TEMPO DI GUERRA... amarcord 5

TEMPO DI GUERRA

AMARCORD...5

 

Ho incontrato ……Eichmann

 

 

 

Sul finire del 1944, io, Lucio, Franco, Gianni, Aldo e altri, ci incontravamo sempre nel Convento dei Francescani di Pegli, dedicato a Sant’Antonio Abate, quello con il maialino. Non eravamo una vera associazione, per altro proibita dal Regime Fascista, in quell’epoca dominante. Si giocava a Biliardo, a carte e quant’altro con il beneplacito dei rispettivi genitori che, sapendoci in convento, ritenevano quello essere uno dei posti più sicuri in un momento di caos inimmaginabile. Ci eravamo organizzati una specie di bar, nei  limiti del tempo di guerra, per dare parvenza di “adulti” ai nostri incontri. All’imbrunire però si doveva per forza rientrare a casa per non incorrere nel “coprifuoco” che, all’epoca, scattava abbastanza presto ed era fatto rispettare con rigore dai militi delle Brigate Nere. Facevano parte del nostro gruppo anche i giovani frati, da poco nominati Sacerdoti e che da lì iniziavano la loro missione. Insomma eravamo tutti giovani e in Convento c’era uno dei pochi telefoni funzionanti; nelle case era oggetto raro. Noi poi non eravamo ancora in età da essere arruolati nei Bersaglieri, il corpo raccogliticcio messo insieme, per volere dei Tedeschi, dal governo fantoccio, grondante sangue, della Repubblica di Salò. Tutti i giovani in età di leva, quell’età, in guerra, continuava ad abbassarsi mano a mano che gli uomini al fronte morivano, finivano d’ufficio nei “Bersaglieri. Và detto che quel Corpo raggruppava tutti quelli che non si volevano unire volontariamente alle varie Brigate Repubblichine operative, vere e proprie bande di assassini. Insomma vi finivano i “lavativi”. Appena finita la guerra, dopo pochissimi mesi, ci raggiunse con gioia, anche Enzo, il fratello di Gianni, appena tornato a casa dopo aver risalito l’Italia combattendo come soldato del ricostruito Esercito Italiano, equipaggiato dagli Inglesi. Dopo neppure un anno, iniziarono ad arrivare degli individui che cercavano di Padre Dömotor ( che noi pronunciavamo Demeter)un frate ungherese che, da poco arrivato, si era inserito bene nel nostro gruppo. Era un formidabile giocatore di biliardo. Parlava uno strano italiano, oggi diremmo alla Zeman, ed era molto gioviale, anche se un po’ misterioso. Ogni tanto spariva per poi ricomparire senza dare spiegazioni. Poco dopo la sua comparsa cominciarono ad arrivare degli individui, tutti dall’atteggiamento dignitoso e taciturno; restavano alcuni giorni in convento, uscendo solo la sera e mai allontanandosi dal sito. Il Convento è in zona defilata e dominante, fuori dalla viabilità usuale che invece passa poco sotto, al fianco della ferrovia. Era quello che si potrebbe definire “un posto discreto e tranquillo”.

In generale, appena arrivati, vestivano lunghi inquietanti cappotti di pelle nera, che richiamavano alla mente, uniti ai  cappelli a larga tesa, l’abbigliamento classico della Gestapo, la terribile polizia Segreta hitleriana. Poi rimediavano abiti civili. A noi dicevano che erano intellettuali o attori Ungheresi, fuggiti perché ricercati come anticomunisti dagli occupanti russi e vestivano abiti raffazzonati, dati loro dalla Croce Rossa Internazionale. La Chiesa, materna, li aiutava per quello. Quindi veri e propri profughi perseguitati che noi, ormai liberi, guardavamo con simpatia anche se facevano gruppo a sé. Non parlavano con alcuno se non con Padre Demeter e riservatamente. Ogni tanto però qualcuno spariva e subito ne arrivavano altri. Di solito li vedevamo, uscendo alla sera, che facevano crocchio fuori dalla porta del convento ma mai in Chiesa, che noi invece frequentavamo. Mi ricordo che una volta, e vi rimase per alcuni giorni, arrivò un mingherlino piccoletto, dal fisico da ragazzino asciutto pur essendo adulto, ma con degli occhi che mi rimasero impressi. Erano di cristallo quasi trasparenti; oggi li definirei di ghiaccio.

Anche lui, il ragazzino, come gli altri dopo un po’ scomparve e sapemmo che pressoché tutti andavano a trovare pace in Sud America, in particolare in Argentina, all’epoca governata dal Generale Peron, utilizzando molto spesso navi della Costa, molto legata alla Curia genovese, all’epoca retta dal Cardinal Siri. Le navi spesso tornavano poi con carichi di carne congelata o altre derrate; credo rientrassero negli aiuti del dopoguerra, gestiti anche dal Vaticano.

 

Dopo qualche tempo cessò l’arrivo dei profughi e, con la partenza dell’ultimo di loro, anche Padre Demeter scomparve, insalutato ospite. Di queste presenze i frati non desideravano parlare e, se ben ricordo, di padre Demeter non avevano grande stima: la consegna era il silenzio. Non predicava ne confessava ma, visto lo strano italiano che parlava, la cosa era, per noi ragazzotti, comprensibile. E pensare che alcuni di noi, come chi scrive, affiancavano già i partigiani.

Adolf Eichmann

 

Simon Wiesenthal

 

Dopo qualche anno, tutto quell’andare e venire, venne smascherato dal gruppo di Simon Wiesenthal, l’ebreo scampato ai campi di sterminio che si era ripromesso di rintracciare quelle “pantegane”, in qualunque parte del mondo si fossero infognati. Scovarono anche “il ragazzino”; era Eichemann che avevo visto e memorizzato a Pegli. Si seppe che molti di quei “pegliesi” erano <ustascia>, cioè boia di destra croati, di etnia cristiana che si erano messi al servizio dei nazisti per massacrare i loro compatrioti, con la scusa della diversa fede. Una considerazione và fatta: la gerarchia Ecclesiastica non poteva non sapere chi erano quelli che aiutava a scappare se addirittura l’ufficio per salvarli era gestito, in Vaticano, da due Cardinali. Alla domanda legittima: <<perché lo avete fatto?>>, la solita farisaica risposta: << erano anticomunisti >>. E i cinque milioni di ebrei da quei maledetti inceneriti come fossero denaro falso, cosa erano? E i massacri degli ustascia erano giustificati solo perché contro i “comunisti”? Non mi si dica che la Curia non lo sapeva; proprio loro che sanno tutto e che confessano i fedeli. Quando, anni dopo e per lavoro, andai in Venezuela, scoprii che Padre Dömoter, morto da poco, nel frattempo era diventato niente meno che Ordinario Militare della Polizia Venezuelana. L’allora dittatore,  Perez Jemenez, affidò a militari nazisti e a membri della Ghestapo transfughi, l’incarico di ristrutturare tutte le sue Forze Armate e la Polizia.  Guarda caso, Padre Dömoter c’era un’altra volta di mezzo.

Enzo BAGNASCO

Rapallo, 17 Aprile 2014

 

 

 

 


TEMPO DI GUERRA... amarcord 4

TEMPO DI GUERRA

AMARCORD... 4

 

 

La guerra degli ….altri genovesi

Dal libro < Liguria amore mio> di Renzo Bagnasco-Mursia Editore. Capitolo Y

 

 

 

 

Senza che nessuno lo potesse sapere, stava per finire quella che, poi, si ricorderà come l’ultima estate di guerra; gli anglo-americani erano ormai padroni assoluti del campo e, in mare, da tempo, non c’era un’imbarcazione italiana e neppure più quelle poche della marina tedesca. Un’ordinanza nazi-fascista vietava infatti l’uso di barche a chicchessia per paura che, fra queste, potesse esserci chi l’avrebbe utilizzata per tenere contatti con sommergibili nemici.

 

Correva voce che al largo incrociassero navi alleate con tanto di portaerei, indispensabili basi agli aeroplani per continuare a bombardare il Nord-Italia; dopo si seppe che quegli sciami di bombardieri che vedevamo passare, partivano dagli aeroporti del Centro e del Sud-Italia, già in mano loro. Anche in cielo non volavano né aerei tedeschi e, meno che meno, italiani.

 

 

I cannoni delle nostre antiquate batterie contraeree, mai ammodernati, avevano gittata utile solo per tentare di colpire i vecchi aerei ma non per arrivare alla quota cui volavano le nuove fortezze volanti che quindi, in pieno giorno e con visibilità ottima, scorgevamo arrivare dall’orizzonte, passarci sopra le teste e andare a portare devastanti distruzioni, nell’entroterra.

 

Viste così, geometriche formazioni compatte, sembravano fazzoletti di coriandoli d’alluminio luccicanti al sole; l’uno a seguire l’altro, distanziati da un brevissimo intervallo, questi rettangoli rombanti, avanzavano indisturbati. Sotto di loro, nel tentativo di salvaguardare l’onore nazionale, si perdevano i colpi sparati vanamente dai nostri asfittici cannoni; riuscivano solo a disegnare un disordinato tappeto di bianchi batuffoli di cotone, oltre i quali s’intravedeva il greve, indisturbato avanzare degli aerei. Solo dopo aver capito che per noi non c’era più gioco o, semplicemente, perché non avevamo più munizioni, si decisero a far tacere quegli inutili rumorosi ferri vecchi, risparmiandoci le pericolose piogge di schegge che ricadevano, sparpagliate, ad ogni deflagrazione.

 

Nei primi anni di guerra i bombardamenti avvenivano di notte perché, con il buio, aerei che ancora non volavano molto alti potevano contare sul fatto di non essere individuati. Il nostro sistema d’allarme, leggermente antiquato, era basato sull’intercettazione fonica del rombo dei motori; dei non vedenti erano appollaiati alla base di aerofoni posti in altura per poter spaziare e, grazie alla loro acuta percezione, avvertivano i rumori degli aerei in avvicinamento. A questo punto partiva l’allarme che veniva diffuso alla popolazione attraverso l’urlo di apposite sirene. Quando il rombo era percepibile anche da noi, si accendevano le fotoelettriche, i riflettori militari che sciabolavano il cielo nella speranza, a volte ripagata, di “agganciare” qualche aereo, così da potere concentrare su quel puntino riflettente luce che procedeva contro un cielo nero, tutti i tiri; a volte, lo colpivano. E pensare che i nostri avversari possedevano già il radar.

 

 

 

 

 

Sul finire della guerra invece, le nuove formazioni aeree, dopo essere transitate cariche di bombe, ritornavano indisturbate e scariche; il cupo rumore iniziale emesso dai motori sotto carico era, al ritorno, meno pesante del primo, non per questo però meno lugubre. Tutto quell'andare e venire sopra le nostre teste, per fortuna, non interessò chi abitava lungo la battigia, se si esclude Recco e, rispetto agli anni che precedettero l’armistizio, si aveva l’impressione che gli obiettivi che intendessero colpire, ora fossero meglio individuati e più mirati. Evidentemente prima, quando le incursioni avvenivano di notte, erano condotte in maniera anche indiscriminata; l’importante era colpire, annientare il nemico e fiaccare i civili, non essendo facile, al buio, distinguere ogni specifico bersaglio in città rigorosamente oscurate. Se invece lo dovevano assolutamente individuare, lanciavano alcuni “bengala” (razzi illuminanti) che scendendo lentamente, trattenuti in aria da dei piccoli paracadute, illuminavano la zona a giorno, per un tempo tale da consentire d’individuare bene l’obiettivo.

 

All’epoca era ormai operante il movimento per la Libertà o dei Partigiani, il termine <Resistenza> l’imparammo dopo e, chi ci bombardava, da lì a poco sarebbe, come amico e liberatore, arrivato proprio nelle stesse zone che, appena il giorno avanti, aveva distrutto. E’ innegabile che una certa “confusione” regnava ovunque perchè, in quello stesso periodo, parte di Italiani uniti ai tedeschi, combattevano gli alleati ed i partigiani.

 

A proposito dei bersagli mirati, fui testimone di due indicativi episodi. Il primo è stato la distruzione di un tratto vitale della ferrovia che collega l’Italia con la Francia, proprio sulla costa a levante di Savona in zona disabitata; solo qualche tempo prima, Novembre 1943, pur di distruggere un simile obiettivo ferroviario, non esitarono a radere al suolo l’intera cittadina di Recco effettuandovi decine di bombardamenti, il cui centro abitato è, da sempre, scavalcato dal gran ponte ferroviario, punto nevralgico e vitale per collegare Ventimiglia con La Spezia.

 

Torniamo all’episodio che ho iniziato a descrivere; nella tarda mattinata di quel giorno soleggiato, preceduti dal consueto lugubre e appesantito rombo dei motori, arrivarono dal mare gli aerei che, compiendo un ampio semicerchio, si portarono sul bersaglio, volando paralleli alla spiaggia. Da ogni formazione vidi sganciare una quantità di bombe lucide come confetti d‘argento, il cui scoppio, data la distanza dalla quale, emozionato, osservavo la scena, subito non avvertii; mano a mano che le bombe toccavano terra, si vedeva elevarsi un parallelepipedo di fumo che si allungava nella stessa direzione della loro marcia, come gigantesco bruco grigio scuro dalle zampette rosso fuoco che, mantenendo ferma un’estremità, distenda lentamente il suo corpo segmentato. Il fragore della spaventosa, prolungata esplosione giunse qualche istante dopo, assieme all’allarmante sobbalzare della terra su cui poggiavo i piedi, come scossa da un innaturale sussulto.

 

Solo dopo si seppe che quello che avevo visto era uno dei tre bombardamenti strategici, effettuati pressoché simultaneamente, nell’Agosto del ’44 per evitare che truppe tedesche fresche, accorressero a dar man forte ai camerati impegnati in Provenza a contrastare lo sbarco degli Alleati, fra Cannes e Tolone, effettuato nell’ambito dell’operazione <Dragoon >.

 

L’altro episodio, verificatosi proprio sopra la mia testa, avvenne nella stessa estate del gran bombardamento descritto; quella mattina, al solito, passarono aerei carichi di bombe e dopo un po’, mentre noi ragazzi stavamo ancora giocando, avvertimmo il familiare rombo degli aerei scarichi, di ritorno dall’ennesima missione. Qualche istante dopo, uno, volando insolitamente solo e a bassa quota, ci passò sopra in fiamme, sorvolò l’Aurelia sfiorando il Castelluccio, un vecchio fortilizio anti-saraceni al confine fra le spiagge di Prà e di Pegli, sul quale avevano installato una mini batteria antiaerea dotata di un cannoncino rapido ma di piccolo calibro. Appena giunto sul mare, vi sganciò il residuo micidiale carico di bombe ancora a bordo per poi, poco più avanti, inabissarsi. Non avemmo neppure il tempo di spaventarci, tanto fu rapido e spettacolare il susseguirsi degli eventi. Una cosa però ricordo bene; se si è nei pressi dell’obiettivo che intendono bombardare, si vedono le bombe cadere a grappolo avvertendo il caratteristico penetrante sibilo prodotto dalle loro alette mentre fendono l’area per mantenerne posizione e direzione, ma se ti trovavi sul bersaglio, quel sibilo sopra di te si trasforma in un assordante e convulso frullare d’ali che cessa solo al momento della lacerante esplosione a seguito della quale, se hai fortuna, ti ritrovi scaraventato a terra da una fortissima, irrefrenabile ventata d’aria calda che travolge quella respirabile.

 

Quel giorno, passata la paura, uscimmo dal pertugio dove c’eravamo ritrovati senza volerlo, e cercammo di scorgere se, in mare d’ove era caduto il bombardiere, ci fosse qualcuno o galleggiasse qualcosa. Si vedevano solo militari tedeschi che, di guardia sulla spiaggia, si affannavano per trovare una barca da varare per catturare il pilota che loro, con i binocoli, avevano scorto galleggiare; non trovarono alcunché perché, essi stessi avevano imposto che le spiagge fossero sempre sgombre, avendovi fatto costruire degli inutilizzati muraglioni di vallo, intercalati da fortilizi, pronti a difenderci dagli sbarchi Alleati, che non erano neppure nei loro piani mancandone i presupposti logistici e strategici.

 

Restammo a guardare per cercare di individuare anche noi cosa loro vedessero, quando improvvisamente spuntò, volando a pelo d’acqua e controluce in direzione della terra, un aereo che, arrivato all’altezza del fortilizio, cabrò improvvisamente mostrando sotto le ali, l’inconfondibile stella, simbolo dell’aeronautica americana; dopo un mezzo “loop”, come uno squalo che in acqua mostri, rivoltandosi, il ventre, fulmineamente si allontanò.

 

Presi in contropiede, gli addetti al cannoncino, giovani bersaglieri arruolati nel nostro ultimo esercito raccogliticcio, non restò che sparargli pateticamente dietro in ritardo e mentre si allontanava; contemporaneamente, inosservato, un idrovolante alleato ammarò vicino al luogo del naufragio, recuperò il pilota e, sempre indisturbato, se ne ripartì mentre tutti erano ancora impegnati a colpire l’aereo, “falso scopo”.

 

Fui felice per quell’uomo perché, coraggiosamente e rischiando la propria vita, sganciò le bombe solo all’ultimo momento e in mare, un attimo prima di cadere; poteva alleggerirsi prima, per garantirsi una maggior autonomia che gli permettesse d’allontanarsi di più dalla costa a lui nemica ma, così facendo, avrebbe raso al suolo parte dell’abitato di Prà e di Pegli.

 

Quest'episodio sarebbe rimasto come uno dei tanti fatti bellici a sé stanti se, ogni tanto, qualche giovane aitante funzionario della Soprintendenza alle Antichità della Liguria, stimolato ed indirizzato dai sempre interessati difensori del territorio, non scoprisse, ignorando i precedenti, che proprio nel sito in cui caddero quelle bombe esistono, sparpagliati sul fondale, dei minuti reperti di cocciame antico, già studiati e classificati “insignificanti” da chi la materia la conosceva bene. L’ultima volta bloccarono ritardandolo, spensierati ed impuniti, l’avanzare del porto commerciale di Voltri e affossarono il progetto di un porticciolo turistico, ultimo tentativo di risollevare Pegli dalle ormai perdute speranze di farla risorgere.

 

Questo costosissimo fervore, è certamente imputabile al fatto che, chi subentra al precedente funzionario, per far sapere che c’è, si precipita a ritrovare a Pegli ciò che tutti ormai sanno esistere: anonimi, minuti cocci di terracotta romana.

 

Quei reperti, di cui è piena la nostra costa, furono oggetto di una campagna di studi subacquei già nel 1952, condotta dal Professor Lamboglia, padre dell’archeologia sottomarina italiana, che concluse ritenendoli <non interessanti > come risulta da <La nave romana di Alberga - Vol.18, 1952- Rivista Studi Liguri >. Ciò nonostante, regolarmente, si emettono ordinanze di divieto di transito per i natanti e per i pescatori e, per alcuni giorni, pagati ovviamente dai contribuenti, gruppi specializzati nelle ricerche archeologiche sottomarine delle forze dell’ordine, sono inviati sul posto ad effettuare ormai vane ricerche; i lavori vengono regolarmente sbandierati sulla stampa cittadina ma i risultati poi, regolarmente, tenuti ben nascosti in un cassetto di una qualche scrivania istituzionale. Ad aumentare la tensione degli “scopritori” c’è anche il fatto che, fra tutto quel cocciame, ogni volta scoprono dei frammenti di legno, subito attribuiti a schegge di nave romana ma che, invece, appartengono a “chiatte” da lavoro, barconi un tempo in uso in porto, lì inabissati dall’Università di Genova in accordo con l’Autorità portuale, sia per liberarne il porto alla fine della guerra che richiedeva nuove tecnologie di lavoro che per tentare di ricreare un habitat ittico allo scopo di ripopolare di pesci il sito. Vana speranza.

 

Nel classificare la zona come archeologicamente non interessante, il Lamboglia scriveva < ..si è avuta la certezza che non eravamo di fronte ad un relitto di nave, ma semplicemente a un avanzo di carico di una nave o capovoltasi o affondata e trasportata altrove dalle correnti.>

Pochi però sanno, e certamente meno che meno lo sapeva quel pilota che, se si continuano a ritrovare <scarsi oggetti interi e così “insolitamente” sparpagliati >, la colpa è anche di quel sant’uomo che salvò parte di Pegli e, tornando alla base da quella sfortunata azione, non avrà neppure verbalizzato di aver, piuttosto che niente, distrutto gli avanzi di una vecchia, anzi vecchissima nave.

Renzo BAGNASCO

Rapallo, 17 Aprile 2014

 


TEMPO DI GUERRA... amarcord 3

 

TEMPO DI GUERRA

AMARCORD ... 3

 

 

La mia guerra fra Prà e Pegli

 

 

Dal libro < Liguria amore mio> di Renzo Bagnasco. Mursia Editore. Capitolo X

 

 

Il giorno in cui fu dichiarata l’ultima guerra ero, con la famiglia, in villeggiatura a Visone, un paesino vicino ad Acqui Terme; sentimmo l’annuncio, anche se di quel messaggio io capii ben poco. Dall’evidente immediata preoccupazione dei miei genitori e dall’improvviso silenzio che piombò nelle vie del piccolo borgo, in contrasto con il clangore che dalla Piazza di Roma la radio faceva arrivare sino a noi, avrei dovuto capire che qualcosa di grave stava succedendo ma, si sa, i ragazzi, privi d’esperienze di riferimento e sensibili solo alle cose che vedono, non avvertono il pericolo se non quando ormai lo stanno correndo.

 

Mio padre, che aveva combattuto nella prima guerra mondiale e mia madre, che quella guerra l’aveva subita, compresero subito il dramma; io ci arrivai solo dopo qualche anno.

 

La prima reazione dei miei fu di ritornare subito a casa come se, una volta là, fossimo al sicuro; ma la “tana” é pur sempre, in emergenza, il luogo istintivamente più protettivo in cui rifugiarsi.

 

Trascorso il primo anno, la guerra promessa come veloce e facilmente vincibile, si rivelò, per chi sapeva esaminarla obiettivamente, aver preso ben altra piega. A mano a mano che il tempo passava, sempre più frequentemente si sentiva riferire da conoscenti che loro amici, rientrando dal fronte di guerra per curarsi da ferite sofferte o per una convalescenza seguita a quelle, riportavano notizie d’enormi inspiegabili sbagli, di presunti sabotaggi perpetrati dai nostri contro i nostri combattenti e di un’allarmante generale impreparazione.

 

 

 

 

Tutte queste cose contrastavano con quanto quotidianamente si sentiva dalla radio o io leggevo sul giornalino il <Balilla >, che il “regime” distribuiva nelle scuole; però anche sul <Vittorioso >, Romano vinceva sempre.

 

Ben presto, la mamma, sorella di un “marcia su Roma” e promotrice essa stessa di una colletta per erigere, nel suo paese natale, un monumento al fante italiano caduto per la Patria nella prima guerra, cominciò a disapprovare quello che stavano facendo i nostri governanti; come tutte le madri aveva intuito, per istinto, che la strada imboccata era quella sbagliata.

 

I versi che Vito Elio Petrucci ha voluto dedicarle, mi pare centrino il personaggio:

 

….a cammin-na in to tempo

 

comme’ na ciossa attenta

 

a-e vire do farchetto….

 

 

Libera traduzione: …e cammina nel tempo come una chioccia attenta ai volteggi del   falco…

 

 

Mio padre, questa nuova guerra non la capì mai perché era partito, nel 1915, volontario in marina per combattere e vincere, come fece, i tedeschi; a lui che per onorare la parola una volta data era disposto a tutto, non andava proprio giù doverli accettare adesso come alleati. Così facendo avrebbe dovuto considerare nemici da combattere, i figli di quelli che, ventitré anni prima vide arrivare da altri continenti per dargli una mano e molti morire al suo fianco mentre, assieme, combattevano l’austriaco nemico comune.

 

Credo che questo fosse lo stato d’animo di molti italiani, sicuramente di quelli che, da sempre, rappresentano la maggioranza silenziosa, nel subire la tragedia che ci coinvolgeva.

 

Noi ragazzi scoprivamo le cose giorno dopo giorno, maturando più in fretta di quanto non lo avesse fatto la generazione che ci aveva preceduto e certamente più di quella che, dopo poco, ci seguì e così le successive; c’entusiasmavamo ad ogni atto eroico del “Balilla” di turno, colpiti anche dalle illustrazioni sempre puntuali d’Achille Beltrame sulla <Domenica del Corriere >, una specie di C.N.N. di allora, non certo per la tempestività dell’informazione ma per la dovizia di particolari disegnati che facevano rivivere al lettore la drammaticità dell’episodio evocato.

 

A fronte delle festanti “oceaniche” adunate, documentate dalla stampa e dal cinegiornale Lux, contrastavano gli improvvisi, disperati scoppi di pianto in casa dei vicini, dopo che un carabiniere n’era uscito frettolosamente; qualcuno doveva pur portare le ferali notizie. Sempre più andavo prendendo coscienza che il tutto non fosse un gioco.

 

 

 

Le notti poi, destati di soprassalto dal lugubre ululato delle sirene d’allarme, bisognava fuggire nei rifugi antiaerei, veri e propri cantieri mai finiti, sommariamente avvolti in coperte e con in gola l’immancabile alitosi sulfurea dovuta alla levataccia che interrompeva la digestione; ad ogni incursione aumentava sempre più la gente che ricorreva alle gallerie-rifugio, assolutamente inadatte perché ancora in costruzione. Era gente tremante, infreddolita e rannicchiata in quegli acquitrinosi cantieri, mentre il cielo si rischiarava, a sprazzi, per i laceranti, fragorosi scoppi delle cannonate della contraerea. Tutte queste cose innescarono paure mai più sopite; ancor oggi continua a mettermi a disagio il sentire lo scoppio lacerante del “colpo tonante” che avverte della fine dei fuochi d’artificio, sparati in occasione di feste patronali.

 

A noi però bastava una successiva giornata di sole per dimenticare, apparentemente, la squassante notte, ma non così per gli adulti che assommavano alla loro, anche la paura per la nostra incolumità, con davanti, ogni giorno, sempre più nere prospettive.

 

Il 25 Luglio del ‘43 ed il successivo 8 Settembre, sconvolsero la vita della mia famiglia; l’alleato tedesco, sentitosi tradito dai nostri governanti, si tramutò di colpo in aguzzino, cercando di evitare che il soldato italiano gli sgusciasse fra le grinfie, rivestendosi in borghese con abiti rimediati, aiutati in ciò dalla popolazione e per di più convinto, visto che nessuna autorità lo smentiva, che la guerra fosse davvero finita e, comunque, da sfuggire. Non voleva essere lui a pagare le colpe di codardi pasticcioni che in quel dramma ci avevano trascinato e poi, felloni, erano fuggiti lasciandoci soli e senza guida.

 

Era obiettivamente difficile capirci qualche cosa; noi ormai parteggiavamo per quello che, ufficialmente, avrebbe dovuto essere ancora il nostro nemico.

 

Ascoltavamo i suoi notiziari, diffusi da Radio Londra nel buio della sera; si cercava di captarla, sintonizzandosi sino a che non si sentiva l’inconfondibile lugubre ripetitivo tambureggiare che segnalava l’inizio del notiziario, subito seguito dalla trasmissione vera e propria che, ancorché disturbata dalle interferenze emesse dalla censura fascista, riuscivamo, in qualche modo, a sentire, compreso i criptici <messaggi speciali > che l’emittente mandava in onda in chiusura e rivolti ai partigiani per coordinarli; ognuno di noi, sentendoli, li interpretava a modo suo, decifrandone ad orecchio l’astruso significato.

 

 


 

Erano i nuovi alleati che, da nemici, erano tornati amici come nel ’15 -’18, anche se continuavano a bombardarci o tenerci svegli con il loro onnipresente “Pippetto”, l’estenuante ricognitore De Havilland “moschito” costruito per  non essere facilmente individuabile da eventuali radar che noi non avevamo e idoneo al volo notturno.

 

Mio padre, non avendo aderito alla causa fascista, non trovava facilmente lavoro e, buon per noi che, almeno alla fine ci sia riuscito, rimediandone uno insolito e “asettico”; poco prima dello sfascio nazionale, lo accettò anche perchè fuori Genova: il cercatore d’oro alle Ferrere, due cascine poste sopra il lago di Lavagnina, nella zona di Lerma, ad Ovada. Và anche detto che quelle miniere erano già state sfruttate e abbandonate dalle legioni romane e, poi, dai napoleonici.

 

Solo ora capisco che la società che gli garantì il lavoro, sicuramente aveva, all’italiana, trovata la strada per ottenere un qualche finanziamento per il recupero e la riattivazione di vecchie miniere d’oro, nell’intento, ormai vitale, di procurare nuove ricchezze da buttare nel divorante crogiuolo della guerra.

 

Per la verità, d’oro se n’estraeva una quantità ininfluente, ma evidentemente sufficiente ad ottenere nuovi finanziamenti, specie se elargiti da mano compiacente. A tutte queste cose però all’epoca nessuno pensava e, meno che meno, mio padre che, concordato lo stipendio, si buttò nella nuova avventura con l’entusiasmo che lo contraddistinse in tutte le sue intraprese che, prima di tutto, per attirarlo dovevano stimolarlo. Molto giocò sulla scelta il fatto di poterci portare lontano dai pericoli insiti nel restare a vivere in Città.

 

Mi ricordo di quando si inventò un’attività, sempre per cercare di sbarcare il lunario durante il conflitto senza dover arrivare a compromessi con le sue convinzioni contrariamente a molti suoi colleghi che invece lo fecero ritrovandosi, alla fine, ricchi e incensurati. Il suo atteggiamento d‘allora, ancor oggi condivido. Ma torniamo alla nova iniziativa: si mise a rigenerare le lime perchè durante quegli anni terribili non si trovava quasi nulla, essendo tutto finalizzato alla produzione bellica. Immaginarsi quindi l’acciaio che era divenuto, al di fuori del giro bellico, introvabile per chi, artigiano, lavorava senza poter accedere alle “commesse” militari. Realizzò dei vasconi di legno che riempì con soluzione elettrolitica e, nei quali immergeva vecchie lime usurate; la corrente galvanica che le attraversava, corrodeva uniformemente le superfici esposte, rimodellando in qualche modo le asperità iniziali. Meglio che niente!

 

Tutta la famiglia, non appena noi figli terminammo il  lacunoso anno scolastico, frequentato a singhiozzo fra un allarme aereo ed un bombardamento, si trasferì nel basso Piemonte a Cravaria, ai piedi delle Ferrere e poco prima della diga che formava il lago della Lavagnina, zona lontana dalle incursioni e che, essendo agricola, garantiva la farina, il latte delle vacche locali ed un forno a legna per cuocervi del pane casereccio e potervi arrostire la selvaggina che mio padre, abile cacciatore, ci procurava. Per noi ragazzi tutti quei prati da potersi godere in assoluta libertà ci facevano scoprire un’indipendenza inattesa; la fantasia era poi stimolata da dei grandi cumuli di sassi, ancor oggi esistenti, ammonticchiati lungo il fiume da generazioni successive di cercatori d’oro, che immaginavamo rovine di vecchi castelli, crollati sotto i nostri assalti. E’ paradossale ma in tempo di guerra si gioca alla…..guerra.

 

Lì ci sorprese l’8 Settembre del 1943.

 

Con mio fratello, dopo aver procurato ai pochi soldati italiani presenti in zona a protezione della menzionata diga, degli abiti civili per consentir loro di tornare alle rispettive case, andammo ad ispezionare le due batterie di mitragliatrici pesanti antiaeree, sistemate ai lati di quello sbarramento e proprio sopra la casa del guardiano. Arrivati, anche se non molto pratici, c’industriammo per sabotare quelle armi e, tanto toccammo e girammo, che riuscimmo a smontarne tutti gli otturatori, gettandoli poi nel sottostante lago assieme alle cassette contenenti i pezzi di ricambio. Convinti di non essere stati visti da alcuno, dopo l’irreparabile sabotaggio rientrammo a casa senza far menzione della nostra impresa; purtroppo le cose non andarono lisce come noi pensavamo. Il guardiano pare ci avesse visto e subito riferì ai suoi superiori; questo è almeno quello che ci siamo sempre sforzati di credere per scartare la delazione politica, che ci avrebbe visto, all’epoca, nei panni di vendicatori impietosi.

 

Fatto si è che due giorni dopo una colonna militare motorizzata, composta di quattro o cinque mezzi tedeschi, sbucò dalla polvere sollevata dalla strada di terra battuta che arriva da Lerma, fermandosi al bivio di Cravaria davanti all'allora nostra casa; ancor oggi, proseguendo in piano, si va alla centrale elettrica mentre, salendo, si arriva alla diga.

 

Mia madre, alla quale avevamo poi raccontato quel segreto per noi troppo grande, seguì, celata dalla tendina, i movimenti di quei militari, cercando di capire, attraverso gli atteggiamenti e i gesti, quali ne fossero le intenzioni. Dalla prima anfibia, che seguiva la staffetta in moto, dopo un concitato parlottare e sbattere di tacchi, si staccò un Maresciallo dei Carabinieri, certamente guida e interprete, che si diresse senza titubanze verso di noi e bussò alla porta.

 

Facile immaginare l’effetto che quel battere fece su tutti noi; quando mia madre aprì, papà era per fortuna a lavorare, credo le si leggesse in viso tutto il dramma. Il Maresciallo, usando un linguaggio volutamente burocratico, fece finta di non averci identificati ma ci fece chiaramente capire che sarebbe stato meglio, anzi, molto meglio se quando fossero ritornati dalla loro ispezione, dopo aver attinto maggiori notizie dal guardiano delatore, non ci fossimo fatti più trovare. Per il momento avrebbe preso tempo, riferendo che non gli eravamo sembrati i ricercati.

 

Sono convinto che la nostra famiglia gli debba la vita; da quel giorno ho capito perché l’arma è nota anche come “Benemerita”. Quel sant’uomo, che non abbiamo mai più rivisto, speriamo non abbia pagato con la vita, altri gesti di generosità compiuti, come questo, per puro altruismo.

 

Tornati a Pegli, per noi ragazzi ci fu un solo scopo; continuare a fare quello che iniziammo lassù. C’intrufolammo fra i tedeschi che occupavano la zona, giocando alla guerra con divise e finte armi simili alle loro ma da noi confezionate, in modo da accattivarci le loro simpatie; alcuni erano padri e altri addirittura nonni, richiamati alle armi come truppe d’occupazione, così da liberare i loro giovani per poterli mandare a morire al fronte.

 

Di loro mi è rimasto l’acre afrore del sego, largamente usato per mantenere morbidi gli stivaletti e le pelletterie, parte importante dell’abbigliamento e l’insolito gusto e odore della loro gialla margarina spalmata sullo squadrato, acidulo pane di segale. Da queste frequentazioni ricavammo la notizia che stavano ultimando di minare i sentieri e i dintorni che portavano alla batteria contraerea della Bastia, posta sulla punta del colle che accoglie la Torre Cambiaso, a Prà, subito a ponente di quella della Marina installata sul Castellaccio, una collina che sovrasta il Lido di Pegli.

 

Decidemmo di “dare una mano agli alleati” anglo-americani, sminando quei sentieri. Il pomeriggio stabilito mio fratello, il cucino Franco ed io c’intrattenemmo, più a lungo del solito in modo che, al primo buio, anziché tornare a casa, avevamo informato i nostri ignari genitori che saremmo rimasti più tempo colà, c’inerpicammo per le “fasce” per raggiungere la zona prefissata.

 

La luce della luna, sbucando ogni tanto fra le smagliature delle nuvole che correvano veloci sfilacciate dallo scirocco, rischiarava ad intermittenza non prevedibile, la zona, stagliando, ogni volta contro il cielo scuro, ma non del tutto nero, la sagoma della sentinella armata che, alla sommità della collina, faceva la guardia girando fra le varie piazzole della batteria camminando sul basso muretto che le contornava. Noi, inerpicandoci dal di sotto, eravamo nascosti alla sua vista dalle lunghe ombre dei cespuglietti mentre, lei, era visibile ogni volta che ispezionava quelle proprio sopra di noi; raggiunto il sentiero, avanzando carponi, dovevamo innanzi tutto capire dove e com’erano state sotterrate le mine antiuomo, congegni anch’essi a noi sconosciuti. Più tardi scoprimmo che erano scatolette di legno con, appena appoggiato sopra, un coperchio mobile e imbottite d’esplosivo; pigiando inavvertitamente con il piede sul coperchio, questi si rincalcava sulla scatola sfilando la sicurezza che tratteneva la molla con il percussore che, colpendo il detonatore, innescava l’esplosione.

 

Camminavamo gattonando in fila indiana; il primo sondava con un bastoncino di legno il tratturo antistante nel tentativo di scoprire almeno un po’ di terreno smosso; al primo indizio, scavammo con delicatezza e vedemmo che avevano sotterrata quella mina vicina al ciglio esterno dello stretto percorso, mentre, al centro, la terra appariva compatta; lentamente, con le mani la dissotterrammo scoperchiandola, così da evitarci brutte sorprese in caso d’inavvertita pressione.

 

Chi la scavò la passò, aperta, a chi lo seguiva e, da questi, una volta neutralizzato il percussore-detonatore, al terzo che doveva riporla in un sacco. Riprendemmo, sempre acquattati, a ricercare la seconda; impresa non facile per chi, come noi, non aveva la più pallida idea di come le avessero dislocate. Bisognava, ad ogni bagliore di luna, individuare altra terra smossa, prima di poter avanzare o appoggiare le mani su un territorio così infído; occorreva anche controllare che la sentinella non ci scorgesse, ogni qual volta il suo ripetitivo giro di ronda la portava sopra di noi.

 

Finalmente ecco la seconda mina; era occultata alla base della   scarpata, dalla parte opposta della prima, sul lato verso monte del sentiero, ma mezzo passo più avanti della prima trovata; fu facile poi scoprire lo schema perché le avevano seppellite a scacchiera lungo i lati del percorso, distanziate dello spazio di un normale passo, lasciando invece accessibile il centro. Trovata la chiave, proseguimmo estraendo la terza e poi la quarta; la quinta, nel passarcela di mano, sfuggì alla presa.

 

Trattenemmo il fiato mentre la scatoletta, per fortuna senza più il coperchio che, rotolando, avrebbe potuto far scattare il percussore nel bel mezzo di un campo minato, ruzzolava balzellando lungo la scarpata. Morti di paura ad ogni suo cozzare contro un ostacolo, la seguivamo senza neppure più respirare; finalmente si fermò e, tutto quello che a noi sembrò un trambusto, non fu avvertito dalla sentinella che si trovava in quel momento, evidentemente, dalla parte opposta. Senza parlarci ma con gli occhi dilatati, decidemmo di abbandonare l’impresa e, quatti quatti, tornare a casa.

 

Finita la guerra, solo vedendo i film sui marines intuimmo il perché di quell’inspiegabile posizionamento; vedemmo che abitualmente avanzavano in fila, camminando sui cigli, così da lasciar sgombra la corsia centrale per usi di servizio ed, in oltre, in caso d’attacco aereo era più facile sottrarvisi, buttandosi al riparo delle scarpate, piuttosto che rimanere facile bersaglio, visibile a centro strada.

 

Naturalmente, come capita ai ragazzi, una volta che scoprimmo il “giochino” ne scemò anche l’interesse e non vi ritornammo più; la paura del pericolo scampato non c’influenzò più di tanto, perché solo ora ne capiamo il vero rischio di quello che, all’epoca, ci sembrava un eccitante gioco.

 

Per fortuna gli alleati non aspettarono il nostro contributo per venirci a liberare.

 

Nel frattempo, eravamo agli inizi del ’44, alla Lavagnina e dintorni, molti ragazzi genovesi in età di leva, vi si rifugiarono per non partire per il fronte, essendo voce comune che la guerra, ormai definitiva persa, da lì a poco, sarebbe finita; l’idea di <resistenza > venne dopo, anche se proprio in quel periodo iniziarono a coagularsi le Brigate partigiane, che capitanate da ex ufficiali dell’esercito italiano cominciarono a darsi un’organizzazione, collegandosi con gli alleati.

 

La presenza in zona di sempre più numerosi “renitenti” che i nazisti chiamavano “banditi”, non passò inosservato ai tedeschi sino a che, un brutto giorno, una nutrita autocolonna risalì quelle strade, non più accompagnata da comprensivi Carabinieri ma, questa volta, spalleggiata dalle squallide Brigate Nere con il compito di fare piazza pulita di tutti quei giovani disarmati. Fu una carneficina; un folto gruppo fu tradito dal fanciullesco attaccamento ad un cagnolino randagio, che, adottatolo, portarono con loro a nascondersi nel buio delle gallerie delle miniere d’oro, i cui lavori, ripresi da mio padre, erano nuovamente sospesi per il precipitare degli eventi. Al vociare dei perlustratori, il bastardino iniziò ad abbaiare, tradendo il gruppo. Nessuno si salvò.

 

Un altro, studente di medicina all’Università di Genova, fu ferito in un bosco, di là del fiume, proprio davanti a Cravaria e lì dovette morire dissanguato, fra lamenti strazianti, perché fu proibito ai contadini di portargli soccorso; la prima a scoprirlo fu un'anziana pia donna, tale fu davvero la pietosa signora Volpe, che sino a che il giovane era in vita, nonostante le lacrimevoli perorazioni, non riuscì ad impietosire il responsabile di quella carneficina. Solo quando, dopo quarant’otto ore, la voce non si avvertì più, le fu concesso di avvicinarsi al corpo di quel martire che, a furia di sfregare la nuca a destra e sinistra per il dolore, aveva lasciato nel terreno un incavo.

 

Mi piace pensare, e questo ho sempre detto ai miei figli, che anche da quella piccola cavità, sia germogliato l’albero della nostra libertà.

 

Dovettero passare molti anni per non sentire più, nelle notti di vento, quelle strazianti invocazioni di soccorso, inutilmente emesse da un giovane, non ancora ventenne, rimasto anonimo e che non accettava una morte così atroce ed inutile.

 

 

 

 

Tutti quei giovani, anche quelli i cui nomi non sono incisi nel marmo, ma che egualmente caddero, sparpagliati, nelle zone vicine, sono e debbono essere accomunati con i <Martiri della Benedicta >.

 

Ogni qual volta ritorno in quella vallata salendo da Lerma, fermo la macchina poco più avanti del bivio con Casaleggio e, nel silenzio di quei luoghi non frequentati, nell'ascoltare dall’alto lo sciacquio del sottostante torrente Lavagnina, penso a quanto scrisse il poeta Edoardo Firpo né <Ai Martiri di Crovasco >

 

………………………………

 

 

Ma in ta gran paxe di monti

 

se sente l’eco de l’aegua

 

lontan ch’a-i ciamma, ch’a-i ciamma.

 

 

 

Libera Traduzione: ■ Ma nella gran pace dei monti si sente l’eco dell’acqua lontana che li chiama, che li chiama.

 

 

In quel periodo, noi tre, sempre più affiatati, eravamo consapevoli di appartenere alla medesima “banda”; nonostante imbevuti di spirito patriottico che, come Balilla, c’era stato inculcato il senso dell’onore e della patria, come per tutti i ragazzi, la libera “banda” d’appartenenza, era cosa più importante. Certo una mano ad alimentare il nostro disincanto ce la davano, senza saperlo, anche i famigliari, evidenziando gli errori che commetteva chi governava l’Italia in quei tempi.

 

Il termine <partigiano > cominciò a circolare poco dopo, anche se loro, per i nazisti e per i residui fascisti erano ricercati, lo abbiamo già visto, come <banditi>; a noi, tali non parevano e fu quindi naturale che il nostro giovanile spirito di contraddizione ce li facesse, al di là delle nostre convinzioni, ammirare; decidemmo di stare con loro visto che molti di loro erano nostri amici anche se un po’ più anziani di me. La ricostituzione dell’esercito italiano dopo l’otto Settembre, avvenne al Nord, sotto il pungolo e il controllo nazista che, allo scopo, manovrava i fascisti aderenti alla appena inventata Repubblica di Salò; crearono reggimenti che, almeno nel nome, usurpavano pagine di gloriose eroiche epopee passate, nella vana speranza di accattivarsi le simpatie del popolo. Ricostituirono così gli alpini, gli assalitori di marina, la X MAS ed, in fine, i bersaglieri.

 

Contemporaneamente un altro esercito si era ricostituito sotto l’egida alleata e capitanato dai vecchi comandanti, iniziò, al fianco di quelli, a risalire l’Italia per liberarla. Di loro e di tutti i loro morti, la strumentalizzata propaganda del dopoguerra non ne parla mai, così come non menziona mai i seicentomila militari italiani lasciatisi marcire nei lager nazisti pur di non aderire al nuovo governo fantoccio che continuamente li blandiva assicurando loro una mendace libertà. E si che gli uni e gli altri sono stati, a tutti gli effetti, combattenti e morti per la nostra libertà, quindi dovrebbero essere commemorati ogni qual volta si parli di Resistenza. Ma si preferisce esaltare chi molto spesso occupò le città solo dopo che i tedeschi occupanti se ne erano andati, vedi Genova e Milano.

 

Al confine fra Prà e Pegli, nella grande area delle ex ferriere Ratto, poi divenuta ILVA, c’erano dei capannoni abbandonati con un gran piazzale che li univa, attraversato e servito da binari dell'abbandonata rete ferroviaria interna che, un tempo, collegava il vicino pontile sul mare cui attraccavano i battelli che fornivano il minerale ferroso, alle fonderie e, da queste, alla rete ferroviaria nazionale. Queste peculiarità fecero sì che tutti gli eserciti che si sono succeduti, utilizzassero il sito come prima zona d'accorpamento e successivo smistamento. Iniziarono i tedeschi che la occuparono in forze così come fecero con il resto dell’Italia non ancora liberata dagli alleati; poi, ricostruito l’esercito italiano fantasma, vi acquartierarono i giovani di leva, chiamati a difendere il nuovo regime, ma che non avevano però pienamente aderito da poter essere inquadrati fra le forze fasciste, tipo Brigate Nere o Muti. A loro bastava non essere considerati renitenti.

 

Furono accorpati in un raccogliticcio reggimento di bersaglieri e, proprio lì, completavano il loro addestramento; n'approfittarono anche per utilizzarli, come comparse, in documentari cinematografici che il regime faceva “girare” nei boschetti di Villa Doria a Pegli, ambientandovi improbabili azioni anti-partigiane che, distribuiti nelle sale cinematografiche sotto il loro controllo, dovevano figurare essere avvenute sul serio e in montagna.

 

Quando toccò il turno degli Alleati,  anche loro la requisirono per mettervi a riposare, nell'attesa d'ordini, i loro uomini stanchi del fronte. Noi della “banda”, a quel tempo, abitavamo in quella che era stata una vecchia masseria dei Marchesi Cambiaso, proprio al di qua del muro di cinta di quel piazzale e non potevamo quindi che subire l’influenza e il fascino di tanta variegata umanità in divisa.

 

Durante l’occupazione dei bersaglieri e della Wermach, quel parco ferroviario con annesse officine, divenne luogo ove raggruppare per effettuare riparazioni e manutenzione, treni ricolmi di mezzi cingolati avariati sui vari fronti; un giorno arrivò un convoglio stracolmo di carri armati leggeri italiani, nuovi di fabbrica, con la tipica mimetizzazione da utilizzarsi nella guerra d’Africa; peccato però che nel frattempo l’avevamo già persa unitamente al Sud e al Centro d’Italia.

 

Di notte il treno era minuziosamente sorvegliato mentre, di giorno, vista la contemporanea presenza di tanti militari, aveva fatto ritenere superfluo un tale impegno. Nell’ora del rancio, mio cugino Franco, senza avvisarci, salì su di un vagone, s’infilò nel carro armato più vicino al gran cancello in disuso, arrugginito, rabberciato e utilizzato solo raramente come uscita d’emergenza dei treni. E’ poi rimasto un mistero come, lui ragazzino, possa essere riuscito, ci disse di essersi aiutato utilizzando gli attrezzi in dotazione al carro trovati all’interno, a smontare e trascinare fuori la mitragliatrice che affiancava il cannone, il cui peso è elevato; basti pensare alla canna esterna che, per proteggerla dalle armi nemiche, era costruita con esuberanza di acciaio. A cose fatte ci venne a chiamare e, poco prima del coprifuoco, allora ormai in vigore, andammo a prelevare l’arma da lui sommariamente nascosta, per riporla nel nostro nascondiglio segreto che, ben presto, si riempì d’armi d’ogni tipo, tutte sottratte a quello che, nel frattempo, era divenuto il nemico della nostra “banda”.

 

Tutta quest'attività non poteva poi che sfociare nelle Squadre d'Azione Partigiana, nel frattempo formatesi e operanti in Città in appoggio coordinato con i partigiani sui monti; l’unico rammarico fu che, solo mio fratello, il più anziano dei tre, fu accolto nel locale 334 Brigata Partigiana di Prà. La nostra “banda” però continuò ad operare come prima ma, adesso, fiancheggiando chi si era prefissata un’azione orientata al bene comune; questa decisione ci diede la prima vera responsabilità.

 

Senza saperlo avevamo dato l’addio al ragazzino che ormai non era più in noi.

Renzo BAGNASCO

Rapallo, 17 Aprile 2014

 



TEMPO DI GUERRA ...amarcord 2

TEMPI DI GUERRA

AMARCORD... 2

 

Un mio NATALE da ragazzo

 

 

 

 

L’inverno del ’44 – 45 non finiva mai. Era di un freddo mai sofferto prima e con certe nevicate inusuali, almeno per noi del ponente di Genova. Nessuno sapeva che era l’ultimo Natale di guerra. Il mare, in certi giorni, dava l’impressione che ‘fumasse’ per l’impatto con l’aria gelida. Un giorno vidi, quasi sotto costa, due balene che avanzavano affiancate sbuffando.

 

Per ragioni di sicurezza, in mare non passava alcuna imbarcazione ormai da tempo. Le uniche unità erano dei rari scuri motoscafi tedeschi, in giro di perlustrazione.

 

All’imbrunire scattava il coprifuoco e chiunque, non autorizzato, fosse stato sorpreso per le strade, poteva essere passato subito per le armi. Noi ragazzi subivamo queste ristrettezze ma chi più ne soffrivano erano i nostri genitori impossibilitati, ad esempio, a poter, la sera, aiutare un congiunto ammalato a casa sua. Per riscaldarci si bruciavano palle di carta che facevamo in casa, macerandola e facendole poi asciugare al sole. La legna era pressoché introvabile.

 

La settimana prima di Natale noi ragazzi cominciavamo a tirar fuori da una sdrucita scatola sistemata sotto al letto, i vecchi “macachi” in terracotta di Albissola;  quando si rompevano il problema era incollarli. Non esistevano, come ora, tutti i tipi di colla per qualunque qualità di materiale: l’unica era la colla da falegname, la stessa che già usava San Giuseppe quando Gesù era ancora Bambino! ma quella colla non reggeva l’umidità ne resisteva ai colpi. Tutto il vantaggio del progresso e dell’aggiornamento, da noi arrivò solo dopo la guerra.

Mio fratello, mio cugino Franco ed io andavamo poi sulle colline sopra a Prà per staccare con le spatole il pan di bosco che, con il freddo e l’umido, ricopriva certe rive ombrose lungo i piccoli corsi d’acqua. Tutto il mancante lo realizzava la fantasia e la carta che sporcavamo, illudendoci rassomigliasse a roccia. Il cielo di carta blu con le stelle lo vendevano i cartolai e, se era “velina”, si poteva, con il meccano, giocare sulla trasparenza creando un’asta rotante con in cima una lampadina da pila, a simulare il percorso lunare. Gli stessi vendevano anche i presepi “autarchici”, cioè fogli di cartone con su stampate a colori, le figurine del presepio, da poi ritagliare.

 

Non si usava l’albero. L’unico era l’antico ramo d’alloro ( a ramma d’ofêuggio ) che i macellai legavano all’esterno del negozio; per la Festa, donavano ai migliori cliente i “berodi”  ( sanguinacci) e qualche “ scianchetto” d’alloro. In alcune case si allestiva una specie di albero, addobbando un ramo con cioccolatini, mandarini e canestrelli. In genere erano marittimi che avevano visto qualcosa di simile nelle Americhe: insomma, un albero di Natale ante litteram.

Il vero e proprio albero di Natale, quello classico, lo scoprimmo per la prima volta attraverso le finestre del bovindo del Comando che la Wehrmacht aveva insediato nel Castello Vianson, in cima alla passeggiata di Pegli. Quello sì era tutto un brillio e lustrini.

 

Il pomeriggio della vigilia eravamo andati in casa di Franco ad aiutarlo a realizzare il suo Presepio. Visto che si faceva buio, anche se eravamo abbondantemente nell’ora “libera” dal coprifuoco, decidemmo , mio fratello ed io, di rientrare.

Intanto giungevano dall’attigua caserma delle Brigate Nere schiamazzi e spari di festa. Alcuni, ormai ubriachi, sostavano cantando davanti al portone d’entrata della stessa. Come arrivammo sulla strada, uscendo dal giardinetto che la distanziava dalla casa, li sentimmo vociare e muoversi di corsa verso di noi. Rientrammo naturalmente nel giardino ma loro irruppero, sparandoci. Ci appoggiammo al muro della casa e quelli, urlando, ci bloccarono puntandoci le armi al petto. Uscirono anche le zie e, dopo un lungo battibecco alternato ad urli, quei ceffi puzzolenti d’alcool se ne andarono. Sul muro i segni dei proiettili ci sono ancora.

Nel frangente mio fratello, poco più grande di me, che aveva in tasca delle pallottole da moschetto ed operava già con la SAP di Prà ( Squadra Azione Patriottica) le aveva fatte scivolare per terra mentre quelli ci tenevano fermi per il collo. Per fortuna, cadendo, non avevano fatto rumore perché eravamo finiti con i piedi dentro ad una bassa aiuola. Solo il mattino dopo le raccattammo ma quella sera, avute le loro assicurazioni, rientrammo di corsa a casa a raccontare l’accaduto. Il mattino dopo, Natale, i nostri genitori andarono a protestare con gli Ufficiali che, imbarazzati porsero le scuse, adducendo l’accaduto al fatto che quei “masnadieri”, sentendosi proprio sotto Natale, soli, invisi alla cittadinanza e ormai terrorizzati per la imminente fine, aggiungo io, si erano ubriacati per darsi coraggio e affogare i rimorsi e le  inquetudini.

 

C’è andata bene. Ricordo bene quel Natale perché, dopo quell’episodio, mai più nessuno mi ha festeggiato a colpi di …. mitra.

 

 

Renzo BAGNASCO

Rapallo, 17 Aprile 2014



TEMPO DI GUERRA ...amarcord 1

TEMPO DI GUERRA

AMARCORD...1

 

Mi ricordo di quando vidi per la prima volta le truppe americane arrivare al Castelluccio di Pegli, al ponente di Genova, dove allora abitavo. Fu la mattina del 27 Aprile ’45. Era una bella giornata primaverile di sole e si “respirava” un’aria strana, d’attesa. Dopo anni, non si sentivano più spari.

 

 

 

Seppur lentamente e tra mille difficoltà, la V Armata proseguì l’avanzata lungo l’Italia raggiungendo Pisa e dopo aver sfondato la “Linea Gotica” anche le altre città del nord tra cui Genova.

 

Avevamo saputo che la sera prima gli uomini della V Armata americana erano entrati in Genova, trovandola già liberata dai partigiani. Noi ragazzotti, il mattino dopo ci  schierammo lungo l’Aurelia, là dove fiancheggia la ferrovia che la protegge dal mare. Eravamo accorsi per vedere gli americani, che per tante notti ci avevano tenuti svegli con i loro bombardamenti. Li conoscevamo solo attraverso i manifesti del “regime”, disegnati da Boccasile; in particolare quello < il liberator>, dove un ceffo, pilota negro,  massacrava le nostre città. Ciò nonnostante  non c’era risentimento tanto era l’odio e l’avversione verso i nazi-fascisti che ci avevano oppressi e coerciti. Tutto silenzio e i binari, raramente usati, arrugginiti. La strada era stranamente vuota, senza neppure le rare auto tedesche o i loro camion grigio-scuri; i mezzi privati, quelli, erano da tempo scomparsi a furia di ordinanze ostative imposte sia dalle Brigate Nere che dalla Wehrmacht. Solo alcuni medici potevano circolare avendo però i fari schermati e i parafanghi dipinti di bianco per individuarli. Finalmente a metà mattinata, in questa ovattata attesa, vediamo scendere lungo il rettilineo, una strana e buffa auto color senape simile ad una scatola scoperchiata, che in seguito imparammo a chiamare < Jeep>, quasi un cartone animato, occupata da giovanotti con divise attillate e con gli “anfibi” appoggiati al di fuori di quella “mezza” auto, mancante della parte superiore. Seguiva una colonna di grandi camion pieni di soldati festanti che, passandoci davanti, ci buttarono sigarette e cioccolata; dai mezzi usciva musica e per la prima volta vedemmo gli occhiali “ray ban”. Che contrasto con i nostri poveri militari indossanti sformate divise sdrucite e con i polpacci stretti da fasce che, se si allentavano, cadendo ti facevano inciampare; bastava correre un po’ perché ciò avvenisse o con i rigidi e anziani soldati richiamati della Wehrmacht, dagli stivaletti ferrati,  sempre odoranti del grasso utilizzato per ammorbidire  i loro accessori in cuoio, e di margarina spalmata sull’acidulo Roggenbrot. Gli americani, appena potevano, giocavano. Acquartieratisi nelle caserme abbandonate dal Regio Esercito ormai scomparso e poi da quello fantoccio della Repubblica Sociale Italiana, che raggruppava in “Bersaglieri” i giovani di leva che non avevano il coraggio di andare con i partigiani ma decisamente ostili a continuare la guerra. Di loro né i padroni tedeschi ne le sanguinarie Brigate Nere si fidavano; li tenevano lì in quiescènza. Alcuni di quei locali erano, sino a due giorni prima, ancora occupati dai tedeschi. Gli americani, trascorrevano il tempo giocando  tirandosi una palla, utilizzando grandi guantoni. Era l’esercizio per tenersi in forma con quello che poi conosceremo essere il “baseball”; altri leggevano i loro fumetti formato tascabile (quelli i cui eroi ancor oggi leggiamo) dalla caratteristica stampa che odorava di citrato. Tutti i confort, carta igienica e dentifricio compresi, li seguivano da sempre al pari dei loro armamenti e al vettovagliamento così come la posta, che veniva distribuita giornalmente. Il rancio poi, anziché versato nella italica gavetta con gli eterni rigatoni al monotono sugo di pomodoro, veniva servito nei vassoi a scomparti che permetteva ai singoli di scegliere nel vasto menù.  Una cosa m’è rimasta impressa: il loro pancarré sfacciatamente bianco e il cibo che avanzavano. Se penso al menù del nostro esercito che ammetteva una sola variante: solo se ne avanzava potevi richiedere il bis.  Bevevano acqua spillandola da loro sacche scure appese e disinfettate ad evitare possibili infezioni. Sulle loro bottigliette di birra, per la prima volta vedemmo la scritta < non conservare, buttare >. Dopo pochi giorni di stanziale permanenza, incominciò l’approccio con la cittadinanza; i più ardimentosi portavano a lavare la loro biancheria alle nostre donne e davano, per poterlo fare, elmetti pieni di benzina come se avessimo in casa il lavaggio a secco. La potevano portare perché i loro elmetti erano scodelle metalliche senza fori che si calzano su di un sotto-elmetto di fibra, completo di aereazione e adattamento alla testa. La benzina, rivenduta poi, valeva ben più di un pezzo del residuato caustico sapone di guerra. Spesse volte  dalla biancheria passavano al letto, battezzando con un nuovo nome un vecchio mestiere: “segnorine”. Dei partigiani, quelli con il fazzoletto al collo, gli americani avevano paura e diffidavano, evidentemente frutto del loro indottrinamento; se in un Bar ce ne fossero stati, quelli non entravano.

A far rispettare al loro interno la disciplina, ci pensavano gli < MP>, eternamente in jeep e armati con lunghi manganelli di legno dipinti di bianco. La bianca fascia al braccio con la scritta <MP>, Military Police, li rendeva riconoscibili e temuti.

 

Tutti avevano camicie e pantaloni sempre con la riga: capimmo poi che quelle “righe” non erano il frutto di continue stirature ma rese stabili con la macchina da cucire. I loro graduati, contrariamente ai nostri e a quelli tedeschi carichi di orpelli, gambali e brillii d’oro, erano vestiti come gli altri soldati: unico ‘distintivo’ erano dei rettangolini dorati , uno o più a seconda del grado, fissati sulle punte dei colletti e sugli elmetti.

 

Il fatto che ricordi queste cose mi rattrista: sto’ diventando veramente vecchio. Mi consolo pensando però che, almeno, io le ho viste e vissute.

 

 

Renzo BAGNASCO

 

Rapallo, 17 Aprile 2014

 


 

 


ANNI '60 - RICORDI DI BORDO E DINTORNI...

ANNI '60

RICORDI DI BORDO E DINTORNI...

Breve introduzione.

I marittimi non amano raccontare i propri trascorsi in mare perché pensano di non essere capiti dai “terrestri”... Ma come ben sappiamo, ogni regola ha le sue eccezioni, il comandante Nunzio Catena é una di queste.

Il saggio che oggi ci dà in lettura, riporta indietro di mezzo secolo le lancette dell’orologio facendo rivivere i personaggi di bordo con le loro mansioni  sulle “carrette” dei mari. Nunzio é stato imbarcato su quei “brutti anatroccoli” come Roosevelt definì i LIBERTY nella cerimonia del primo varo. Pochi naviganti del Nuovo Millennio conoscono l’epopea di queste navi che furono costruite e montate in pochi giorni nei cantieri USA, con  l’obiettivo  di rifornire l’Europa in guerra. Esse dovevano compiere soltanto una traversata atlantica, ma per molte di loro, la carriera terminò con la demolizione verso la fine degli anni ’60. In un’altra sezione del sito di Mare Nostrum Rapallo, abbiamo riportato una serie di articoli dedicati a queste navi definendole:

Le navi che vinsero la guerra e poi la pace”

Alcune Liberty furono rimotorizzate e trasformate internamente per il trasporto di auto-FIAT dall’Italia agli Stati Uniti adeguandosi, in parte, alle nuove esigenze del mercato. Nunzio ci parlerà di questo trasporto, del quale segnaliamo anche un video e altri simpatici  aneddoti. Riteniamo pertanto che molti anziani “lupi di mare”, leggendo questi ricordi, rivivranno una parte della loro gioventù, ma siamo inoltre convinti che anche le nuove generazioni di studenti nautici e giovani ufficiali in servizio troveranno in queste “testimonianze” notevoli spunti di riflessione su come si navigava al tempo dei loro nonni, senza strumenti elettronici, con il radar che andava in avaria nel momento in cui serviva, con il radiogoniometro inattendibile... molto spesso affidandosi soltanto al sestante e al buon senso marinaresco.

Buona lettura!

Carlo Gatti

webmaster

FINALMENTE SI NAVIGA...

Quando finalmente iniziai il Corso Capitani di coperta, ero talmente motivato che terminai l’anno scolastico 1961 con una buona media e fui invitato a partecipare al concorso della Lega Navale Italiana, a livello nazionale - alunni IV° Corso Istituti Nautici Italiani - e nel mese di Luglio, m’arrivò la comunicazione che avevo vinto il Viaggio Premio con la Flotta Lauro-Napoli (che aveva navi passeggeri dislocate in tutto il mondo).

Mamma, sempre previdente, mi disse: "micc(i) cacche maj de lan(a).. 'nz pò mai sapè, t(e) mann a dò fa lu fredd ..?!!!

(Traduzione: metti qualche maglia di lana, non si può mai sapere,  se ti mandano  dove fa freddo.? !!!")

Mamma aveva ragione! Grazie alle potenti raccomandazioni che avevo... quando mi presentai all’Armamento Lauro di Napoli, mi dissero: "vada ad Augusta (Sicilia), imbarchi sulla petroliera 'VOLERE' noleggiata sulla rotta Mina al Ahmadi (Golfo Persico) - Augusta!

Data la calura del Golfo Persico in estate, quel viaggio era noto con il nome: per l’inferno e ritorno. L’aria condizionata all’epoca era soltanto un privilegio di non molte navi passeggeri.

Partii e portai a termine il viaggio con soddisfazione e tanto interesse, e lo avrei anche ripetuto, ma non fu possibile per la riapertura della scuola a Ottobre. Ebbi delle ottime referenze da parte del Comandante, il quale mi disse: “Quando prende il Diploma, puo' imbarcare con Lauro..!!

IL 26/7/62,  conseguito finalmente il diploma di Allievo di Coperta (vedi il sospirato primo grado nella foto), un mio amico che aveva navigato mi consigliò d'inoltrare domanda d’imbarco alla Compagnia Italnavi di Genova. Era il 10 settembre e scrissi:

“Mi chiamo ... Nato il... a... ecc. ecc... Se sono necessarie raccomandazioni, non leggete oltre.”

In pratica, mi ero raccomandato da solo...!

Infatti, a stretto giro di posta, mi risposero di inviare il Libretto di Navigazione per essere messo al turno particolare, il che significava che sarei stato assunto, ma la mia partenza sarebbe dipesa dal numero di Allievi che mi precedevano.

Avrei dovuto baciare per terra per essere stato assunto..., ma quanto avrei dovuto aspettare? Non potevo più aspettare, ero logorato dall’attesa! Sarei ritornato da Lauro, magari anche con il diavolo, ma dovevo assolutamente partire. Subito!

All’epoca viaggiavo gratis in treno e quella sera stessa partii per Genova. La mattina seguente alle 9, mi presentai in Via Fiasella n.1, sede dell’ufficio d’Armamento. Mi presentai con la “lettera d’assunzione” all’addetto agli imbarchi che mi chiese il “libretto di navigazione”.

Al che io domado:

“Quanto tempo devo aspettare per imbarcare? Quanti Allievi sono prima di me?”

E quello con voce alterata mi risponde: “Cinque o sei!”

Al che io di rimando:

“No, grazie! mi ridia il libretto... Io devo imbarcare subito!”

Mentre stavamo parlando entrò un signore anziano con le sopracciglie che sembravano cespugli, ed in dialetto genovese chiese qualcosa all'impiegato.  Intuii  e m’intromisi:

“Comandante, io non posso aspettare, mi dispiace ma...”

Lui guardò il libretto, mi riguardò e disse all'impiegato":

“mettilo per primo!”

Tornai a casa passando da Roma. Il 25 sett. 1962 mi arrivò il telegramma: "Presentarsi domattina per imbarco".

Non sapevo in quel momento se dovevo essere finalmente Felice! In realtà lo ero... Però c'erano troppe cose alle quali ero legato. Mio nipote Vanni, sopratutto, aveva solo due anni, mi chiamava "ziò" e durante l'estate lo portavo con me.

La "vela" di nunzio

I "massi"

Mamma e papa' sarebbero rimasti soli, ma il loro dispiacere, minimamente dimostrato, era compensato dal fatto che dopo tanto ero riuscito a fare quello che volevo: la barca, i massi, gli amici e tutto ciò con cui ero cresciuto assieme e che ora dovevo lasciare.

In ultimo presi un po' della mia terra (sabbia), salutata mamma senza una lacrima mi disse:

"abbad a te mamm, pe' nu, nun tene' pensiero!"

traduzione: bada a te, mamma, per noi non aver pensiero.

Non avevo un’agenda vera e propria, ma una piccolina dove annotai le ore degli ultimi saluti... Alle 21,30 partiva il treno per Torino. Bisognava cambiare a Voghera per Genova dove si arrivava al mattino, in tempo per andare al "diurno" sotto la Stazione e lavarsi (con le locomotive a carbone s'arrivava neri come un marocchino..!!) per poi presentarsi in Compagnia. Sarei imbarcato su una nave nuova, la "PORTOVADO" che si trovava a Taranto.

Nel viaggio da Genova a Taranto, visto che dovevo passare da casa, mi sono fermato tra un treno e l'altro con la gioia di tutti...

A Taranto imbarcai sulla PORTOVADO, una nave da carico nuova e bella..! Caricammo grandi tubi di acciaio per un gasdotto costruito dalla SNAM che univa la Patagonia a Buenos Aires. Quel viaggio prevedeva lo scalo a Bahia Blanca, la navigazione lungo il Rio della Plata per caricare mais a Rosario e Villa Costitution, si completava il carico a Buenos Aires per poi ripartire per Genova. Viaggi meravigliosi, soste abbastanza lunghe nei porti, belle citta' e sopratutto belle ragazze! Ebbi la fortuna d’incontrare un equipaggio meraviglioso. Mi volevano tutti bene! Appena imbarcato, facevo la guardia con il 2° Ufficiale Nardini dalle 20 alle 24. Con lui mi sento ancora oggi al telefono.


M/n PORTOVADO

Ero felice e non mi sembrava vero di poter fare quello che avevo tanto sognato. Ho sempre dormito poco, mi ritiravo a mezzanotte ed alle 4 ero fresco come una rosa... e andavo dietro a tutto l'equipaggio per imparare il più possibile. Quando a bordo seppero la storia dei miei due diplomi: di macchina e di coperta, mi dissero: "noi siamo stati 'dei belinuin' ad aver fatto questa scuola. Ma tu sei un doppio 'belinun'..." Non voglio parlare delle varie avventure nel periodo che sono stato a bordo. Con alcuni diventammo proprio amici (Benvenuto, l'Allievo piu' anziano di me, Cesare Ferrero 3° ufficiale  (I tre dell'ave maria!). Dopo un anno, anche se spesso cambiavano i viaggi, dal punto di vista professionale, avrei voluto fare esperienze diverse per imparare meglio la professione. Un anziano Comandante mi diceva: “la barca vecchia fa il buon Capitano”! Cosi' quando vidi quei liberty feci come Ulisse con la maga Circe, ne fui incantato anche se fu molto difficile rinunciare a tutto quello che avevo a bordo di quella nave nuova!

Toccavo e ritoccavo quell'anello che avevo al dito regalatomi da mia madre il giorno del mio ventesimo compleanno, dove era scritto: "Nunzio e il Mare". Il destino ha voluto cosi': farmi incontrare Peppino di Bartolomeo... Il mio compagno di classe che ‘scappava’ dal Liberty Italvega. Io gli proposi il cambio e come ho già raccontato in altre occasioni, sono andato dal Comandante di Armamento che mi aveva conosciuto e gli dissi":

“Comandante, sono sul 'Portovado' da un anno e conosco anche quanti chiodi ci sono a bordo. Vorrei andare sull'Italvega”.

Mi guardò, abbozzò un sorriso e mi accontentò.

Così tagliai i ponti con il Sud America! Ma quando ritornai a casa, mi venne a trovare il famoso Peppino il quale, dopo l’esperienza del Portovado, si diede all’agricoltura per coltivare le sue terre. Peppino aveva un pacchetto in mano, me lo diede dicendomi il nome del mittente. Premetto che avevo sempre odiato indossare amuleti d'oro, all’epoca portavo al collo una catenella di rame con un'ancoretta usata dai modellisti di navi. Nel pacchetto c’era l'ancora che la sera dell'addio era rimasta impigliata nel 'suo' vestito... Viene da pensare alla Madama Butterfly. Quando arrivò il Portovado, lei stava aspettando sulla banchina insieme alle sue amiche. Peppino era imbarcato al mio posto e proprio a lui, prima della partenza, riconsegnò il pacchetto che conteneva un bigliettino: "Il Mare ha la forza di rompere anche le catene più forti..! Buon vento, Capitano". In quel momento, per quanto fossi troppo felice, la cosa mi fece pensare un pò:  “Quella persona non mi era affatto indifferente!” Forse ci sto' pensando più in questo momento in cui il tempo ha offuscato anche la sua immagine. Quanti ricordi!

Allievo di Coperta del Nuovo millennio

 

L’ALLIEVO DI COPERTA DEGLI ANNI ’60 lavorava in simbiosi con  il 1° UFFICIALE DI COPERTA, ossia il COMANDANTE in seconda della nave.

I gradi del 1° Ufficiale di coperta

Quando ritorno con la mente a quel periodo mi prende la nostalgia...

Io ho sempre sostenuto che buon Ufficiale si diventa da Allievo, perchè solo da Allievo puoi chiedere le cose che non sai e, se non lo fai in quei mesi, saràa difficile farlo in seguito, perchè una volta diventato 3° Ufficiale, ti viene male chiedere ad un altro Ufficiale quella cosa che non sai... e così quelle ombre te le porti dietro...

Le mie FUNZIONI e MANSIONI di Allievo di Coperta.

Sono di “guardia” (la cosiddetta “DIANA”) con il 1° Ufficiale di coperta nei seguenti orari 04/08 - 16/20

Dopo aver salutato il personale di guardia sul Ponte di Comando, il mio primo lavoro é quello di caricare il cronometro della nave in senso antiorario. Alla domanda: “perché”? Segue la risposta: “così ti svegli meglio”. Segue l’eventuale “correzione” da apportare su apposito registro (qualora l’Ufficiale R.T. (Marconi) avesse preso il segnale orario). Calcolo l’eventuale avanzo/ritardo del CRONOMETRO di bordo, altrimenti il Primo dirà di quanti minuti; dopodiché faccio il giro di tutti gli orologi di bordo: cabina del Comandante, sale mensa, cucina e avviso la Sezione Macchina.

Nella parte alta: Calcolo del Punto Nave. Esempio di Retta d'Altezza di sole trasportata all'ora della Meridiana

Calcolo del Punto Nave. Le sette Rette d'Altezza s'incrociano quasi nello stesso punto del grafico. Si tratta di un'ottima performance.

Varie ... a disposizione del 1° Ufficiale: navigazione in corso, controllo se vi sono modifiche alle caratteristiche dei fari e fanali, se la navigazione é sottocosta, oppure mi dedico alla preparazione del calcolo astronomico  chiamato: “osservazione astri al crepuscolo” per ottenere il punto nave, se la navigazione é in altomare. Ore 06,00 - Arriva il Nostromo con le “sonde sentine”, DDFF (doppi fondi), depositi acqua dolce ed altri depositi; aggiornamento dati sull’apposito registro e riporto il consumo giornaliero dell’acqua dolce, controllo eventuali anomalie con sonde precedenti. Seguono gli ordini del 1° Ufficiale al Nostromo per i lavori da effettuarsi in giornata. Appena giunge l’ora dell’osservazione, si procede con la seguente annotazione dati: orario esatto cronometro, allertato prima da: "Lesta" e poi "Stop" – e dalla contemporanea lettura dell’altezza dell’astro sull’orizzonte misurato al sestante dal 1° Ufficiale che scandisce il nome dell’astro. La stessa operazione si ripete per tutti gli astri osservati. Terminate le osservazioni astronomiche si procede piuttosto rapidamente con il calcolo del punto nave. Tempi operativi del 1°Uff. = 10/15 min, con conseguente senso di sconforto dell’Allievo... 2 ore se andava bene - specialmente le prime volte.

Al “Sorgere del sole”, si calcola l’Amplitudine (ortiva), per il controllo dell’eventuale errore della bussola che si registra sull’apposito Registro, con conseguente correzione della rotta al timoniere.

Sul brogliaccio del Ponte di Comando viene annotato tutto ciò che ha rilevanza nautica: di un punto cospicuo (faro, costa, boa ecc.), cambi di rotta, tutto quello che interessa la navigazione ed alla fine della guardia il tutto viene trascritto sul Giornale Nautico parte 2a, nell'apposito riquadro  e firmato dall’Ufficiale di guardia.

Smontato di guardia, il compito più odioso, almeno per il sottoscritto, (non ammettevo all’epoca di fare errori per colpa di altri), devo andare dal Cambusiere e chiedere il Menù del giorno per la Mensa del Com.te-D.M. degli Ufficiali, Sottufficiali e Comuni, quindi scriverli e metterli sui rispettivi tavoli. Premessa: a casa mia si mangiavano minestre semplici, chiamate per quelle che erano. La domenica, gnocchi o pasta all'uovo, (magari 'alla chitarra', specialità abruzzese). A bordo invece, il Cambusiere cominciava a dettare piatti con dei nomi stranieri che io non avevo mai sentito e quindi non ero in grado di scrivere, allora lo chiedevo all’interessato, il quale mi rispondeva in dialetto ligure: “che ne so io! Ho fatto la 5a Elementare. Tu hai le scuole alte..!!” Avevo il terrore di sbagliare, non sapevo a chi chiedere, se ci ripenso, mi sento male ancora adesso.

Ritorno sul ponte di comando per seguire la navigazione. Stiamo navigando sottocosta. Dò un’occhiata alla carta nautica, visualizzo i punti cospicui, prendo i rilevamenti e li disegno ottenendo il punto nave sulla carta nautica. Ripeto l’operazione con intervalli di tempo divisibili per 6.

Ogni lunedì devo cambiare la carta al barografo ed altri registratori settimanali. Un quarto d'ora prima della fine del turno di guardia, registro le voci richieste dalla pagina a sinistra del Giornale Nautico p. 2a (Rv, Rm, Rb, Mare: direzione e forza – Vento: direzione e forza - Cielo,...... – Visibilità .......- Barom. ....., tendenza... - Temper. term.asc...., term.bgt....- Umid.Rel......%. ed altri dati meteo.

Dalle 8 in poi: controllo lavori in coperta, e poi inizia il lavoro in segreteria. Nota dolente: a scuola nessuno mi aveva consigliato di imparare a scrivere a macchina, poiché a bordo sarebbe stato essenziale... Non voglio qui raccontare di quanti fogli ho buttato nel cestino perchè non me la sentivo di presentare al Comandante una lettera con una cancellatura!! Ho proprio sofferto per questa mia carenza e bastava che avessi qualche minuto libero, per fermarmi in segreteria  ed esercitarmi. In quella specie di “ufficio” finivo per passarci gran parte della giornata.

Poco prima delle 10.00 interrompo il lavoro che ho intrapreso, mi cambio e ritorno sul Ponte di Comando per il rito della retta d'altezza di sole, da “trasportare” e utilizzare con la meridiana alle 12.00 per la determinazione del Punto Nave a mezzogiorno.

Ritorno al lavoro che stavo facendo regolandomi di terminarlo per le 11.45, orario stabilito, fin dall’antichità, per l’incontro del Comandante con gli Ufficiali di Coperta sul Ponte per il calcolo congiunto del Punto Nave a mezzodì.

Come Allievo, mi pianto con gli occhi sul cronometro per annotare l'orario  della MERIDIANA del sole (l’altezza massima del sole nella giornata), e quindi l'angolo misurato dagli Ufficiali che sono tre e di solito, anche se di pochi secondi, le misure sono diverse. Quello che conta è la lettura effettuata del 1° Ufficiale, ma é d’uso fare anche la media matematica delle altezze rilevate, che è quella della quale si tiene conto nei calcoli. Ottenuto il Punto Nave a ½ dì, viene messo sulla carta, ed ogni Ufficiale calcola con le formule analitiche, la distanza percorsa dal ½ dì precedente e la velocità nelle ultime 24 ore. Si passa infine al calcolo delle miglia percorse dalla partenza ed alla velocità generale del viaggio.

Il Comandante controlla il punto-nave sulla carta e decide se ci sono le condizioni necessarie per apportare eventuali correzioni alla ROTTA.

Terminati i calcoli si va tutti a pranzo, eccetto il 3° Ufficiale che ha già pranzato alle 11, ed ora monta di quardia fino alle 16.00. L’ultimo compito della mattinata per l’Allievo di coperta consiste nel consegnare alla Sez. Macchinisti i dati giornalieri: la posizione della nave, le miglia percorse, la velocità effettuata, tramite i quali verranno calcolati i consumi di carburante, acqua ed altro. Poi di corsa a mensa, perchè la fame si fa sentire.

Se a bordo c'è un bell'ambiente, il pranzo è il momento più bello della giornata in cui ci si racconta le proprie avventure, ci si prende anche in giro e finalmente si dimenticano le malinconie ecc...

Di solito si festeggia sempre qualcosa... un buon pretesto per bere del buon vino e non il solito 'cancarone', quello che passa il 'convento'.

Di solito sono gli Allievi al primo imbarco che 'offrono o soffrono da bere...' per il passaggio di Gibilterra (le Colonne d'Ercole), per il passaggio dell'Equatore, la prima volta nel Nuovo Continente ecc. ma di solito si é felici di pagare (eccetto qualche soggetto ligure!!).  A bordo c'é anche il "quaderno delle musse" una specie di SPIA che segnala gli errori VERBALI (non professionali) degli ufficiali che incorrono in qualche “SVISTA” per cui si deve offrire da bere! Una volta ho detto: "sono passato all'una e il tuo oblò era 'acceso'..." - “paga da bere gondone!”

Dopo il pranzo segue l’ora della SIESTA, ma io non ho problemi di sonno, anzi, dormo pochissimo e ne approfitto per vedere sempre qualcosa di nuovo. Vado in segreteria ad esercitarmi a scrivere a macchina, se a qualcuno non dà fastidio il ticchettio della macchina da scrivere, altrimenti me ne andavo sul ponte, se al 3° Ufficiale non dà fastidio, ma credo che non gli sembri vero d’avere un Allievo pure lui, ed a me non sembra vero essere finalmente a bordo... la casa più bella del mondo!

Dalle 16.00 alle 20.00, monto di nuovo di guardia sul Ponte di Comando insieme al 1° Ufficiale. Il lavoro si svolge con più calma, specie in navigazione in mare aperto e con buona visibilità. Il Primo ha più tempo da dedicare a me: mi fa delle domande per saggiare la mia preparazione, mi spiega cose nuove, ed io ne approfitto per fargli quelle domande che ho in mente da tanto e finalmente trovo chi me le spiega.

Ho sempre pensato che buoni Ufficiali si diventa a partire dal grado di Allievo, quando è lecito e doveroso “chiedere” ciò che non si sa. Se ti restano delle lacune professionali  te le trascini quando sarai 3° e oltre, ma non avrai più il coraggio di chiedere lumi denunciando in giro la tua ignoranza....

L’esperienza che si accumula vicino al Primo Ufficiale é davvero notevole, lui é il Comandante in 2° della nave, e deve sapere tutto per poter sostituire il Comandante in caso di necessità. Al suo fianco si ha modo di imparare tutti i suoi compiti: la preparazione del piano di carico, con tutti i problemi che esso comporta, la stabilità, l’assetto, evitare 'tramacchi' per scaricare merce nei porti successivi, ecc.. ecc..

Ritorniamo agli incarichi dell’Allievo di coperta. E’ necessario aggiornare i Portolani, l’Elenco dei Fari e Fanali, la cui differenza consiste nella portata: sopra le 15 miglia i primi, sotto le 15 miglia i secondi. Inoltre ci sono le correzioni delle carte del viaggio tramite i Notices to Mariners che arrivano con la posta in ogni porto scalato. Oppure, se mancano pochi giorni all'arrivo in un grande porto come Genova, occorre fare le richieste di tutto il necessario che possa servire per il viaggio successivo. Nel nostro caso, si parla di un viaggio di tre mesi (in Pacifico, con il Liberty, con destinazione Vancouver).

C'é uno stampato diviso per settori: Coperta, Camera, Cucina e varie...comincia con: Aghi da velaio... ecc. e seguono centinaia di altre voci. Per fare la richiesta, occorre scrivere, per ogni voce, la rimanenza, che l'Allievo deve calcolare con il responsabile di ogni settore.

Il pennese, per esempio, é il responsabile delle pitture, pennelli e accessori vari. Il carpentiere é colui che provvede al rizzaggio del carico con travi, puntelli, costruzione di casci, quindi maneggia tavole, putrelle, chiodi, vernici ecc... Il nostromo é colui che segnala l’usura e la mancanza di cavi di ormeggio, cavi di acciaio consumati dei verricelli, ghie, lezzino ecc. C’é poi il cuoco/cambusiere con le sue ordinazioni di piatti, bicchieri, posate ed anche gli stuzzicadenti e la carta igienica... ed a proposito  di quest'ultima, c'è un aneddoto un po’ pesante, ma che non posso fare a meno di raccontare. Per ogni voce,  il 1°Ufficiale scrive la richiesta, ed all'arrivo in porto, il Com.te d'Armamento esamina la richiesta, chiede ragguagli  e di solito ne taglia una buona parte del quantitativo (i tagli ci sono sempre stati...non meravigliamoci di quelli odierni!). Il nostro viaggio, come abbiamo detto, dura circa 100 giorni, siamo 45 persone, quindi i rotoli di carta igienica sono diverse centinaia. Alla richiesta di tanta carta igienica il Com.te d'Armamento, esclama in dialetto genovese: "Belan, quantu papè da cù".  Al che il 1° Uff.le, senza scomporsi, risponde:"  'scia sà Cumandante, qui a bordo g’han tutti u vizio maledettu de nettase u cù..!!"

Beh, sto divagando un po’! Torniamo al calcolo dell'ora del tramonto del Sole e l'ora del crepuscolo, anche perchè dalle 18.00 alle 19.00  c'é il rilievo da parte del 3° Uff.le per permettere al 1° Uff.le di andare a cena insieme al sottoscritto, ma la mia cena é subordinata a quelle ore astronomiche che ho già calcolato in anticipo e che, in verità, mi interessano molto di più.  Così accade che spesso mi faccio lasciare un panino che divoro tranquillamente dopo le 20. Quindi c'é da misurare e calcolare l'amplitudine (occasa) e, come al mattino, compio le stesse operazioni: calcolo l’errore della bussola magnetica, seguita dalle registrazioni sugli appositi registri. L'unica differenza é che di solito, al tramonto, specialmente in certi posti, c'é un cielo meraviglioso e ti prende quella malinconia che solo Dante, con poche parole, poteva riassumere:

Era già l'ora che volge il disio

ai naviganti 'ntenerisce il core

lo dì c'han detto ai dolci amici addio"

Beh! non lasciamoci prendere dalla commozione.

C'e da preparare il calcolo per l'osservazione delle stelle che devono essere prese al crepuscolo serotino, finchè l'orizzonte è ancora ben definito. Quindi si procede con le stesse operazioni del crepuscolo mattutino.

Si procede con l’annotazione dell’orario-osservazione. Altezza di quattro stelle misurata con il sestante sull’orizzonte dal 3° Uff.le. Segue il calcolo per la determinazione del Punto Nave. Mentre gli Ufficiali possono usare un metodo più sbrigativo, l'Allievo deve usare le Tavole Logaritmiche, perchè all'esame di Patentino, é prescritto l’uso di quelle tavole. (Siamo nei primi anni ’60, l’esame é scritto ed orale, se non si supera la prova, si deve aspettare sei mesi per ripeterla).

Alle 19.00 il 1° Ufficiale torna sul ponte. Quindi viene messo il punto nave sulla carta nautica, e seguono le stesse procedure del mattino (brogliaccio, compilazione del Giornale Nautico Parte 2a, riordino della Sala Nautica. Alle 20.00 monta il 3° Ufficiale e il 1° Ufficiale gli lascia le consegne: se vi sono navi in vista, riferisce per ognuna la direzione e in particolare quelle che vengono rilevate con lo stesso angolo.

In vicinanza della costa mostra i vari fari con le proprie caratteristiche e le eventuali consegne lasciate dal Comandante.

Alle 20,00 termina il mio servizio di guardia. Mangio il mio panino, se non ho fatto in tempo a mangiarlo prima, poi vado a fumarmi una sigaretta a poppa... Mi piace tanto vedere la scia della nave, specie se nell'acqua ci sono quei microrganismi che la rendono fosforescente e mi fanno pensare...

Se la temperatura lo permette, vado in cabina, scrivo le cose più importanti della giornata sul mio diario, poi leggo qualcosa oppure scrivo a qualcuno/a.

Questo succede in navigazione, con tempo buono. Se il tempo é cattivo le cose da imparare sono altre.

Le cose cambiano quando la nave si trova in porto. Occorre dotarsi soprattutto di un block notes (formato tasca-camicia caki) e matita. Si deve prendere appunti di tutto: in quale stiva si lavora, a che ora è stata aperta. Se si lavora con mezzi di bordo o di terra. Annotare l’eventuali interruzioni nelle operazioni di carico/scarico, dalle .... alle....., la motivazione (se da addebitare al bordo, oppure a terra per la mancanza di camion, ecc...). Durante la caricazione o discarica, bisogna controllare, insieme all'addetto che carica/scarica, il numero dei pezzi (casse, cartoni, tavole ecc), perchè poi occorre riconsegnare quel quantitativo che abbiamo concordato (scritto poi sulle polizze di carico), per ogni divergenza avvisare il 1° Ufficiale. E tante altre cose che adesso non mi sovvengono, ma una la ricordo molto bene: CONOSCERE BENE LE LINGUE STRANIERE E SOPRATUTTO L'INGLESE..!!!!

Quanto ho scritto (e forse sembra tanto..!), sono i compiti principali che ogni giorno, tutti gli Allievi svolgevano abitualmente, su ogni tipo di nave nei primi Anni ’60. Chiaramente quello che “sembrava tanto” i primi giorni, in seguito diventava routine. Ma, oltre a questi incarichi, c'erano tante altre cose da fare che, a poco a poco, ti facevano conoscere la nave dalla sentina fino alla formaggetta.

Ora, di tutto quello che ho raccontato: di quanto si  faceva a bordo, e si aveva a disposizione per conoscere la nostra posizione in mare e per poter navigare da un porto  all'altro del mondo, non esiste più nulla o quasi.

Speriamo che, a bordo delle mega-navi villaggi turistici ambulanti, abbiano avuto il buon gusto di trovare un angolo (sacrificando qualche metro quadrato ai giardini con le palme), dove mettere una bacheca con questi oggetti: cronometro, bussola magnetica, chiesuola, effemeridi nautiche, sestante, squadrette, carte nautiche (cartacee), con delle frazioni sotto che indicavano: il numero di correzioni (Avvisi ai Naviganti) che dovevano essere apportate sulla carta. Oggi le carte elettroniche in uso a bordo, vengono aggiornate automaticamente).

Se devo essere sincero, mi piacerebbe sapere quali sono, oggigiorno, i compiti dell'Allievo di Coperta, oltre all'applicazione delle Norme per evitare gli abbordi in mare, che oggi sono facilitate dalla strumentazione esistente a bordo.

Avendo esercitato il ruolo di  Allievo Ufficiale di Coperta 50 anni fa, come sopra ho descritto, non saprei se dire a quelli di oggi: beati voi !!

Ognuno, si sa, rimpiange sempre la propria giovinezza, ma io rifarei l’Allievo Ufficiale allo stesso modo: amando il Mare con tutto quello di romantico ed d’avventuroso che riusciva a trasmetterci.

Da sinistra, 3°Uff. M. Gambetta, 2°Uff.G.Tosco, All.Cop. N.Catena

Per un certo periodo ho navigato con il Comandante Stefano Galleano, un vero gentleman. In navigazione, alle 11 offriva l’aperitivo sul ponte di comando. Nei porti americani (il nostro era un Liberty USA), ci ordinava d’indossare la divisa con dignità per mostrare e ricevere rispetto dalle Autorità che salivano a bordo...... anche se non avevamo più navi.

“Colpi di mare in faccia !”

La nave “liberty” ITALVEGA paga un duro pedaggio alla barra del fiume Columbia River


M/n ITALVEGA (ex Liberty canadese) a Venezia (Foto di repertorio)

2/03/1964 – “Eravamo all'uscita del Columbia River, provenienti da  Portland (Oregon), con una copertata di legname (tavole-red wood), assicurata tutto a regola d'arte (con cavi acciaio, catene, cavi ecc.). Avevamo il Pilota a bordo, il quale ci aveva avvisato che fuori c'era un po' di mare lungo. Il Com.te fece rizzare le ancore, i bighi e ordinò di sgombrare la prora. Io ero l’allievo di coperta, in manovra ero sul Ponte di comando, addetto al brogliaccio e al telegrafo di macchina (era ancora quello meccanico..!!). Avvicinandoci alla barra lo spettacolo si faceva sempre più interessante, ma anche ricco d’incognite per quei relitti che affioravano insabbiati e sbandati  con gli alberi che sembravano croci battute dal vento e dal mare. La corrente piuttosto forte del fiume, incontrando l'onda di mare, ne provocava l'innalzamento. Si formava così un treno di onde di piccolo periodo e molto ravvicinate tra loro. La prora cominciò ad inabissarsi e poi a riaffiorare pesantemente, come cercasse di respirare affannosamente dopo una lunga apnea. Il punto di collisione tra il fiume ed il mare era ormai vicino e noi eravamo lì, tra l’incudine ed il martello per sfidare quella natura antica che recitava il suo ruolo con grande imponenza. Improvvisamente  si formò un vuoto, la prora precipitò e poi s’innalzò come per difendersi davanti ad un'onda gigantesca che era lì, di prora a dritta. Il Pilota  ebbe il tempo di urlare: “watch!” - Io mi attaccai ai galletti del finestrino, pensando ad alta voce: "se devo morire... lo voglio vedere!” -   L'onda si abbatté su di noi come un maglio con tutto il suo immenso peso sulla parte prodiera, urlando, frangendo e avvolgendo il ponte comando. Ricevuto il colpo da K.O. L'Italvega, s’inclinò paurosamente a sinistra, ma poi riuscì lentamente a riemergere! Dopo vari scrolloni si rimise in assetto ...

Come si vede dalla foto, l'onda battendo sulla plancia, aveva sfondato il finestrino dal quale osservavo la scena atterrito, frantumandomelo in faccia! Schegge pesanti di vetro antisfondamento, oltre il mio viso, andarono a picchiettare la paratia dietro il timoniere! Io subii diverse ferite da contusione e da taglio, ma ne valse la pena, ero ancora vivo !!  Non sono credente, ma le continue preghiere di mia madre, credo, siano valse a qualcosa....!!

Da una prima stima dei danni emerse che dalla coperta erano stati strappati interi settori di legnami, altri erano stati divelti e sparpagliati dappertutto, come si vede bene dal gruppo di foto riportate successivamente. In stiva i danni erano ancora più ingenti. Fortunatamente non ci furono gravi danni alle persone. Alcuni marinai si salvarono attaccandosi ai tubi passanti in coperta, oppure trovando altri appigli sul cielo del corridoio. Resistettero con la forza delle loro braccia e della disperazione a quell’improvvisa valanga  d'acqua che scese da prora verso poppa con una forza selvaggia, ma si salvarono!! Fuori dalla barra del fiume, il mare aveva riacquistato la sua dignità, era diventato improvvisamente docile e composto, proprio come l’umore dell’equipaggio che dopo lo scampato pericolo, imprecò reagendo a modo suo: “All'arrivo sbarco e non metterò più piede su una barca...! Magari vado a fare il minatore..., ma il mare non mi vedrà più!... ecc....”.

Tutti ripresero ben presto il proprio lavoro per rimettere in sicurezza la nave, ben sapendo che non era “straordinario retribuito”, ma pura normalità marinaresca.

Poi... bastava un po' di bonaccia, un bel tramonto, un porto, una lettera... e si dimenticava tutto..., perché quella era la vita che avevamo scelto, almeno fino alla prossima tempesta..!!

Rapporto e foto dei danni riportati dalla M/N ITALVEGA in uscita alla foce del Columbia River.


DANNI           (Archivio Nunzio Catena)

Sul sito di MARE NOSTRUM Rapallo, nella sezione Video della Home Page, abbiamo inserito un interessante Film-documentario della Liberty ITALTERRA, rimotorizzata e adattata al trasporto di autoveicoli FIAT sulla rotta Savona-Los Angeles. S’intitola:

LA NAVE DELLE MILLE AUTO

Qualche giorno dopo quel brutto episodio alla barra del Columbia River, per il quale rischiai di perdere la vista o fors’anche la testa..., ebbi modo di conoscere un signore il quale mi invitò a passare un weekend  con la sua famiglia, presso una tenuta che avevano presso la foce di un fiume, credo si chiamasse Clyde.

Un posto bellissimo sul Pacifico, dove onde lunghe e maestose rotolavano sulla spiaggia respingendo tutto ciò che il fiume tentava di riversare in mare ogni giorno. M’incamminai lungo la seaside e di fronte a quell’infinita bellezza mi sembrava di pregare a modo mio facendo lo slalom tra dune di rami secchi da anni bruciati dal sole e dal sale. Ad un certo punto mi trovai davanti ad una piccola radura, in mezzo alla quale il mio sguardo cadde su questa radice a forma di croce.

Era proprio una croce  naturale, non costruita. Rimasi bloccato e pensoso, non sapevo se raccoglierla come ricordo o lasciarla al suo destino “oceanico”. Poi decisi di prenderla pensando che forse era lì proprio per me. L' ho presa e l'ho appesa sulla paratia della mia cuccetta e, da allora, decisi che quella Croce sarebbe stata sempre con me...!!  Così è stato. Appena sposati, per prima cosa la sistemai sopra sul letto. Oggi é ancora al suo posto. Non posso dire che mi abbia portato fortuna, ma è ancora lì. La guardo ogni tanto e  le pongo qualche domanda...!

L'ho lasciata sempre così, come l'ho trovata. Non le ho passato neanche una mano di copale, per renderla più lucida affinché potesse emanare dalle sue cellule la sua protezione.

Anche l’ancora, ricordandomi vagamente la CROCE, l’ho sempre portata al collo come  simbolo marinaro di speranza e fortuna.

M/n ITALTERRA in uscita dal porto di Genova

Questa foto é stata scattata quando ero 3° Ufficiale sulla M/n ITALTERRA. Da qualche parte ho scritto che sulla Liberty ITALTERRA  era stata costruita la plancia sulla esistente controplancia, come si vede dalle tavole attaccate ai candelieri, per lasciare libera la plancia dove era stato costruito un lungo tavolo, per poter facilitare la compilazione dei piani di carico ed altro.

I Barracudda immortalati in queste foto, entrarono in sintonia con la velocità del nostro Liberty e finirono in pentola... Questi esemplari, li catturò il Comandante. Su questa nave (M/n ITALTERRA) sono stato imbarcato da 3° Ufficiale, per più di un anno, con il Com.te SOPRANI (nella foto), professionalmente in gamba e non solo come pescatore di BARRACUDA. In Adriatico, i miei amici li pescano insieme agli sgombri, ma non sono più grandi di 30 cm.  Tra qualche anno, con la tropicalizzazione del Mediterraneo raggiungeranno le stesse misure delle foto.

Dopo aver sostenuto con successo a Genova l'esame del Patentino per diventare 3° Ufficiale, volli ritornare su un altro Liberty.


IL 3° UFFICIALE  Coperta – ITALNAVI

Su quasi tutte le navi mercantili  di 50 anni fa, il servizio di guardia del 3°uff.le, era il seguente:  08.00/12.00 - 20.00/24.00

Il significato di questa “guardia quasi giornaliera” é intuitivo: in quanto si parla del più giovane ufficiale di bordo, capo guardia, che non disdegna sicuramente della presenza/consulenza del Comandante che spesso, durante il giorno, sale sul Ponte di Comando. Con la Soc. Italnavi, invece, il 3° Ufficiale faceva la guardia 12.00/16.00 e 00.00/04.00 ritenuta, giustamente la più solitaria. L'ultimo periodo da Allievo di coperta, il 1° Ufficiale o perchè avesse davvero da fare, o perchè faceva parte del tipo di 'addestramento', sempre più spesso mi lasciava solo di guardia (con la frase di rito: “se c'è qualcosa, chiama!”). Nei punti di traffico, in occasione di accostate ed anche nei momenti delle osservazioni stellari, me la sono sempre cavata egregiamente, forse perchè dietro di me  c'era qualcuno a quale rivolgermi!!

Ricorderò per sempre l’emozione della mia prima esperienza di “capo guardia” alla partenza da Genova come 3° Uff.le. Dopo le consegne passatemi dal 2° Uff.le, sempre gli stessi fari, le stesse operazioni da fare, eppure, mi tremavano le gambe! I punti nave li facevo ogni 15 minuti e sempre con i binocoli agli occhi, per controllare le luci delle navi in vista. Sembravo un soldatino con la carica, se ci ripenso ora, sono state sicuramente le  4 ore più lunghe della mia vita. Dietro di me non c'era nessuno che suggerisse... era subentrata la RESPONSABILITA’ che faceva la differenza. Da quel momento era tutto cambiato e solo allora ne sentivo il peso. Da Allievo, dinnanzi a qualsiasi dubbio o problema, volevo sapere il perchè, e per il 1° Ufficiale dovevo essere una bella rottura di p...! Ma da 3° Ufficiale, se avevo qualche dubbio a chi lo avrei chiesto? C’era di mezzo la dignità, l’onore, la professionalità. Il dubbio sarebbe rimasto con me. E credo che una buona massima sia questa: BUONI UFFICIALI, SI DIVENTA DA ALLIEVI.

Naturalmente, giorno dopo giorno, la tensione si allentava e poco alla volta le cose, sempre con la dovuta attenzione, rientravano nella normalità.

Oltre la guardia, il compito più gravoso per il 3° Ufficiale era:

LA CONTABILITÀ DI BORDO.

Sulle navi di bandiera italiana era consolidata tradizione di bordo che la contabilità fosse  a carico del 2° Ufficiale di bordo.  Faceva eccezione la Società Italnavi che attribuiva questo incarico al 3° Ufficiale di coperta.

Senza aver mai studiato qualcosa inerente la ragioneria, senza un manuale della materia da consultare a bordo, molto spesso capitava,  da  Allievo Ufficiale di coperta aspirante al grado di 3° Ufficiale, di  voler imparare a fare le paghe dell’equipaggio. Purtroppo, capitava anche che il 3° in carica non volesse mostrarti le “formule magiche”, forse per essere rimpianto quando sarebbe sbarcato... A me è capitato proprio così, ma misi in pratica il consiglio di mio padre che spesso mi diceva: “Ricordati figliolo che il mestiere lo devi rubare!” Mi diedi da fare e mentre il 3° Ufficiale era di guardia, io approfittavo per rubargli qualche segreto. Noi avevamo il Contratto Nazionale, e le paghe dovevano essere fatte a bordo con tutte le trattenute di legge e naturalmente secondo le istruzioni che via via giungevano dagli uffici di terra con il variare delle leggi, decreti, emendamenti ecc... Insomma era il tipico lavoro che prima e dopo quegli anni ’60 era svolto normalmente dai ragionieri di terra nei loro uffici armatoriali (scagni).

Sarà dura da capire per chiunque, ma noi sull'Italterra, non avevamo neppure la calcolatrice, la prima la vidi sulla Cesana ed era del tipo a manovella.

Dovendo moltiplicare per 9, si doveva abbassare nove volte la manovella. Una manna piovuta dal cielo...

A fine mese, il 1° Ufficiale consegnava il quaderno con i turni di guardia in porto: diurno, notturno, festivo, con le relative tariffe... poi il registro dell’overtime (ore di straordinario compiuto dall’equipaggio) per le quali c'erano da considerare le domeniche e i sabati in navigazione per gli ufficiali, oltre ad altre voci come i ratei della tredicesima e quattordicesima ecc. che sarebbe troppo lunghe elencare. Di 45 persone, non c'erano due  con lo stesso importo totale al quale, alla fine, si dovevano applicare le trattenute di legge. Terminata la contabilità per lo Stato e per la Compagnia, cominciava quella di bordo, vale a dire l’insieme delle spese fatte a bordo da ciascun membro dell’equipaggio che andavano in detrazione dallo stato paga.

1)  Il Cambusiere presentava al contabile di bordo un’infinità di bigliettini, su cui scriveva i consumi di bevande di ogni marittimo per ogni giorno del mese ed il prezzo corrispondente.

2)  Le rimesse alla famiglia in precedenza raccolte ed inviate all'Armatore

3)  Anticipi presi nelle varie valute nei vari porti (con valore cambio uff. di quel giorno).

4)  Sigarette, liquori, ed altri generi disponibili a bordo.

5)  Costo telegrammi e operazioni varie effettuate nel mese  dal Marconista.

6) Costo francobolli tramite Agenzia, (ultime lettere consegnate prima della partenza. Occorreva avere il Tariffario Postale di quello Stato per tutte le altre destinazioni, perchè spesso c'era qualche 'disgraziato' che scriveva dall'Argentina alla fidanzata svedese. A bordo c'era la bilancetta di precisione, cioé  l’Ufficiale Postale.

Il 3° Ufficiale era addetto alla "salute pubblica"

1)  Riempiva gli stampati  per visita medica dei marittimi che ne facevano richiesta.

2) All’estero accompagnava i marittimi dal medico fiduciario della Cassa Marittima e preparava la documentazione per l’Agenzia ed il Consolato in caso di sbarco: Libretto Navigazione, conteggio liquidazione e dichiarazione di soddisfazione....

3) Eventuale acquisto medicinali qualora prescritti ma non presenti a bordo. Eventuali cure come da prescrizione medica.

Il 3° Ufficiale era anche addetto al  "Servizio Doganale"

1) Prima dell’arrivo in porto, in ogni 'saletta' veniva lasciato un quaderno ove ogni membro dell'equipaggio, doveva annotare tutti i generi soggetti a dogana in suo possesso: sigarette, liquori, macchine fotografiche, apparati radio, registratori ecc.

Sigarette, liquori, caffé in dotazione alla nave erano tenuti in un apposito locale, al quale veniva applicato 'il sigillo'. La porta d’accesso  poteva essere aperta soltanto dopo la partenza, fuori dalle acque territoriali di quel Paese. Spesso, durante la sosta,  c'era una visita di controllo "la controvisita", per assicurarsi che gli articoli dichiarati fossero ancora a bordo e non venduti in quel porto. (Sarebbe interessante descrivere dove venivano nascoste certe merci di contrabbando, precisando tuttavia che in quegli anni non si sentiva ancora parlare di droga, ed era un genere completamente sconosciuto dai marittimi!).

Il 3° Ufficiale di coperta aveva anche il compito della cartografia, cioé la corretta tenuta dei  testi di bordo: Portolani, Fari e Fanali e l’aggiornamento delle carte in dotazione alla nave, sia quelle dell'Istituto Idrografico  della Marina,  (Avvisi ai Naviganti), sia quelle internazionali soggette a correzioni  (Notices to Mariners), oltre naturalmente a quelle che giungevano ogni giorno via radio a determinate ore.

L'Autorità Marittima esercitava periodicamente il controllo della cartografia di bordo.

Faceva parte della Sicurezza di bordo l’accurato controllo d’usura di tutti i mezzi di carico/scarico di bordo: bighi di carico, paranchi, pulegge, ghie, cavi ecc... con messa in evidenza, timbro e data controllo Ente  classificatore. Ed altro. In questa operazione il 3° Ufficiale era coadiuvato dall’Allievo di coperta.

2° UFFICIALE di Coperta era responsabile della Sicurezza

Il 2° Ufficiale, sulle navi - "Italnavi" faceva la guardia dalle 08.00/12.00 ed dalle 20.00/24.00. Il suo compito principale era sicurezza di bordo:

1) Lance di salvataggio

Controllo di tutte le dotazioni prescritte:

Eventuale scadenza di segnali di soccorso - fuochi a mano, razzi a paracadute, fumogeni ecc.. loro scadenza ed eventuale richiesta.

Controllo dotazioni viveri, acqua, loro scadenza ed eventuale richiesta.

Controllo e manutenzione  sistema ammaina/recupero Lance Salvataggio.

“Esercitazioni Periodiche di Abbandono Nave”, con istruzione equipaggio.

Prova RTF portatile lance salvataggio.

Ruolo emergenza aggiornato per tutte le persone dell'equipaggio con i vari compiti in caso di Abbandono Nave e consegna ad ognuno del cartellino indicante quale lancia assegnata e mansioni da svolgere.

Tenere aggiornato quaderno esercitazioni pratiche effettuate periodicamente e vistate da Com.te, per controllo Autorità Marittima.

Esercitazione simulata di "Uomo in Mare", con relativa prova di recupero di un fusto gettato fuoribordo.

2) Servizio Antincendio

Controllo scadenza e ricarica estintori esistenti a bordo.

Quadro generale della nave con ubicazione estintori con loro numero di riconoscimento  ed altri mezzi antincendio, asce, tute ecc.

Ubicazione e numero identificazione idranti, controllo stati manichette.

Controllo Stazione fissa CO2

Controllo pompe emergenza esaurimento icendio

Illustrazione periodica sull’uso di tutti i mezzi antincendio.

Ricarica estintori a schiuma e CO2 ecc.

Simulazione Incendio Grave a bordo. Controllo se ogni componente l'equipaggio, sia in grado di svolgere il suo compito.

Le Annotazione sull’apposito registro erano vistate dal Com.te e, a richiesta, anche da parte della Autorità Marittima, il cui controllo generale poteva essere anche di questo tipo: Il Comandante di bordo riceveva improvvisamente un messaggio dalla Capitaneria di questo tenore: “alle ore..., si è sviluppato un incendio in quel punto della nave... Provveda alle necessarie misure richieste...”

Procedura prevista:

- Segnale con fischio  per incendio grave a bordo, se in porto.

- Avvisare Autorità Marittima, Vigili del Fuoco che hanno a disposizione i mezzi antincendio.

- Altre precauzioni vengono prese qualora si tratti di una petroliera, nel qual caso può essere opportuno rimorchiare la nave in rada, secondo le normative di sicurezza vigenti.

Al termine della simulazione, l'Autorità Marittima rilasciava la sua valutazione sulla preparazione dell'equipaggio in base al tempo e ai mezzi impiegati.

M/n CESANA

In questa foto in divisa bianca da 2° Ufficiale, ero imbarcato sulla M/n CESANA (già dei COSTA). Anche il comandante Cervia, ci teneva che la indossassimo.

Quando mi sono sposato, a Roma, in una chiesa piuttosto esclusiva, c'erano tre fotografi ma siccome odiavo mettermi in posa per la foto con la zia, la cognata ecc. diedi 10.000 lire ad ognuno di loro purché se ne andassero. (Nel '67, 10.000 L. era una cifra...), non vi dico la reazione di quelli..”grazie dottò” e via. Ne ho tre o quattro, fatte di nascosto... da qualche parente. Che devo fare? Sono fatto così (male, lo riconosco).

Qui mi trovavo in una chiesetta...meravigliosa in  mezzo ad un villaggio  tropicale di palme e capanne. Dietro alla foto scrissi a mia futura moglie Marilena: “cerca una chiesetta così e ci sposiamo subito”.


La "giancada"

Quel villaggio era in un posto meraviglioso del Brasile, a Nord di Recife, era così bello che sono stato in forse se ripartire o meno... I pescatori usavano quelle giancade fatte  di pochi tronchi, con vele di stracci ricuciti. Ogni mattina ne uscivano una decina e forse ne rientravano otto alla sera!  C'era infatti una ragazza americana della FA0, che cercava di aiutare queste famiglie accudendo ad una marea di bimbi bisognosi e forse orfani. Ricordo che avevano un pozzo con una pompa non più funzionante e siccome da 2° Ufficiale avevo in carico i mezzi di sicurezza, provvidi a lasciargliene un paio che non erano più omolagate.

Prima di partire acquistai un carretto di generi alimentari che lasciai a quei bambini. So che non bisogna raccontare quando si fa del bene, ma oggi lo dico soltanto per far capire ciò che provavo per quelle persone. Da bordo presi cime e cimette per quei pescatori che mi diedero in cambio  conchiglie, un carapace di tartaruga e persino un’ancora ancora in ottimo stato, a dimostrazione del loro elevato grado di “marineria”.

Quel giorno, tornando a bordo, mi capitò di vedere davanti ad una capanna una coppia di europei che mi raccontarono in breve la loro storia. M’invitarono insieme all’Allievo che mi ero portato dietro, nella loro capanna dove l'unico mobile era il baule con il quale avevano spedito le loro poche cose. Erano due insegnanti belgi che avevano fatto una nuova scelta esistenziale.

Il marito della coppia, cercava di organizzare la vendita del pescato. Quei poveri pescatori erano sfruttati dai mafiosi locali, dai quali era già stato seriamente minacciato...

La moglie era incinta ed il loro coraggio è stato premiato da Dio: da Baires mi mandarono un biglietto che annunciava la nascita di un  bel maschietto.

Juanin

Avevano con loro una piccola scimmia della quale mi ero innamorato,  prima di partire me la regalarono e me la portai a casa come ricordo di quella straordinaria conoscenza... solo un matto come me poteva sfidare quel forte cambio di clima dal loro caldo al nostro inverno.

Dovevo sposarmi di lì a due mesi... Marilena credeva che fossi scomparso. Purtroppo  solo a Baires trovai  un ufficio postale.

Avevamo scalato Baires per caricare una copertata di casse di ananas, e ricordo che il caricatore, per impedire che si toccasse il carico, ci regalò 60 casse di ananas, che imbevuto di whisky era la fine del modo.

Vi presento Juanin dopo il bagno... Notare  l’eleganza con l’accappatoio fatto all’uncinetto dalla povera mamma.

L'ho chiamai così perchè il paese più vicino si chiamava Juan Pessoa. Ogni animale che “imbarcavo” lo chiamavo con il nome di provenienza.

Cercando di acclimatarlo, lì era estate e da noi inverno, mi feci dare dall'amico 1° Macchinista Giorgio Costaguta  (riviera di levante, ma non ricordo il paese) una lampada a raggi infrarossi, credo venisse usata in Sala Macchine per asciugare i motori elettrici. Avevo costruito una scala che utilizzavo per tenere Juanin ad una certa temperatura. Era la mascotte di bordo e la tenevo libera in cabina. Quando mi sdraiavo in cuccetta, Juanin si metteva sulla guida della tendina ed io parlavo con lui... Ad un certo punto mi addormentavo e lui veniva giù e con le sue manine mi apriva un occhio, come per dire: che fai, adesso non mi parli più ?? Era di un’intelligenza paurosa.

Quando scrivevo a Marilena, Juanin s’incazzava perchè non parlavo con lui, si sentiva escluso ed allora si metteva con la schiena contro la mano e puntava i piedini, come per fermarmi.

Quello stesso viaggio, non ricordo che porto fosse, vidi un cane sulla banchina... un lupo incrociato, lo ricobbi subito come un "cane di bordo" di qualche nave diretta in Inghilterra.  A quei tempi erano guai per chi teneva un cane a bordo, forse per questo lo avevano lasciato a terra.

Marilena mi dice spesso:  “tu dovevi fare il frate..” Perchè ho sempre fatto il tifo per i meno fortunati: uomini, animali oppure persone anziane. Per farla breve, prima di partire, raccolsi pure il cane chiamandolo Bubu. Non ci crederete, ma Bubu si metteva accovacciato vicino a me e appena chiudeva gli occhi, Juanin scendeva giù e gli tirava i baffi...! Giustamente  quello s’incazzava, ed io pensavo che prima o dopo Juanin sarebbe finito in un morso.. lo faceva 50 volte al giorno ed è riuscito a sopravvivere.

Quando  portai  Juanin a casa, gli feci la cuccetta con il guscio di mezza noce di cocco riempita di cotone e la sistemai sopra il caminetto.. a mia madre faceva un po’ impressione perchè diceva che assomigliava ad un topo...e ripensandoci, non aveva tutti i torti! Quando ripartii  se ne prese cura Marilena.

Purtroppo, dopo un’intensa nevicata, forse a causa del freddo o altro, Juanin diventò cieco e poco dopo morì.

Per fortuna, subito dopo nacque la mia prima figlia Marina, perchè io sono stato male, fisicamente e moralmente!

È vissuto poco più di un anno. Gli avevo fatto una gabbia nel gardinetto dalla parte della ferrovia, dove poteva saltare come voleva al riparo di gatti ecc.

La cagnetta Palma

In quel gardinetto, c'era la gabbia delle poiane, la villetta di "Palma", la cagnetta che avevo riportato da Las Palmas, il soggiorno diurno del pappagallo "Pedro", da Bahia Salvador che ha vissuto 26 anni, la sistemazione del Gabbiano "Ubaldo", ammaestrato.

Ubaldo, il gabbiano ammaestrato

Quando voleva, andava con i suoi amici, poi ritornava; una volta, forse si sarà innamorato, se ne andò e non è più tornato..! Adesso a Ortona Mare è cambiato tutto, la ferrovia ha sistemato il secondo binario ed ha costruito il Muro di Berlino a due metri da casa.

Se devo essere sincero, quella casa non mi piace più, la spiaggia è cambiata. Prima i sassi erano puliti ed il mare era a 20 mt. da casa; ora tutta quella sabbia è quasi polvere!

Sono scomparsi, sepolti dalla sabbia, i blocchi di cemento, sopra i quali andavo a studiare e a prendere il sole. A dirla con Celentano “Ora é cambiato tutto”.

Non ho finito di raccontare di "Bubù", che era una femmina e non vi dico del mucchio di problemi quando partorì otto  cuccioli da nutrire con l’integrazione di latte con il biberon e dei tentativi  per lasciarlo ai portuali un po’ indecisi cercando di corromperli anche con numerose stecche di sigarette. Purtroppo a bordo nessuno se la sentiva di gestire una situazione così complessa e laboriosa.

In effetti, la mia passione per gli animali é andata anche oltre .... e non posso nascondere che a bordo ho avuto una foca, piccolina, "Madrin" perchè l'avevo presa a P.to Madrin, in Patagonia. La tenevo nel bagno di una di quelle cabine destinate all'isolamento. Per andare incontro alle sue abitudini climatiche avevo chiuso i termosifoni, la tenevo immersa nell’acqua fredda e si nutriva soltanto di pesce vivo che io stesso pescavo. In seguito, quei figli di buona madre di colleghi, aprirono il termosifone... e feci appena in tempo a liberarla!

Ancora oggi, quando si parla di Juanin, noto che mia moglie Marilena, purtroppo, non mi ha ancora perdonato quel mese senza posta... e s’incazza ancora come una vespa, come se il fattaccio fosse successo la settimana scorsa, magari con una sudamericana alla fine del mundo...

IL PAPPAGALLO PEDRO

Pedro era un pappagallo brasiliano che portai come ricordo dall’ennesimo viaggio in Sud America. Aveva imparato a parlare discretamente ed era davvero uno spasso per tutti i bambini che venivano a trovarlo e con i quali parlava e rideva, sopratutto con loro.

Quando mi trasferii in Sardegna, lo lasciai ai miei genitori che per motivi di salute lo affidarono a zio Ferruccio (Ferro). Quando tornai definitivamente non ebbi il coraggio di riprenderglielo.  Stavano troppo bene insieme! Zio Ferro era un tipo tutto particolare... aveva una tromba-giocattolo di plastica con cui riusciva a suonare il Silenzio in maniera eccellente e 'Pedro' lo ripeteva alla Nini Rosso (di vecchia memoria). Gli zii non avevano figli e litigavano soltanto... così Pedro s’inserì nella famiglia assumendo il ruolo di paciere dialogando con Ferro dalla mattina alla sera.

Questo zio fumava anche il “bastone di S. Giuseppe” e dovette subire una tracheotomia  che lo relegò parecchio tempo in ospedale. Una sera, rispettando l’orario  di visita, gli portai Pedro dopo un viaggio avventuroso in auto... la povera bestia raccava come un mozzo al primo imbarco in mezzo ad una burrasca, ed ogni volta bestemmiava come un turco, perchè gli aveva insegnato anche quello, quando c'era qualcosa che non andava... Arrivati al varco, mi fermò il guardiano dicendomi: “dove va con quella bestia”. Di rimando risposi: “il Padrone di questo animale, è ricoverato qui da oltre due mesi, non ha parenti, questo è il suo unico convivente, perciò ha tutto il diritto di entrare!” Per farla breve, con un pacchetto di Marlboro risolsi, come sempre il  problema. Quando si rividero fu davvero una scena commovente. Dall’agitazione, Pedro non sapeva più cosa fare e dire che ci volle il primario per ristabilire un po’ di ordine... Pedro aveva preso posizione sul trespolo delle flebo e non c’era modo di spostarlo. Pedro rimase con Ferro fino all’ultimo, poi lo riportai con me, ma improvvisamente, dopo alcuni giorni, si ammalò di crepacuore e morì per seguire il suo alter ego nell’al di là. Pedro stette con noi 26 anni e diverse generazioni di bambini lo conobbero, giocarono e crebbero con lui. Pedro e Ferro erano entrambi ghiotti di peperoncino rosso, mangiavano le stesse cose e vivevano in simbiosi. Erano nati l’uno per l’altro...

C.I.R.M. – Una BENEMERITA ISTITUZIONE

SERVIZIO GRATUITO DI TELEMEDICINA

Il Centro Internazionale Radiomedico è sorto nel 1935, allo scopo di fornire assistenza radiomedica ai marittimi, imbarcati su navi senza medico a bordo, di qualsiasi nazionalità, in navigazione su tutti i mari.

Il CIRM ha la sua sede in Roma ed i suoi servizi medici, sono gratuiti. Essi includono l’interessamento per un eventuale trasbordo del paziente su nave fornita di servizi medici o, se la distanza lo permette, il prelievo del malato con mezzi navali o aerei per una rapida ospedalizzazione.

Spesso durante le tempestose traversate Atlantiche, capitava qualche imprevisto di salute ad un membro dell’equipaggio che generava preoccupazione, specialmente nel Comando di bordo che doveva in qualche modo trovare una soluzione al problema. E’ quindi giunto il momento per raccontare com’era organizzato il “servizio sanitario di bordo”, tramite una delle poche istituzioni della quale l’Italia poteva essere orgogliosa (in quanto al mondo ne esisteva una simile soltanto a New York). Sto parlando del  C.I.R.M. (Centro Internazionale Radio Medico), fondato inizialmente dal conte dott. Guido Guida il quale, aiutato da altri medici, assicurava gratuitamente l’assistenza medica agli equipaggi delle navi mercantili di qualsiasi nazionalità. Il primo presidente fu Guglielmo Marconi, in quanto allora era indispensabile la trasmissione R.T. ed i messaggi via Roma Radio, avevano la precedenza su tutti gli altri (sigla PAM PAM) ed erano gratuiti. Il C.I.R.M. era un Ente senza fini di lucro e veniva finanziato da offerte volontarie di Armatori e Marittimi, ai quali periodicamente venivano chieste, ed ognuno rispondeva con una cifra che rispecchiava la propria possibilità e sensibilità. C’è stato un periodo in cui si è rischiato di perdere questa unica ed utilissima istituzione, che fu poi ripotenziata grazie all’interessamento del Com.te Prospero Schiaffino, (Armamento Italnavi).  Premesso che ogni nave, a seconda dei viaggi e del numero delle persone imbarcate, doveva essere dotata di una infermeria e di medicine ben definite e consigliate dallo stesso C.I.R.M. che fossero quindi in grado di far fronte ai vari tipi malattie e soprattutto infortuni  che spesso si verificavano durante il viaggio. Ogni sei mesi, veniva effettuata da parte di un Medico della Sanità Marittima, un controllo sui medicinali ed altre dotazioni prescritte e rilasciava un Certificato di Visita Cassetta Medicinali, compreso il controllo della morfina e di altri stupefacenti prescritti, riportati su un apposito Registro Stupefacenti. Di solito il compito sanitario di bordo, veniva assegnato al 3^ Ufficiale, il quale era responsabile della gestione di questo settore. Durante il Corso all’Ist.Tec.Nautico, era prevista una ora settimanale di Igiene Navale, durante la quale, oltre allo studio delle varie parti del corpo, venivano descritti i vari tipi di malattie ed i relativi rimedi da prendere.  50 anni fa, quando ci s'imbarcava da 3°Ufficiale, si era responsabili di questo settore senza aver mai praticato una puntura! Negli USA, dove per tradizione è stata data molta importanza alla sicurezza, all’arrivo in porto, ancor prima d’iniziare le operazioni commerciali, veniva a bordo un infermiere il quale chiedeva dove era ubicata l’INFERMERIA, poi  applicava sulle paratie della nave le frecce che indicavano il percorso per raggiungerla. Spesso appariva la scritta : “SAFETY FIRST” e sottobordo era già pronta una apposita barella in caso di necessità. In fondo al pontile, lungo il quale erano ormeggiate diverse navi da entrambi i lati, c’era una Autoambulanza sempre operativa, con Medico a Bordo.

Dopo qualche anno ricordo che anche in Italia si fecero dei passi avanti nella preparazione sanitaria degli ufficiali naviganti. Per esempio, fu richiesto agli ufficiali di coperta di presenziare un certo numero di ore in un Pronto Soccorso. La prestazione veniva registrata sul Libretto di Navigazione dell’interessato. Purtroppo, come ho riferito in precedenza, da 3° Ufficiale, il mio primo impatto con la siringa fu traumatico. A farne la spesa fu il Direttore di Macchina che stoicamente subì il mio tremolio con le  titubanze della prima puntura. Pur conoscendo la tecnica esatta di come fare un'iniezione, lottavo contro la paura di fargli male e la mortificazione qualora la mia imperizia fosse venuta all’orecchio del Comandante...

Con l’anzianità di servizio acquisii esperienza. Quando facevamo rifornimento di medicinali a Genova, mi facevo regalare dei profilattici da consegnare all’equipaggio, soprattutto a quei ‘disgraziati’ cui non mancavano le tentazioni... durante i viaggi in Sud America (Argentina e Brasile). Ricordo una loro tipica definizione:  “i gondoni in vendita da quelle parti li fanno con pezzi di camera d’aria di biciclette”. Comunque, dopo un paio di giorni, dalla partenza dal Brasile, si formava la coda davanti all’infermeria di bordo. “Sior purtroppo mi brucia...” - La diagnosi era sempre la stessa: scolo (Blenorragia!).

50 anni fa, non c’erano le siringhe "usa e getta" e sapendo come di solito si svolgevano le cose, avevo diversi bollitori per sterilizzare gli attrezzi che consegnavo ad ognuno dei pazienti che, istruiti adeguatamente, dovevano presentarsi alle 12 meno ¼, e alle 23,45 davanti alla mia cabina, pronti per la terapia di penicillina (tipo calce).

“Se ti fa male, domani non venire” - “No, sior, va bene, grazie!” Con un po’ di umorismo, devo dire che era divertente osservare i miei pazienti dal Ponte di Comando mentre camminavano verso la cala del pennese per prendere pennelli e pitture.... Camminavano tutti allo stesso modo: con una gamba tesa...!

Prima di continuare, desidero raccontare questo episodio, accaduto a LONG BEACH, a bordo  dell’ “Italterra” quando ero 3° Ufficiale, addetto a questo servizio. Eravamo in partenza. Durante la chiusura della stiva, si stavano sistemando i pannò sulle galeotte, un marinaio cadde accidentalmente in stiva. Data l’organizzazione appena descritta, in un attimo il marinaio si trovò sull’ambulanza e, presi alcuni suoi effetti personali, giungemmo a sirene spiegate all’ospedale dov’era tutto pronto per intervenire sul malcapitato. Il medico, Via Radio, aveva diagnosticato e concordato l’intervento. M'informai subito sul da farsi per procedere allo sbarco urgente del marittimo, la nave era in partenza. Con grande meraviglia mi risposero che nel giro di qualche ora il marinaio sarebbe stato dimesso e in grado d’affrontare il viaggio di ritorno. Infatti, poco dopo me lo riconsegnarono mummificato, con un rifornimento di qualche chilometro di garze e stecche di legno di varie misure, con raccomandazioni e istruzioni da osservare per il viaggio di ritorno. Adesso possiamo anche sorriderci sopra, ma quando occorreva medicarlo, soltanto per srotolarlo ci voleva più di una persona, era una specie di girarrosto e la persona più utile a bordo era il carpentiere che sapeva riposizionare tutte le stecche alle parti infortunate. Comunque all’arrivo in Italia, era migliorato di molto.

Ritorniamo all’organizzazione sanitaria di bordo.

Ogni  marittimo, aveva una sua cartella clinica, ed in caso di necessità, il Comandante inviava al C.I.R.M. le notizie essenziali circa il tipo di malattia, con la descrizione dei sintomi e siccome non era permesso (privacy) trasmettere in fonia le notizie, queste venivano codificate con gruppi di 5 o 6 lettere, con un codice particolare. Il C.I.R.M. emetteva una diagnosi e, conoscendo le medicine esistenti a bordo, prescriveva la cura e dava l’appuntamento per i successivi appuntamenti per l'aggiornamento delle condizioni del paziente. Nei casi gravi in cui era ritenuto necessario d’intervento medico, il Centro si accertava della presenza in zona di navi passeggeri o militari, oppure consigliava il dirottamento verso il porto più vicino.

Un caso analogo successe proprio a noi. Partiti da Lisbona  l’11 gennaio ‘64 diretti a Long Beach via Panama, l’Allievo M.F. vomitava ripetutamente, e subito si pensò che fosse a causa del mare molto mosso. Infatti, il Comandante per evitare danni al carico, accostò di 180°. Purtroppo il malessere continuava. Anche la cura prescritta dal C.I.R.M. sembrava inefficace. Alle 18.40 del 14 gennaio, il Comandante decise di tornare indietro per sbarcare l’Allievo sull’Isola di Madeira! Portata la velocità al massimo, si fece rotta per  Funchal dove si arrivò il 15 gennaio ‘64 alle ore 06.35. Il Pilota ci portò alla fonda a ridosso del molo, e terminata la manovra giunse subito il medico. Seguì un'immediata visita del medico che consigliò lo sbarco del povero Allievo per sospetta peritonite. Alle 11.15 si salpò e si riprese navigazione per Panama.....!

Un altro salvataggio del C.I.R.M.

Le due foto riportate sotto, si riferiscono allo sbarco dell'Operaio Meccanico M.P. dall' "ITALTERRA" sempre a Funchal. Fui proprio io ad accompagnarlo all'ospedale, all’epoca ero il 3° Ufficiale di bordo, responsabile  della "salute a bordo". Il marittimo era stato colpito tre giorni prima da 'angina pectoris' durante il viaggio di ritorno, da Panama a Gibilterra. Grazie ai consigli del CIRM fu sbarcato e, da notizie successive, fummo informati che aveva superato abbastanza bene  gli effetti di quell'episodio.

In quella occasione sarei potuto morire, ma le preghiere di mia madre mi salvarono ancora una volta. Stavamo per toccare la banchina con un mezzo dei barcaioli locali del porto di Funchal, scivolai mentre mi accingevo a saltare e finii in mare tra la banchina e lo scafo di quel pesante barcone che preso dall'onda della risacca, stava per schiacciarmi. Proprio in quel momento in cui immaginai la mia fine, sentii una mano che mi afferrava da dietro sollevandomi verso la salvezza. Non era ancora giunto il momento segnato dal "Destino"!

Lo sbarco di un marittimo

IL MARCONISTA  - “Marconi” – R.O.

Sulle navi passeggeri i Marconisti erano tre e coprivano le 24 h. Il 1° Radiotelegrafista (Capo Stazione Radio) aveva il grado di 1° Ufficiale, gli altri da 2° Ufficiale, mentre sulle navi da carico ve ne era uno soltanto e svolgeva un orario a seconda della posizione della nave.

Il loro regno era la Stazione Radio ed i loro compiti principali erano:

1) Ascolto continuo di eventuali messaggi di soccorso, pericolo ecc..

2) Ascolto liste traffico per eventuale traffico in arrivo.

3) Trasmissione eventuali messaggi da bordo a terra.

4) Ascolto segnale orario per correzione cronometro di bordo.

5) Ascolto Avvisi ai Naviganti, riguardanti la nostra zona di navigazione.

6) Ascolto Bollettini Meteo.

Quando c'era  cattivo tempo, Marconi arrivava con quella 'velina' (un po’ diversa da quelle di Berlusca.. )  dove era scritto:  Una depressione di ......mb, in posizione Lat..... e Long......., si muove in direzione..... E qualche altra notizia.., queste erano le previsioni disponibili del tempo. Il Comandante, a seconda della profondità della depressione e della sua direzione, delle caratteristiche della nave, del carico ed altri parametri,  stabiliva la rotta più opportuna.

7) Ascolto notizie ANSA:

Come facesse quel “cristiano” con le cuffie a ricevere quella stampa trasmessa ad una velocità superiore a 120 caratteri al minuto, per me resta un mistero! So che il momento più bello della giornata per noi arrivava a mezzogiorno, quando si poteva leggere ciò che succedeva nel mondo, ed era il nostro unico contatto con la terraferma.

Questa era la 'potente', si fa per dire... RADIO dei LIBERTY con la quale il povero Marconi doveva inviare i messaggi dal Pacifico  all’Italia!!

Ricevitori automatici. Tutte le navi hanno dei ricevitori automatici così sistemati:

1)  Stazione radio/marconista, 2) Plancia 3) Cabina Com.te. Questi ricevitori si mettevano in funzione automaticamente allorquando una nave, prima di emettere l'SOS, trasmetteva il Segnale d’Allarme composto di una serie di 12 linee in  1 minuto con il compito di mettere in allarme tutti i ricevitori automatici delle navi in navigazione, alle quali perveniva anche il nominativo della nave in difficoltà e la sua posizione.

OROLOGIO DI BORDO - STAZIONE RT

I  settori colorati dell'orologio (vedi foto) indicano tutt'oggi i tre minuti obbligatori di silenzio radio, in modo da poter ricevere anche i segnali radio di soccorso più deboli perché lontani. Sulla frequenza internazionale di soccorso 2182 in fonia, si esegue per 2 periodi all'ora, da xx.00 a xx.03 di ogni ora e da xx.30 a xx.33 di ogni mezz'ora. Sulla frequenza di 500 kHz in grafia, da xx.15 a xx.18 e da xx.45 a xx.48 .

E poi Marconi era la 'speranza' che risolveva qualsiasi problema elettrico.

Non funzionava quella specie di radar? Arrivava lui con il tester e tutti  trattenevano il respiro nell’attesa del responso. Poi seguiva la ricerca affannosa del relais di rispetto nelle nelle  spare parts.

Il Marconista di bordo era invidiato da tutti perchè all'arrivo in porto, essendo vietate le trasmissioni radio, era fuori servizio fino alla partenza. Per questo motivo l'ultima lettera alle famiglie, prima di partire, la spediva sempre lui.

Davvero struggente, per quelli della mia generazione, l'ultimo messaggio emesso da Roma Radio :  CQ CQ CQ  DE  IAR IAR IAR   che annunciava che dalle 00.00 UTC dei 01/01/2004 le Stazioni Radio Italiane terminavano il proprio servizio, e chiudeva:

"Good look and fair winds to maritime community  stop"

Ormai le comunicazioni a bordo delle navi, sono regolate da quanto previsto dal GMDSS  per quanto riguarda strumentazione e personale addetto.

Erano 'brutti tempi' per andare per mare allora, ma il tempo fa dimenticare le cose brutte ed il tutto, riguardandolo ora,  sembra più bello, tanto da rimpiangerlo!

Il Marconista era la salvezza della nave, fino all'estremo SOS, ma a volte bastava ricevere una sola 'parola', per ridare il sonno ad una persona che l'attendeva  con grande ansia.

Tra fidanzati, spesso si usava un brevissimo messaggio che significava tutto OK. La mia era "PENSOTI"...

Molto spesso Marconi era anche un amico e partecipava anche lui alle mie ansie: "Marco'...  la prossima 'Lista di traffico' a che ora è?  Senti pure Londra...vedi tu..!

Quando finalmente quel "Pensoti" arrivava, Marconi veniva di corsa a dirmelo in cabina, se ero da quelle parti!

Quel giorno, sul tavolo della Mensa Ufficiali, si notavano tanti fiaschetti di Chianti.. E alla domanda: “Chi offre”?  La risposta era "U Cadenna", perchè?  Per "INTIMO GAUDIO".

Testo e foto di

Nunzio Catena

Con la complicità del Presidente-Webmaster Carlo Gatti con il quale condivido tanti ricordi ed esperienze degli Anni '60.

 

Ortona, 31 Marzo 2014

 

 

 


MOSCIAMME

MOSCIAMME

Esattamente 50 anni fa, ero imbarcato come Allievo di Coperta sulla nave tipo-Liberty "ITALVEGA" della Compagnia Italnavi di Genova. Effettuavamo i viaggi Mediterraneo – Stati Uniti, Costa del Pacifico e si saliva fino a Vancouver.

Una sera, passando per un caroggetto, ho visto un gruppetto di marinai i quali stavano gustando qualcosa di “curioso” nella loro saletta.

"Favorite Sior, senza complimenti!"

“Che mangiate di buono?”

“Musciame” risposero sorridendo.

“E che cos'è?” chiesi sorpreso credendo si trattasse di un lonzino, da come era stato tagliato sottile con l'affettatrice. Ma nel frattempo me lo avevano già offerto, con un boccone di pane, e stavo per addentarlo, quando qualcuno, con naturalezza aggiunse: “Delfino!” Mi fermai immediatamente e proferii con disappunto:

 

“Non vi vergognate? Il Delfino, una bestia così bella, che sembra indicarci la strada, quando di prora, veloci come noi, vengono fuori come per salutarci!!! È proprio peccato, specie per un marinaio ucciderlo...!”

 

"Si, Sior avete ragione, ma sulle navi si è sempre mangiato..., pensate che una volta a bordo non c'era niente da mettere sotto i denti!”.

 

“Assaggiate… sentite quanto è buono…”

 

In fondo pensai che avessero anche ragione: una volta tutta questa sensibilità verso gli animali non c'era. Infatti solo la Legge C.I.T.E.S, 161 Paesi, nella Convenzione di Washington del 3/12/1973, ha introdotto il divieto di caccia e pesca di alcune specie di animali, ma, nonostante tutto, ci sono dei luoghi, come le Isole Faroe, dove annualmente avviene ancora una mattanza di un tipo di delfino detto “calderones” in Argentina, che assomiglia a una balenottera e raggiunge il peso di 2 tonnellate. La stessa mattanza ha luogo in Giappone vicino l'isola Taiji, dove vengono uccisi circa 20.000 esemplari all'anno, in beffa a tutte le Leggi.

 

Oggi, pur essendone vietata la vendita, si trova a caro prezzo come spesso avviene con le merci vietate, fatto di tonno o di pesce spada. Di delfini, comunque, continuano a morirne tanti, perché molti capitano insieme ai tonni, ma poi chissà che fine fanno.

I delfini sono intelligentissimi e non sono molto amici dei pescatori. Infatti nella pesca a strascico, per quanto il sacco venga protetto da una specie di rete a maglie larghe fatta di gomma, e nonostante vi siano legati dei rami di spini sul sacco, i delfini riescono a aprire un foro dal quale fuoriesce del pesce, uno alla volta, grazie alla pressione dell'acqua nel sacco, poi, si saziano, dandosi naturalmente il cambio.

 

Ai pescatori che pescano con le reti da posta, il danno è superiore perché loro afferrano la preda e tirano, procurando dei grossi buchi alle reti con maglie piccole difficilmente riparabili.

 

Comunque, visto che ormai avevo già l'acquolina in bocca, mi decisi di mandare giù quel boccone ed era qualcosa di una bontà indescrivibile!

Dopo qualche giorno di navigazione, cominciai a vedere la nave che a volte era circondata da migliaia di dorsi luccicanti di delfini che ci accompagnavano.

 

 

Branco di delfini nell’oceano

 

Cominciai a vedere strane manovre a prora: era il nostromo che, insieme ad altri, stava armando la “delfiniera”: un arpione montato su una lunga asta, legato ad una robusta sagola, che una volta conficcatasi nella schiena del delfino, con tanta pratica ed un po’ di fortuna, riusciva a prenderne qualcuno, perché la nostra “velocità” (per non chiamarla 'lentezza') di 10 nodi, era la massima per quel tipo di pesca, perchè l'arpione, data la forte resistenza della povera preda, a volte si strappava.

 

Una volta catturato, il delfino veniva tagliato e messo per tante ore in salamoia, successivamente era fatto a pezzi, della grandezza di un salame che, successivamente, venivano legati ad una sagola, strizzati per un paio di giorni per far uscire il sangue, messi al sole, legati e composti a mo’ di strallo. Lo strano disegno issato al vento richiamava l’attenzione delle navi in controbordo che ci chiedevano spiegazioni su quel segnale....! Dopo una decina di giorni, il “Mosciamme” era pronto.

 

Gli specialisti di questa attività erano in genere siciliani, abituati sin da piccoli a pescare con le “spadare”. Quelle barche fatte proprio per la cattura del pesce spada. Con quegli alberi altissimi per la vedetta e quelle passerelle lunghissime dove stava il fiocinatore!

A loro non faceva più impressione la cattura di un delfino, come al macellaio il povero agnello. Ce n’erano migliaia intorno alla nave, prenderne uno non sembrava una grande crudeltà, forse era un peccato di gola ed un gesto atletico molto maschilista!!

Era uno spettacolo grandioso vederli sciare ai lati e sotto il tagliamare di quella prora annerita dalla ruggine. Giocavano come i ragazzini che scivolano sulla tavola spinta dall’onda sulle spiagge, ignari di ciò che sarebbe successo di lì a poco...! Ed ecco l'arpione, scagliato con forza, sopra uno di loro. “Tutto a dritta, (per diminuire la velocità) fila la sagola..., agguanta piano piano... “, finché non si riesce a tirarlo a bordo.

 

 

La fiocina scagliata dal Nostromo entra nel dorso del delfino.

 

Non volevo parlarne... prima dicevo delle “spadare”..., ricordate la canzone di Modugno: “U' pisci spada”. La struggente storia d'amore di due pesci spada: la femmina viene presa ed il maschio, per quanto la compagna lo esorti a fuggire, preferisce subire la stessa sorte e va a mettersi sotto il fiocinatore. Si ritroveranno insieme, in fondo alla barca, anche se morti!

 

 

La femmina viene presa ed il maschio le sta vicino per farsi prendere anche lui.

 

La stessa cosa accadde con quel delfino, la cui compagna era stata presa. Gli altri erano fuggiti tutti, solo lui correva con noi e facendo dei salti altissimi, emetteva un gemito, non so se fosse un pianto, oppure l'esortazione al fiocinatore di prendere anche lui. La scena struggente durò per molto, ma non era previsto prenderne due!!

 

 

La femmina viene tirata a bordo

 

Quel delfino non lo dimenticherò mai… corse con noi finché ne ebbe la forza, poi chissà… forse vagò per l'oceano immenso, cercando le prore delle navi per fare la stessa fine della sua compagna!

Da quel giorno non ho più mangiato il MOSCIAMME".

 

 

Il maschio ci precede per tanto tempo nella speranza di essere fiocinato anche lui

 

 

 

Questa storia spesso mi torna in mente.

 

Solo pochi mesi dopo questa storia, durante l'estate, mentre ero in licenza a casa mia, quella vicino al mare, ho avuto modo di conoscere due ragazzi giovani che correvano lungo quella spiaggia, tra schizzi d'acqua, proprio come due giovani delfini, con i quali andavano a giocare con la barca a vela, ebbri di gioia come loro, ai quali davano in pasto gli sgombri che prendevano con la traina. Al mattino, sembrava che li aspettassero! Infatti ce n'era uno, con un taglietto sulla pinna, facile da riconoscere!

 

 

Questi ragazzi, amati da tutti in quel piccolo posto, si sposarono. Passò poco più di dieci anni di quello stato idilliaco, durante il quale sono nate tre meravigliose bambine, e mentre insegnavano a giocare anche a loro a correre con le prore delle navi, ignari del pericolo, un fiocinatore strisciò con l'arpione la mamma!!

L'autore con la moglie Marilena e i due piccoli delfini Marina e Selene

 

Sembrava un graffio da niente..., ed invece quel graffio è stato capace, con il passare degli anni, in maniera infinitesimale a ridurla molto male, tanto che a volte resta senza respiro...!!

Successivamente, prima che si rendessero conto di ciò che stava succedendo, venti anni fa, il 'Fiocinatore', ha prodotto anche al marito, un danno gravissimo, ora sono soli, "uniti nella buona e nella cattiva sorte"! (le figlie sono fisicamente lontano). Quando avviene, e spesso, quel momento che la moglie diventa cianotica, e gli parla solo con gli occhi.., il marito, come il Delfino maschio, prega il 'Fiocinatore', affinché fiocini anche lui!!

Ogni riferimento a persone o cose è puramente casuale!

Inizio operazione mosciamme

 

Pacifico 1963 - Prora Liberty "ITALTERRA" - ('Italnavi' ) –Ge "MUSCIAME"

 

 

 

 

Nunzio Catena

 

 

 

Ortona, 10 Gennaio 2014

 


DOMINE IVIMUS

DOMINE IVIMUS

RITROVATO IL PRIMO EX VOTO CRISTIANO

 

L’ex voto marinaro è un segno di gratitudine per una grazia ricevuta. In duemila anni di tradizione votiva cristiana, la storia marinara del nostro Paese passa anche attraverso le migliaia di ex voto fissati anonimamente alle pareti dei Santuari Mariani che presidiano le nostre coste. “Quanta fede su quei muri!”

In questa grafica del Santo Sepolcro di Gerusalemme, si nota nell’ala destra il settore armeno dove fu ritrovata la nave dei pellegrini (Pilgrim Ship).

 

Schiacciato nell'angolo sud-orientale della città vecchia si trova il quartiere armeno, nel quale vivono circa duemila persone appartenenti a questa antichissima comunità. Il grande monastero armeno é una città in miniatura, con le sue scuole, la biblioteca, il seminario, i quartieri residenziali, tutti disposti attorno alla Cattedrale di S. Giacomo. La maggior parte dell'area era occupata dal palazzo di Erode il Grande. 
I mercanti armeni arrivarono a Gerusalemme al seguito dei Romani (I sec. a.C.) e furono i primi ad abbracciare il cristianesimo (ufficialmente nel 301). Le sue chiese dipendevano dal metropolita di Cesarea Marittima. Nel 491, la Chiesa armena si scisse da quella cattolica. Una comunità armena stabile, costituita da pellegrini che si fermarono a Gerusalemme, risale al sec. V. Un documento del VII sec. elenca 70 monasteri in Gerusalemme; ciò che resta è solo il magnifico pavimento musivo di uno di essi.

L’archeologia armena in Terrasanta, con il suo passo lento e cadenzato da prove  scientificamente certe, ha registrato nel 2004 alcune importanti scoperte. La più originale riguarda il dipinto di una nave rinvenuto nella parte centrale della roccia che era stata parzialmente asportata da Adriano e ricoperta da un tempio pagano. Molto probabilmente ci troviamo dinanzi al primo ex voto marinaro della storia. Il ritrovamento é opera di un team d’archeologi che nel 1978 intrapresero lo scavo nella cappella di San Vartan adiacente a quella di Sant'Elena dove la madre di Costantino ritrovò la croce della Passione di Cristo. A fianco dell'altare dedicato alla Santa, c'è una porta sbarrata che solo di recente viene aperta al pubblico da un monaco armeno per mostrare l’effige della nave romana.

Dipinto della nave romana con relativa epigrafe.

Il blocco di pietra ha le seguenti misure 0.65 x 0,31 mt. Il reperto é localizzato nella Cappella di San Vartan e dei Martiri Armeni che si trova nella sezione inferiore della Chiesa del Santo Sepolcro. Esso rappresenta una nave da carico romana del I° secolo con due timoni di governo a poppa, l’albero appare spezzato dal vento e le sovrastrutture strappate dai colpi di mare in coperta. Il viaggio é stato burrascoso e l’approdo miracoloso. “DOMINE IVIMUS” – (Signore, siamo arrivati). E’ l’allusione al Salmo 121:1- “In domum Domini ibimus” – (Andiamo alla casa del Signore). L’epigrafe certifica  l’ex voto di un gruppo di pellegrini cristiani che sono giunti incolumi al Santo Sepolcro per “grazia ricevuta”. La rappresentazione é forse la più antica testimonianza di un pellegrinaggio cristiano in Terrasanta. Da quel fortunoso atterraggio qui raffigurato, alla tragedia del Giglio sono passati due millenni; oggi le navi sono dieci volte più lunghe e cento volte più sicure di quelle del tempo di Cristo, ma i nuovi ‘leviatani’ finiscono ancora sugli scogli perché al posto dell’umiltà del navigante-pellegrino di un tempo, é subentrato il delirio d’onnipotenza. Il vecchio adagio genovese: “se vuoi imparare a pregare vai in mare a navigare” é finito nella sentina della storia e forse anche la tradizione degli ex voto ha iniziato il suo declino.

 

Qui, erano dunque giunti dei pellegrini, ma non poterono raggiungere la parte centrale della roccia, poiché Adriano aveva sepolto i luoghi santi cristiani con la costruzione del tempio di Venere. Ma l’edificio pagano non riuscì ad eliminare lo spirito del ‘pericoloso concorrente’ della Roma imperiale che risorse più e più volte in quella terra martoriata. Questo fu il motivo che spinse i pellegrini a realizzare il loro ex voto un po' più in là, ma pur sempre nell'area della roccia del Golgota. L’evento accadde tra il I° e 2° Secolo, negli anni in cui il vero luogo della crocifissione era quindi inaccessibile. Tutto ciò confermerebbe quanto la tradizione del luogo sia stata conservata con tenacia e con precisione attraverso i secoli. *

La cappella di Sant’Elena, madre di Costantino

La cappella di Sant’Elena ha tre navate, con 4 colonne che sostengono la cupola, è di proprietà degli Armeni e fu la prima ala del Santo Sepolcro fatta costruire dai crociati. Fonti e scavi archeologici confermano che nel progetto costantiniano l’aula era in qualche modo già utilizzata. Dai muri pendono molte lampade secondo lo stile armeno.
Il mosaico del pavimento raffigura le principali Chiese di questo popolo. Le colonne sono coronate da capitelli bizantini, due in stile corinzio e due a cestello, che i crociati riutilizzarono asportandoli dalla vicina moschea El Aqsa. Le finestre della cupoletta prendono luce dal cortile sopraelevato di Deir es-Sultan posto dietro all'abside della Basilica, dove si trovano le celle dei monaci etiopi.

 

Da circa 2000 anni, milioni e milioni di pellegrini si sono recati a Gerusalemme con ogni mezzo, affrontando mille difficoltà e a volta mettendo a repentaglio la propria stessa vita per fermarsi a pregare pochi minuti davanti ad  un sepolcro vuoto. Il senso di tutto ciò lo abbiamo ritrovato per caso in un messaggio trovato sul web:

“Il nostro pellegrinaggio a piedi AD SEPULCHRUM si è concluso la sera di mercoledì 28 settembre con l’arrivo a Gerusalemme. Come i pellegrini che ci hanno preceduto possiamo dire anche noi, con la voce piena di commozione: Domine ivimus, Signore siamo arrivati. La lunga strada, il caldo, la sete, la fatica stemperate dall’amicizia e dalla gioia ci hanno sempre accompagnato in questi 10 giorni. Il senso di un cammino ci ha dato forza e speranza nelle difficoltà. Bruciati dal sole, è vero; con varie vesciche e dolenzie, come spesso accade, ma felici di sentirci uniti ai pellegrini di ogni tempo”.

 

Carlo GATTI

* Il primo cristianesimo generalmente copre il periodo che va dal suo inizio fino al Primo Concilio di Nicea del 325 d.C. Si sviluppò dalla Giudea romana nell'Asia occidentale e si sparse per tutto l'Impero romano e oltre (cioè nell'Africa orientale e Asia meridionale), fino a raggiungere l'India. Originalmente, questo progredire fu strettamente collegato ai centri di fede ebraica già esistenti, in Terrasanta e nella Diaspora ebraica. I primi seguaci del cristianesimo erano ebrei o proseliti biblici, noti come giudeo-cristiani e "timorati di Dio". Molti di questi primi cristiani erano mercanti, mentre altri avevano motivi pratici per voler andare in Africa settentrionale, Asia minore, Arabia, Grecia e altri luoghi. Oltre 40 di tali comunità vennero istituite entro l'anno 100, molte in Anatolia, nota anche come Asia Minore, tra cui le Sette Chiese dell'Asia. Per la fine del primo secolo, il Cristianesimo era già arrivato a Roma, in India e nelle maggiori città dell'Armenia, Grecia e Siria, servendo da base per la diffusione espansiva del cristianesimo in tutto il mondo.

 

Rapallo, 30 Dicembre 2013


 

 


ADONAI

 

ADONAI

Il PROTOCRISTIANESIMO fu profondamente radicato nella religione degli ebrei. Il gruppo nascente di seguaci continuò a sentirsi nell'alveo dell'ebraismo quindi anche nell’uso dei termini come ADONAI.

 

 

 

Santuario ed Eremo

 

MARIA SS. MATER ADONAI - Brucoli (Augusta)

 

La Madonna ADONAI risultava già utilizzata da una comunità cristiana nella seconda metà del sec.III. Custodisce un antichissimo dipinto della Madonna con Bambino e la Croce.

 

 

 

Il Santuario di S. Maria Adonai sorge quasi sul mare nei pressi di Brucoli specchiandosi nelle acque del Golfo di Catania, nella parte nord della provincia e della Diocesi di Siracusa. Sullo sfondo l’Etna

 

Secondo antiche tradizioni e testimonianze, riprese anche da vari scrittori del XVI e XVII sec. tale Santuario risulta essere un oratorio paleocristiano, ed una delle primissime chiese dedicate al culto di Maria SS., così come ne fa fede il titolo ebraico “Mater ADONAI” (Madre del mio Signore). E’ sicuramente il Santuario mariano più antico della Sicilia e forse, anche, del mondo cristiano occidentale. Una presenza cristiana in questo luogo è documentata a partire dall’anno 253 dell’era cristiana.

 

 

La sacra grotta – chiesa- E’ il più antico Santuario della Madonna esistente in Sicilia.

 

 

 

E’ sempre primavera

 

L’oratorio dedicato a Maria SS. Mater Adonai fu fondato nella prima metà del III sec. da un cristiano di nome Publio, da Trotilo, in una delle numerose grotte di un ipogeo preesistente, denominate “grotte del Greco”, grotte abitate fin dalla preistoria e poi dai greci nell’VIII secolo a. C. al tempo della colonizzazione greca della Sicilia. In queste grotte, assai isolate, trasformate poi dai Greci in una necropoli, trovarono rifugio alcuni cristiani della comunità cristiana di Leontinoi, oppressa dalla sanguinosa persecuzione di Decio e Valeriano. Il santuario è costituito da una grotta davanti alla quale, nel secolo XVIII, dopo la riscoperta della grotta, venne costruito un avancorpo in muratura, che le conferisce l’aspetto di una modesta chiesetta.

 

 

 

Sul fondo della grotta si trova l’affresco della Madonna di Adonai, (vedi foto) realizzato secondo la tradizione da S. Agatone, Vescovo di Lipari, qui rifugiatosi insieme ai cristiani Lentinesi. La Madonna è raffigurata seduta su un serto di nuvole con in braccio il Bambino Gesù che con la mano destra impugna una croce, mentre con la sinistra poggia il suo scettro sul mondo. L’ immagine, secondo il parere degli studiosi, reca i segni di vari interventi successivi nel tempo (corone e globo), ma nessuno è stato finora in grado di datarne con assoluta sicurezza l’età. In questa grotta venne convertito alla fede Alessandro, primo ministro del tiranno di Lentini, dopo il martirio dei tre santi fratelli Alfio, Cirino e Filadelfo. Alessandro prese con il Battesimo il nome di Neofito; divenne poi Sacerdote e primo vescovo della Comunità cristiana di Lentini. Un’antichissima iscrizione ritrovata presso la chiesa ex-cattedrale di Lentini documenta il culto a Maria come Madre del Signore (Adonai) ancor prima del Concilio di Efeso. Nel IV sec. nel nuovo clima di libertà religiosa instaurato dall’editto di Costantino, la grotta-oratorio cadde in abbandono anche perché posta in luogo deserto distante da luoghi abitati. Dell’oratorio dedicato a Maria Mater Adonai rimase solo il ricordo e se ne perdettero addirittura le tracce per circa un millennio, anche se una tradizione tramandava il ricordo di una grotta con un immagine della Vergine che nessuno aveva più ritrovato. Si potrebbe ipotizzare che al tempo dell’invasione araba della Sicilia questa grotta fu nascosta per evitare che venisse distrutta, come tanti altri simboli della fede cristiana. La riscoperta della grotta con l’affresco della Madonna avvenne probabilmente tra il 1500 ed il 1600. Si tramanda che un pastorello la riscoprì in modo strano e da parecchi ritenuto miracoloso. Il pastorello dopo aver liberato un bue che era sprofondato in una buca del terreno - risultata poi essere il lucernario della grotta-oratorio - fu attratto da una misteriosa intensa luce che brillava nella cavità sottostante: calatosi attraverso il lucernario scoprì la luminosa immagine della Madonna con il Bambino.

Il luogo divenne subito meta di pellegrinaggi e dopo qualche anno, accanto alla chiesetta fu costruito un piccolo cenobio (oggi più comunemente conosciuto come “eremo”) da un gruppo di soldati spagnoli, che lì erano capitati per una visita occasionale, ma che rimasero incantati dalla bellezza dell’immagine e del luogo. Abbandonata la vita militare diedero inizio alla particolarissima Comunità monastica laica dell’Adonai, esistita fino al 1950, anno della morte dell’ultimo frate. Questi cenobiti osservavano una propria regola, ricavata in parte dalla fusione di quelle benedettina e cistercense. Questa Comunità di cenobiti si distinse per la vita di santità e per la promozione del culto della sacra immagine di Maria. ll Santuario dell’Adonai costituisce pure una delle più antiche chiese dell’ Italia Meridionale e, in particolare, della Sicilia sud-orientale sopravvissuta anche al catastrofico terremoto dell’11 gennaio 1693 che rase al suolo, con uno spaventoso bilancio di vite umane, quasi un terzo della Sicilia. Documenti notarili attestano l’esistenza della chiesa dell’Adonai già dall’inizio del 1600.

 

 

La struttura d’accoglienza del Santuario di Maria SS.ma Mater Adonai di Brucoli (Augusta) utilizza l’antico cenobio-convento da poco restaurato.

 

 

Nella prima metà del secolo II, Luigi De Leon da Faenza, alla testa di un gruppo di volenterosi, rifece ex novo l’eremo con 18 celle (quelle attuali), restaurò e rese ancor più grande l’oratorio costruendo un avancorpo, formando l’ attuale chiesetta. (è probabile che la modifica definitiva della chiesa nell’ aspetto attuale con la realizzazione del campanile laterale sia avvenuta con il De Leon, ma purtroppo di ciò non si hanno altre testimonianze). La comunità ebbe una grande fioritura per tutto il secolo XVIII e XIX sotto la guida di grandi figure come Fra Luigi De Leon da Faenza, Fra Luigi Bellieri di Pavia (poi fondatore del celebre eremo di S. Corrado a Noto), Frat’Alfio Drago di Melilli e Frat’Alfonso Vigo di Acireale. Nel sec. XVIII l’eremo ebbe il suo periodo di massimo splendore con conseguente rifioritura del culto della Madonna di Adonai. Nel febbraio 1740 i frati dell’Adonai ottennero la clausura pontificia, ma nella prima metà del secolo XIX la Comunità andò in decadenza, tanto che il cenobio rimase vuoto dal 1809 al 1839. In questo arco di tempo l’indifferenza e l’abbandono fecero ridurre la chiesetta e l’eremo in condizioni molto misere, poco più che delle rovine, ed il luogo rimasto incustodito fu depredato e spogliato di tutto. Nel 1839 otto eremiti sotto la guida di Fra’ Alfonso di Gesù e Maria (dei marchesi Vigo di Acireale) ripopolarono l’eremo e, con il concorso ed il generoso aiuto dei privati e di Ordini religiosi (particolarmente le Clarisse e i benedettini di Catania), fu restaurata la Chiesa. La chiesa fu ripulita, addobbata e riempita di reliquie e di quadri ispirati alla storia dell’ oratorio. Nel 1841 Papa Gregorio XVI concesse l’indulgenza plenaria a quanti, confessati e comunicati, avessero visitato il santuario nel giorno delle feste mariane di Maria Mater Adonai, (5 agosto), dell’Immacolata Concezione, della Natività della B. V. M., della Purificazione e dell’Assunzione e dichiarò altare privilegiato quotidiano perpetuo l’altare sottostante l’immagine della B. V. M. Quest’altare (che era il risultato di varie stratificazioni avvenute in epoche imprecisate) venne però demolito nel 1847 per fare spazio a quello attuale che con una sorta di cornice in marmo policromo incastona come in un quadro l’immagine della Vergine, e nel corso della definitiva sistemazione della sacra grotta vennero rinvenute sotto il piano del pavimento le tombe degli antichi eremiti. Un turbolento periodo furono gli anni 1866-1873 quando in seguito alle leggi eversive del nuovo stato italiano i monaci dell’Adonai rischiarono di vedersi confiscato il cenobio e quanto possedevano. Ne nacque una controversia giudiziaria che si concluse con la vittoria dei frati, anche se durante tutto quel periodo dovettero convivere, loro malgrado, all’interno del convento con gli operai della costruenda vicina ferrovia a cui il governo aveva concesso di abitare all’Adonai. Anche sul finire del secolo XIX la comunità dell’Adonai dovette subire un nuovo forte, momentaneo, periodo di crisi. Nei primi anni del secolo XX il numero dei frati si è progressivamente assottigliato, passando gradualmente da cinque ad uno. Non sono state estranee alla definitiva decadenza del glorioso cenobio le gravi crisi che hanno travagliato l’umanità sfociando nelle due sanguinosissime guerre mondiali. Il Santuario e l’Eremo, dopo la morte dell’ultimo eremita, Fra’ Antonino avvenuta il sette giugno 1950, sono rimasti, per qualche tempo, nuovamente abbandonati e sono diventati preda di vandali sacrileghi che hanno devastato e rubato tutto, perfino l’archivio, il tabernacolo in marmo, la campana, i quadri e una grande tela del 1815 raffigurante l’ordinazione sacerdotale di S. Neofito con le memorie cronologiche del luogo. Ai danni degli uomini si sono poi aggiunti anche i danni della vetustà delle opere murarie. Negli anni 70’ il Santuario con la sovrastante struttura monastica furono dati in comodato per circa un quindicennio ad una comunità ecclesiale di Catania sotto la guida di un sacerdote (P. Antonino Ildebrando Santangelo) che con notevoli sforzi e l’aiuto del volontariato hanno rivalorizzato l’antico eremo. Successivamente tutto il complesso venne affidato all’Azione Cattolica Diocesana di Siracusa, ma questa, ben presto, scoraggiata dal vandalismo fu costretta a lasciarlo.

Ecco come si presenta l’attuale complesso monastico. Da questa porta si accede alla grotta.

 

Affidati attualmente alla vicina Parrocchia di Brucoli l’Eremo e la Chiesa vanno risorgendo dalle loro rovine grazie alla custodia premurosa ed al lavoro di alcuni volontari. Durante l’anno l’antico cenobio, con una capacità ricettiva di 40 posti è in grado di ospitare in maniera molto “spartana” gruppi scout, gruppi parrocchiali ed ecclesiali per giornate o settimane di spiritualità, campi di formazione con il metodo dell’ autogestione.

A seguito del terremoto del 13 dicembre 1990 nell’anno 2000 sono stati eseguiti lavori di parziale ristrutturazione e consolidamento, mentre nel 2007 (*) sono iniziati i lavori definitivi di restauro. Durante il periodo estivo vi viene celebrata la S. Messa prefestiva, mentre tutti gli anni, da tempo immemorabile ogni 5 agosto, festa della Madonna Adonai si svolge il tradizionale pellegrinaggio. A partire dal 2007, ad anni alterni, la Madonna di Adonai viene onorata con una festa esclusivamente religiosa. Rifioriscono l’oasi di pace cristiana ed il culto a Maria SS. Mater Adonai.

 

 

 

 

 

 

A cura del Sac. Palmiro Prisutto e di Carlo Gatti

 

Rapallo, 30 Dicembre 2013

 

 

 

 

 

 

 


SAINT MALO' - UNO SCOGLIO, UNA STORIA

SAINT MALO' - UNO SCOGLIO, UNA STORIA

«Abitante di S.Malo’ prima, bretone può darsi, francese per quello che resta »

 

 

Saint Malo' è la città storica più famosa di tutta la Bretagna. Si trova in un sito unico, alle bocche del fiume Rance , non lontano da Mont Saint-Michel. La città costiera é fortificata con una cintura di bastioni e il suo centro storico, arroccato su un'isola disegnata geometricamente, guarda la Manica con aria di sfida. La baia é circondata da forti del ‘600 e ‘700 che furono costruiti su secche massicce come vedette avanzate. Lo spettacolo diventa suggestivo quando la marea montante cancella il piedistallo di granito e i forti sembrano galleggiare sull’acqua. L’ampiezza del fenomeno può raggiungere  i 12 metri. Con la bassa marea compaiono invece vaste spiagge di sabbia fina che accolgono innumerevoli turisti a caccia di scatti fotografici. Questi capolavori d’ingegneria militare proteggevano Saint-Malo’ dagli Inglesi che attaccavano più volte dal mare senza mai riuscire ad espugnarla.

 

 

Oltre ai bastioni che con le loro mura circondano tutta la città con porte che ne permettono l'accesso, a Saint-Malo’ esistono, come ulteriore protezione, dei forti eretti su scogli raggiungibili a piedi con le basse maree.

 

 

Su uno di questi faraglioni, l'Ile du Grand-Bé, si trova la suggestiva tomba del grande scrittore romantico René de Chateaubriand nato a Saint-Malo’ nel 1768 che volle essere sepolto qui, sotto una lastra sormontata da una croce rivolta al mare.

 

Ricostruita dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, Saint Malo’ é oggi in grande espansione e il suo fascino antico e prezioso resta come città dai molti volti. Nelle notti invernali, quando il mare s’infrange sugli scogli e le luci della città si spengono, le strade piombano nel silenzio penetrato dal profumo delle erbe selvatiche e della lavanda che cresce spontanea. Il magico vento del Nord diventa allora il padrone assoluto che sferza i pensieri e mette a nudo l’anima dei suoi abitanti.

 

In questa atmosfera Saint Malo’ assume l’immagine di un grande schermo che riflette “avventure di mare” ed é facile immaginare la minacciosa flotta inglese avvicinarsi con l’artiglieria puntata contro la fortezza.

 

 

Sui bastioni l’attendono ancora i cannoni al loro posto, puntati sull’oceano da cui provengono tutti i pericoli.

 

Queste armi, divenute ormai un ammasso di ruggine, per secoli avevano protetto la città dalle incursioni dei Sassoni che, nonostante dominassero tutti i mari del mondo, non ebbero mai la meglio su questi intrepidi capitani, corsari ed armatori.

 

Aperta al commercio marittimo fin dal Medio Evo,  Saint-Malo’ raggiunse presto l’apice della sua fama come città corsara . Dal Quattrocento in poi la città fu uno dei più grandi rifugi di pirati d'Europa e dal Seicento i suoi corsari passarano al servizio del Re di Francia, cacciando le navi inglesi e spagnole che intralciavano i loro commerci nell'Atlantico depredando le navi assalite con regole di guerra. I corsari più famosi di Saint-Malo furono René Duguay-Yrouin  e Surcouf che cacciò le navi inglesi nei mari indiani.

 

Mentre il pirata era colui che attaccava i vascelli tenendosi tutto il bottino e il suo destino finale era l’ignobile impiccagione, il corsaro attaccava navi nemiche per ordine del Re di Francia da cui aveva ricevuto la "lettera di corsa", ossia l'autorizzazione ad attaccare navi mercantili nemiche. Al Re spettava il grosso del bottino e il corsaro percepiva solo una percentuale e prestigiose onorificenze. Gli interessi commerciali di Saint Malo, a questo punto, conciliavano con quelli del Regno e la figura del corsaro commerciante e navigatore assumeva anche una valenza militare. In tal modo, i corsari-armatori s’arricchirono sia per i commerci sia per gli assalti alle navi nemiche.

 

Nel centro storico sono tuttora visitabili le eleganti residenze degli armatori-corsari che non rinunciavano ad un sobrio tocco di nobiltà. Le riunioni per pianificare in tutta sicurezza i loro progetti "semi-legali", avvenivano in scantinati simili a labirinti che nascondevano le ricchezze depredate.

 

 

Tuttavia, si ha la reale percezione del fenomeno soltanto quando ci si trova al cospetto delle cosiddette Malouinières, piccoli castelli rurali che gli armatori-corsari più ricchi si facevano costruire nella campagna circostante una volta raggiunto l’apice della propria carriera in mare.

 

La carriera di questi capitani coraggiosi era dura e lunga. A 14 anni andavano a pesca di merluzzo sui banchi di Terranova-Canada che fu scoperta nel 1534 proprio da J.Cartier di Saint Malo’, poi alla scuola nautica Diderot, a 25 anni erano comandanti e corsari, a  40/45 diventavano armatori. Nella storia marinara di questa città, si legge di alcuni armatori che morirono sostituendo giovani capitani morti in mare e che le donne di famiglia diventassero a loro volta armatori.

 

Alla fine del XVI secolo le genti di Saint Malo’, forti delle loro ricchezze conquistate in mare, costituirono una Repubblica Indipendente seguendo l’esempio delle nostre Repubbliche Marinare.

 

Saint-Malo’ diventò molto ricca nel XII secolo quando i corsari controllavano il traffico marittimo nei Mari del Sud e nelle Indie Orientali e i suoi banchieri diventarono i principali importatori del denaro sud-americano in Francia.

 

René Duguay Trouin (1673-1736) Il più celebre corsaro (si può vedere la sua statua sul bastione St.Louis, nella quale è raffigurato con parrucchino e abito di corte) di Luigi XIV, si distinse durante le guerre contro l'Inghilterra e l'Olanda. Figlio di un ricco armatore fu imbarcato a 16 anni su una nave corsara per mettere fine ad una giovinezza burrascosa. A 24 anni viene integrato nella Marina Reale con il grado di capitano di fregata. Dopo aver conquistato nel 1711 il porto di Rio de Janeiro fu nominato capo-squadriglia (nel 1715), poi luogotenente generale nel 1728; ricevette dal Re anche un titolo nobiliare. Morì a Parigi ma i suoi resti furono in seguito trasferiti nella Cattedrale St. Vincent di St Malo’.

 

Robert Surcouf (1773-1827) Rispondendo alla chiamata del mare, cominciò molto giovane una carriera ricca di favolosi exploits, che si svolse sotto il Consolato, ma soprattutto nel periodo Imperiale e lo portò a catturare numerose navi inglesi. Egli fu inizialmente un negriero, poi un corsaro ed accumulò un'enorme ricchezza che gli consentì di andare in pensione con largo anticipo (a 36 anni). Si dedicò poi alla formazione di altri corsari e divenne un grande armatore, continuando così ad accrescere la sua fortuna. E' sepolto nel cimitero di St. Malo.

 

CURIOSITA’

 

 

Gli armatori-corsari di Saint Malo’ allevavano i colombi viaggiatori e li addestravano a ritornare al loro nido nelle Malouinièrs con dei messaggi. I volatili potevano compiere 1.000 km al giorno e quando venivano liberati, per esempio a Marsiglia, l’armatore veniva a sapere in giornata che la sua nave era arrivata a destinazione.

 

Carlo GATTI

Rapallo, 20 settembre 2013