiano i termini del dialetto locale, ma non viceversa, perché l’idioma regionale fu ritenuto fonte d’incomprensioni e campanilistiche divisioni e, non invece un patrimonio culturale da conservare. Ecco perché esistono solo glossari che traducono in italiano i vari dialetti, ma non viceversa. Con lo stesso libercolo sopra accennato, s’istituì anche la figura del “Console”, quale rappresentante dei facchini ed eletto da ciascuna categoria; in oltre la città e il porto vengono suddivise in “zone” e si regolamenta il trasporto nell’ambito delle singole circoscrizioni o fra zona e zona, determinandone le tariffe. Stabilisce anche i pesi sopportabili ed i relativi compensi per retribuire il lavoro effettuato per scaricare le navi, comprese quelle in quarantena, regolando il conseguente sbarco e trasporto a terra delle derrate, prevedendo anche l’uso delle chiatte; si trattava di larghi, robusti barconi da affiancare alla nave e sulle quali scaricare direttamente la merce, da poi essere trainate sino ai moli e, all’occorrenza, coperte da teloni impermeabili, potevano trasformarsi in veri e propri magazzini galleggianti per un provvisorio stoccaggio. Stabiliva altresì le tariffe e la percorrenza in metri, in base alle quali variare le retribuzioni per il trasporto dal molo al magazzino e, giuntivi, le maggiorazioni da conteggiare a seconda del piano al quale la merce doveva essere issata a spalle. portata. Nelle <Disposizioni Generali e Particolari > determina che, come norma, il carico trasportabile, da ritenersi “usuale” per ogni facchino, è di cento chilogrammi; in fine puntualizza che è data facoltà ai negozianti di inserire, nella squadra dei facchini, anche uno di loro fiducia.Tutto quanto sopra fu sancito <Addì 15 Febbraio 1851, Visto d’Ordine di S.M.- Il Ministro Segretario di Stato per la Marina, Agricoltura e Commercio, Camillo Cavour>.
Medaglia commemorariva della Compagnia Unica Lavoratori Merci Varie del Porto di Genova
La statua dedicata ai Caravana
La ragione di tal nome? Il vocabolo deriva dal persiano kairewan che significa, come in italiano il vocabolo carovana, compagnia di viaggiatori. E crediamo di essere nel vero ritenendo che quella parola orientale sia passata nella lingua italiana proprio attraverso Genova e i genovesi, considerate le altre non poche parole arabe, greche, e orientali in genere, del dialetto genovese.
Allora, per garantirne la neutralità senza perdere la loro preziosa e determinante presenza in porto, il Senato decretò che il posto di <caravana >, scaricatore, sarebbe stato appannaggio esclusivo dei cittadini bergamaschi; per poter essere però dichiarati tali, era indispensabile certificare di essere nati nella “Bergamasca”. Così avveniva che le madri incinte, se volevano garantire ai figli sicuri posti di lavoro, dovevano sobbarcarsi un estenuante viaggio per andarli a partorire nei territori d’origine, e, con gli attestati dimostranti che il figlio non era nato a Genova, rinunciavano a che ne divenisse cittadino compresi tutti i conseguenti diritti che quello status, comportava; in questo modo Genova si garantì la totale estraneità dei camalli, gente robusta e dalle mani pesanti, alla vita pubblica locale.
Il dizionario Genovese–Italiano del Casaccia, alla voce “caravana” puntualizza: <Chiamavansi già da noi con tal nome alcuni individui, nativi di Bergamo, ammessi per la loro buona condotta e fedeltà a facchineggiare nel nostro Portofranco: oggidì furono sostituiti dai nostri>.
Il Porto Vecchio a fine ‘800
Questo come gli altri Dizionari analoghi, editi pressoché contemporaneamente in tutta Italia sul finire dell‘800, li volle Casa Savoia, impegnata a far parlare italiano l’intera comunità nazionale; diede incarico ad eminenti professori locali affinché, in ogni Regione, ne pubblicassero uno che traducesse in italiano i termini del dialetto locale, ma non viceversa, perché l’idioma regionale fu ritenuto fonte d’incomprensioni e campanilistiche divisioni e, non invece un patrimonio culturale da conservare. Ecco perché esistono solo glossari che traducono in italiano i vari dialetti, ma non viceversa. Con lo stesso libercolo sopra accennato, s’istituì anche la figura del “Console”, quale rappresentante dei facchini ed eletto da ciascuna categoria; in oltre la città e il porto vengono suddivise in “zone” e si regolamenta il trasporto nell’ambito delle singole circoscrizioni o fra zona e zona, determinandone le tariffe. Stabilisce anche i pesi sopportabili ed i relativi compensi per retribuire il lavoro effettuato per scaricare le navi, comprese quelle in quarantena, regolando il conseguente sbarco e trasporto a terra delle derrate, prevedendo anche l’uso delle chiatte; si trattava di larghi, robusti barconi da affiancare alla nave e sulle quali scaricare direttamente la merce, da poi essere trainate sino ai moli e, all’occorrenza, coperte da teloni impermeabili, potevano trasformarsi in veri e propri magazzini galleggianti per un provvisorio stoccaggio. Stabiliva altresì le tariffe e la percorrenza in metri, in base alle quali variare le retribuzioni per il trasporto dal molo al magazzino e, giuntivi, le maggiorazioni da conteggiare a seconda del piano al quale la merce doveva essere issata a spalle, portata.
Nelle <Disposizioni Generali e Particolari > determina che, come norma, il carico trasportabile, da ritenersi “usuale” per ogni facchino, è di cento chilogrammi; in fine puntualizza che è data facoltà ai negozianti di inserire, nella squadra dei facchini, anche uno di loro fiducia.
Tutto quanto sopra fu sancito <Addì 15 Febbraio 1851, Visto d’Ordine di S.M.- Il Ministro Segretario di Stato per la Marina, Agricoltura e Commercio, Camillo Cavour >.
Renzo BAGNASCO
I CARAVANA
In diversi porti italiani a partire dal XIV secolo, i bergamaschi risultano inquadrati come facchini: a Pisa la maggior parte proviene da Urgnano mentre a Venezia l’importante Compagnia dei Bastagi operante alla Dogana del porto è formata esclusivamente da bergamaschi. Nella Genova medioevale tra le varie arti esercitate da stranieri si segnale per la sua rigorosa organizzazione interna e per i rilevanti compiti ad essa affidati, proprio la Compagnia dei Caravana, cioè i facchini della Dogana, detti in genovese camalli. Quasi tutti di origine lombarda fino al XVI secolo, dal 1576 si sancisce rigidamente l’obbligo e l’esclusività della provenienza bergamasca. I cognomi dei membri della Compagnia che vengono registrati nei documenti ufficiali sono infatti tutti di sicura origine bergamasca e tra le varie località di provenienza si segnalano soprattutto Brembilla, Dossena, Serina e Zogno in Val Brembana. Organizzata secondo i consueti rigidi canoni corporativi, la Compagnia dei Caravana mantiene sempre un ruolo egemone nell’ambito delle attività portuali genovesi fino al XIX secolo, quando la provenienza delle valli di Bergamo inizia a diventare più un’eccezione che una regola statutariamente sancita.
Nota del webmaster Carlo GATTI
Rapallo, 11 Luglio 2014
PROVERBI MARINARI Italiani e Genovesi
PROVERBI IN LINGUA ITALIANA
-Il sapere ha un piede in terra e l’altro in mare.
-Scienza, casa, virtù e mare molto fan l’uomo avanzare.
-Un uccello di mare ne val due di bosco.
-Chi va e torna, fa buon viaggio.
-Popolo marinaro, popolo libero.
-Chi va per il mondo impara a vivere.
-Tre cose fanno l’uomo accorto: lite, donne e porto.
-Chi ha passato il guado sa quanta acqua tiene.
-Piè di montagna e porto di mare fanno l’uomo profittare.
-Chi non s’avventura non ha ventura.
-Chi non sa pregare, vada in mare a navigare.
-Chi non va per mare, Dio non sa pregare.
-Chi scappa ad una tempesta, ne scappa cento.
-Il mare fa la fortuna ma non le fonti.
-Abbi fortuna e gettati in mare.
-Loda il mare ma tieniti la terra.
-Preparati al mare prima di entrarvi.
-Chi dice navigar dice disagio.
-Mare, fuoco e femmina tre male cose.
-Meglio chiamar gli osti in terra che i Santi in paradiso.
-Chi fa due volte naufragio, a torto accusa il mare.
-Meglio stare al palo che annegare.
-Acqua di mare non porta mai quiete.
-Chi non ha navigato non sa che sia male.
- La fine del corsaro è annegare.
-La bellezza, il fuoco e il mare fanno l’uom pericolare.
-Chi vuol viaggiare a stento, metta la prora al vento.
-Dal mare sale, dalla donna male.
-Se debbo annegare, voglio annegarmi in grande mare.
-In tempo di tempesta, ogni scoglio è porto.
-Chi sa navigare, va al fondo; chi non sa navigare, anche.
-Chi ha danari fa navi.
-Chi ha bevuto al mare può bere anche alla pozza.
-Chi è portato giù dall’acqua si abbranca ad ogni spino.
-Chi s’affoga si attaccherebbe ai rasoi.
-Chi casca in mare s’abbraccia anche al serpente.
-Chi scioglie le vele ad ogni vento, arriva spesso a porto di tormento.
-Vento potente, fotte la corrente.
-I temporali più grossi vengono all’improvviso.
-Quando si balla nella tempesta ci si dimentica dei temporali.
-Ben diremo e ben faremo: ma va la barca senza remo?
-Fama vola e la barca cammina.
-Vascello torto purché cammini dritto.
-Casa senza amministrazione, nave senza timone.
-Gran nave vuol grand’acqua.
-Nave senza timone va presto al fondo.
-Gran nave, gran pensiero.
-A nave rotta ogni vento è contrario.
-Non giudicar la nave stando a terra.
-In nave persa, tutti son piloti.
-Tre cose son facili a credere:uomo morto, donna gravida e nave rotta.
-Dove va la nave può ire il brigantino (infatti è più piccolo).
-A tal nave, tal battello.
-Un po’ di bene e un po’ di male tien la barca dritta.
-Dove può andare barca, non vada carro.
-Nave genovese, mercante fiorentino.
-Senza barca non si naviga.
-Per un peccatore perisce una nave.
-Chi non unge non vara.
-La bandiera copre…la mercanzia.
-Ogni nave fa acqua.
-Chi non rassetta il buchino, rassetterà il bucone.
-Chi s’è imbarcato con il diavolo ha da stare in sua compagnia.
-Tira più un pel di femmina che gomena di nave.
-Chi mette pece nella barca degli altri, perde pece e barca.
-Barca luccicante non guadagna.
-A barca sfondata non basta la sassola.
-Quando la barca và, qualunque coglione la sa guidare.
-Barca ormeggiata non fa strada.
-A barca rotta, ogni vento ben venga.
-Barca rotta, conti fatti.
-Dai e dai la barca arriva all’ormeggio.
-Bastimento non sta senza zavorra.
-Argomento al nocchier son le procelle.
-Il buon nocchiero muta vela ma non tramontana.
-Ognuno sa navigare quando è buon vento.
-Chi ha buon tempo navighi e chi ha denaro, fabbrichi.
-Vento in poppa, mezzo porto.
-Vento in poppa, vele al largo.
-Secondo il vento, la vela.
-Chi non s’aiuta, s’annega.
-Molti piloti, barca a traverso.
-Chi mal naviga, mal arriva.
-Chi naviga contro vento, conviene stia sulle volte.
-Tutti vogano alla galeotta (tirando a sé).
-Altro è vogare, altro arrivare.
-Il mondo è fatto a tondo; chi non sa navigare va a fondo.
-E’ un cattivo andar contro corrente.
-Gran laguna fa buon porto.
-Più vale un remo che sia indietro che dieci che vanno avanti(basta uno contrario per far saltare un affare).
-In tempo di burrasca, ogni tavola basta.
-Isola fa porto.
-L’arte del marinaio morire in mare; l’arte del mercante, fallire.
-Il buon marinaio si conosce al maltempo.
-O polli o grilli; o principe o marinaio.
-Barca rotta, marinaio a spasso.
-Promesse di marinai e incontro d’assassini costano sempre quattrini.
-“Montagnini” e gente acquatica, amicizie e poca pratica.
-Giuramenti d’amore, giuramenti da marinaio.
-I marinai son come la luna; in tutti i paesi ce n’han una.
-L’amor di marinaio non dura un’ora; dove va lui, s’innamora.
-Chi perde in mare, perde in terra.
-Il mondo è come il mare; vi affoga chi non sa nuotare.
-Chi teme acqua e vento, non si metta per mare.
-Il mare è il facchino della terra.
-Chi sa nuotare non se lo scorda mai.
-Come ogni acqua vien dal mare, così ogni acqua torna al mare.
-A togliere senza mai mettere, si seccherebbe il mare.
-Chi vuol prendere a mattonate il mare, perde tempo e mattoni.
-Chi teme acqua e vento non si metta in mare.
-Chi lo smidollato mandi al mare non aspetti il suo tornare.
-Chi casca in mare e non si bagna, paga la pena.
-Naviglie ad acqua, febbre bella e fatta.
-Per mare non ci stanno le taverne.
-Merita di bere il mare a capo chino chi, con l’acqua, rovina il vino.
-Né moglie, né acqua, né sale a chi non te ne chiede non glie ne dare.
-Onda che si piega, si riversa.
-In cento anni e cento mesi, il mare si riprende quello che gli vien tolto.
-Chi dorme non piglia pesci.
-Invan si pesca se l’amo non ha l’esca.
-Dal mar salato nasce il pesce fresco.
-Un pesce in man vale più che uno in mare.
-Meglio padrone di una barchetta che garzone di nave.
-Pesce cotto e carne cruda.
-Carne giovane e pesce vecchio.
-Pesce in mare e carne in terra.
-Tramontana torba e scirocco chiaro, tieniti all’erta o marinaio.
-Vento a libeccio; ne pane ne neccio (castagnaccio toscano)
-Levante chiaro e tramontana scura, buttati in mare e non aver paura.
-Nuvole grosse, vento a mucchi.
-Dal mare le “pecorelle” annunzian le procelle.
-Pallidezza del nocchiero, di burrasca segno vero.
-Arco in mare, buon tempo vuol fare.
-Nave senza timone va presto a fondo.
-Barca senza timone non può tenere la rotta.
-Chi dorme non piglia pesci.
-Chi non ha fortuna non vada a pescare.
PROVERBI LIGURI (liberamente tradotti)
- A barca ormai senza speranza, Dio trova un porto.
A barca disperâ Dio treuva porto.
- Acqua dal cielo, acciughe nella rete.
Aegua in çe anciùe in ta ræ.
- A Febbraio la vita del mare si risveglia.
A Frevà primmaveja in mâ.
- Affinché sia bel tempo; scirocco a mezzodì e a sera ponentino.
Pe ese tempö fin: sciöco a mezzogiorno e a sèja ponentin.
- A nave in avaria, ogni vento è contrario.
A nave rotta, ogni vento l’è contraio.
- A seconda del vento, fai vela.
A secondo do vento fanni e veje.
- Attrezzati prima di entrare in mare.
Preparite a-o mâ primma d’intraghe.
- Bandiera vecchia onore di Capitano
Bandëa vegia onô do Capitànio
- Barca carica regge il vento.
Barco carrigòu o reze ô vento.
- Calma piatta invernale, occhio marinaio che il tempo vuol cambiare.
Carma ciatta d’inverno stà all’euggio mainâ che u tempo o vue cangiâ.
- Carne al sole ma pesce all’ombra.
Carne a o sô e pescio a l’ombra.
- Cinque lire di meno ma liberi di mugugnare.
Cinque franchi de meno ma o mugugno.
- Cielo a “pani” se non piove oggi pioverà domani.
Çè a pan, se no ciêuve anchêu ciûve doman.
- Cielo a pagnotte, se non piove di giorno pioverà di notte.
Çè faeto a pagnotte, se no ciêuve au giorno ciêuve a nêutte.
- Cielo a pecorelle, acqua a catinelle.
Çè a pegoëtte, ægua a conchette.
- Chi annoda bene, facilmente snoda.
Chi ben liga, ben derliga.
- Chi è in mare naviga, chi è a terra giudica.
Chi l’è in mà naviga, chi l’è in taera giudica.
- Chi è padrone del mare è padrone della terra.
Chi l’è padron do mâ l’è padron da tæra.
- Chi ha del pesce vada subito ad esitàrlo.
Chi ha pescio, cammin-e.
- Chi impugna la barra, governa il timone.
Chi manezza a manoela, manezza o timon.
- Chi lavora mangia un’acciuga, chi non lavora, (ahimè), due.
Chi lâoa mangia un’anciôa chi no lâoa ne magia due.
- Chi naviga male, male arriva.
Chi mä naviga, mä arriva.
- Chi non ha mai navigato, non sa cosa sia il mare.
Chi no l’ha navegòu no sa cöse l’è o mâ.
- Chi non si dà da fare, annega.
Chi no s’aggiûtta nega.
- Chi orina o sputa sopravvento, se li ritrova addosso.
Chi piscia o spûa sorvevento o se piscia o spûa adosso.
- Chi orina contro vento si bagna le scarpe.
Chi piscia contro vento se bagna e scarpe.
- Chi spinge la barca in mare, un piede almeno ce l’ha ancora in terra.
Chi in mâ la barca abbriva,con un pè o sta in scia riva.
- Chi vuol passare per fesso, giudichi il tempo.
Chi veu passà per belinon, giudighe ô tempô.
- Chi orina contro vento si bagna le scarpe.
Chi piscia contro vento se bagna e scarpe.
- Chi sa navigare bene, solca qualunque mare.
Chi sa ben navegâ passa ogni mâ.
- Confondere il pene con un cordino.
Confonde o belin con a terragninn-a
- Con rete bucata è un brutto pescare.
Rae pertuzâ, grammo pescâ.
- Dal mare sale, dalla donna male (in dialetto mare e male hanno egual grafia)
Da-o mâ sâ, da donna mâ.
- Donna, cavallo e barca sono di chi li cavalca.
Donna, cavallo e barca son de chi e cavarca.
- Dopo il lampo segue il tuono.
Doppo o lampo ven o tron.
- Dopo il bel tempo viene il brutto.
Doppo u bello ven o brutto.
- Doppiato Portofino, moglie ti saluto: sono tornato scapolo.
Passòu ô Monte de Portofin te salùo maggè che son fantin.
- Due a comandare, barca sugli scogli.
Duì Capitanni, barco in tu schêuggi.
- Dove va la barca và Baciccia.
Dove va la barca, va Baciccia.
- E’ brutto navigare contro corrente.
L’è cattivo navegâ contro a corrente.
- E’ il marinaio che rovina il porto.
L’è o mainà che o ruinn-a o pôrto.
- E’ meglio essere padroni di una sassola che capitano di una nave.
L’è mëgio ëse padrön d’unn-a sàssoa che capitanino d’unn-a nave.
- Fare come lo sciocco che per andare a poppa girava l’albero di prua.
Fa comme o demöa che pè andà a poppa o giâva l’erbo de prua.
- Fuggi la tempesta a tutto timone.
Scappa ô mà groussô a fi de roa.
- Fuochi di Sant’Elmo in coperta preannunciano pioggia a lavare coperta e corridoi.
Sant’Ermo in cöverta o lava cöverta e corridô.
- Grande nave, grande pensiero.
Gran nave, gran pensciëo.
- Giornata di mare non può essere tassata (un tempo!)
Giornâ de mâ a no pue ëse tasciâ.
- Il mare è fatto di rotte.
O mâ o l’è faeto de sentè.
- Il marinaio deve saper fare di tutto.
Mainà no ghe ninte che o no sacce fa.
- temporali più sono grossi e più si sfogano.
I tempörari ciù son grossi e ciù se sfogan
- Il vento gonfia le vele.
O vento o carega e veje.
- Il vento nasce a Voltri, si sposa a Cornigliano e finisce a Sampierdarena.
O vento nasce a Vôtri, o se sposa a Corniggen e se perde a Sampêaenn-a.
- In quarantena il marinaio….si annoia.
In quarantenn-à ö mainà ö sö menn-à.
- I pesci grossi stanno sul fondo.
I pesci grossi stan a-o fondo.
- Il buon marinaio si vede con il maltempo.
O mainà bôn ô se conosce con ô tempo grammo.
- Il mondo è tondo e chi non sa navigare va a fondo.
O mondo ô l’è riondo; chi no sa navegà va a-o fondo.
- Il marinaio è difficile da accontentare; quando è a bordo vorrebbe essere a casa e viceversa.
Mainà diffiçile da contentà; quando o lè a bordo ô vô ê a cà, quando ô l’è a cà ô vou êse in mà.
- Il mare (come la vita) ha le onde, prima t’innalza e poi ti …..nasconde.
O mà o ghà e onde, primma o tè mette in mostra e poi o t’asconde.
- Il mondo è come il mare, annega chi non sa nuotare.
O mondo o lé comme o mâ, nega chi no sa nuâ.
- Il tepore dei panni, mai recò danni.
O câdo di panni o n’ha mai portoû di danni.
- L’acqua del mare guarisce le piaghe.
L’aegua do mà a fa sann-à a carne inciagà.
- L’acqua va sempre nel punto più basso.
L’ægua và sempre in to ciù fondo.
- L’amore di un marinaio dura un’ora perché in ogni porto che và, s’innamora.
L’amô do mainâ o dûa ûnn’ôa perché in tutti i porti che o và o s’innamôa
- Lascia scendere l’acqua e salire il vento (non ti opporre al destino)
Lascià andà l’aegua inzù e o vento in sciù.
- La tramontana non inizia a soffiare se il vento di mare non la precede.
A tramontann-a a no s’addescia se o marin a no a remescia.
- Le mogli dei marinai non sono né vedove né maritate.
E mòggê di mainâ no son né vidue ne maiè.
- Loda il mare ma, se puoi, stai a casa.
Lôda o mâ ma stanni a câ.
-Luglio, mentre a terra si “batte” il grano in mare si “batte” a vuoto.
Luggio battuggio.
- Luna coricata, marinaio allerta.
Lunn-a accöegâ mainâ in pê.
- Luna rossa o piove o vento.
Lûnna rossa o piscia o soffia
- Mare, fuoco e donna sono tre cose grame.
Mà, fêugo e donna son tre cose gramme
- Mare da tartarughe o pesci mola( tanto è piatto).
Mâ da tartarûghe o da moe.
- Mare (grosso) da ex voto.
Mâ da quadri.
- Marinaio, mai niente (mani bucate)
Mainâ, mai ninte.
- Marinaio non ti fidare dell’aumentare della marea, del controvento, della mezzaluna alta e di colei che ti lancia un’occhiata.
Mainà no te fià da marea ca mònta, do controvento, da lûnna accoegà e da quella che a te dà un’oggià.
- Meglio maiale che pesce
Mëgio porco che pescio.
- Meglio scandagliare tre volte che finire a secco
L’è megio sondà tre voutte che andà in secco
- Montagne chiare e marina scura, naviga sicuro.
Montagna ciaea e marinn-a scùa mettite a veja sensa puia.
- Mozzi, chierichetti e tamburini ( i più in vista) hanno poche speranze di salvarsi.
Mucciacci, ceighetti e tamburin de reggimento han poca speranse dae portà ô cù a salvamento.
- Nei mesi di grano maturo si pesca poco: negli altri và meglio.
Quande o gran o l’abbonda o pescio l’affonda; quande o gran o l’affonda o pescio abbonda.
- Nave vecchia rende all’armatore.
Nave vëgia, richessa de padron.
- Nebbia bassa buon tempo lascia.
Nebbia bassa bon tempo a lascia.
- Nella coda stanno gli aculei velenosi.
In ta côa ghe sta ô venin.
- Non c’è mai bonaccia senza tempesta.
No ghe mai bônassa sensa bôrrasca-
- Non c’è marinaio che non tema il mare.
No ghè mainà sensa puiaa du mà.
- Non c’è pesce senza lisca
No ghè pescio sensa resca.
- Non conta il viaggio, conta l’arrivo.
O no l’è o viagio che conta ma o porto.
- Non fare come Capitan Pesce che orinava in mare per farlo crescere.
No fâ comme Capitan Pesce che o pisciava in mâ pe fâlo cresce.
- Non giudicare una barca stando a terra.
No giudicà a barca stando in tæra.
- Non si può comprare due soldi di pesce grosso.
No se pêu accattâ due palanche de pescio grosso.
- Non si può scendere più in basso del pagliolo.
No se peò andà ciù sutta du paggiò.
- Non si vende il pesce prima di pescarlo.
No se vende o pescio ancon in mâ.
- Non t’imbarcare mai senza viveri se non vuoi morire di fame.
No te imbarcà sensa galletta se non ti vòu moui de famme.
- Non t’imbarcare senza gallette se non vuoi morire di fame.
No t’imbarcâ sensa beschêutto se ti no vê moî de famme.
- Non t’imbarcare senza la scorta dei viveri.
Non imbarcarte sensa pan.
- Non tuona mai senza poi piovere.
No tronn-a mai che no ciêuve.
- Nuvole rosse o piove o tira vento.
Nûvia rossa o che ciêuve o che buffa.
- Ormeggiare con due ancore a prua.
Ormezzo a barba de gatto.
- Pescatori da canna, uccellatori con il visco, traslocatori dei Cristi (colui che nelle processioni trasloca la grande croce da un portatore ad un altro): fresconi così non ne ho mai visto.
Pescoei da canna, caccioei da vischio, stramuei da Cristo: bellinoin coscì no n’ho mai visto.
- Più è violento il fortunale e prima finisce.
A burrasca ciù a l’ë cattiva e ciù a finïsce aspedïa.
- Più si va al largo e più profondo è il fondale.
Ciù se va foa e ciù ghe fondo.
- Poca gomena, poco marinaio.
Poca çimma, poco mainà.
- Promessa da marinaio: subito fatta ma mai rispettata.
Promissa dö mainà, fito faeta e mai ammiâ.
- Quando i gabbiani volano a terra, la burrasca è vicina.
Quando i ochin xeuan in tæra unn-a burriann-a a no l’è lontann-a.
- Quando il promontorio di Portofino è scuro, piove di sicuro.
Portofin scûo, ciêuve segûo.
- Quando l’acqua è arrivata al sedere, tutti imparano a nuotare.
Quande l’aegua all’arriva ou cù, tutti imparan a noà.
- Quando la barca affonda i topi scappano.
Quande a barca a va ä föndo i ratti scappan.
- Quando le nuvole vanno verso mare, prendi la zappa e vai a zappare; se verso la montagna, copriti con il sacco se non vuoi bagnarti.
Quando le nûvie van a-o mâ, piggia a sappa e va a sappà; quando e nûvie van a muntagna, piggia o saccun che l’ægua a te bagna.
- Quando piove e c’è il sole, le streghe fanno all’amore.
Quande ciêuve a luxe ô sô tutte e strie fan l’amô.
- San Pietro ne vuole uno con se.(Inizia la stagione dei bagni e gli inesperti affogano)
San Pê ne vêu un pel ê.
- Sant’Antonio, Sant’Antonio hai la barba d’oro se ci mandi il vento in poppa ma se ti dimentichi di noi, ce l’hai di stoppa.
Sant’Antonio Sant’Antonio, t’æ a barba d’öu se ti ne mandi o vento in poppa, ma se no ti t’arregordi de nöi, ti l’æ de stoppa.
- Sappi navigare secondo il vento se vuoi arrivare in porto salvo.
Sacci navegà secondo o vento se ti voe arrivà in porto a sarvamento.
- Santa Barbara e San Simone, salvaguardaci dal lampo e dal tuono.
Santa Barbara e San Scimu agguardin da o lampo e da-o trun.
- Scirocco estivo fa morire di sete
Sciöco de stae ô fa moi da sae.
- Se con i venti da mezzodì si formano i fuochi di Sant’Elmo sui pennoni, marinaio controlla le scotte.
Sant’Ermo a-o bu de verga con vento a-i mezzogiorni, mainâ attento a-a scotta.
- Se diviene scuro a tramontana, preparati alla tempesta.
Se lë negro a tramontann-a, preparite a buriann-a.
- Se dopo un po’ di maretta le nuvole lambiscono il monte come fossero fumo, sta per piovere.
Se doppo un po’ de böllezzûmme e nuvie rasan o monte comme u fumme,stà allegro mainâ che t’avanzi o lavaggio.
- Se vai alla guerra, dì una preghiera ma due se vai in mare.
Se ti vae in guaera dinne una preghiera, se ti vae in mà dinne due.
- Senza mozzo e granata di brugo, l’immondizia aumenta.
Sensa mucciaccio e sensa spassuia de brugu a rumenta all’aumenta.
- Senza remo non crei mulinelli.
Sensa remmo nö ghe remoin.
- Senza vino si può navigare, senza il mugugno, no.
Sensa vin se naviga, sensa mugugno no.
- Se si sta ad osservare tutte le nuvole, non si parte più.
Chi dà a mente a tutte e nuvie, no se mette in viagio.
- Stelle brillanti ma senza nuvole avvertono che cambierà il tempo in peggio (non sarà miele).
Stelle che brillano sensa unn-a nuvia in çe, dixan a-o mainâ che o tempo non sa de amê.
- Se piove a Santa Bibiana, piove quaranta giorni e una settimana.
Se ciêuve a Santa Bibiann-a, ciêuve quaranta giorni e unn-a settimann-a-
- Se ciêuve a Santa Bibiann-a, ciêuve quaranta giorni e unn-a settimann-a-
Se piove a Santa Bibiana, piove quaranta giorni e una settimana.
- Se la barca affonda non è certamente colpa di chi ha salpato l’ancora.
Quando a barca a và a picco, no l’è corpa do sarpante.
- Sino a che al mare (mâ come “male”) non gli diranno bene, navigare non mi conviene.
Fin che a-o mâ no ghe dixan ben, navegâ no me conven.
- Sono tutti bravi a navigare con il tempo buono.
Tutti san navegà quande l’è tempo bon.
- Sole sdoppiato, neve e freddo.
Duî sôi, neuive e freido.
- Stelle molto luminose, cambia repentinamente il tempo.
Stelle grosse che fan cieu, cangia o tempo tutto a reo.
- Stelle molto appariscenti, cambia il tempo rapidamente.
Stelle grosse fan gran sciäto, cangia o tempo tutto a rèo.
- Su una nave alla deriva, tutti sono piloti.
In nave persa tutti son pilotti.
- Sul tardi abboccano i muggini.
In sciô tardi i mûsai toccan.
- Tempo, vento, padrone donna e fortuna, possono mutare come fa la luna.
Tempo, vento, padron, donna e fortunn-a se vortan e se regian comme fa a lunn-a.
- Tracciati la rotta e spiega le vele.
Tïte a rotta e allarga e veje.
- Tutto fa, diceva quello che orinava in mare.
Tûtto fa, dixeiva quello ch’o pisciava in mâ.
- Tira più un pelo di donna che l’argano d’una nave.
Tia ciù un peì de mussa che un argano d’en vapore.
- Una volta imparato a nuotare non si dimentica più.
Chi sa nuâ no se-o scordià.
- Uno tira su la pietra e l’altro si prende l’anguilla.
Un o tîa sciû a ciappa e l’atro o piggia l’anghilla.
- Un conto è vogare, altro arrivare.
Atro l’è vögâ, atro l’è arrivà.
- Un po’ di bene e un po’ di male…fanno andare la barca dritta.
Un pô de ben e un pô de mâ o ten a barca drita.
- Un pesce in mano è meglio di uno in mare.
Un pescio in man o l’è mëgio d’un pescio in mâ.
- Uomo di mare; oggi ricco, domani potrebbe questuare.
Ommo de mâ, ancheu ricco e doman a domandà.
- Val più un’oncia i pratica che una lira di scienza.
Vâ ciû unn’onsa de pratica che unn-a lîa de scienza.
- Vale più un “occhiata” che.. dieci “pagari”
Và de ciù una oëgià che dexe pagai.
- Vale più un “occhiata” che.. dieci “pagari”.
Và de ciù una oëgià che dexe pagai.
- Vomitare anche gli intestini per il mal di mare.
Caccià e bele da-o mâ de mâ.
- Voto di marinaio è presto dimenticato; basta che passi la tempesta e se ne scorda.
Voto da mainâ presto o se scorda, passâ a burriann-à ciù o no se ricorda.
A cura di Renzo Bagnasco
e del Webmaster Carlo Gatti
Rapallo, 11 luglio 2014
Nel pieno della TEMPESTA
NEL PIENO DELLA TEMPESTA
Rotta verso Nord Ovest alla ricerca di un po’ di “bonaccia”
Ho avuto la fortuna (o sfortuna) di essere nato in un periodo “speciale”: i miei primi ricordi iniziano nel tragico periodo della Seconda Guerra Mondiale. Qui nella zona di Ortona fu particolarmente cruenta perché era attraversata dalla linea Gustav: nel paese e nella zona nord c'erano i tedeschi, a sud gli alleati…
Proclama che ordinava di lasciare le proprie case
LO SFOLLAMENTO
Ho ancora nitida l’immagine di mamma con le lacrime, quando, con un carretto tutto rotto, lasciammo casa e con le poche cose che avevamo potuto prendere, andammo senza meta verso nord. Era la fine di dicembre. Su quel carretto portavamo un po’ di tutto, ma specialmente coperte e roba per coprirci tutta la famiglia. Giovanni era venuto ad accompagnarci e ritornò subito a Chieti, che era stata dichiarata ‘Città Aperta', dove abitavano le sorelle della moglie che avevano potuto ospitarli. Intanto noi avevamo Rotta NW, ogni tanto mamma mi posava sul carretto, ma i cavalli si lamentavano ed allora mi riprendeva in braccio, mi accostava il visetto al suo e anche se fredda anche lei, solo quel gesto mi scaldava, però ogni tanto mi poggiava per terra (ero troppo pesante per stare sempre in braccio), e mi diceva “mò camin nu ccun mamm!!" (adesso cammina un pò, figlio mio!!)
Durante il viaggio Silvi era stata colpita da una bomba degli Alleati e noi eravamo diretti proprio lì. Passammo vicino a una bellissima villa e mamma, come altre donne, era corsa a vedere se c’era qualcosa da mangiare, ma evidentemente era stata già abbandonata da tempo e ‘visionata’ in precedenza! Tornò con una mattonella di ceramica con l’effige di una Madonna. Chissà, forse fu grazie a quella se dopo varie peripezie tornammo tutti a casa sani e salvi! Io la conservo gelosamente e dietro ho scritto "Preda di guerra di nonna Memena ...", lei l'ha tenuta sempre sul suo letto.
Arrivammo a Roseto degli Abruzzi. ll tempo era inclemente, ma avemmo la fortuna di incontrare un signore che, visto chi eravamo, ci affittò una casetta piccola dove poterci fermare. C'erano anche altre persone delle parti nostre. Ferro e la moglie furono ospitati dalla sorella del "Sordo" quel pescatore che poi, quando sarei cresciuto, sarebbe diventato il mio migliore amico e maestro per ‘arte marinara’. Allora la famiglia era così composta: Papà, Mamma, Silvana, Marinella, Io, il Nonno Nunzio, e Dorina (la colf di nonno e baby sitter di Silvana). Mamma doveva pensare a tutto e specialmente a fare da mangiare, con quel poco che riusciva a racimolare... Fortunatamente papà, essendo ferroviere, percepiva sempre lo stipendio e riusciva a trovare per le campagne limitrofe un po’ di farina, olio e quanto bastava. Poi mamma trasformava subito il tutto in pane, pasta... Devo riconoscere che non abbiamo mai sofferto a fame.
Intanto io a febbraio avevo compiuto 4 anni. Ricordo chiaramente solo due episodi di mamma di quel periodo:
1) quando le avevano detto che i tedeschi avevano preso papà, insieme ad altri, poi fortunatamente era riuscito a nascondersi, però a mamma venne dallo spavento, una bellissima ciocca di capelli bianchi che partiva dalla fronte e si distingueva perfettamente tra i suoi bei capelli neri;
2) la faccia terrorizzata di mamma quando, mentre ero con Dorina, improvvisamente suonò l'allarme aereo. Dorina aveva una paura matta delle bombe e mi lasciò lì dov’ero e scappò al rifugio. Io mi ricordo solo una fornace abbandonata, piena di cacche e che piangevo perché non sapevo cosa fare. Dopo un po’ vidi mamma e tutto finì per il meglio. Roseto degli Abruzzi era una bella località balneare con delle bellissime ville abitate solo di estate, ma per noi non fu proprio una spensierata villeggiatura… Tornammo a ‘casa’ a metà di giugno... ma non c'era rimasto più niente, anche la terra era tutta sconvolta da profonde buche di bombe... sul terreno erano passati i cingoli dei carri armati che avevano distrutto anche l'erba (in mezzo alla quale di solito crescevano anche piante di 'cicoria', buona da mangiare)!
I MIEI PRIMI DIECI ANNI
"LA STORIA DELLA CIVILTÀ DELL'UOMO"
Nei primi 10 anni, ho riattraversato la storia della civiltà dell'uomo!!! Da dove vogliamo cominciare?
LA GROTTA
Spesso, durante la guerra, si "VIVEVA IN UNA GROTTA" costruita apposta per nascondersi dai tedeschi. I primi ricordi cominciano proprio lì dove mamma mi doveva stare sempre vicino per non farmi piangere, altrimenti i tedeschi ci avrebbero individuati e avrebbero preso gli uomini validi... Quando piangevo, mi chiudeva la bocca, con il rischio di soffocarmi. Solo in questa circostanze ricordo mamma preoccupata.
IL VESTIRE
Premetto che ero invidiato da tutti, perché papà era ferroviere e percepiva lo stipendio e, anche se basso, si riusciva a comperare qualcosa. Bastava andare a un chilometro nell’entroterra dove le donne con un PRIMITIVO TELAIO, tessevano la stoffa ed io, piccolo com’ero, restavo ammaliato nel vedere quel telaio dal funzionamento così complicato e dal quale in ultimo veniva fuori quella tela robusta, di colore blu, con la quale, figli e padri vestivano.
Oggi Zà' Stella ha 88 anni, é lucidissima ma parla solo il dialetto stretto; però un interprete che ci regala la traduzione si trova sempre da queste parti: "Tua madre mi aveva raccontato che era riuscita a trovare una vecchia bandiera tricolore e con la parte verde confezionò un "pagliaccetto" per te, come usava allora. Tu avevi meno di quattro anni ma avevi un bel caratterino e non volevi indossarlo, ma poi tua mamma si rese conto che avevi ragione, quella tela ruvida e forte ti pizzicava tra le gambe..."
Durante la chiacchierata Zà Stella ricorda perfettamente di quando gli aerei alleati passavano bassi per bombardare i ponti sui torrenti che si trovavano lì vicino, senza mai riuscire a colpirli... "ogni volta scappavamo terrorizzati in ogni direzione... ma siamo ancora qui...!"
Riprendo il racconto:
Ho visto tosare le pecore, filare la lana (di solito questo era il compito delle nonne), e poi con la lana, fare di tutto, e questo lo faceva anche mamma, calzini, maglie, vestitini per bambine, di tutto, in somma... Con 4 ferri addirittura…
LE SCARPE
Noi bambini da maggio a ottobre andavamo scalzi... Noi avevamo in famiglia lo zio Giovanni (quello che prima della guerra, conduceva l'azienda elettrica del nonno Nunzio, dotato di tanta inventiva oltre che di un innato senso artistico), il quale a noi bambini costruiva degli zoccoletti con un pezzetto di legno sagomato ed una fascia di tela di sacco, inchiodata ai lati… Mamma, per mia sorella specialmente, era capace di fare delle scarpe di spago, bellissime…In autunno mamma mi comprava le scarpe e guai a giocarci a palla (quella di stracci, si intende, per quella di gomma si sarebbe dovuto aspettare ancora un po’) sarebbero dovute durare fino a Pasqua, quando si compravano quelle più leggere. Purtroppo quelle scarpe si consumavano subito, e bisognava rimettere la suola dal calzolaio e, quando si bucavano di nuovo, mamma mi metteva dalla parte interna delle suolette di cartone che duravano qualche giorno, se non pioveva!!! Era “bello” la domenica a messa, quando bisognava inginocchiarsi, si poteva individuare benissimo, grandi e piccini, quelli che avevano le scarpe bucate, perché restavano in piedi con la testa bassa!!!! Io non ho portato mai un paio di scarpe del mio numero... Sempre qualche numero in più perché diceva mamma che mi sarebbe cresciuto il piede e intanto riempiva la punta di cotone, ma non si è mai verificato che fosse necessario togliere quel cotone dalla punta, perché le scarpe si rompevano sempre prima!
IL MANGIARE
Papà, quando eravamo sfollati, andava per le campagne limitrofe e riusciva a rimediare un po’ di farina con la quale mamma era capace di fare tutto dal pane alla pasta. Anche l'olio era difficile trovare. Quando siamo tornati mancava addirittura il sale (Mancavano i cammelli per ripristinare "la via del sale"). Papà lo riportava da Margherita di Savoia, dove c'erano le saline. Spesso mettevamo a bollire l'acqua del mare, finché non evaporava tutta, ma ricordo ancora adesso il sapore amaro di quel sale… Era il periodo del contrabbando, dal Sud, con il treno, portavano al Nord olio, sale, sigarette e altro, ma non pagavano il biglietto e a decine viaggiavano sopra il treno. Io restavo impressionato da quelli che con il treno in moto, saltavano da un vagone all'altro, li chiamavano "gli sciacalli". Spesso quando i treni merci, la notte, restavano fermi alla stazione per dare la precedenza ai passeggeri, venivano completamente saccheggiati e a seguito di ciò le Ferrovie furono costrette a mettere di guardia dei poliziotti. Ogni tanto c’era qualche sparatoria!
LE IMBARCAZIONI EGIZIANE TIPO "RHA" (I CANNIZZI)
Incredibilmente, io, fino a 6/7 anni, non avevo mai visto una barca... A Nord di Ortona c'erano i tedeschi, e a 4 km. A S., gli alleati. Bastava prendere una barca, di notte e con 7 mg. avevi raggiunto la 'libertà'. Tanti hanno provato, molti ci sono riusciti, ma tanti sono stati mitragliati dalle vedette che di continuo, con i potenti fari, cercavano di impedirlo. Le barche, per quanto nascoste e mimetizzate, venivano bruciate dai tedeschi o forate dai colpi di mitra da renderle inagibili, e subito prese come legna da ardere, perché mancava anche quella. Allora i mezzi per potersi allontanare qualche centinaio di mt. dalla riva, per mettere qualche nassa e prendere qualche seppia, venivano fatti i "CANNIZZI"... Erano dei fasci di canne comuni, legati uno all'altro, con la parte più grande a formare la poppa e la parte delle punte, più sottili, leggermente piegate in sù, formavano la prora...!!! SONO PARTITO QUINDI DALL'EPOCA DEGLI EGIZIANI... questi cannizzi' sono nominati anche da D'Annunzio, nel "Trionfo della morte" scritto proprio qui vicino a San Vito, con i quali uno di quei pescatori dei famosi 'trabocchi', spesso lo aiutavano a raggiungere la riva.
I cavi, propriamente detti a terra "funi", non c'erano, allora venivano realizzate con delle trecce fatte di felci che, se facevi scorrere la mano in senso inverso, ricordo, tagliavano come un rasoio..!
I segnali da attaccare a quelle funi costruite con delle felci per salpare e individuare le nasse, venivano utilizzate delle zucche come questa nella foto. Le nasse, visto che la rete non esisteva, venivano fatte di canne o di giunchi. La zucca di quella forma, serviva per usarle come gli uomini primitivi… dall'imbuto per le botti, tagliando la parte superiore, tagliando la parte laterale per costruire qualcosa per prendere liquidi o generi come grano ecc., per bere addirittura aggottando l'acqua da un recipiente tipicamente abruzzese la cosiddetta "conca" fatta di rame, da bravi artigiani locali, con le quali le donne andavano a procurarsi l'acqua alle sorgenti o ai pozzi ed avevano la capacità di portarla sul capo, senza reggerla con le mani. E tanti altri usi ancora. Siamo quindi ritornati all'uso dei popoli primitivi. Molti sono gli aneddoti a proposito dell’uso di queste zucche.
A LEZIONE DI NUOTO NEL 1945
Era un tipo di zucca che da bambini adoperavamo per imparare a nuotare Allora noi non avevamo niente né braccioli né ciambelle. La plastica non era ancora stata inventata e i genitori, se avessero saputo che saremmo andati a fare il bagno, ci avrebbero dato le botte. Loro non venivano al mare, avevano ben altro da pensare...
Qualche volta, quasi di sera, mamma faceva il bagno con qualche sua amica. Ma non aveva il costume e lo faceva con la sottoveste, non c'erano soldi per comperare una gonna, figuriamoci per un costume, non ti dico la mia gioia, quando io mi attaccavo al collo e le stavo sulla schiena e lei nuotava a rana...
Noi bambini, cominciavamo da marzo, ma il bagno lo facevamo nudi, per non bagnare quelle mutandine che portavamo.
Allora per imparare a nuotare, si prendevano due di queste zucche, si legavano con una cimetta di 50 cm. tra di loro, poi si mettevano sotto le ascelle e così si era sicuri di galleggiare (una zucca di quel tipo, sono riuscito a trovarla per farla vedere ai miei nipoti, un reperto!).
Dovevi cercare di imparare subito, perché dove toccavano sotto il braccio quelle zucche avevano una specie di minuscoli chiodini e ti graffiavano da farti uscire il sangue. Avevamo 5 o 6 anni e nessuno di quelli che già avevano imparato aveva voglia di reggerti ecc.
C'è una bella differenza, ma eravamo contenti ugualmente eccetto quando succedeva (e spesso) che quelle mutandine di "percalle" bianche, che lasciavamo in tutta fretta su quei sassi bianchi non riuscivi a trovarle più e così tornavi a casa nudo. Al di là della 'vergogna', i rimproveri di mamma erano come se avessi perso un vestito di Versace e ti rimandava di nuovo a cercarle, se nel frattempo non si era fatta notte! Si ricominciava la mattina seguente di buon’ora, prima che altri potessero trovarle.
LA LUCE ELETTRICA
La prima lampadina l'ho vista a 10/11 anni, nonostante mio nonno avesse una azienda elettrica con una vasta zona di utenze. Finita la guerra, non esisteva più niente: cabina elettrica minata, trasformatori, fili di rame, pali di legno, non esisteva più niente.
Appena tornati, avevano pensato di rimettere su l'azienda, ma dopo poco era uscita una legge per cui dopo 10 anni questa sarebbe passata allo Stato e a seguito di ciò, si decise di venderla. La nuova ditta impiegò molto tempo per realizzarla!
Mia sorella frequentava le Magistrali e la sera studiava prima con un bicchiere dove venivano versati dell'acqua e sopra dell'olio usato, magari per friggere, nel quale veniva intriso uno stoppino ed emetteva la classica luce dei morti...(La PRIMA FORMA DI ILLUMINAZIONE CHE SIA MAI ESISTITA). Poi era arrivata la lampada a petrolio, che papà riportava dal lavoro perché lo usavano per le lanterne! Ricordo che ogni tanto bisognava pulire il tubo di vetro che dopo un po’ diventava nero dal fumo! Poi c'era il lume a carburo, quello dei minatori, ma papà non voleva che si adoperasse perché lo riteneva pericoloso.
Lui non immaginava neanche cosa facessimo noi bambini con il carburo… Si faceva una buca nella terra, piuttosto fangosa, si metteva un po’ di acqua, poi si mettevano dentro dei pezzetti di carburo e subito la buca veniva sigillata da una scatola metallica alla quale era stato tolto un fondo, e nella parte superiore veniva praticato un forellino dal quale sarebbe uscito il gas, una volta in pressione, con un bastoncino si avvicinava una fiammella vicino al forellino e la scatola partiva come un razzo…
SISTEMA D’IRRIGAZIONE: Lo SHADUF
Per irrigare gli orti, visto che i contadini dei primi anni ‘40 non avevano sistemi più moderni di pompaggio, si servivano di una specie di trabocco chiamato SHADUF, che sollevava l'acqua dai pozzi poco profondi che si trovavano ad una giusta distanza dal mare.
Si trattava essenzialmente di un palo conficcato vicino al pozzo, in cima al quale veniva fulcrata una trave che da una parte aveva un contrappeso e dall'altra era legata una pertica che portava il secchio a scendere dentro il pozzo.
Lo sforzo veniva compiuto per immergere il secchio nel pozzo che, una volta riempito, risaliva facilmente grazie al contrappeso.
L'acqua raccolta serviva per riempire la vasca d’irrigazione che si trovava al limite dell’orto. Raggiunta la giusta misura, si apriva lo scarico e l'acqua attraverso un rigagnolo disegnato sulla sabbia, arrivava alle piante di pomodoro.
Quando il solco era pieno, un'altra persona (che di solito era un bambino), mandava l'acqua nel solco successivo, mentre il contadino cercava di alimentare il più velocemente possibile l'acqua nella vasca, altrimenti la canaletta si sarebbe asciugata.
Ricordo che da bambino, mentre i contadini facevano quel lavoro, io andavo a “navigare” con il mio “osso di seppia” in quei solchi, cercando di non farmi vedere perché temevano che danneggiassi il percorso dell’acqua.
Non potendo fare un disegno per spiegarne il funzionamento, dopo tanto ho trovato la foto di un “trabocco da irrigazione” che assomigliava vagamente a quello, così chiamato, che viene usato ancora oggi per pescare sui fiumi.
Sebbene il contesto sia molto diverso, la sua funzionalità conferma l'universalità del metodo, la cui origine risale agli egizi ed ai contadini della “mezza luna fertile” della Mesopotamia fin dal III millennio a.C. e si chiamava lo "SHADUF"...
Lo 'SHADUF'
Questo era il sistema di irrigazione che ho avuto la fortuna di vedere da bambino, ed io ho sofferto anche di questo, perché il mio più caro amico di giochi, arrivati ad una certa ora, doveva andare nei campi dal papà, per cambiare il solco da innaffiare, mentre il padre tirava su i secchi d'acqua senza nessuna interruzione, altrimenti il rigagnolo si sarebbe asciugato.
Il riposo sarebbe arrivato quando il pozzo era prosciugato, in attesa che la sorgente lo riempisse di nuovo.
I PATTINI A ROTELLE
Anche dopo i 10 anni ci sono stati periodi di sacrifici, alcune cose restano impresse nella mente di un bambino e servono anche per formarne il carattere. Ecco un altro aneddoto:
Avevo 12 anni, andavo a scuola a Pescara, ogni mattina mi soffermavo davanti ad un negozio dove erano esposti dei pattini, i primi con le ruote di fibra. Allora la strada era da poco asfaltata, bella nera di catrame, senza buche perché le macchine erano poche ed i grossi camion non c'erano. Di solito, specie al pomeriggio, passavano dei ragazzi con i pattini e il gruppo prendeva tutta la strada, ricordo ancora il rumore di quei pattini e la scia di aria che lasciava, tanto erano veloci"… Erano i primi con i cuscinetti a sfere.
Quelli che guardavo io, non erano così, però a me sarebbe piaciuto tanto averli ugualmente.
Alla fine dell'anno, visto che ero stato promosso, finalmente mamma mi comprò i tanto sospirati pattini. Li porta a casa, vado per metterli, ma le scarpe non entravano, per quanto i pattini fossero regolabili... La mia unica speranza era zio Giovanni, ma lui al solito, doveva ancora tornare da Pasquino, dove combatteva con il mare. Ricordo che gli andai incontro di corsa.., infatti lo incontrai poco prima del fiume e mentre lui pedalava, io di corsa, scalzo, gli illustravo già il problema. Arrivati a casa, mi sono rimesso le scarpe e purtroppo, pur arrivando a fine corsa, la scarpa non entrava.
Mamma subito disse: "se ne và bon(e), dumane matin, jamm a P(e)scar(e), e me facci(0) ardà le sold...3.500 lire, na parol è..!" Traduzione: se non vanno bene, domani mattina andiamo a Pescara e mi faccio ridare i soldi..., 3.500 lire, non è una cosa da niente…). Non posso descrivere il mio stato d'animo, speravo che ne avessero un altro paio adatti.
La mattina successiva, siamo andati a Pescara con il treno, utilizzando una delle 15/20 caselle disponibili. Era gratis, anche se scrivevi Bolzano, ma a noi non serviva, non facevamo viaggi di piacere, il massimo della distanza mamma la utilizzava per andare a Vasto che allora si chiamava HISTONIUM da zia Bambina, per farsi cucire qualcosa... Arrivati a Pescara, mamma, prendendomi per mano e tirandomi quasi, perché io non volevo che le ridesse indietro, arrivammo al negozio ed una volta spiegato il problema al commesso, questi con la chiave apposita, prende il piede e cerca di mettere la scarpa nei pattini. Poi si rivolge a mia madre e le dice: "Signora, non vede che le scarpe sono diventate tonde… Come può entrare nella sede?" e mamma "mica posso ricomprare pure le scarpe… perciò riprendetevi i pattini e ridatemi i soldi."
Mentre a me veniva da piangere, il commesso: "non è possibile ridare i soldi indietro, può comprare altre cose" e mamma: "no, io voglio i soldi indietro, altrimenti vado alla Questura". Visto il diniego mamma mi prende per mano e tirandomi, mentre io singhiozzavo, andiamo in Questura, dove lavorava un cugino di papà, figlio di Zì Rocco.
Spiegato l'accaduto, Tonino si chiamava, dice a mamma,: "io adesso telefono, però è difficile che ti ridiano i soldi..." e così fu. Mamma era disperata. Torniamo lì ed il commesso, "Signora, mi dispiace, non è per nostra colpa, ma quelle non sono più scarpe!" Ricordo, mentre indicava con lo sguardo le mie scarpe. Mi sono guardato anch'io i piedi: rivedo ancora quelle gambette secche, nere, un po’ storte, con dei segni bianchi sopratutto sulle ginocchia (ex cadute ecc..), ed infine… le scarpe... In realtà a forza di rimettere la suola, il bordo, che teneva con le grosse cuciture la 'pelle' della parte superiore mano mano si stendeva sempre più assottigliata. Era diventata un centimetro larga e la 'scarpa', visto che era corta (calzavo un numero piccolo, anche perché erano dell'anno precedente, era diventata quasi tonda. Ho sentito un senso di vergogna, umiliazione e anche se ero piccolo, ho detto tra me "i miei figli non andranno mai con delle scarpe così…"
Quando finalmente non le mettevo più le ho tenute da parte. Molti anni dopo le avevo riportate qui, per farle vedere alle figlie, e messe su quel piccolo soppalco nel bagno piccolo, insieme alle scarpe da sposa di Marinella. La colpa, non era dei miei genitori, ma dalle condizioni in cui si viveva, anzi io ero più fortunato degli altri, perché avevo almeno la possibilità di comperare i pattini.
Ricordo mamma quasi piangente, che cercava di comperare quello che poteva servirle, con quella cifra, ma lei ne avrebbe fatto volentieri a meno. Prese un attaccapanni da mettere dietro la porta, delle posate, qualche tegame e così delusi, affranti, chi per un motivo chi per l'altro, tornammo a casa... Ecco questa è una storia indelebile dalla memoria, e insieme alle altre, hanno fatto parte di quella molla capace di spingere me (e gran parte di quelli della mia generazione), a far risorgere l'Italia dalla miseria della guerra! Volontà che ai giovani di oggi spesso manca perché hanno tutto.
BARCHE E "INVENZIONI" (alcune delle quali non riuscite troppo bene!!!)
La barca del pescatore era poco più di quattro metri e la vela era un po’ grande, andava bene per le andature larghe, in quanto doveva tirare lo strascico (con l'aggiunta del fiocco per di più), per le andature strette era una barca che richiedeva un impegno notevole.
La barca del pescatore
L'altra aveva un albero di 7,5 mt, quasi 1.5 m. di quello originale... Infatti per poter reggere bene l'albero con il sartiame, sono state messe due crocette..! Mi piaceva correre e avevo messo a punto tutti gli accorgimenti possibili per aumentare la velocità. Il tutto brevettato dal mio povero amico, la cavia umana: Renato.
La mia barca, io (di spalle), e Renato (la mia cavia)
La barca aveva una deriva retrattile in ferro abbastanza pesante, (si tirava su con un paranchetto), io poi, per aumentare la stabilità, avevo realizzato sul fondo dello scafo un binarietto sul quale scorreva un bel peso per quando bordavo di bolina, costituito indovina da cosa? Un freno di quelli belli grandi dei treni merci che spesso erano fermi davanti casa!!! Bastava togliere una grossa coppiglia ed il contrappeso era pronto... A quei tempi non esisteva il trapezio... Io forse ne sono stato l'ideatore perché quel povero amico era sempre appeso fuoribordo e spesso per qualche emozione in più, gli mettevo un sacchetto di sabbia sulla pancia...
RENATO CHE PLANA A RIMORCHIO DELLA BARCA A VELA
Un giorno eravamo in barca, con un vento al traverso che a faceva volare davvero. Mi viene in mente una prova e la propongo alla mia cavia, Renato. “RENÀ, io dico che con questa velocità, se ti metti lungo su questo banco (che avevamo a centro 1.60 x 0.35 mt.), legato con la cima dell'ancora, tu dovresti quasi planare… Proviamo dai…” Armiamo il tutto Renato sulla tavola, fila la cima, volta... ", la barca frena, ma riprende subito velocità. Renato, visto che la tavola non era nata per quello scopo, comincia a girare vorticosamente, come un 'cucchiaino' per la pesca alla traina, e lui cercava di parlare ma non riusciva tanto girava forte ed io che lo incitavo a non mollare, alla fine quando si era gonfiato di acqua come un otre, l’ho recuperato dicendogli "forse non è riuscito bene." E lui "proprio no".
LO SLITTINO PER LA NEVE
Gli esperimenti venivano fatti molto spesso, di tutti i tipi. Non ricordo con precisione, avevamo 12/13 anni, quell'anno era arrivato da Mestre, Renato, il quale, dopo una bella nevicata con successivo ghiaccio, tira fuori uno slittino con il quale andava meravigliosamente, scendendo proprio dalla strada che scende da Tollo (proprio davanti casa di mio cugino Tonino, il futuro Generale). Allora non eravamo ancora veri amici, ci aveva prestato lo slittino per fare giusto qualche discesa..., ma tutto lì.
Arriva il mese di Luglio e, parlando con Tonino, dico: "Frà, qui bisogna pensare per l'inverno.. Se fa la neve, dobbiamo costruire una slitta anche noi, altrimenti restiamo come l'anno scorso!" E così con tanto 'sudore' (era proprio il caso di dirlo), troviamo l'occorrente e la slitta era finalmente pronta.
Certo, sarebbe stato bello poterla provare… Ed ecco il lampo di genio: proprio dietro casa di Tonino, alla curva successiva, c'era un burrone di circa 50 mt., dove avevano buttato la bella sabbia gialla tolta dalla collina soprastante, per far sì che non franasse (cosa che sono stati costretti a rifare, dopo 60 anni, perché è franata di nuovo con conseguente interruzione di mesi, del traffico).
Lì era proprio l'ideale andare a provarla, infatti io, ai comandi e Tonino dietro, si parte... , una meraviglia! Solo che eravamo quasi alla fine quando lo slittino punta su uno scoglio (di tipo 'arenaria' difficilmente distinguibile) e vedo Tonino volare da dietro che va a finire in mezzo ad una immensa siepe di rovi, eravamo solo con i pantaloncini corti, per quanto io facessi per aiutarlo a venire fuori, quando arrivò ad uscirne sembrava proprio Gesù dopo la flagellazione, aveva sangue dappertutto, peccato che allora non c'erano i telefonini per fare le foto, perché con un ramo di quegli spini per corona era l'immagine per il Venerdì Santo era perfetta! Purtroppo, non tutte le ciambelle riescono col buco!
SUB
Da piccolo, ho sempre avuto la passione per andare sott'acqua.. Anche se l'acqua era limpida allora, ero sempre con gli occhi rossi, perchè mi piaceva vedere i granchietti, qualche pesciolino, e non sarei uscito mai dall' acqua. Allora le maschere non c'erano!!!
Fino a 12 anni, non avevamo l'acqua corrente, allora mi lavavo nella bacinella e, prima di lavarmi, vi immergevo la faccia per allenarmi a resistere il più possibile. Durante la giornata lo facevo parecchie volte ed ogni volta nonna Memena, mi bussava alla schiena e mi diceva: "jsci..., mò t(e) sfiet .." = (tira fuori la testa.. che così ti soffochi!!!).
Poi avevo un sistema per riuscire a farmi dare 10 lire da nonna e mi serviva anche per allenamento. Facevo una bella inspirazione, e poi espellendo l'aria lentamente, emettevo un suono continuo che veramente durava tanto, lo facevo finché non diventavo cianotico... E dopo due o tre volte che facevo quel lamento, la nonna per non sentirmi più, mi dava le 10 lire.
Quando poi era tempo di bagni al mare, era più il tempo che stavo sotto la superficie, che sopra...mi piaceva tanto, stare sotto l'acqua in apnea perché riuscivo a conoscere meglio i pesci che venivano a mangiarmi in mano! E poi mi serviva per la pesca delle cozze, cannolicchi e altro. Avevo un bel fiato!
Comunque avrei voluto realizzare qualcosa tipo “palombaro”, così con un altro mio amico, cominciamo a progettare come poter fare. Abitavo in una frazione dove non esisteva neanche un negozio… non avevamo soldi... praticamente niente!
Innanzi tutto bisognava realizzare qualcosa per poter camminare sul fondo come i palombari. Questo non fu difficile in quanto, abitando vicino alla ferrovia, è stato facile prendere quelle specie di mattonelle di ferro, con quattro fori, che servivano per tenere fermo il binario sulle traversine di legno con 4 grossi bulloni. Bene, su queste abbiamo fissato dei vecchi zoccoli trovati per la spiaggia, poi avevo adocchiato un tubo di gomma telata, poco più lungo di un paio di metri, che papà adoperava per travasare il vino dalla botte ai recipienti più piccoli. Solo che puzzava di vino e respirare quell'aria già ubriacava...
Cominciammo le prove, avevamo un pattino di zio Giovanni. Il sistema per restare e camminare sott'acqua, era perfetto. Ciò che non andava era il tubo perché, oltre alla puzza, arrivati ad una minima profondità, l'aria non arrivava più…
Quella è l'età della scoperta di tutto. Beato chi ha un maestro, però anche se non lo hai, impiegherai più tempo, ci sbatterai a faccia, ma alla fine riuscirai a scoprire, senza saperlo, principi importanti di fisica e meccanica.
Così arrivammo alla scoperta che con un solo tubo di un certo diametro, l'aria non faceva in tempo ad essere respirata e poi essere riemessa oltre una certa lunghezza del tubo!
Ci sarebbe voluto un sistema: innanzitutto era necessaria un tipo di maschera dove poter far circolare l'aria e da lì respirare. Le maschere che siamo abituati a vedere oggi, non esistevano, la plastica non era stata ancora inventata, però avevamo adocchiato una maschera antigas, quelle della guerra, finita da non molto, che un vecchio aveva in un capannone e che faceva al caso nostro.
Non passò molto che riuscimmo a rubare quella maschera e la nuova sfida fu di fare in modo che il tubo fosse interrotto nell'interno di essa. Non poche furono le difficoltà per evitare che entrasse acqua, ma alla fine bene o male ci siamo riuscimmo. Infilammo i due tubi dove c'era quella specie di proboscide dove aveva il filtro e siccome non avevamo niente di adatto all’uso perché il silicone non era stato ancora inventato, dopo ore di concentrazione, arrivammo alla soluzione “naturale”: la cera d'api, che chiedemmo ad un apicultore. La necessità aguzza l'ingegno! Ora il problema grande era trovare qualcosa per poter pompare l'aria. Gira e pensa ... alla fine vidi un soffietto a mantice, con due manici di legno, con un mezzo metro di tubo di ferro che papà, prima della guerra, adoperava per dare lo zolfo alle viti! Armiamo il tutto, andiamo dove l’acqua era un po’ alta, ed io sul pattino dirigevo le operazioni. Legai con una cima il mio amico Renato (la cavia di tutti i miei esperimenti, non sempre riusciti...), per sicurezza e una volta giù, comincio a pompare... ma dopo qualche attimo, vedo arrivare a razzo su Renato, con gli occhi rossi tossiva come non avevo mai sentito nessuno!
Esaminiamo le cause: in quel soffietto, nonostante fossero passati 15 anni, evidentemente c’erano ancora tracce di zolfo, per quanto fossi stato tanto a pompare, più che altro per la polvere e la ruggine… Comunque, dopo giorni e giorni di pompaggio a vuoto, e ricordo perfino di averlo messo sopra una pentola di mamma, dove bolliva l'acqua con tanto vapore, alla fine l'impianto era perfetto. Entrava un po’ d'acqua dalla maschera, ma riuscire a stare sott'acqua a 3/4 mt, per diversi minuti, e poter giocare con i pesci, era un sogno!
Pensandoci adesso, è stato un prodigio realizzarlo con niente… Adesso basta andare in un negozio, con i soldi di papà e comprare tutto! Però non li invidio i ragazzi di oggi, drogati da quegli affaretti che hanno in mano e dai quali non tolgono mai lo sguardo, senza mai guardare in alto, vedere una nuvola: perché corre? chi la spinge? dove va...!.
Nunzio CATENA
Ortona, 16 Giugno 2014
FATA MORGANA, un'illusione ottica
FATA MORGANA
Una illusione Ottica
Nei primi anni ’60 fui testimone di un fenomeno abbastanza raro da osservare, persino dai naviganti d’altomare. Imbarcato sulla petroliera NAESS COMPANION, ero al mio sesto viaggio: Golfo Persico - Giappone. Era il periodo del monsone “buono” di Nord Est e si navigava in piena bonaccia nell’Oceano Indiano. Nonostante l’opprimente caldo umido dei tropici, (si conosceva l’aria condizionata soltanto dai depliant di alcune navi passeggeri), non percepivo alcun sintomo di noia: tra una retta d’altezza di sole ed altri calcoli astronomici, seguivo i numerosi capodogli che navigavano verso i mari freddi del sud e mi divertivo un mondo a guardare i delfini che in quella zona di mare “volavano” scompostamente in aria e poi si tuffavano spanciando rumorosamente in cerca di plancton. A metà guardia, verso le 10, vidi nitidamente qualcosa di strano apparire a mezza altezza sopra l’orizzonte. Poco a sinistra di prora si stagliava una specie di castello, una torre immobile che galleggiava sopra l’orizzonte gelatinoso. Poco dopo vidi una seconda torre, leggermente più bassa e più scura, ancora più a sinistra. Mi venne in mente quello strano capitolo di Meteorologia che s’interessava di fate, più precisamente della FATA MORGANA, chiamato anche fenomeno delle torri. Dal ponte di comando, destai l’attenzione dell’equipaggio che lavorava in coperta e mi accorsi che nessuno di loro aveva mai visto quella “strana faccenda”. Radio-cucina diffuse subito la notizia e in un baleno l’intero equipaggio si radunò in coperta, a bocca spalancata come fossero al circo. La proiezione durò qualche minuto, il tempo necessario a tre navi in contro-corsa di passarsi al traverso. Nel frattempo anche il Comandante era salito sul ponte facendosi scappare una tipica frase in genovese: “se a terra raccontassimo certi fatti ci prenderebbero per dei belinoni...”- I commenti in siciliano della bassa forza erano invece intrisi di stregoneria e superstizione. La disputa sembrò degenerare tra chi vedeva nell’ ”apparizione” il corpo di un santo e chi invece prevedeva il peggio che potesse capitare ad una nave in navigazione...
Ancora oggi, ogni tanto, quella magica visione affiora tra i ricordi personali più lontani ed il pensiero va soprattutto all’idea di quel cielo ingannevole che ci aveva aspettati al varco, come la “Maga Circe” per incantarci, per fortuna, senza molti risultati...
In ottica la Fata Morgana è una forma complessa e insolita di miraggio che si può scorgere all'interno di una stretta fascia al di sopra dell'orizzonte.
A questo punto immagino la perplessità del lettore e non mi rimane che rifugiarmi dietro un banco di scuola per rileggervi quel capitolo....
“Il fenomeno ottico conosciuto come FATA MORGANA, é noto, (ma non troppo n.d.r), ai naviganti, ma anche agli abitanti e turisti di quei luoghi in cui questo fenomeno ottico viene osservato quando i raggi di luce sono fortemente incurvati dal passaggio attraverso strati d'aria a temperature diverse. Infatti, in condizioni di tempo sereno, può capitare che uno strato d'aria molto più calda sovrasti uno strato di aria più fredda: in questo caso, la differenza tra gli indici di rifrazione può dar luogo alla formazione di un condotto atmosferico che agisce come una lente di rifrazione che produce una serie di immagini sia dritte che invertite. L’eccezionalità del fenomeno ottico dipende quindi dalla temperatura degli strati atmosferici, ma anche dalla simultanea formazione di un condotto atmosferico, un proiettore d’immagini. Per certi versi, detto fenomeno é analogo al più noto miraggio, dove però le immagini sono molto mutevoli e deformate, difficilmente riconoscibili. Affinché il fenomeno avvenga, l'inversione termica dev'essere abbastanza forte da far in modo che la curvatura dei raggi di luce all'interno dello strato di inversione sia più forte della curvatura della Terra . In queste condizioni i raggi creano degli archi. L'osservatore deve trovarsi all'interno o al di sotto del condotto atmosferico per poter vedere la Fata Morgana”.
Talvolta, le navi sono viste anche molto al di sopra dell’orizzonte e schiacciate sino a diventare torri o castelli. Per spiegare tale fenomeno è sufficiente immaginare che la luce proveniente da un punto sia distribuita in verticale, gli oggetti in lontananza assumono le sembianze di torri, pinnacoli, obelischi.
La Fata Morgana, conosciuta anche come Morgane, Morgaine, Morgan e altre varianti, è una popolare strega della mitologia celtica e delle leggende. L'epiteto femminino “la fata” - (tradotto dall'originale inglese the fay, a sua volta adattato dal francese la fée) - indica la figura di Morgana come una creatura sovrannaturale. È una dei principali antagonisti di Re Artù – Ginevra - e soprattutto di Merlino, nelle leggende arturiane. Secondo altre leggende celtiche induceva nei marinai visioni di fantastici castelli in aria o in terra per attirarli e quindi condurli a morte.
Per i tanti amanti del Cielo e per lo sparuto gruppetto che sicuramente crede agli UFO, il disegno n. 3 può spiegare, spero chiaramente, come un innocente faro sulla costa possa essere scambiato per un UFO (Oggetti Volante non identificato). L’Osservatore è in O e sta osservando stelle e galassie. Improvvisamente, si accende un faro al di là della montagna dalla cima innevata. L’aria fredda che circonda la vetta del monte causa un miraggio superiore e il faro risplende alto nel cielo, aumentando e diminuendo la sua luminosità.
Il fenomeno ottico della fata morgana rientra nella categoria dei miraggi, termine con il quale si descrivono alcuni fenomeni dovuti all’incurvamento dei raggi luminosi nell’attraversare strati d’aria non omogenei. Il tipo più comune di miraggio si osserva spesso d'estate sulle vaste distese di sabbia riscaldate dal Sole o, forse più frequentemente, sulle strade rettilinee asfaltate o sulle autostrade. Sarà capitato a tutti, durante un viaggio in macchina in autostrada, di notare delle pozzanghere sull’orizzonte, come se la strada fosse bagnata.
Aggiungo alcune foto di Milly Mascaretti:
Carlo GATTI
Rapallo, 16 Giugno 2014
Il RELITTO della SANTA MARIA. Vero o falso?
RELITTO DELLA SANTA MARIA
Vero o falso ?
Nelle acque al largo di Haiti é stato scoperto un relitto incredibile, potrebbe trattarsi della Santa Maria di Cristoforo Colombo
Haiti
La “caracca” Santa Maria, lunga 21 metri, un ponte e tre alberi, era l’ammiraglia della piccola flotta che giunse per prima sul suolo americano al comando del navigatore genovese Cristoforo Colombo. Le altre due imbarcazioni erano due caravelle leggermente più corte: la Pinta e la Niña. La flottiglia di Colombo partì da Palos (Andalusia) il 3 agosto del 1492, sbarcò sul suolo americano, e il 25 dicembre dello stesso anno s'incagliò su una barriera corallina al largo di Haiti. E’ stato l’archeologo marino Barry Clifford ad imbattersi nei resti di quella che potrebbe essere la caracca spagnola. La notizia deve ancora essere ufficialmente confermata ma se così fosse si tratterebbe di una delle scoperte più importanti degli ultimi anni: Clifford ha spiegato di avere scoperto il relitto della caravella nel punto esatto nel quale l’ammiraglio genovese disse che si incagliò, oltre 500 anni fa. I resti della nave si troverebbero incastrati in una barriera corallina sulla costa settentrionale di Haiti, a circa 3-5 metri sotto il livello del mare. Secondo l’esploratore statunitense, la prova definitiva che il relitto sia proprio quello della Santa Maria di Colombo sarebbe il cannone del XV secolo rinvenuto su un fianco della nave.
Usando magnetometri marini, dispositivi di radar, sonar e esplorazioni di sommozzatori, Clifford ha studiato le anomalie della piattaforma marittima, comparato i risultati con informazioni tratte dai diari di navigazione di Colombo e da materiale cartografico dell’epoca e misurato l’impatto delle correnti per stabilire i movimenti del relitto dopo il naufragio.
La missione é in parte finanziata da ‘History Channel’, suscita però sin d’ora diversi dubbi, soprattutto da parte di studiosi spagnoli ma anche italiani come P.E.Taviani. Nei suoi diari Colombo racconta infatti dell’impossibilità di smuovere l’imbarcazione, e che questa venne smantellata per costruire un fortino.
Dopo oltre 500 anni, il mito della Santa Maria riaffiora per l’ennesima volta. Le numerose ricerche del relitto, per dirla in parole povere, si sono risolte con un buco nell'acqua, oppure con bufale clamorose. La più significativa, quella del 1962 quando un ricercatore inglese con un gruppo di sommozzatori individuò un relitto e sicuro fosse quello della Santa Maria presentò la sua scoperta al mondo intero. Per dieci anni le ricerche si bloccarono. Solo nel 1972 fu scoperta la verità: si trattava dei reperti di una caravella del secolo successivo.
Lo stesso archeologo subacqueo Barry Clifford ha ammesso che cinque secoli di correnti oceaniche hanno sicuramente modificato sia i fondali che la costa. Pertanto, la volontà di proseguire le ricerche, a nostro modesto avviso, ha il sapore di una sfida più personale che scientifica.
Lo straordinario racconto della grande scoperta giunge ora a uno dei fatti più importanti: la fondazione della colonia della Navidad, primo insediamento europeo in America a cui si riferisce l’incisione del FORTINO (foto sopra) tratta dal libro di Washington Irving Vida y viajes de Cristobal Colon.
Le ricerche dell’equipe americana prendono le mosse proprio dall’individuazione, nel 2003, di questa costruzione. Ma secondo gli scienziati spagnoli il punto in cui dovrebbero trovarsi i resti della nave si trova oggi sulla terra ferma e non sott’acqua.
Fin qui la cronaca .... dopo di ché, la curiosità di saperne di più, ci ha spinti a risalire alle fonti e ci siamo rivolti ai testi sacri di Paolo Emilio Taviani il famoso storico colombiano che ha visitato di persona (nel corso di oltre cinquant’anni) tutti i luoghi toccati da Colombo prima e durante i suoi viaggi di scoperta. Questi preziosi sopralluoghi hanno consentito di risolvere molte questioni che erano rimaste aperte nella pur vastissima precedente storiografia.
PAOLO EMILIO TAVIANI
I VIAGGI DI COLOMBO-LA GRANDE SCOPERTA – VOLUME 1° - pag 68
IL NAUFRAGIO E IL PRIMO INSEDIAMENTO EUROPEO IN AMERICA
..... Il 20 dicembre 1492, la Santa Maria e la Niña, continuando a navigare verso levante lungo la costa settentrionale di Haiti, eran giunte dinanzi alla Baia de l’Acul......
..... Uno degli scogli, o cayo, come li chiamano nei Caraibi, arricchitosi di bianca arena, si é popolato di alberi; é la isleta che Colombo battezzò Amiga: un autentico gioiello che stava e sta ancor là a presidiare l’entrata nell’incantevole Baia de l’Acul. Oggi si chiama Ile Rat.
.... Il 24 dicembre, riuscì a salpare. Navigò di bolina, perché l’aliseo spingeva da levante in senso contrario. Alle 11 della sera, la Santa Maria aveva avanzato lentamente, e si trovava al largo del promontorio che Colombo battezzò Punta Santa, con riferimento all’imminente solennità natalizia. A quanto Colombo scrive nel Giornale, si trovava a nord o a nord-est del capo di una lega, cioé 4 miglia. Era la notte di Natale. Nessun fatto esterno giustifica il disastro. Mare tranquillo. Distanza da terra normale. Le scogliere coralline numerose e insidiose, ma non più novità, ormai. Ce n’erano altrettante sulle molte coste fino ad allora bordeggiate. Le undici. Il mozzo capovolge la clessidra. Cambia il turno del timoniere. L’Ammiraglio si ritira in cabina, recita le preghiere e s’addormenta: “eran due giorni e una notte che non aveva dormito”. Non appena il capo scompare, gli uomini di guardia sul ponte – vedette e mozzi – scendono a dormire. Juan de la Cosa, comandante della guardia, indica la rotta al timoniere, una rotta facile: seguire la Niña che procede con le vele gonfiate dal vento, illuminate dalla pallida luce della luna bassa sull’orizzonte. Il mare, l’abbiamo già accennato, era “in calma morta, come l’acqua d’una scodella tranquilla”. Juan de la Cosa dice al timoniere di chiamarlo qualora mutasse il tempo o il vento, o se comunque si verificasse qualcosa d’anormale, e scende anche lui sotto coperta. Il timoniere casca dal sonno, scuote il mozzo che ha il solo compito di vegliare sulla clessidra, gli affida – in contrasto con gli ordini di Colombo – la barra del timone e si stende a dormire. Così il destino dell’ammiraglia resta nelle mani d’un mozzo, l’unico desto di tutta la nave. La luna era troppo bassa per rivelare alla vista la spuma bianca, che si forma là dove l’onda lunga si frange sulla scogliera corallina. In ogni caso, il ragazzo, che stava a poppa, tutto teso a reggere la pesante barra, non avrebbe potuto vederla. Una corrente marina stava portando la nave sopra una di quelle secche, che ‘ruggivano’ tanto da essere sentite a distanza. Invece la nave si trovò sopra la scogliera così sommessamente che il mozzo non se n’accorse neppure. Solo quando avvertì che il timone arava, e ne udì il rumore, si mise a urlare. Colombo fu il primo ad accorrere sul cassero: poi giunsero Juan de la Cosa e tutti gli altri.
La situazione fu subito chiara. La Santa Maria s’era incagliata di prua su una scogliera corallina. Siccome la poppa pescava più della prua, il modo per rimettere a galla la nave era gettar l’ancora al di là della barriera e condurne la gomena al grande molinello di prua, quindi retrocedere, tonneggiando, con la poppa.
Questi furono gli ordini di Colombo a Juan de la Cosa: tirar la lancia che si trovava a rimorchio in mare fin sotto il bordo della nave, collocarvi l’ancora e il cavo e spostarsi con la lancia stessa di là della barriera per dar fondo all’ancora.
Sceso nella lancia, Juan de la Cosa si diresse invece a tutta forza verso la Niña. Se si tien conto che la Santa Maria era di sua proprietà. É gioco forza pensare che egli sia stato preso da una crisi di nervi. Vincente Yañez Pinzòn si comportò degnamente: rifiutò di accogliere a bordo i transfughi e inviò le sue lance con parecchi marinai a soccorrere l’Ammiraglio.
Ma ormai era tardi. La poppa s’era girata, e la nave venne a trovarsi di traverso, sicché ogni ondata la sollevava e la lasciava ricadere di peso sulla barriera corallina che, peggio di qualsiasi altro scoglio, perfora il legno della carena.
Per alleggerire il peso della nave, l’Ammiraglio fece tagliare l’albero di maestra. Ma neppure ciò fu sufficiente. La marea stava scemando e la nave “non poté respirare: piegatasi alquanto, s’aprì nelle connessure e s’empì tutta d’acqua dal di sotto”.
Il naufragio avvenne nei pressi dell’odierna Cap-Haitien.
Se oggi un turista chiede di andare sul luogo del naufragio della Santa Maria di Cristoforo Colombo, incontra molti barcaioli disposti a portarvelo. Le tempeste non sono frequenti, la baia é riparata dal promontorio a ponente e dall’immensa palude di mangrovie della penisola di Caracol a levante. – Non é pericoloso e non é lontano – vi diranno i pescatori, e i barcaioli vi porteranno ad un miglio dalla costa, su d’un frangente corallino, che sporge addirittura dall’acqua tanto da potervi salire quando la marea é bassa, mentre, quando é alta. L’onda si rompe rumorosa e si moltiplica in scintillii di spuma bianca visibili dalla spiaggia.
I VIAGGI DI COLOMBO LA GRANDE SCOPERTA - VOLUME 2° - Scheda del Capitolo XII – Pag.98/99
Nella cartina, a sinistra, si nota la scritta in rosso: Mare di San Tomaso, Baia de l’Acul. Nel centro-in alto il simbolo della Santa Maria con la Latitudine 19°49’ e poco più a destra é indicata in rosso la scritta Zona di Naufragio. Sotto le due scritte é visibile Punta Santa (scritta in rosso) da cui si accede alla Baie Cap-Haïtien.
La baia di Cap-Haïtien nelle cui acque la Santa Maria naufragò, la notte di Natale del 1492. Il naufragio deve in ogni caso essere su un banco corallino all’esterno verso il mare aperto rispetto al groviglio di banchi che insidiano le acque interne della baia di Cap-Haïtien. (Foto: G.Dagli Orti)
Prosegue:
...... La giornata del 25 dicembre venne dedicata al recupero del carico della Santa Maria e al trasferimento dell’Ammiraglio sulla Niña. .......
Rimasero in 39........................ A Diego de Arana diede il comando in capo.
........ Vi erano anche un cannoniere – perché Colombo vi aveva lasciato alcune bombarde e ordinato di costruire una torre, un forte e un fossato - E un nostromo, perché venne lasciata una lancia al fine di esplorare la costa, trovare la miniera dell’oro e fondare una nuova colonia in una località più idonea di quella che era stata provvisoriamente prescelta. L’esatta località della Navidad non é stata identificata. Si può solo indicare un rettangolo il cui lato di 7 chilometri é sulla linea della spiaggia, e quello di tre é in profondità. Entro questo rettangolo (bordato in nero nella cartina sopra) sta oggi un piccolo villaggio, Bord-de-Mer de Limonade, una chiesa, molte capanne, alcune piccole barche di pescatori haitiani: una distesa a fondo sabbioso, che giunge al mare con una fascia di paludi coperte di mangrovie.
VOLUME PRIMO – TRAGEDIA ALLA NAVIDAD – Pag.116
Il canale tra Puerto Rico e la Hispaniola é breve. Colombo ritrova il punto donde é partito, dieci mesi e 6 giorni innanzi, per la traversata di ritorno. Riconosce la costa allora bordeggiata, e ancor più lo attanaglia l’ansia di incontrare i compagni lasciati al forte della Navidad..........
Avanza rapido lungo le coste settentrionali dell’Hispaniola, le vele sospinte dall’aliseo, nell’attesa di ritrovare finalmente i suoi uomini, di sapere che cosa abbiano scoperto e quanto oro accumulato, che cosa sia accaduto durante il lungo periodo trascorso......
L’Ammiraglio manda a terra una barca con alcuni marinai. Trovano due cadaveri: “uno, che pareva giovane e l’altro vecchio, che aveva una fune al collo e distese le braccia e legate le mani a un legno, in forma di croce”........
Fin dalla Spagna Colombo non aveva mai cessato di pensare ai coloni dell’Hispaniola. Ora é finalmente giunto, ma non trova nessuno. E poco o nulla riuscirà a sapere, perché tutti sono morti.
Carlo GATTI
Rapallo, 1 giugno 2014
ONDA ANOMALA
ONDA ANOMALA
Una Chevron dell’epoca
Il 20 febbraio 1969, mi imbarcai con il grado di 3° Uff.le Coperta sulla t/n “A.N. Kemp”, petroliera di 32 mila tonnellate di stazza lorda della Società “Chevron”.
St. John
Raggiunsi la nave in Canada, nel porto di St.John. Appena arrivato a bordo, prima di fare il passo definitivo per raggiungere il ponte principale, ebbi un attimo di esitazione : l’equipaggio era composto da 32 persone, tutti italiani, ma estremamente trasandati, con la barba incolta e la maglietta o camicia annodata intorno alla vita. Dopo che li ebbi conosciuti mi resi conto che era tutta brava gente e, in poco tempo, mi adattai e diventai come loro.
Porto di Augusta
Dopo alcuni viaggi tra il Nord e Sud America, arrivò l’ordine di dirigere verso il Mediterraneo e precisamente in Sicilia, nel porto di Augusta. Per l’avvicendamento dell’equipaggio, fui promosso dopo appena un mese di imbarco e con mia soddisfazione 2° Uff.le. di coperta. La notizia dell’avvicinamento a casa ci riempì il cuore di gioia. Nella prima decade di aprile si fece rotta per Gibilterra.
Mare di prora
Nave nella burrasca
Mare in coperta
Attraversando l’Oceano Atlantico incontrammo a metà del percorso una bassa pressione che si approfondiva sempre più e per diversi giorni fummo bloccati dalla tempesta al centro della nave, dove c’era il ponte di comando, impossibilitati a raggiungere la poppa, dove si trovava la saletta ufficiali. Il comandante dovette fare un’ampia accostata e creare le condizioni di ridosso per far correre uno di noi con una lunga cima verso poppa e stabilire un contatto con la cucina. Ci mandavano, di tanto in tanto, con un sistema di “va e vieni”, panini imbottiti, pollo e frutta. Le onde intanto si facevano sempre più alte e frangevano contro la prora. La nave teneva molto bene il mare e solo di tanto in tanto c’era qualche brusco movimento. Ricordo che una notte, esattamente alle 04:10, mentre stavo smontando di guardia e avevo già passato le consegne al primo ufficiale vidi di prora un ostacolo molto alto.
Misi bene a fuoco la vista e mi accorsi che era un’onda anomala che sicuramente era alta almeno 15 metri. Feci cenno al primo ufficiale che subito si mise in contatto con la sala macchine per ridurre al minimo l’andatura.
Una vera Onda anomala
L’onda si infranse contro la prora, la nave ebbe una forte sollecitazione che, per fortuna, non causò danni allo scafo; il ponte di comando venne investito con violenza, praticamente sembrava di essere sott’acqua. Si ruppe un finestrino laterale, la sala si inondò e la strumentazione nautica si salvò per miracolo. Seguì una seconda onda di circa 10 metri, il cui impatto fu più dolce, in quanto la nave aveva ormai perso velocità e avanzava a non più di tre nodi. Passato il pericolo, il comandante, che venne subito sul ponte, si complimentò con noi per aver avuto la prontezza di ridurre i motori avvisando il personale della sala macchina di ciò che stava succedendo. Mantenemmo per un po’ l’andatura minima, ci accertammo che l’onda non avesse creato qualche danno alle tubazioni in coperta, o qualche lacerazione o deformazione alle lamiere e, dopo qualche ora, aumentammo la velocità intorno ai 12 nodi per affrontare e superare la bassa pressione che si stava dirigendo velocemente spostandosi verso Nord. In mattinata, verso mezzogiorno, uscimmo dalla tempesta. Il vento e il mare incominciavano a calmarsi. Nel pomeriggio il tempo migliorò ulteriormente, i venti si orientarono da Nord Ovest, il cielo tornò sereno. Finalmente la sera riuscimmo a percorrere la passerella per recarci a poppa e mangiare tranquillamente seduti in saletta ufficiali. Il cuoco per l’occasione preparò un buon pranzo e ricordo che, come primo piatto, ci propose una nuova ricetta “Le penne all’onda anomala”. Non so quali fossero gli ingredienti, ma la pasta aveva un gradevolissimo gusto di mare. Venni a sapere che con l’onda anomala avevamo imbarcato, oltre all’acqua salata, anche una notevole quantità di pesci rondine. Il cuoco li aveva usati per il sugo delle penne e li aveva cucinati al forno con le patate. Sarà stata la fame arretrata, ma li trovammo veramente squisiti.
Mario Terenzio PALOMBO
Rapallo, 23 Maggio 2014
NASCITA DI UNA BIMBA A BORDO
NASCITA DI UNA BIMBA A BORDO
M/n Carla Costa
Al comando della M/n Carla Costa, verso la metà di gennaio 1991, mi capitò un’esperienza che non credo sia stata vissuta da altri capitani. Avevo affrontato tempeste in porto e in mare, decessi di passeggeri a bordo, sbarchi di emergenza con elicottero o con lancia, ma questa che sto per raccontarvi credo sia unica.
Eravamo partiti da St. Thomas (Haiti) diretti a San Juan (Puerto Rico). Era l’ultima serata della crociera. La nave era in festa per la serata della “toga”, che si svolgeva sulle navi “Costa” nei Caraibi e che aveva riscontrato un notevole successo. In pratica i passeggeri indossavano, durante l’ultima serata, una toga. Veniva consegnato loro un lenzuolo, il direttore di crociera spiegava come doveva essere indossato e, chi lo desiderava, poteva trascorrere l’intera serata con questo indumento. Ciò consentiva anche ai passeggeri di sistemare anticipatamente i vestiti dell’ultima sera in valigia. Gli ospiti che avevano già effettuato crociere “Costa” imbarcavano addirittura portandosi da casa una bella toga tutta ricamata per l’occasione. La festa si svolgeva per la maggior parte sui ponti esterni, con musiche e balli latini. Quella sera, come da nostro programma per risparmio energetico, dirigemmo verso Portorico per fermarci oltre le 12 miglia dalla costa.
San Juan di Portorico
Verso le 23.00 eravamo al largo di San Juan dove ci fermavamo alla deriva. Quella notte che ricordo benissimo, con cielo stellato e mare calmo, mi chiamarono per un’emergenza medica. Il direttore sanitario mi comunicò che c’era a bordo una signora messicana che stava partorendo: era stata imprudente perché aveva dichiarato all’imbarco di essere al settimo mese, invece era incinta da 7 mesi e 25 giorni. Molto probabilmente lo stress del viaggio le aveva anticipato il parto. Era per lei il secondo, ma bisognava chiedere assistenza. Feci subito mettere in moto i motori e, a tutta forza, ci dirigemmo verso il porto. Era già passata la mezzanotte e, in poco più di un’ora avremmo potuto attraccare alla nostra banchina. Chiamammo la guardia costiera, informandola che avevamo a bordo una partoriente con doglie ogni quattro minuti. Allertammo la nostra agenzia “Costa”, il cui responsabile Edoardo Schivo era sempre pronto in questi casi. Egli predispose un’ambulanza al nostro arrivo e le autorità del porto ci concessero il permesso di entrare con precedenza sul traffico. Poco dopo, la Guardia Costiera ci informò che, a causa delle doglie così frequenti, era impossibile uno sbarco della signora con l’elicottero, ma che sarebbero stati pronti, sorvolando intorno alla nave, a prendere, se fosse stato necessario, il neonato, e a dargli assistenza immediata. Era stato allertato anche il pronto soccorso ed era stata preparata, per ogni evenienza, l’incubatrice.
Elicottero di Salvataggio
Feci diffondere un annuncio per informare i passeggeri che stavano festeggiando e danzando in piscina su quanto stava accadendo e per chiedere se tra di loro ci fosse un medico ginecologo che poteva darci assistenza. Scesi in ospedale per vedere la partoriente e trovai il nostro medico che aveva preparato tutto. Gli dissi che avevamo l’elicottero in caso di emergenza. La signora, una bella messicana di 28 anni, era sul lettino e stava dando alla luce la creatura che aveva in grembo. Fu un parto molto rapido. Diedi assistenza al medico e in quello stesso istante arrivò pure in ospedale il ginecologo che avevamo cercato il quale, con mano esperta, tagliò il cordone ombelicale.
Un momento particolare....
Era una bella bimba e pesava 1,950 chilogrammi. Fu veramente emozionante veder dare alla luce una creatura. Ebbi solo il tempo di congratularmi con la signora ed con il marito, poi mi recai subito sul ponte perché la nave era all’entrata del porto.
Avvisammo l’elicottero della guardia costiera che non era più necessaria l’assistenza. Nel momento in cui la nave entrava in porto, ci fu un saluto con la sirena di tutte le altre navi passeggeri che avevano ascoltato via radio la notizia della nascita. Fu emozionante: un’ entrata così non l’avevo mai fatta. I colleghi che mi conoscevano mi chiamarono per farmi gli auguri definendomi scherzosamente “papà Mario”. Il caro amico Edoardo Schivo era già pronto in banchina e c’era pure la stampa alla quale rilasciai un’intervista. Poco dopo, l’ambulanza trasportava la giovane madre e la neonata in ospedale per gli accertamenti clinici. In mattinata chiamai il console italiano Angelo Pio Sanfilippo (siamo divenuti buoni amici e ancor oggi siamo in contatto), in quanto si doveva regolarizzare la nascita avvenuta a bordo.
Atto di nascita
Per la prima ed unica volta nella mia carriera redassi un atto di nascita. Fu fatta anche una traduzione in lingua spagnola in modo che i genitori, una volta in Messico, potessero presentarla alle autorità. I genitori decisero di chiamare la loro bimba Karla, come la nave, e in mio onore, Maria. Fui commosso da questa scelta. Firmai l’atto di nascita insieme al console che lo convalidò con i timbri consolari e lo consegnai ai genitori insieme ad una cartina nautica da me firmata e timbrata che indicava il punto esatto della nave al momento della nascita della loro figlioletta.
M/N Costa Victoria
Durante la crociera del 25 marzo 2001, a bordo della M/n Costa Victoria, ebbi una bellissima sorpresa. La sera dedicata agli sposi che desideravano rinnovare i loro voti matrimoniali, prima di cominciare la cerimonia con circa 200 partecipanti, notai in prima fila, una coppia di sposi con la figlia, che mi guardavano sorridendo. La bambina si avvicinò, mi abbracciò e mi disse: «Capitan, io sono Karla Maria».
Capii subito che si trattava della bimba nata a bordo 10 anni prima sulla “Carla Costa”. Il vederla già così grande e bella, mi procurò una forte emozione, mi commossi e l’abbracciai. Anche lei, Karla Maria, mi strinse forte con affetto. Ringraziai i genitori per la gradita sorpresa e durante la cerimonia volli rendere pubblica la bella notizia, accolta da un applauso scrosciante dei presenti. Feci in modo di far trascorrere alla famiglia di Karla Maria, una settimana indimenticabile. La sera di gala dell’arrivederci la invitai al tavolo comando e a fine cena i camerieri portarono una grossa torta con la dedica: «A Karla Maria, affettuosamente da papà Mario».
Mario Terenzio PALOMBO
Rapallo, 23 Maggio 2014
IL NAUFRAGIO DI S.PAOLO A MALTA
IL NAUFRAGIO di S. PAOLO A MALTA
Racconto di Luca - Atti degli Apostoli
Il naufragio a Malta fu un incidente accaduto, diremmo oggi, durante un viaggio di "traduzione giudiziaria". Tutto comincia a Gerusalemme dove la predicazione di Paolo aveva scatenato le ire degli Ebrei che lo volevano morto. L'amministrazione romana era, come è noto, tollerante e cinica. Lasciava volentieri che i sudditi delle province sottomesse risolvessero fra di loro le loro questioni. Non però in questo caso. Perché Paolo era cittadino romano e aveva diritto di appellarsi a Cesare. Nella patria del corpus iuris, nell'impero governato dalla legge, la procedura penale era una cosa seria. I governatori delle province avevano potestà istruttoria e giudicante fino alla sentenza capitale. Il processo a Gesù insegna. Non l'avevano però sui cittadini romani. Per questi ultimi lo ius gladii era prerogativa esclusiva di Cesare e cioè della magistratura romana. Queste cose Paolo le sapeva benissimo. Si dichiarò cittadino romano e si appellò all'imperatore garantendosi così una provvisoria impunità. In seguito, dopo essere stato trattenuto agli “arresti domiciliari” a Cesarea, venne trasferito via nave, con tanto di scorta armata, a Roma. Fu un viaggio disastroso, funestato da tempeste e da venti contrari fino al naufragio di Malta. A questo punto lasciamo parlare gli Atti degli Apostoli. "Una volta in salvo venimmo a sapere che l'isola si chiamava Malta. Gli abitanti ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti intorno a un fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia e faceva freddo. Mentre Paolo raccoglieva un fascio di rami secchi e lo gettava sul fuoco, una vipera saltò fuori a causa del calore e lo morse a una mano. Al vedere la serpe pendergli dalla mano, gli abitanti dicevano fra di loro: "certamente costui è un assassino perché, sebbene scampato dal mare, la dea della giustizia non lo ha lasciato vivere". Ma egli scosse la serpe nel fuoco e non patì alcun male. Quelli si aspettavano di vederlo gonfiare o cadere morto sul colpo ma, dopo aver molto atteso e vedendo che non gli succedeva nulla di straordinario, cambiarono parere e dicevano che egli era un dio".
Nel Cuore della Tempesta
Ecco il più favoloso racconto del Nuovo Testamento. Da Cesarea a Roma, “la navigazione è pericolosa” - dopo la festa delle Espiazioni – che introduce l’autunno. In effetti, la nave andrà alla deriva per quindici giorni da Creta a Malta, non potendosi orientare “né con le stelle, né col sole”. Il prigioniero Paolo si rivela più libero dei suoi 276 membri dell’equipaggio, capitano, pilota, centurione e marinai: egli è abituato al mare e all’esperienza di tre naufragi e, soprattutto, ha una sicurezza che gli viene da Dio: “Nessuno di voi lascerà la vita, solo la nave sarà persa”, afferma ai suoi compagni, quando tutto sembra perduto, “Un angelo di Dio al quale appartengo e che servo mi è apparso per dirmi: Non avere paura, Paolo… ecco che Dio ti accorda la vita di tutti coloro che navigano con te”.
Il viaggio di San Paolo verso Roma
LUCA-ATTI DEGLI APOSTOLI
Quando fu deciso che ci imbarcassimo per l’Italia, consegnarono Paolo, insieme con alcuni altri prigionieri, a un centurione di nome Giulio della coorte “Augusta”. E saliti su una nave di Adramitto, che doveva recarsi dalle parti dell’Asia, salpammo, avendo con noi Aristarco, macedone di Tessalonica. Il giorno seguente approdammo a Sidone; e Giulio, facendo un gesto di benevolenza verso Paolo, gli permise di recarsi dagli amici e di riceverne le cure. Salpati di là, navigammo al riparo di Cipro a motivo dei venti contrari e, attraversato il mare della Cilicia e della Panfilia, giungemmo a Mira di Licia. Qui, avendo trovato una nave di Alessandria che navigava per l’Italia, il centurione ci fece salire a bordo di quella. Navigammo lentamente parecchi giorni, giungendo a fatica all’altezza di Cnido, dalle parti di Salmone, e nel costeggiarla faticosamente giungemmo in una località detta Bei Porti, vicino alla quale era la città di Lasea. Trascorso alquanto tempo, ed essendo ormai pericoloso il navigare per essere già passato il grande digiuno, Paolo li esortava ripetutamente, dicendo: “Io vedo, o uomini che la navigazione comporterà pericolo e grave danno non solo al carico e alla nave, ma anche alle nostre vite”. Ma il centurione si lasciava persuadere dal Pilota e dal Capitano della nave più che non dai detti di Paolo. Ed essendo quel porto disadatto a trascorrervi l’inverno, i più furono del parere di salpare di là per giungere a svernare a Fenice, porto di Creta che guarda a libeccio e maestrale.
LA TEMPESTA E IL NAUFRAGIO
Poiché aveva cominciato a spirare un vento di Noto (Noto - l’umido vento del sud, porta le piogge e rende difficoltosa la navigazione in certi periodi dell’anno), convinti di aver ormai realizzato il progetto, levarono le ancore; e costeggiavano più da vicini Creta. Ma dopo non molto tempo si scatenò su di essa un vento d’uragano, detto Euraquilone (Grecale-Vento da Nord-Est): La nave fu travolta nel turbine, e non potendo più resistere al vento, si abbandonarono, e furono portati alla deriva. E mentre filavano sotto un isolotto chiamato Cauda, a stento riuscirono a padroneggiare la scialuppa; tiratala su, adoperavano gli attrezzi per fasciare la nave; poi per timore di finire incagliati nelle Sirti, calarono l’àncora galleggiante, e andarono così alla deriva. Venendo sbattuti violentemente dalla tempesta, il giorno seguente cominciarono a gettare il carico a mare; e il terzo giorno con le proprie mani buttarono a mare le attrezzature della nave. Da vari giorni non comparivano né sole né astri, e continuava a infuriare una grossa burrasca, onde cominciava a dileguare ogni speranza di potersi salvare.
Da molto tempo non mangiavano, quando Paolo mettendosi in mezzo a loro, prese a dire: “Conveniva, o uomini, darmi ascolto, e non salpare da Creta; si sarebbe evitato questo pericolo e questo danno. Tuttavia vi esorto ora a essere di buon animo, perché non ci sarà alcuna perdita di vite in mezzo a voi, ma solo della nave. Mi si é presentato infatti questa notte un angelo del Dio al quale appartengo e a cui servo. Dicendomi: “Non temere più, o Paolo; é necessario che tu sia presentato a Cesare, ed ecco che Dio ti ha concesso tutti i tuoi compagni di navigazione”. Perciò state di buon animo, o uomini: ho fiducia in Dio che avverrà come mi é stato annunziato. Dobbiamo andare a finire su qualche isola”.
E quando fu la quattordicesima notte che andavano alla deriva nell’Adriatico, verso mezzanotte, i marinai ebbero l’impressione che una qualche terra venisse loro incontro. E scandagliando trovarono venti braccia: e dopo un breve tratto, scandagliando di nuovo, trovarono quindici braccia. Allora per timore di finire contro luoghi scogliosi, gettarono da poppa quattro ancore, augurandosi che spuntasse il giorno. Ma i marinai, nell’intento di fuggire dalla nave, avevano già cominciato a calare la scialuppa in mare, col pretesto di gettare le ancore da prora, quando Paolo disse al centurione e ai soldati: “Se costoro non continuano a restare sulla nave, voi non potrete mettervi in salvo”. Allora i soldati recisero le gomene della scialuppa, e la lasciarono cadere giù.
E finché non spuntò il giorno, Paolo esortava tutti a prendere cibo dicendo: “Oggi é il quattordicesimo giorno che passate digiuni nell’attesa, senza prender nulla. Per questo vi esorto a prender cibo; é necessario per la vostra salute. A nessuno di voi perirà anche un solo capello del capo”. Ciò detto, prese del pane, rese grazie a Dio davanti a tutti e, spezzatolo, prese a mangiare. Tutti si sentirono rianimati, e anch’essi presero cibo. Erano complessivamente sulla nave duecentosessantasei persone. Dopo essersi rinfrancati con cibo, presero ad alleggerire la nave, gettando il frumento nel mare.
Fattosi giorno, non riuscivano a conoscere quella terra; ma ravvisarono un’insenatura con spiaggia, e verso di essa deliberarono di spingere, se fosse possibile, la nave. Levarono d’intorno le ancore, che lasciarono andare nel mare; al tempo stesso allentarono i legami dei timoni e levarono al vento l’artimone, movendo così verso la spiaggia.
Artimóne s. m. [dal lat. artĕmon -ōnis, gr. ἀρτέμων -ωνος], ant. – Nell’antichità classica nome di una vela di cui non si sono potute accertare le dimensioni e l’esatta posizione sulla nave. Nel medioevo sembra indicasse una vela trapezoidale o anche triangolare del secondo ordine subito al disopra della maestra, ossia la gabbia (cfr. Dante, Inf. XXI, 15: Chi terzeruolo e artimon rintoppa). Il termine non è più in uso nella marina italiana; in francese la voce artimon, tuttora in uso, indica l’albero e la vela di mezzana.
Ma lanciati contro una punta con il mare ai due lati, vi incagliarono la nave; e mentre la prora impigliata rimaneva lontana dai flutti, la poppa minacciava di sfasciarsi sotto la violenza dell’onda. I soldati decisero allora di uccidere i prigionieri, perché nessuno sfuggisse gettandosi a nuoto: ma il centurione, volendo salvare Paolo, impedì loro di attuare questo disegno; e diede ordine che si gettassero per primi quelli che sapevano nuotare, per raggiungere la terra, e poi gli altri, chi su tavole, chi su altri arnesi della nave. E così avvenne che tutti poterono mettersi in salvo a terra.
Salvi che fummo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. Gli indigeni ci manifestarono una benevolenza non comune; ci accolsero tutti attorno ad un gran fuoco, che avevano acceso a motivo della sopravvenuta, e del freddo.
MALTA - Tutti raggiunsero l’isola, chi a nuoto, chi, grazie ad una tavola o ad un asse. Questa tappa semplice ed idilliaca: “gli indigeni ci trattarono con rara umanità, intorno ad un gran fuoco”, simboleggia l’accoglienza che il mondo pagano farà al Vangelo. Dopo il pericolo ed il naufragio, lo scalo meraviglioso a Malta ebbe, per Luca, il gusto dell’alba di una resurrezione. Una vipera morse la mano di Paolo mentre attizzava il fuoco, egli la gettò nel braciere senza alcun dolore… e la gente lo prese per un Dio. Ancora, Paolo guarì il padre del suo ospite imponendogli le mani, così come la folla di malati che accorsero. Finalmente: “lo ricoprirono di onori e, al momento della partenza, gli venne fornito tutto il necessario”.
Pozzuoli - La Puteoli Romana
Dopo tre mesi, salparono su una nave di Alessandria che aveva svernato nell’isola, recante l’insegna dei Dioscuri. Attraccarono a Siracusa, dove rimasero tre giorni, e di qui, costeggiando, giunsero a Reggio. Il dì seguente si levò il vento di Noto onde il giorno dopo arrivarono a Pozzuoli. E qui trovarono dei fratelli i quali li pregarono di restare con loro sette giorni. E così partirono alla volta di Roma. Ma i fratelli di là, avendo saputo di loro, gli andaronio incontro fino al Foro d’Appio e alle Tre Taverne. E Paolo, al vederli, rese grazie a Dio, e prese coraggio.
Pozzuoli – Tempio di Serapide
Il viaggio di Paolo terminò a Pozzuoli. Questo porto aveva moli importanti e traffici intensi. Pozzuoli fu fondata dai greci nel VI sec. a.C. – passata ai Romani, fu largamente favorita da provvedimenti doganali che ne fecero il porto più animato dell’impero e la base dell’irradiazione economica e politica romana in Oriente. Da Pozzuoli l’Apostolo e i suoi compagni presero la famosa Via Appia (nella pagina accanto a destra), il cui primo tratto, che va da Roma a Capua, fu costruito nel IV sec. a.C.. Questa “Regina delle strade romane” serviva anche da cimitero per i cittadini romani: i due lati della via erano infatti fiancheggiati da monumenti funerari, molti dei quali esistono ancora. Lo “stratopedarca” (stratopedarca, nell’esercito bizantino, il capo dell’accampamento equivalente al maresciallo di alloggio negli eserciti del 18° secolo) al quale furono affidati i prigionieri, apparteneva probabilmente alle Guardie Pretoriane, quella casta politicamente molto importante alla quale Augusto aveva affidato la protezione della città e della persona dell’imperatore.
La Via Appia
Paolo ha la gioia di essere accolto da dei fratelli – hanno percorso 50 Km a piedi - poiché l’Apostolo non è uno sconosciuto: essi hanno ricevuto da lui, tre anni prima, la sua grande Lettera ai Romani. A Roma, egli trova anche una comunità di Cristiani, dei quali si ignora l’origine e della quale Luca dice essere numerosa e celebre per la sua fede e le sue opere. Il cristianesimo è stato senz’altro portato molto presto da mercanti ebrei ed è rimasto accantonato vicino a delle sinagoghe. Alla morte di Claudio, Roma contava circa 50.000 ebrei, venuti da regioni molto diverse, dispersi attraverso la vasta agglomerazione in diverse sinagoghe.
Paolo giunse dunque a Roma nel 61 per esservi giudicato. Dopo due anni di residenza vigilata, nel cuore della città, vicino al Tevere (l’attuale quartiere ebreo), che egli impiegò a evangelizzare ed a scrivere, il processo sfumò per mancanza di accusatori. Ma, dopo l’incendio del 64, Nerone accusò i cristiani di essere gli autori dell’incendio. Paolo venne così arrestato, incatenato nel carcere Mamertino e condannato alla decapitazione, che ebbe luogo fuori dalle Mura Aureliane, sulla via Ostiense, più probabilmente tra il 65 e il 67.
Carlo GATTI
Rapallo, 11 Maggio 2014