IL MARINAIO DI UN TEMPO CHE FU...

IL MARINAIO DI UN TEMPO CHE FU …

Vita di bordo

Porto di Savona – MONUMENTO AL MARINAIO

 

 

I FERRI DEL MESTIERE

Il marinaio di un tempo teneva una varietà di piccoli attrezzi e oggetti personali. La maggior parte di questi strumenti erano primitivi ma altamente funzionali - anche piuttosto belli - e spesso realizzati dallo stesso individuo che li usava.

 

 

 

 

 

MUSEO MARINARO TOMMASSINO ANDREATTA DI CHIAVARI

 

Guardamano per cucire le vele

Italia, primi del ’900

Dimensioni: cm 12×7

Materiali: tela olona e ferro

Donazione Elio Costanzo

M.M.T.A. – Invent. n. 218

Apparteneva al nostromo Andrea Schiaffino.

 

Veniva indossato per proteggere la mano durante la cucitura delle vele. Con la parte metallica veniva spinto l’ago per bucare la tela.

Punteruoli, caviglie, cavigliere, aghi da velaio, pece, bobine di filo per vele

 

Caviglia è anche il cavicchio conico con cui si divaricano i legnoli, ossia gli elementi ritorti dei quali è costituita una cima, per farvi giunte o gasse impiombate.

 

TENDI COMANDO  dell’autore

 

 

Sacchetti porta utensili in tela olona

 

REPERTI DI CALAFATO - dell’autore

Il calafato, o maestro calafato, è un operaio specializzato, o altra figura specializzata, che fa parte delle maestranze impiegate nelle costruzioni navali e nelle manutenzioni nautiche. Il calafato si occupa di calafatare le navi o, più in genere, le imbarcazioni in legno, con cadenza periodica, o qualora si rendesse necessario.

Sulle imbarcazioni di dimensioni maggiori, il calafato poteva essere imbarcato a bordo insieme ad un maestro d’ascia, mentre le imbarcazioni di dimensioni minori facevano riferimento a maestri d'ascia o maestri calafati che operavano a terra.

L'opera del calafato è un lavoro difficile e di precisione, tanto che anticamente ci volevano 8 anni di apprendistato per diventare maestro calafato mentre ne bastavano 5 per diventare maestro d’ascia.

Purtroppo di queste maestranze storiche, altamente qualificate, se ne trovano pochi nei cantieri navali più longevi d’Italia, essendo un mestiere di tramando generazionale che va via via scomparendo.

 

Gli attrezzi del Maestro d’ascia e del Calafato non hanno età

Soltanto visitando i Musei Marinari possiamo “gustarne” tutte le varianti tenendo presente che ogni Mastro d’ascia, così come il Calafato, costruiva i suoi attrezzi a misura dei propri arti: spalla, braccio, gomito, avambraccio, polso e mano.

 

GLI ATTREZZI DEL CALAFATO

MUSEO MARINARO TOMMASINO-ANDREATTA - CHIAVARI

 

 

Asce, pialle, seghe, verine, raspe, magli, scalpelli … per ricordare quelli dai nomi risaputi che, basta citarli, richiamano le loro forme. “Sono di tutte le dimensioni, a misura di ogni intervento (anche per quelli in spazi angusti) e di ogni… braccia. Sì, perché a seconda della loro diversa stazza, a cominciare dalla lunghezza delle braccia, maestri d’ascia e calafati si costruivano l’attrezzo specifico, di cui erano gelosi”, racconta Giorgio, ultimo dei maestri d’ascia rapallini, che ne puntualizza il valore: “Ogni attrezzo corrisponde ad un antenato, che qui continua idealmente a vivere … questi attrezzi sono intrisi del suo sudore, del suo sangue, del suo pensiero …” Ecco spiegata la sacralità del luogo!

 

 

CALDARO DA PECE

 

MARMOTTA

 

Gli attrezzi del calafato sono il maglio, martello di legno a due teste rinforzato da cerchi di metallo; la mazzola più corta e tozza; vari ferri tipo scalpelli di diverse dimensioni, privi di affilatura ma con il bordo piatto, alcuni con scanalatura, per non recidere la treccia, chiamati palelle o calcastoppa.

 

GLI ATTREZZI DEL MAESTRO D’ASCIA

MUSEO MARINARO TOMMASINO-ANDREATTA – CHIAVARI

Il maestro d’ascia é un professionista le cui origini affondano nell’antichità più remota. Purtroppo di questi mitici personaggi, a metà tra l’artigiano e l’artista, ne rimangono pochi e sono introvabili. Costruire uno scafo preciso al millimetro presuppone anni di fatica e tanto amore per la costruzione navale. Esperienza, perizia e competenza sono tutti elementi che maturano nel corso del tempo, sotto la guida di maestri d’ascia più anziani, spesso nonni e padri che tramandano l’abilità nell’adoperare l’ascia da una generazione all’altra.

 

 

Un po' di letteratura...

IL VECCHIO E IL MARE

ERNEST HEMINGWAY

Tutto in lui era vecchio, tranne gli occhi che avevano lo stesso colore del mare ed erano allegri e indomiti.

 

CHARLES BAUDELAIRE

Umo libero, tu amerai sempre il mare! E’ il tuo specchio il mare! Contempli la tua anima nell’infinito svolgersi della sua onda e non è meno amaro l’abisso del tuo spirito.

 

JOSEPH CONRAD

Il mare non è mai stato amico dell'uomo. Tutt'al più è stato complice della sua irrequietezza.

 

ANONIMO

POESIA ANTICA

Vuga t'è da vugâ prexuné

E spuncia spuncia u remu fin au pë.

Vuga t'è da vugâ turtaiéu

E tia tia u remmu fin a u cheu...

 

CONCLUDO

 

 

A scuola ero incazzato nero perché dovevo studiare lavagnate di formule trigonometriche ...  

Era il mio primo viaggio e, superato l’Atlantico quel giorno, con incredibile precisione, mi trovai davanti a New York!

Mi emozionai alla vista della grande MELA con i suoi grattacieli, ma ancor di più quando mi resi conto che quelle “bagasce" di formule analitiche antiche non le avevo studiate invano…

Carlo GATTI

Rapallo, 4.8.2022


LUPO DI MARE

LUPO DI MARE

Navigando qua e là sul web….

LUPO DI MARE: il termine lupo di mare a bordo degli antichi velieri di un tempo era affibbiato al NOSTROMO, il marinaio più anziano, rozzo ma molto autorevole. Abile e coraggioso, era temuto per la sua austerità e capacità di comando della ciurma. Era certamente il più esperto tra i marinai di bordo e colui che sentiva e vedeva tutto, non era sensibile alle lodi e alle critiche. Prendeva molto dal carattere e dall’aspetto dell’animale lupo e, come questo, accomunava in sé la forza e la determinazione.

LUPI DI MARE

Qualcuno sostiene che il “detto” nacque negli ambenti marinari degli angiporti. In questo caso la bocca del lupo era una specie di lavagna dove i capitani che arrivavano alla Giudecca (VE) registravano il loro arrivo e la quantità di uomini e merci portati a casa. L’espressione significava quindi augurare di fare una buona navigazione e di tornare salvi in porto. In Bocca al Lupo - che il Dio del mare ti ascolti”.

 Il STV Enzino GAGGERO ci ha donato la

C’è anche un’altra versione più realistica:

Nei mari della Groenlandia il “lupo di mare” è un pesce comune

Questa espressione si usa con significato solo leggermente differente. Infatti serve per indicare un marinaio che ha molti anni di esperienza in fatto di navigazione, e proprio per questo gode di rispetto tra i suoi colleghi.......

Viene usato come AUGURIO:

“Buon vento a tutti coloro che oggi possono spiegare le vele"!

 

Ecco tre foto del pesce nordico LUPO DI MARE

In francese:  Loup de mer 

In inglese:   sea dog

In tedesco:  sea wolf= Der Seewolf

In spagnolo: Lobo marino

In svedese:   Havsvarg

Ancora un esempio del termine marinaro

 BOCCA DI LUPO (nodo)

La bocca di lupo era conosciuto fin dal Primo Secolo dal medico greco Heraklas, che lo descrisse in una monografia dedicata ai nodi ad uso chirurgico.

Perché si dice in bocca al lupo?

 

Numerose sono le interpretazioni di questo modo di dire dalla valenza scaramantica, dal folklore, all’etologia, passando per la storia di Roma.

Il lupo, l’abbiamo già detto, è un archetipo più che un animale. Nel corso della storia numerose sono state le “visioni” di questo animale, nella tradizione medioevale era visto come l’incarnazione del pericolo e del male, nelle antiche tradizioni nordiche evocava invece conoscenza e rivelazioni epifaniche. In letteratura l'epifania è, secondo Joyce, un'improvvisa rivelazione spirituale, causata da un gesto, un oggetto, una situazione della quotidianità, forse banali, ma che rivelano inaspettatamente qualcosa di più profondo e significativo.

Numerose sono le interpretazioni del proverbio “in bocca al lupo”. Espressioni simili si ritrovano anche in altre lingue europee.

Oggi, dopo aver rischiato l’estinzione negli anni Settanta, il lupo è tornato, scende in collina e spesso si fa anche fotografare. Purtroppo stiamo assistendo ad un nuovo tentativo di demonizzare questo elusivo e prezioso predatore. Il lupo è così radicato nella nostra cultura che è presente anche in numerosi proverbi e modi di dire. Su tutti l’augurio in bocca al lupo, ma cosa significa veramente? Ecco alcune interpretazioni di questa locuzione.

 

Funzione apotropaica

L’interpretazione più accreditata dell’origine del detto è quella della funzione apotropaica (ovvero una formula che allontana o annulla un’influenza maligna) della locuzione, “capace di allontanare lo scongiuro per la sua carica di magia”, sostiene l’Accademia della Crusca. Questa versione prevede la risposta: “crepi”, sottintendendo il lupo, e sarebbe nata come frase di augurio rivolta a chi si appresta ad affrontare una prova difficile. L’origine dell’augurio viene attribuita sia a pastori e allevatori, che consideravano il lupo un nemico, sia ai cacciatori, che vagavano di villaggio in villaggio mostrando carcasse di lupi e pretendendo una ricompensa per il servizio reso.

La lupa di Romolo e Remo

Questa spiegazione si basa sul simbolo della città eterna, la lupa che ha salvato Romolo e Remo nella storia dell’origine di Roma. I gemelli, figli del dio Marte e della vestale Rea Silvia, vengono allattati dalla lupa che salva loro la vita, il senso dell’augurio cambia dunque radicalmente e il lupo diviene sinonimo di protezione. La risposta “crepi” non avrebbe pertanto senso.

Al sicuro nella bocca di mamma lupa

Questa, anche se può essere storicamente inesatta, è probabilmente l’interpretazione più romantica. Il significato è simile alla spiegazione precedente e propone una lettura etologica del proverbio. Mamma lupa è solita trasportare i propri cuccioli in bocca in caso di pericolo, in una situazione così non c’è posto più sicuro della bocca del lupo, augurare quindi a qualcuno di trovarsi tra le fauci di questo animale è un modo per auspicare che sia protetto. In questo caso la risposta non è “crepi”, ma un più pacifico “lunga vita al lupo”, o “evviva il lupo” o “grazie”.

 “Lupo di mare” nei testi

The Dubliners - la Irish Rover

ma presto il tormento dovra’ finire;
dell’amore di una donna non ha mai paura
il vecchio lupo di mare della Irish Rover

Giuseppe Ungaretti - Allegria di naufragi

dopo il naufragio
un superstite
lupo di mare.

Đorđe Balašević - Il marinaio della Pannonia

o meglio come capitan Cook
In questa piana tra i campi perdo la speranza
un lupo di mare arenato in un campo di grano

Joan Manuel Serrat - Incubi per telenovele

che gli sorrideva ad un palmo dal naso
e gli offriva una tazza di caffè
con la voce di un lupo di mare gli diceva:
“Loro hanno dormito bene, signora, signore?

Marco Sbarbati - La mia casa alla fine del mondo

Fra le tue dita si posa l'estate
Chiedimi ancora se so dove andare
Fammi sentire un lupo di mare
Meglio seguire la stella polare

Le Piccole Ore - Piccola strega

Ti sei aggrappata al mio cuore
Credevo di esser forte ed insensibile
Un vecchio lupo di mare

El Presi - Pescatori Asturiani

Lastres, Guijón, Avilés y Tapia de Casariego.

Soltanto un lupo di mare
sopporta la solitudine

Massaroni Pianoforti - Lupo di mare

Hai il dono raro di una bellezza elegante
Perfino se indossi un berretto discutibile da marinaio
Quando mi hai detto "Lupo di mare"
La tua promessa è come una stella da guardare e mai seguire

 

 

Non avete udito mai parlare di mastro Catrame? No?…

Allora vi dirò quanto so di questo marinaio d’antico stampo, che godette molta popolarità nella nostra marina: ma non troppe cose, poiché, quantunque lo abbia veduto coi miei occhi, abbia navigato molto tempo in sua compagnia e vuotato insieme con lui non poche bottiglie di quel vecchio e autentico Cipro che egli amava tanto, non ho mai saputo il suo vero nome, né in quale città o borgata della nostra penisola o delle nostre isole egli fosse nato.

Era, come dissi, un marinaio d’antico stampo, degno di figurare a fianco di quei famosi navigatori normanni che scorrazzarono per sì lunghi anni l’Atlantico, avidi di emozioni e di tempeste, che si spinsero dalle gelide coste dei mari del nord fino a quelle miti del mezzogiorno, che colonizzarono la nebbiosa Islanda e conquistarono il lontano Labrador, quattro o forse cinquecento anni prima che il nostro grande Colombo mettesse piede sulle ridenti isole del golfo messicano.

Quanti anni aveva mastro Catrame? Nessuno lo sapeva, perché tutti l’avevano conosciuto sempre vecchio. È certo però che molti giovedì dovevano pesare sul suo groppone, giacché egli aveva la barba bianca, i capelli radi, il viso rugoso, incartapecorito, cotto e ricotto dal sole, dall’aria marina e dalla salsedine. Ma non era curvo, no, quel vecchio lupo di mare!

Procedeva, è vero, di traverso come i gamberi, si dondolava tutto, anche quando il vascello era fermo e il mare perfettamente tranquillo, come se avesse indosso la tarantola, tanta era in lui l’abitudine del rollio e del beccheggio; ma camminava ritto, e quando passava dinanzi al capitano o agli ufficiali teneva alto il capo come un giovinotto, e da quegli occhietti d’un grigio ferro, che pareva fossero lì lì per chiudersi per sempre, sprizzava un bagliore come di lampo. Ma che orsaccio era quel mastro Catrame! Ruvido come un guanto di ferro, brutale talvolta, quantunque in fondo non fosse cattivo: poi superstizioso come tutti i vecchi marinai, e credeva ai vascelli fantasmi, alle sirene, agli spiriti marini, ai folletti, ed era avarissimo di parole. Pareva che faticasse a far udire la sua voce, si spiegava quasi sempre a monosillabi e a cenni, non amava perciò la compagnia e preferiva vivere in fondo alla tenebrosa cala, dalla quale non usciva che a malincuore. Si sarebbe detto che la luce del sole gli faceva male e che non poteva vivere lontano dall’odore acuto del catrame, e forse per questo gli avevano imposto quel nomignolo, che poi doveva, col tempo, diventare il suo vero nome.

Chi aveva mai veduto quell’uomo scendere in un porto? Nessuno senza dubbio. Aveva un terrore istintivo per la terra, e quando la nave si avvicinava alla spiaggia, lo si vedeva accigliato, lo si udiva brontolare, e poi spariva e andava a rintanarsi in fondo del legno. Di là nessuno poteva trarlo; guai anzi a provarsi! Mastro Catrame montava allora in bestia, alzava le braccia e quelle manacce callose, incatramate, dure come il ferro e irte di nodi, piombavano con sordo scricchiolio sulle spalle dell’imprudente, e i mozzi di bordo sapevano se pesavano!

Per tutto il tempo che la nave rimaneva in porto, mastro Catrame non compariva più in coperta. Accovacciato in fondo alla cala, passava il tempo a sgretolare biscotti con quei suoi denti lunghi e gialli, ma solidi quanto quelli del cignale, a tracannare con visibile soddisfazione un buon numero di bottiglie di vecchio Cipro, alle quali spezzava il collo per far più presto, e a consumare non so quanti pacchetti di tabacco.

Quando però udiva le catene contorcersi nelle cubìe e attorno all’argano, e lo sbattere delle vele e il cigolare delle manovre correnti entro i rugosi bozzelli, si vedeva la sua testaccia apparire a poco a poco a fior del boccaporto e, dopo essersi assicurato che la nave stava per ritornare in alto mare, compariva in coperta a comandare la manovra.

Sembrava allora un altro uomo, tanto che si sarebbe detto che invecchiava di mano in mano che si avvicinava alla terra e che ringiovaniva di mano in mano che se ne allontanava per tornare sul mare. Forse per questo si sussurrava fra i giovani marinai che egli fosse uno spirito del mare e che doveva esser nato durante una notte tempestosa da un tritone e da una sirena, poiché quello strano vecchio pareva si divertisse quando imperversavano gli uragani, e dimostrava una gioia maligna che sempre più cresceva, allora che più impallidivano dallo spavento i volti dei suoi compagni di viaggio.

Da che cosa provenisse quell’odio profondo che mastro Catrame nutriva per la terra? Nessuno lo sapeva, e io non più degli altri, quantunque mi fossi più volte provato ad interrogarlo. Egli si era contentato di guardarmi fisso fisso e di voltarmi bruscamente le spalle, dopo però avermi fatto il saluto d’obbligo, poiché mastro Catrame era un rigido osservatore della disciplina di bordo.

Del resto tutti lo lasciavano in pace, mai lo interrogavano, poiché lo temevano e sapevano per esperienza che aveva la mano sempre pronta ad appioppare un sonoro scapaccione, malgrado l’età, e qualche volta anche faceva provare la punta del suo stivale. Gli uni lo rispettavano per l’età, gli altri per paura.

Lo stesso capitano lo lasciava fare quello che voleva, sapendo che in fatto di abilità marinaresca non aveva l’eguale, che poteva contare su di lui come su d’un cane affezionato, sebbene ringhioso, e che valeva a far stare a dovere l’equipaggio anche con una sola occhiata, né mancava mai al suo servizio.
Una sera però, mentre dai porti del Mar Rosso navigavamo verso i mari dell’India, mastro Catrame, contrariamente al solito, commise una mancanza che fece epoca a bordo del nostro veliero: fu trovato nientemeno che ubriaco fradicio in fondo alla cala!… Come mai quell’orso, che da tanti anni aveva dato un addio ai forti liquori che tanto piacciono ai marinai e che mai una volta si era veduto barcollare pel soverchio bere, si era ubriacato? Il caso era grave; ci doveva entrare qualche gran motivo, e il nostro capitano, che voleva veder chiaro in tutto, ordinò un’inchiesta, su per giù come fanno le nostre autorità quando accade qualche grosso avvenimento.

E la nostra inchiesta approdò a buon porto, poiché si constatò con tutta precisione che mastro Catrame si era ubriacato per errore! Qualche burlone aveva mescolato fra le bottiglie di Cipro una di rhum più o meno autentico, e il vecchio lupo l’aveva tracannata tutta senza nemmeno accorgersi della sostituzione.

Un mastro che si ubriaca durante la navigazione non la può passar liscia, e tanto meno doveva passarla mastro Catrame, che era così rigido osservatore delle discipline marinaresche. Quale brutto esempio, se lo si fosse graziato!

Il capitano con tutta serietà ordinò che si portasse il colpevole sul ponte appena l’ebrezza fosse passata, e avvertì l’equipaggio di tenersi pronto per un consiglio straordinario. Dopo due ore mastro Catrame, ancora stordito da quella abbondante libazione, che avrebbe potuto riuscire fatale a uno stomaco meno corazzato, compariva in coperta torvo, accigliato, coi peli del volto irti. I suoi occhietti correvano dall’uno all’altro marinaio, come se volessero scoprire il colpevole di quella brutta gherminella.

Il capitano, appena lo vide, gli andò incontro, lo prese ruvidamente per un braccio e lo fece sedere su di un barile che era stato collocato ai piedi dell’albero maestro. Con un cenno fece radunare attorno al colpevole l’equipaggio, poi, affettando una gran collera che non provava e facendo la voce grossa per darsi maggior importanza, disse:

– Papà Catrame, – lo chiamava così, – sapete che i regolamenti di bordo condannano il marinaio che si ubriaca durante il servizio?

Il lupo di mare fece un cenno affermativo e barbugliò un “fate”.

– Quest’uomo è colpevole? – chiese il capitano, volgendosi verso l’equipaggio, che rideva sotto i baffi, sapendo già come doveva finire quella commedia.

– Sì, sì, – confermarono tutti.

– Se tu fossi più giovane, ti farei chiudere nella cabina coi ferri alle mani e ai piedi; ma sei troppo vecchio. Ebbene, io cambio la pena condannandoti a sciogliere quella lingua, che è sempre muta, per dodici sere.

– Orsù, papà Catrame, taglia i gherlini che la tengono legata, accendi la tua pipa e narraci dodici storie, le più belle che sai – e ne devi sapere, veh! – e tu, dispensiere, reca una bottiglia del più vecchio vino di Cipro che troverai nella mia cabina, onde la lingua del vecchio orso non si secchi. Avete capito?

Una salva d’applausi accolse le parole del capitano, a cui fece eco un sordo grugnito di mastro Catrame, non so poi se di contentezza per essere sfuggito ai ferri o di malcontento per dover sciogliere la lingua.

EMILIO SALGARI

[da Le novelle marinaresche di Mastro Catrame]

Concludo:

Non sono un Agente di Viaggi, tuttavia, essendo stato a Cipro due volte… in qualche modo mi sento di consigliare quella meta in particolar modo a chi ama la natura, la storia, l’archeologia, la religione e la buona cucina! Sarete sorpresi!

Il vino di Cipro, tra storia e leggenda

https://patatofriendly.com/vino-cipro-storia-leggenda/

AGGIUNGIAMO A QUESTA RICERCA I CONTRIBUTI  DEI NOSTRI AMICI E SOCI:

-  STV Enzo GAGGERO:

Mio padre (classe 1916) aveva fatto il servizio di leva nella Regia Marina, proprio a Venezia ed ero a conoscenza della lavagna Bocca di lupo e del suo significato nella marineria veneziana. 

Mi è gradito inviarti il simpatico "In bocca al lupo" che distribuiamo ai visitatori delle serate astronomiche.

 

Com.te Mario T. Palombo

… il tuo inserimento "LUPI DI MARE " mi ha fatto venire in mente mio padre che,  pur essendo un Padrone Marittimo e avendo comandato bastimenti a vela, a motore e fatto tanta gavetta, quando arrivava a Camogli e con il suo Nettuno entrava in porto con le mareggiate,  la gente rimaneva sbalordita per la sua abilità, sicurezza e coraggio. Un vero lupo di mare. 

Com.te Ernani Andreatta

NOSTROMO: "Uomo rozzo e buzzurro che con urla e fischi conduceva la ciurma all'arrembaggio, l'unica persona a cui era ammessa la bestemmia".

Questa è la descrizione storica del Nostromo, figura importantissima della Marineria sia militare che mercantile.

https://www.marinaiditalia.com/public/uploads/2012_7_30.pdf

Sub Giancarlo Boaretto

 

"… che bello leggere qualcosa sui lupi di mare, mi hai fatto ricordare di quando mi imbarcai per la prima volta, ma non come marinaio, bensì come sommozzatore, e dal 1968 al 1995 imbarchi ne ho fatto qualcuno... Non mi sono mai sentito un "lupo di Mare" come di fatto non lo ero, ma soltanto ospite in una piccola città galleggiante, dove non sempre eravamo ben visti dai marinai, perché moltissime volte stavamo a guardarli mentre loro sfacchinavano e quando la nave non era operativa in attesa di nuovi materiali inerenti la costruzione delle piattaforme petrolifere, noi andavamo a pescare in apnea attorno alla stessa; tornando al primo imbarco, io ero già un Lupo, ma di montagna."

La modestia di Gianca è nota! Ma noi conosciamo come pochi il suo lavoro di un tempo sui fondali freddi del Nord Europa per cui ritengo che in lui si sommino: due LUPI, quello di mare e quello di montagna.

 

Anch'io ho ancora qualcosa da aggiungere:

ATTACCO A BRANCO DI LUPI

L'U-190, che partecipò agli attacchi ai convogli HX 229 e SC-122

 Branco di lupi (Wolfsrudeltaktik in lingua tedesca) è il nome dato alla tattica di guerra sottomarina adottata dai sommergibili tedeschi nella Seconda guerra mondiale. 

La tattica del "branco di lupi" (Rudeltaktik) venne utilizzata per la prima volta nel settembre e nell'ottobre del 1940, con effetti devastanti. Il 21 settembre, il convoglio HX-72 di 42 navi mercantili venne attaccato da un gruppo di sottomarini, che affondarono 11 navi e ne danneggiarono due.

Scopo primario della tattica del "branco di lupi" era quello di rendere possibile un obiettivo nemico comune a più sommergibili. Lo sforzo tattico consisteva nel trovarsi a sopraffare il nemico in battaglia. Per questo il momento ideale per l'attacco comune era la notte, poiché in quel frangente l'U-Boot, che si trovava a sufficiente distanza dal convoglio al di sotto dell'orizzonte, a causa della sua stretta silhouette, era difficile da individuare da parte del nemico. L'attacco veniva incominciato da un U-Boot, che il nemico, idealmente costituito da più bersagli potenziali, non attaccava per non richiamare altri sommergibili. Un gruppo di U-Boo toperante con la tattica del "branco di lupi" poteva comportarsi in due modi diversi. Grazie alla segnalazione di un sommergibile di pattuglia o di un aereo, potevano venir comandati più sommergibili nella stessa zona di mare. Di gran lunga più frequentemente un tale gruppo di U-Boot però si raccoglieva "al tavolo verde" a seguito di avviso ufficiale: per esempio a seguito dell'informazione su un convoglio e del corrispondente ordine di recarvisi.

In caso di una tale ricerca di prede ogni U-Boot, a distanza di circa 8 miglia nautiche  uno dall'altro, "batteva" una determinata zona del mare. Quando uno di loro aveva individuato un convoglio nemico, avvertiva agli altri con un breve segnale di 20 caratteri, indicando tempo atmosferico, punto, rotta, velocità, numero di navi e scorta del convoglio, informandoli anche sulla disponibilità di carburante da parte sua. Queste informazioni venivano ripetute dall'U-Boot in questione ogni due ore e teneva così il contatto, mentre gli altri U-Boot accorrevano in direzione del convoglio.

 

Carlo GATTI

Rapallo, 2 Agosto 2022


IL BAULE DEL MARINAIO - ARTE E MARE - 2

IL BAULE DEL MARINAIO

ARTE E MARE - 2

 

 

Con cinque bambini piccoli, essi salirono su un veliero portando tutto ciò che avevano in un piccolo baule”

La cassetta è il baule che il marinaio porta sempre con sé. Rappresenta la sua identità, il passato e il futuro che appena si intravede fra le condizioni variabili del presente. Può essere di legno intarsiato o povero, solido o deteriorato, non importa, ogni navigante ha la sua cassetta, il senso ben custodito di quel girare apparentemente folle intorno al mondo. Una volta abbandonata la navigazione, chiuso il rapporto professionale con il mare, la cassetta perde la sua attitudine raminga, si distende, comincia ad assorbire vita, esperienza, per diventare archivio e potenzialmente materia narrativa.

Dopo questa premessa, che è la vera definizione letteraria del BAULE del marinaio, devo confessare che forse inconsciamente, attribuivo l’uso del baule del marinaio a quel periodo leggendario legato all’epopea della vela o, tutt’al più, ai primi del ‘900 quando i primi sbuffanti vapori solcavano i mari con tre alberi pronti ad issare le vele di fortuna in caso di avaria alle “novelle” macchine alternative. Si trattava, com’è noto, di una messa in scena degli armatori dell’epoca per tranquillizzare i facoltosi ed elegantissimi passeggeri che, ancora un po’ diffidenti verso i nuovi sistemi propulsivi navali, sfidavano l’ignoto. Il baule carico di prestigiosi vestiti all’ultima moda era il biglietto da visita identitario della Belle Époque. Si dice di esso: quel periodo che va da fine ‘800 allo scoppio della Prima guerra mondiale e che fu caratterizzato da euforia e frivolezza. Bella Epoca perché a seguito di una serie di progressi ed invenzioni si modificò lo stile di vita delle classi borghesi; da qui prese inizio l’idea di viaggiare per fare turismo d’élite. L’ esempio tipico è il TITANIC, una nave di lusso inglese della “WHITE STAR” che si fece simbolo della “BELLE ÉPOQUE” in quanto era grande, moderna e veloce. Un oggetto di lusso per persone molto ricche.

 

Tutto questo mi affiora alla mente trascinandomi un ricordo che solo ora rammento di non averlo mai scritto.

 

Da sinistra, VULCANIA e SATURNIA a Genova

 

 

Era il 1961. Dopo un imbarco di quasi un anno da Allievo Ufficiale di coperta su una petroliera, ebbi la fortuna d’imbarcare sulla nave passeggeri SATURNIA con il grado di Allievo Ufficiale Anziano. Eravamo in partenza da Trieste per il mio secondo viaggio sulla linea Trieste - Venezia - Napoli - Palermo - Palma de Majorca - Gibilterra - Lisbona -Punta Delgado (Azzorre) - Halifax - Boston - New York.

 

 

Mi trovavo tra le scartoffie della segreteria di Coperta, quando percepii un trambusto nel corridoio: due “piccoli di camera” stavano “camallando”, si fa per dire, un ingombrante baule da marinaio verde scuro, bordi e angolari rinforzati con borchie metalliche dorate. Ricordo d’aver detto ai due giovani che quel baule era destinato, probabilmente, ad essere “stivato” nel bagagliaio di bordo.

“Ma no sior, ghe zè una targhetta sul lucchetto: Alloggio Ufficiali – M/n SATURNIA”.

Poco dopo vidi avvicinarsi, col suo inconfondibile “piede marino”, un mio caro amico  camoglino Baj Schiaffino che avevo lasciato qualche mese prima al seguito della mia squadra di pallanuoto di cui era un fervente tifoso.

“Hoo belin, ma cosa ti ghe fae a bordo. Vanni SÛBITO a casa che a squaddra ha l’à bezêugno de ti …”

Baj aveva ragione, avevo lasciato la squadra per una nave passeggeri su cui avevo sempre sognato d’imbarcare… e quella fuga, Baj non me lo perdonò per tutto l’imbarco.

“Dove u l’è u mae beûlo?”

– Il dilemma era risolto – Il baule era proprio il suo!

Baj discendeva da quel ramo degli Schiaffino de Camoggi che da secoli avevano battuto i mari di tutto il mondo. Già, in quella Camogli dei Mille bianchi velieri su cui la tradizione “voleva” che il giovane s’imbarcasse da Allievo e sbarcasse da Comandante: in un solo lunghissimo imbarco. La rottura con la terraferma doveva essere TOTALE per dimostrare innanzitutto a sé stesso amore e dedizione solo per il MARE. Avete capito bene! Da ultimo di bordo a Capitano al comando e in seguito anche Armatore dei velieri di famiglia.

Baj era rimasto “intrappolato” nel solco di quella tradizione old fashion che lui continuava a vivere, come se la marineria fosse tuttora ancorata a quello spirito d’avventura senza tempo che unisce tutti i marinai del mondo da sempre e per sempre avendo per letto il mare e per soffitto il cielo. Baj continuava a vagare sui bordi insieme a tutti gli Schiaffino de Camoggi, ovunque si trovasse, e come loro si muoveva, non solo nel portamento oscillante, ma nel guardare sempre fuori, verso il mare per controllarne l’umore e la forza del vento sulle vele, con quel suo sorriso sempre generoso, ma furbo: “Amîa che no sòn miga nescio!”

Non gli chiesi mai nulla di quella anacronistica presenza do beûlo al seguito… non volevo profanare le sue antiche consuetudini familiari di cui evidentemente andava molto fiero: esibendo quella specie di carta d’identità che solo pochi potevano permettersi. E poi cosa c’era da spiegare ad un giovane come me, al secondo imbarco che il mondo della vela l’aveva conosciuto soltanto di striscio sugli STARS nel golfo Tigullio facendo bordi rischiosi solo per strappare un sorriso alle ragazze straniere… magari dell’entroterra! Questo avrebbe pensato Baj che di Riviera se ne intendeva!

Beh! Qui forse Baj si sbagliava! Anche il suo giovane amico proveniva da una stirpe di naviganti e armatori: i Gazzolo di Ge-Nervi - 25 velieri impiegati sulle rotte del GUANO tra il Cile e Perù ed il Nord Europa. Già! Ognuno ha il suo retroterra spirituale da rispettare e quindi il suo naturale destino da seguire; ma se oggi ricordo ancora quel BAULE della tradizione marinara ligure significa che nel sangue avevamo entrambi gli stessi ricordi ancestrali.

Baj è mancato di questi tempi un po’ di anni fa, ed ho voluto ricordarlo con la scusa do beûlo che racchiude tanti ricordi che in seguito ci hanno legati da Amicizia vera nella sua Camogli:

Società

CAPITANI E MACCHINISTI NAVALI

CAMOGLI

Arrivati al giro di boa, non mi rimane che segnalare un bel libro di Dario PONTUALE:

IL BAULE DI CONRAD

 

 

Una cassa di legno lunga un metro, alta cinquanta centimetri, con tozze zampe quadrate e la base più larga per resistere ai rollii. In passato ogni marinaio degno di tale nome solcava le acque del mondo accompagnato da questa specie di baule, chiamato in gergo “cassetta”, dove riporre i propri effetti personali i beni i ricordi.

Tra le molte sopravvissute agli attacchi del tempo, ne esiste una appesantita dagli anni e dagli oggetti, che riporta su un fianco una sigla incisa con la forza di un coltello, “JTKK”, e una data, “1894”. La sigla altro non è che l’abbreviazione del nome del suo proprietario: Józef Teodor Konrad Korzeniowski, ufficiale della Marina Mercantile Britannica. Il 1894 è l’anno in cui la cassetta è stata calata per l’ultima volta dal ponte di una nave: il battello a vapore Adowa, che avrebbe dovuto salpare per il Québec con a bordo quell’ufficiale di origine polacca, in realtà non ha mai lasciato il porto a causa di un impedimento burocratico.

Un finale in sordina per un uomo irrequieto che fin dall’adolescenza attraversa mari e oceani su ogni barca che gli conceda un incarico, una possibilità, una sfida. Vent’anni di vagabondaggio nei luoghi più selvaggi e remoti del globo, dalle Indie Occidentali alla Malesia e fin dentro il cuore oscuro dell’Africa. Dopo aver affrontato tempeste e bonacce, commerci e intrighi, in quel 1894 Józef Konrad cambia definitivamente il proprio nome in Joseph Conrad, il marinaio esce di scena e cede il testimone allo scrittore.

Con vivace ritmo narrativo, sempre affiancato da uno scrupoloso lavoro di ricerca, questo libro racconta la vita in mare di uno dei maggiori autori di ogni tempo: le imbarcazioni sulle quali Conrad navigò, gli uomini incontrati, le rotte seguite e le avventure fonti di ispirazione per i personaggi, le ambientazioni e le vicende che hanno popolato storie immortali come Cuore di tenebra, Tifone, La linea d’ombra e molti altri capolavori conradiani.

UN PO’ DI CONRAD

Mi si chiede di descrivere brevemente, qui, quest'opera.
Per come la vedo io, questo libro rappresenta lo sfogo di un marinaio che ha visto, praticamente, tutto il mondo, naturalmente dalla parte del mare, in quanto all'epoca viaggiavo già fin troppo per mestiere, da avere voglia di farlo anche da turista.
Ho visto tante cose: Cose antiche, cose moderne, cose affascinanti dal punto di vista naturalistico.
E poi, ancora, ho visto il mare in bonaccia, giorno dopo giorno, per decine di giorni, in oceano, e mi è sembrato la manifestazione della bontà divina.
Poi ho visto quello stesso mare furibondo di rabbia, roba che chi non l'ha visto non può arrivare a crederci, ed anzi adesso, che gli anni sono passati, non riesco più a crederci neppure io, se non facendo uno sforzo mentale, alla fine del quale ancora mi vengono i brividi.
Tutto questo l'ho messo, in questo libro. Ma, soprattutto, ho visto l'uomo.
L'uomo bianco, l'uomo nero, l'uomo giallo, l'uomo rosso.
Ho visto il Cristiano, l'Islamico, l'Ateo, l'Ebreo, lo Shintoista, ed anche altri.
Ho visto l'uomo ricco e potente, ed ho visto l'uomo povero, umile.
Di uomini umili e poveri ne ho visti di più, perché tali erano quelli che popolavano gli ambienti del porto, e delle sue vicinanze.
Ho parlato con quegli uomini. Ne ho osservato il comportamento, ascoltato i discorsi, ed alla fine ho capito che sotto la scorza del colore della pelle, della religione, della lingua, gli uomini, tutti gli uomini, sono abbastanza simili, per lo meno quelli sani di mente, vogliono tutti le stesse cose, che si riassumono poi nel diritto a mantenere la speranza di potere condurre una vita decorosa, migliore di quella vissuta dai loro padri, e di poterne offrire di ancora migliori ai propri figli.
Tutti, a parte i pazzi, vogliono vivere in pace, sognano di vedere riconosciuti i propri diritti, curate le malattie, assicurata la vecchiaia.
Vivono nel terrore che qualche pazzo scatenato decida di portarli in guerra, loro e i loro figli, e trasformi le loro mogli in vedove, le loro madri in vecchie in gramaglie.
In questo libro ho messo anche questo.
Poi, ho tirato giù i miei ragionamenti.
Tranquilli: A parte che il fatto che io, come tutti noi occidentali, sono stato formato nella cultura cristiana, nella qual cosa, tra l'altro, non vedo nulla di male, non ho fedi politiche, e neppure religiose. Ho il cuore, ed ho il cervello. Tutto quanto leggerete, se vorrete, viene dritto da lì: Dal cervello e dal cuore.

IL BAULE DEL MARINAIO

Una carrellata nella storia

 

 

 

 

 

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, 28 Novembre 2021


IL VELARIUM DEL COLOSSEO

IL VELARIUM DEL COLOSSEO

ALCUNE NOTE STORICHE

Il COLOSSEO, situato nel centro di Roma, è il più grande anfiteatro mai costruito al mondo. La struttura era in grado di contenere un numero di spettatori stimato tra 50.000 e 87.000 unità (di cui 45.000 seduti), ma è anche il più imponente monumento dell’antica Roma che sia giunto fino ai nostri giorni.


L’Anfiteatro Flavio, (é stato primo nome del COLOSSEO) fu iniziato da Vespasiano nel 70 d.C. e terminato da Tito nell’80. Ulteriori modifiche furono apportate durante l’impero di Domiziano nel ‘90. I lavori furono finanziati, come altre opere pubbliche del periodo, con il provento delle tasse provinciali e il bottino del saccheggio del tempio di Gerusalemme (70 d.C.).

La sua costruzione durò appena 2 anni e 9 mesi. Nella cerimonia di apertura vennero uccise oltre 5.000 belve in un’unica giornata. Per l’inaugurazione dell’edificio, l’imperatore Tito diede dei giochi che durarono tre mesi, durante i quali morirono circa 2.000 gladiatori e 9.000 animali. Per celebrare il trionfo di Traiano sui Daci vi combatterono 10.000 gladiatori.

Conosciuto molto più tardi (nel Medioevo) col nome di COLOSSEO dalla “colossale” statua in bronzo di Nerone (di oltre 30 metri di altezza - Realizzata tra il 64 ed il 69 d.C. per mano dello scultore Zenodoro) che un tempo era stata eretta in prossimità dell’Anfiteatro, che fu il primo ad essere costruito in pietra a Roma il quale, nonostante il suo crudele scopo, rimane uno dei prodigi architettonici del mondo.

Il COLOSSEO è un edificio di forma ellittica, dalle grandi dimensioni di 188 m di lunghezza, 156 m di larghezza e 48 m di altezza. Risulta in più punti gravemente danneggiato, ma conserva ancora l’originaria struttura.

La sua struttura è composta in effetti da due Anfiteatri greci semicircolari messi l’uno contro l’altro, che avevano però dimensioni minori.

Gli ultimi combattimenti tra gladiatori sono testimoniati nel 437, ma l’anfiteatro fu ancora utilizzato per le venationes (uccisione di animali) fino al regno di Teodorico il Grande: le ultime vennero organizzate nel 519, in occasione del consolato di Eutarico (genero di Teodorico), e nel 523, per il consolato di Anicio Massimo.

Il COLOSSEO, con la sua maestosità unica, rivela il genio degli architetti romani per gli effetti spettacolari ed esercitò una grande influenza sugli edifici dell’Europa più recente e, a proposito di effetti speciali, passiamo subito al tema che ci è tanto caro.

IL VELARIUM DEL COLOSSEO


A questo punto vi chiederete: Ma cosa c’entra il COLOSSEO con la tradizionale linea cultural-marinara di MARE NOSTRUM RAPALLO?

Ve lo spiego subito! Si tratta solo di mettere a fuoco un “particolare MARINARO” di questa opera gigantesca che si chiama VELARIUM che ancora oggi viene studiato dalle maggiori facoltà d’Ingegneria e Architettura navale del mondo nell’intento di capirne la progettazione, l’installazione ed il funzionamento.

Per dare un’idea della complessità del problema, gli storici antichi ci hanno tramandato questa informazione:

Il VELARIUM era una magistrale opera di ingegneria. Il suo posizionamento, estremamente complicato, veniva svolto dai migliori marinai del distaccamento della Classis Misenensis.

Secondo stime di oggi il VELARIUM aveva un peso complessivo di circa 24 tonnellate e veniva manovrato da 1.000 provetti marinai abituati all’uso di cavi e cime di ogni calibro e lunghezza, di cui ognuno era destinato ad una precisa funzione.

Mare Notrum Rapallo ha dedicato un saggio a questa famosa Base navale.

CAPO MISENO - LA PIU’ POTENTE BASE MILITARE DELL’ANTICHITA’

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=596;miseno&catid=36;storia&Itemid=163

Carlo GATTIStoria Navale – Sito Mare Nostrum Rapallo

Lo scopo principale del VELARIO era quello di riparare gli spettatori dai raggi solari, ma anche dalle intemperie. Plinio, dopo aver narrato delle vele di vario colore adoperate nelle flotte di Alessandro Magno, e di quelle purpuree che aveva la nave con cui Marco Antonio andò ad Azio con Cleopatra, dice:

"Postea in theatris tantum umbram facere; le quali parole c'insegnano che, abbandonato nelle navi l'uso di vele colorate, passarono queste a far ombra ai teatri.

Anche Lucrezio fa menzione di siffatto lusso nei velari: Et vulgo faciunt id luten intenta. Theatris. Per malos vulgata trabesque trementia flutant.

Dalla sommità del COLOSSEO partiva un complesso sistema di cavi/cime/catene, lungo le quali venivano distese enormi "vele" sospese sull'ARENA che consentiva la copertura della caveae (l’insieme delle gradinate in muratura dove prendevano posto gli spettatori).

La struttura presentava un anello al centro che favoriva l'aerazione dell'anfiteatro; inoltre, per attenuare possibili odori sgradevoli, durante gli spettacoli venivano sparsi tra il pubblico getti d'acqua odorosa ed essenze profumate (sparsiones).

“Il peso della struttura, che altrimenti sarebbe precipitata verso l'interno, era controbilanciato ancorando altre funi su dei cippi di pietra, collocati a raggiera all'esterno della zona anulare pavimentata in travertino .

Alcuni cippi sono ancora visibili sui lati nord ed Est, e il loro posizionamento equidistante fa presumere che in origine fossero in tutto ottanta.


Questa immagine (sopra) ricostruita al Computer, ha una eccellente funzione didattica sulla quale occorre fare riferimento per comprenderne la funzionalità e la dinamica operativa. Ad esempio, in primo piano si notano, (meglio con l’immagine ingrandita), che a sostenere il gigantesco tendaggio: il VELARIUM del Colosseo - vi erano 240 pali (colore scuro) di sostegno e sporgenti, inseriti in altrettanti fori quadrangolari, in corrispondenza di 240 mensole sporgenti di pietra, che si vedono in primo piano. (Vedi immagine sotto).


Il velarium era una copertura mobile in tessuto composta da più teli (o vele) di canapa, che veniva utilizzata nei teatri e negli anfiteatri romani per garantire agli spettatori un’adeguata protezione in caso di maltempo o nelle giornate di gran caldo.


I fori a sezione circolare presenti sulla vela dell’arena di Verona databile all’anno 80 d.C.


Le mensole e i soprastanti fori quadrangolari sull'ordine superiore del Colosseo

Plinio, a proposito del VELARIUM scrisse: «uno spettacolo più stupefacente dei giochi stessi».

Alla legittima domanda: perché proprio i marinai erano necessari al funzionamento del VELARIO DEL COLOSSEO?

Rispondiamo con questa fotografia che spiega, senza l’aiuto di tante parole, chi sono e cosa possono inscenare i marinai “da cattivo tempo”.


I marinai “annusano” le tempeste in arrivo e sono addestrati ad affrontarle in tempo per limitarne i danni. Ve lo immaginate se a causa di un groppo di vento* improvviso fossero cadute 24 tonnellate di vele con tutte le varie attrezzature metalliche sulla testa di 70.000/80.000 spettatori?

A questa domanda possiamo rispondere così: IL NUMEROSO EQUIPAGGIO DEL COLOSSEO ERA COMPOSTO DI VERI MARINAI E SOLO LORO ERANO IN GRADO DI GARANTIRE LA NECESSARIA SICUREZZA E FUNZIONALITA’ DELL’INTERO IMPIANTO.

*groppo di vento In meteorologia, perturbazione consistente nell'improvviso destarsi di venti con mutevole intensità e direzione, accompagnati da forti acquazzoni e turbini di grandine o di neve; dura in genere pochi minuti.

ANEMOSCOPIO DEL PALATINO


La pietra rinvenuta sul Palatino nel 1776, ora ai Musei Vaticani e ritenuta dagli archeologi un anemoscopio, era capace di valutare la direzione e, in qualche modo, anche l’intensità dei venti che potevano interessare il Colosseo. Questo strumento dimostra come i Romani tenessero monitorata questa FORZA per decidere, in base alle norme sulla sicurezza di allora, l’apertura o la chiusura del VELARIUM.

Plinio scrive che in presenza di un vento di notevole intensità si era spezzato un cavo del velarium e che la vela sbattendo faceva un suono che copriva quelli dello spettacolo in atto nella cavea (Colagrossi).


Lo strumento è datato al II - III secolo d.c. ed è ora in Vaticano (IG XIV, 1308). Ha etichette latine e greche dei venti.  Il libro di Liba Taub "Ancient Meteorology" (Sciences of Antiquity) e riguarda gli antichi metodi di meteorologia che si sono confrontati a Roma tra l'Esquilino e il Colosseo,

ALCUNI REPERTI ARCHEO-MARINI FOTOGRAFATI DALL’AUTORE NEL MUSEO DELLE NAVI ROMANE

LAGO DI NEMI - LE NAVI DI CALIGOLA

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=216;nemi&catid=36;storia&Itemid=163

Carlo GATTIArticoli di Storia Navale


MUSEO DELLE NAVI ROMANE – LAGO DI NEMI


Nelle due foto (dell’autore) sopra e sotto, appare la ricostruzione di una delle due ‘Postazioni del Timoniere’ situate a poppa (a dritta) della prima nave, su cui sono state posizionate le copie bronzee delle cassette con protomi ferine.


Lo scavo dei relitti permette, seppur parzialmente, di conoscere l’attrezzatura delle imbarcazioni anche se la fonte principale per le sovrastrutture e la velatura proviene dalle rappresentazioni delle navi antiche (iconografia). Fortunati sono i casi di rinvenimento dei bozzelli in legno delle manovre delle vele oppure di frammenti di cime e cordami. Tra gli attrezzi più comuni, che spesso però viene ritrovato isolato, ricordiamo lo scandaglio che, munito nella sua parte inferiore di una cavità riempita di resina, serviva per conoscere natura e profondità del fondale nonché a seguire la rotta e a riconoscere i migliori luoghi di ancoraggio. L’ancora era lo strumento di bordo più importante e, di solito, ogni nave ne possedeva più di una di diverse dimensioni. In età romana, era costruita in legno con ceppo di appesantimento in piombo oppure interamente in ferro.


Noria a manovella originale di bordo


Pompa a stantuffo originale


Alcuni esemplari dei chiodi utilizzati sulle due navi, di vari tipi e dimensioni: da pochi centimetri a oltre mezzo metro; dal tipo di sezione quadrangolare e capocchia piramidale a quello con testa schiacciata fornita di piccole protuberanze che servivano a far meglio aderire le lamine plumbee di rivestimento dello scafo.

Una  famosa protome ferina dalla forma di testa di felino che stringe tra i denti un anello che in marina si chiama ‘golfare’ ed é usato tuttora nei porti per ormeggiare imbarcazioni, ma anche per sollevare pesi.

E poi, ancora rulli sferici e cilindrici, paglioli, cerniere, filastrini in bronzo, tubi di piombo, ancora tegole di rame dorato, laterizi di varie forme e dimensioni, frammenti di mosaici con abbellimenti in pasta di vetro, lamine di rame ed altro.


Ancora tipo “Ammiragliato”

MUSEO DELLE NAVI ROMANE – FIUMICINO

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=260;fiumicino&catid=36;storia&Itemid=163

Carlo GATTI - Articoli di Storia Navale

 


All'interno delle vetrine sono esposti i materiali recuperati durante lo scavo delle imbarcazioni tra cui: tubi di piombo, rubinetterie, oggetti in bronzo, ceramica, resti organici e elementi dell'attrezzatura di bordo. Tali reperti sono esposti insieme a materiali rinvenuti durante scavi e recuperi nelle aree vicine.

In conclusione, per gli appassionati di questo tema (VELARIUM), suggerisco la lettura di uno STUDIO realizzato su basi matematiche e scientifiche, inerente le varie soluzioni legate all’uso (progettazione e realizzazione) del VELARIUM nella romanità di 2.000 anni fa.

http://amsacta.unibo.it/6307/1/Velarium%2007-01-2020%2B.pdf

Il velarium del Colosseo: una nuova interpretazione

Eugenio D’Anna e Pier Gabriele Molari

già docenti nella Facoltà di Ingegneria dell’Università di Bologna

 

Bibliografia:

L’Anfiteatro Flavio – Marziano Colagrossi

L’Italia Antica e Roma - German Hafner

Le Strade di Roma

La Storia di Roma Antica – Michael Grant

Il Velarium del Colosseo - AMS Acta

Carlo GATTI

Rapallo, Giovedì 21 Ottobre 2021

 


STRETTO DI MESSINA-CACCIA AL PESCE SPADA

STRETTO DI MESSINA

SECONDA PARTE

LA CACCIA AL PESCE SPADA

LO SCHERMITORE DEL MARE

Il leggendario Stretto di Messina, di cui ci siamo occupati nella PRIMA PARTE, è da secoli l’ARENA naturale in cui si svolge l’eterna lotta tra gli uomini dello Stretto e il Pesce Spada. Una lotta in cui entrano in gioco elementi antichi che trasudano misteri, superstizioni, canti propiziatori e personaggi mutuati da favole e leggende che risalgono ad Omero, Polibio e Strabone. Lo "lo achermidore del mare" sempre stato un bottino ambito dai pescatori, non solo per il suo elevato potere nutritivo, ma anche per le sue dimensioni, che possono raggiungere i 4,5 mt di lunghezza per più di 400 kg. Queste caratteristiche, però, sono combinate ad una forza fisica, una resistenza e una furbizia tali da rendere questo pesce una preda difficile da catturare.

 



La caratteristica FELUCA usata nello Stretto di Messina per arpionare i pescespada. A prescindere da come le dimensioni e l’allestimento delle barche adibite alla caccia al pesce spada siano variati nel tempo, la tattica di base è rimasta una costante: avvistare il pesce, inseguirlo o attenderlo, lanciargli un arpione addosso e lottare fino alla resa. Con le moderne feluche questa resa è quasi sempre dell’animale, ma anticamente il duello terminava spesso con quella del pescatore, che rischiava addirittura la morte.




La pesca con l'arpione per la cattura del pesce spada è ancora praticata nello stretto di Messina. Questa pesca avviene nel periodo della riproduzione che nello Stretto di Messina va da maggio ad agosto, quando gli esemplari si avvicinano alla costa.

Si tratta di una “caccia” che nei secoli ha visto cambiare le imbarcazioni, la propulsione e l’attrezzatura ma non il coraggio e la personalità di chi, per affrontare un mostro potente e velocissimo di 4/5 metri, deve conoscerlo nella più profonda intimità per affrontarlo, vincerlo e catturarlo. Ciò avviene ancora oggi, ma solo sul piano di strategie antiche che non s’imparano nei manuali di pesca e neppure servendosi di strumenti moderni super tecnologici. Nulla di tutto questo!



Il duello è regolato dall’intelligenza e dall’astuzia dei contendenti che prima s’individuano, poi si studiano come due pugili che s’inseguono sul ring senza toccarsi, infine, s’affrontano ognuno con le proprie armi sino alla fine del confronto che non è mai scontato.


IL PESCE SENTIMENTALE - Non si lega facilmente, se si innamora è per sempre. Con la spada difende la compagna a costo della vita

A questo punto ci viene in mente Domenico Modugno quando nel 1954 portò sulle scene della neonata Televisione un brano che racconta questa incredibile storia: LU PISCE SPADA

“…..E pigliaru la fimminedda, drittu drittu ‘n tra lu cori, //E chiangia di duluri.//Ahai ahai ai.

E la varca la strascinava //E lu sangu ci curriva, //E lu masculu chiangiva, Ahai ahai ai…..”

La femmina del pesce spada viene arpionata al cuore, il maschio cerca di liberarla dalle reti. Le sta accanto fino all’ultimo istante offrendosi di morire insieme a lei, allo stesso modo.

Impazzisce il pesce spada che per bocca di Modugno urla che “si tu mori, vogghiu murìri ‘nzemi a ttia”.

Morirà anche lui arpionato dall’uomo che dalla lunga passerella della “feluca” non lo perdona ma ogni volta si commuove inchinandosi a questo cavaliere romantico, avversario coraggioso che merita rispetto e ammirazione perchè si fa uccidere per amore.

Non è una storia inventata. E’ una storia maledettamente vera che nel basso tirreno si ripropone intatta da millenni. Lo sanno bene i pescatori dello Stretto di Messina, tra Scilla, Bagnara Calabra, Palmi e Torre Faro.

Purtroppo la legge di natura non è così romantica: è sempre la femmina del pesce spada che va colpita per prima, non solo perché di dimensioni più grandi, ma perché in questo modo si potrà essere certi di catturare anche il maschio, che mai abbandona il suo amore.

UN PO’ DI STORIA

Le prime fonti che c’informano sulla pesca del pesce spada di cui abbiamo accennato all’inizio, risalgono al II secolo a.C. Le imbarcazioni erano di dimensioni ridotte ed erano per così dire “pilotate” da terra, da una rupe alta a sufficienza per avvistare la preda. Ciò avveniva specialmente sulla sponda calabrese più alta della dirimpettaia costa pianeggiante della Sicilia. L’avvistatore segnalava gli spostamenti del pesce spada con diversi sistemi: con bandiere o a voce.



Tra la fine del ‘400 e gli inizi del ‘500, si realizzò l’idea di affiancare al luntru una barca accessoria che, opportunamente zavorrata e ormeggiata vicino o lontano dalla costa, fungeva da “osservatorio galleggiante”, con la stessa funzione di vedetta delle rupi calabresi.



La feluca è una barca piccola, lunga dai 5 ai 7 metri, senza chiglia, alla quale veniva richiesta la massima stabilità, con un equipaggio di cinque rematori e un arpioniere. Questi cambiavano a volte disposizione, ad eccezione del quinto uomo che saliva sull'albero maestro per avvistare la preda.

Questa nuova imbarcazione di origine messinese, venne denominata Feluca e considerata una barca da posta, proprio per la sua mansione.  Per adempiere al suo compito, l’avvistatore necessitava di una posizione più elevata possibile: per questo motivo, a centro-nave, venne innalzata una torretta (detta ‘ntinna) alta dai 15 ai 22 m e dotata di opportuna scaletta, dalla quale era facile segnalare la posizione del pesce agli uomini dei luntri associati. Essi, rimasti in attesa del segnale, si lanciavano veloci all’inseguimento della preda utilizzando la stessa collaudata tecnica dei pescatori calabresi. Solitamente le feluche da posta erano due o tre, ancorate su zone diverse, in modo da ricoprire un più vasto campo d’avvistamento.

Dovendo fungere da osservatori fissi, le feluche non necessitavano di un proprio mezzo propulsivo; i luntri corrispondenti, quindi, le rimorchiavano sulle posteprestabilite.

Luntru GANZIRRI


“Il luntru, partendo dalla base delle pendici calabresi, si dirigeva rapido verso il pesce indicato, grazie a 4 rematori in piedi (introdotti a fine 800); una caratteristica di questa fase (inseguimento) era l’avanzamento di poppa del natante, il quale presentava ottime capacità manovriere anche contro corrente. I 4 remi erano, infatti, di grandi dimensioni in proporzione allo scafo: i due remi a poppavia erano lunghi entrambi 4.68 m; quelli a pruavia 5.46 e 5.72 m.

L’efficacia dell’inseguimento era garantita da un altro pescatore che, al vertice di un piccolo albero (detto farere) alto 3÷3.5 m e posto a centro-nave, dirigeva i rematori e il lanzaturi munito di fiocina”.


Questa bellissima foto scattata ai primi del ‘900, non ha bisogno di tanti commenti in quanto riprende il LUNTRE, una barca lunga 5,49 mt. larga 2,44 mt. ed alta 1,22 mt., al cui centro vi era un albero La FARIERA con tanto di fermapiedi, dove in piedi il VARDIANO stava di vedetta e IL LANZATURI era appostato di prora. L’imbarcazione, originariamente, era a remi, ed il suo equipaggio era costituito da 6-8 marinai.

Ci spiegano che per issare a bordo il pesce spada catturato, servivano un paio di uncini ed una corda; l’armamento era costituito anche da due cannistri”, vari tipi di coltelli, e il cosiddetto bumbuluper conservare l’acqua utile ai marinai per rinfrescarsi.

Tuttavia per entrare nello spirito vero di questa antica “caccia” al pesce spada, non possiamo che affidarci al racconto di chi VIVE da vicino la mattanza nel rispetto delle tradizioni e degli antichi rituali.

Da alcuni prestigiosi siti web locali riportiamo:


… ad esempio, nelle ultime sparute antiche palamitare, sopravvive l'uso di porre a prua un'asta con alla sommità una palla azzurra o rossa in legno, su cui erano dipinte le stelle dell'Orsa maggiore, separate da una fascia bianca, con probabile riferimento alla cultura fenicia.

Un rituale ormai svanito, anche se molte parole permangono nell'espressione dialettale, era quello di accompagnare la pesca con cantilene in greco, perchè la superstizione voleva che se si fosse cantato in altra lingua il pesce sarebbe andato perduto.

Meno intellettuale è il rituale della "runzata", che consisteva nel fare urinare le reti dai bambini, per augurio di una buona pesca.

Un altro rituale, che è divenuto col tempo una specie di diritto territoriale, era quello di suddividere le zone di mare in aree (posta) da assegnare agli equipaggi e in cui pescare.

Lo schiticchio o scialata era un pranzo o una cena abbondantissima che i padroni delle barche offrivano ai marinai nelle feste dei mesi invernali,  per sopperire, specie nei tempi in cui la fame si faceva più sentire, alle necessità alimentari della famiglie, che potevano, fra l'altro, rifornirsi per un po' di tempo con il cibo non consumato. Era anche l'occasione per contrattare gli uomini dell'equipaggio per la stagione successiva.
La tradizione dello schiticchio permane ancora oggi, ma al solo scopo di incontrarsi con gli amici in uno spirito di convivialità.

Cardata da cruci



La tradizione vuole che uno dei pescatori, ed esclusione del lanzaturi, cioè di colui che ha lanciato l’arpione, faccia la “cardata da cruci”, segni cioè con le unghie della mano, quattro croci accanto al foro dell’orecchio destro del pesce appena issato sulla barca. Si ritiene fosse un segno augurale, di prosperità o una sorta di riconoscimento “dell’onore delle armi” al pesce per il suo nobile valore di combattente.

 

In relazione alla cattura, la carne attorno al punto in cui si è conficcato l'arpione (botta) andava al ferraiolo (mestiere pressoché sparito), in qualità di proprietario dell'attrezzo, che veniva dato in affitto. Il taglio del ciuffo spettava invece al fiocinatore.

Ancora adesso, se si avvista una parigghia (un maschio e una femmina), la tradizione vuole che il primo pesce ad essere fiocinato sia la femmina, in modo che si possa fiocinare successivamente il maschio, in quanto questi resta nei paraggi nella ricerca della compagna.

Anche la nomenclatura volgare del pescespada è legata in qualche modo alla stagionalità della pesca, tanto che i pescatori, con un po' di fantasia, riescono ancora distinguere diverse varietà. Così c'è un ipotetico pisci i jùsu, un pisci 'i San Giuvanni, un pisci niru e addirittura un pisci invisibili.

Se per molto tempo non si riusciva a pescare pescespada, il rituale era quella della benedizione della barca da parte di un prete o nei casi più ostinati bisognava fare ricorso a formule magiche e pozioni le più disparate. Se la pesca tardava ancora ad essere proficua una ragazzina doveva fare la pipì sulla prua (questa pratica era in auge specie in Calabria).

In entrambe le sponde dello Stretto (SiciliaCalabria), si era soliti ringraziare, una volta pescato il pesce, il Santo protettore del “faliere” gridando “San Marco è binidittu”. Un ulteriore antico “rituale” era quello di tracciare con le unghie un croce quadrupla sul pesce spada, precisamente sulla guancia destra, simbolo di benedizione, di scongiura al malocchio, e di una pesca fruttuosa. Alcuni pescatori posizionavano nella bocca del pesce un pezzo di pane, mangiando delle parti crude dello stesso pescato.

Come si evince, si credeva molto al malocchio: anche i colori dell’imbarcazione, nero, verde e rosso, erano scelti come forma di scongiura.

PRIMI ANNI ’60 – LA SVOLTA

Evoluzione ed innovazione della feluca spadara:

La passerella


Quando il pesce spada veniva avvistato veniva segnalato da urla e sbandieramenti, diventava proprietà dell’equipaggio che l’aveva individuato, e la barca guadagnava così il diritto di “sconfinare” nei settori assegnati alle altre barche, fino alla eventuale cattura. Fino agli anni 50’ per la pesca al pesce spada si usava, come abbiamo visto, il “luntre”.

Oggi nello stretto e lungo la costa Calabra del Tirreno, per la pesca del pescespada si usano barche a motore che hanno un traliccio alto 20-25 m, alla cui sommità si trovano avvistatori e timonieri, e una passarella molto lunga, alla cui estremità va il fiocinatore (fureri).

FELUCA SPADARA MODERNA


1. dall’alto della ‘ntinna l’avvistatore individua il pesce spada e lo comunica sia al resto dell’equipaggio, che si trova sulla barca, sia al lanciatore a prua (sul luntru era poppa) appostato sulla passerella. Grazie ad un sistema di trasmissione, l’avvistatore manovra la feluca, potendo disporre di tutti i comandi necessari direttamente sulla cima della torretta (marcia avanti/indietro, acceleratore, timone). Quindi egli si occupa sia dell’avvistamento che dell’inseguimento del pesce spada, motivo per il quale il luntru ha lasciato il posto.

2. in perfetta armonia con l’azione dell’avvistatore (dettaglio non scontato), il fiocinatore si prepara al lancio dell’arma, spostandosi sulla passerella. Quest’ultima, a differenza dello scafo, risulta invisibile al pesce, grazie ad una struttura a traliccio (non genera ombra), e alla posizione emersa dall’acqua. Ciò permette al pescatore di avvicinarsi o addirittura trovarsi perfettamente al di sopra della preda.


Nel 1952 il pescatore Antonio Mancuso inventò la passerella per l’arpionaggio, un’innovazione che ha completato definitivamente l’aspetto funzionale della feluca, la barca moderna che ancora oggi si può ammirare in azione sullo stretto di Messina od ormeggiata sulla riviera dell’antico borgo di Torre Faro (Messina).

Con l’introduzione della passerella e l’avvento del motore, le tre fasi della strategia sono oggi tutte eseguite da un’unica imbarcazione. Poiché essa assume non solo il ruolo originario di barca da posta, ma anche di luntru aumentando il profitto globale dell’attività.

La ‘ntinna, un traliccio metallico, è stata elevata fino a 30÷35 m, dotata di collegamenti e leve di controllo del timone e del motore (dagli 80 ai 350 CV) ed equipaggiata di una coffa, dove si apposta l’avvistatore-timoniere.

Come a simulare la spada del pesce, la passerella(traliccio metallico orizzontale) si estende a pruavia della feluca per una lunghezza di 35÷40 m . Essa è in parte retrattile, sicchè può essere ritirata in caso di necessità.

Riguardo l’installazione dei due tralicci tra essi ortogonali, sono saldamente collegati tra loro e allo scafo tramite cavi d’acciaio e tiranti. Con questo complesso sistema di funi, i due oggetti si bilanciano, garantendo l’equilibrio strutturale del natante.

La lunghezza dello scafo della feluca spadara è di circa 25 m (esclusa la passerella) ed è ancora realizzata in legno. Rispetto al luntru, i colori scelti sono più vivaci (tradizionalmente il verde, il bianco, il rosso e l’azzurro). La feluca, quindi, si rivela essere un’incredibile macchina da pesca ed un simbolo della storia marittima siciliana.


Elenco dei siti consultati

https://www.vanillamagazine.it/la-pesca-al-pesce-spada-un-rituale-che-risale-all-epoca-di-greci-e-fenici/

L’antica pesca del pesce spada nello Stretto di Messina.

https://www.sicilying.com/#Sicilying: Tour e Vacanze in Sicilia

L’ecodelsud.it

Caccia al pesce spada, una tradizione della Costa Viola

Un viaggio tra Calabria e Sicilia alla scoperta delle antiche usanze dei pescatori

Rituali nella pesca del Pescespada nello Stretto di Messina

https://www.colapisci.it › Cola-Ricerca › Luoghi › Ritua...

La prima, veloce e maneggevole, era per la pesca diurna e veniva chiamata luntru. Luntru - Ganzirri. Luntru con il classico equipaggio. Il luntro aveva un ...

Ricerche correlate

pesce spada stretto di messinafeluca pesce spadabarca per pesce spada

pesce spada periodo di pesca 2020pesca al pesce spadapasserella pesce spada

Pesca del pesce spada nello stretto di Messina - Taccuini ...

https://www.taccuinigastrosofici.it › antica › usi-costumi

Gli originari posti di avvistamento (torrette che si trovavano specie sulla costa calabra) sono stati, quindi, abbandonati e la caccia al pesce spada, dopo ...

La caccia al pesce spada nello Stretto di Messina

https://www.edas.it › Collana Messina e la sua storia

BATTUTA DI CACCIA AL PESCE SPADA - PAN Travel ...

https://www.pantravelsolution.com › servizi › servizio-1


Ringrazio sentitamente gli Amici siciliani che ci hanno concesso la divulgazione al NORD di questa meravigliosa AVVENTURA!

Carlo GATTI

Associazione MARE NOSTRUM RAPALLO

Rapallo, 7 Settembre 2021

 


STRETTO DI MESSINA-ULISSE - MITI E LEGGENDE

STRETTO DI MESSINA

PRIMA PARTE

ULISSE - MITI E LEGGENDE

Lo Stretto di Messina (u Strittu), chiamato nell'antichità Stretto di Scilla e Cariddi, è un braccio di mare che collega il Mar Ionio con il Mar Tirreno, separa la Sicilia dalla Calabria e l'Italia peninsulare dal continente.


Perché parlare di ULISSE nel 2021?

Perché il difficile passaggio dello Stretto di Messina, appartiene alla storia dell’eroe omerico, al suo mare minacciato da Scilla e Cariddi, dalle Sirene e dai Mostri che oggi portano nomi scientifici, ma sono ancora il retaggio di superstizioni vive che ci riportano all’Ulisse uomo di mare che ancora ci illumina come un faro.

ULISSE è uno dei personaggi più amati della letteratura di tutte le epoche, uno dei pochi “miti” capace di passare da un’opera all’altra nella perenne “odissea” della vita, tanto che questo celebre nome è diventato sinonimo del “viaggio” terreno dell’umanità tra le infinite difficoltà che incontra ogni giorno. E si può ancora dire che dai secoli di Omero, 800 avanti Cristo fino al Terzo Millennio, Ulisse c’è, e sta ancora viaggiando perché è dentro ognuno di noi!

La sua fama, così duratura nel tempo, è indice della sua innata modernità imbevuta di malizia, individualismo e intelligenza. Il suo sempre attuale carisma è il riflesso di tante capacità che entrano in gioco nei momenti più difficili: sopportazione, curiosità, diffidenza, pazienza, coraggio e astuzia militare. Non solo! Perché Ulisse è l’emblema dell’ingegno, della calcolata freddezza che gli permette d’uscire sempre indenne dalle tempeste della vita usando qualsiasi mezzo, anche estremo.

Ma prima di immergerci nelle “acque infide dello Stretto” ci è caro fare una breve premessa da uomini di mare ...

Chi ha navigato nello Stretto di Messina più volte nelle due direzioni, in tutte le stagioni e con qualsiasi tempo, sa quanto possano sembrare "impressioni di realtà" le leggende che avvolgono quel passaggio. Oggi, naturalmente, quelle leggende hanno una spiegazione scientifica che vieta ogni riferimento ai mostri marini, alle sirene, ai miraggi ed altro, tuttavia i pericoli nello Stretto ci sono sempre e si chiamano vortici, scontro di correnti di marea, differenza di temperatura tra il mar Ionio ed il Tirreno che tra poco approfondiremo, infine c’è il traffico intenso di navi che incrociano da tutti i quadranti della bussola e che oggi, nonostante il transito sia regolamentato e controllato, è più sicuro ma non per questo è privo di pericoli.

Per entrare ancor più nell’attualità dell’argomento, chi scrive può testimoniare d’aver perso il controllo del governo di una petroliera di 30.000 tonnellate nell’attraversamento dello Stretto per almeno 30 lunghi secondi, a causa dei vortici di Cariddi. In un’altra occasione, per la stessa causa, sempre risalendo lo Stretto da Sud a Nord, con a rimorchio una nave da carico, con il cavo ridotto a 600 metri, perdemmo il controllo della rotta e fummo costretti ad issare i fanali rossi di non governo, ad emettere un Avviso radio di Sicurezza circolare a tutte le navi in transito ed infine a compiere un cerchio in un momento di traffico intenso…

Chi conosce la realtà dello Stretto ha le sue avventure da raccontare…

Posso inoltre confermare che molti Comandanti stranieri che navigano in direzione Suez-porti tirrenici e viceversa, preferiscono evitare il transito dello Stretto per motivi di sicurezza.

Non so esattamente quante siano state le collisioni avvenute nello Stretto nel tempo, ma ormai da parecchi anni, ogni nave si stazza superiore alle 15.000 tons deve prendere obbligatoriamente il Pilota di Messina per il transito nelle due direzioni.

Un po’ di Storia…

Lo Stretto era probabilmente praticato in epoca preistorica dai Sicani e poi dai Siculi, che in tempi diversi dovettero passare dal continente nell’isola. Dopo l’VIII secolo a.C., in seguito alla conquista dei Greci, lo Stretto divenne più noto, perché transitato dai fondatori di Cuma e di altre città. In seguito gli Ioni, fondatori di Zancle (Messina), vollero che sulla riva opposta sorgesse una città sorella, in modo da controllare questo vitale passaggio. Gli Etruschi ottennero il libero transito finché, dopo la sconfitta subita a Cuma (474 a.C.), perdettero il dominio del mare. Subito dopo lo Stretto divenne oggetto di fiere contese tra Reggio e Siracusa, alleata di Locri. In seguito alla distruzione, da parte dei Cartaginesi, di Messana (396 a.C.), rapidamente risorta e divenuta siracusana, la questione dello Stretto, che per tre secoli aveva indotto le città achee a trovarsi scali sul Tirreno attraversando i monti, venne finalmente risolta da Dionisio il Vecchio dopo che questi ebbe conquistato Reggio (387 a.C.). Nel III secolo a.C. fu Roma a mirare alla padronanza dello Stretto (Fretum Siculum), per la lotta contro Cartagine e il possesso della Sicilia. Con il predominio romano del Mediterraneo, l’importanza dello Stretto diminuì, rimanendo però sempre notevole, anche nel medioevo, per i commerci col Levante e per le imprese militari, allorché la Sicilia passò via via ai Bizantini, agli Arabi, ai Normanni e agli Svevi.

Guida d’Italia. Basilicata e Calabria, Touring Club Italiano, Milano 1980

Ma ora ritorniamo ad ULISSE e alla sua STORIA mitologica

Uno degli episodi più celebri è raccontato nel libro XII, dell’Odissea di Omero, quando Ulisse e la sua ciurma, provenienti dall’Isola di Circe (Circeo) navigano verso Sud per ritornare ad Itaca. Lo Stretto si mostra dinanzi ai loro occhi, e per proseguire il viaggio devono attraversarlo; tuttavia, sulla sponda sinistra, sopra uno scoglio, si erge un terribile mostro a sei teste, Scilla, (lato Calabria) mentre sul lato destro risiede un letale mostro marino, Cariddi (lato Sicilia).

La necessità di percorrere la via di mezzo, o quasi, è diventata proverbiale: infatti, quando si afferma di ‘essere tra Scilla e Cariddi’, s’intende il trovarsi in una posizione problematica.

Ulisse sa (perché la maga Circe glielo aveva rivelato) che sebbene Scilla possa attaccarlo con le sue sei mostruose teste (ognuna delle quali contiene tre file di denti aguzzi), e quindi afferrare e uccidere sei dei suoi uomini, Cariddi rappresenta una minaccia ancora più letale, poiché essere risucchiati dai vortici marini che il mostro marino provoca tre volte al giorno, si rivelerebbe fatale per l’intera nave e tutti gli uomini a bordo.

Perciò Ulisse deve navigare nel mezzo, consapevole che se ci dovesse essere un margine di errore sarebbe meglio tendere leggermente a sinistra, verso il lato di Scilla, piuttosto che a destra, poiché in quest’ultimo caso andrebbe incontro alla distruzione totale. Emozionante! Questa difficile situazione è senz’altro una metafora della vita stessa.


“Da una parte ci sono rupi aggettanti, contro cui si frange
con grande fragore l’onda di Anfitrite dagli occhi scuri:
gli dèi beati le chiamano Le erranti.
Di lì non passano neppure gli uccelli, né le trepidanti
colombe, quelle che a Zeus padre portano ambrosia.
Sempre qualcuna ne toglie la roccia liscia,
e il padre un’altra ne manda che ristabilisca il numero.
Di lì mai sfuggì nave di uomini che vi fosse giunta,
ma tavole di navi e insieme corpi di uomini trascinano via
le ondate del mare e i vortici di fuoco funesto.
Una sola nave di lungo corso di lì è riuscita a passare,
Argo da tutti celebrata, che tornava dal paese di Aieta”.

Lì dentro abita Scilla dal latrato inquietante:
la sua voce è pari a quella di una cagnetta poppante,
ma essa è invece un mostro malvagio, e nessuno
a vedersela di fronte gioirebbe, nemmeno un dio.
Dodici sono i suoi piedi, e tutti malformati,
ha sei colli lunghissimi, e ciascuno ha una orrida
testa, e in ognuna ci sono tre file di denti,
moltissimi e fitti, pieni del nero della morte.
Per metà sta sprofondata nell’antro profondo,
ma dal terribile baratro tiene fuori le teste.
Qui pesca, frugando lo scoglio all’intorno,
delfini, pescicani e mostri più grandi, se càpita,
afferra, quanti innumerevoli nutre la mugghiante Anfitrite.
Di lì con la nave nessuno si vanta di esser fuggito
indenne da morte; con ogni singola testa un uomo si prende:

lo afferra da sopra le navi dalla prora scura.

L’altro scoglio vedrai, Ulisse, molto basso, l’un all’altro
vicini: un tiro di freccia la distanza percorre.
Su di esso è un gran fico selvatico, fiorente di foglie.
Sotto, Cariddi divina risucchia l’acqua scura.
Tre volte al giorno emette, tre volte risucchia,
terribile. Che tu non sia lì quando inghiotte:
nemmeno l’Enosictono ti salverebbe da morte.
Accòstati molto allo scoglio di Scilla e presto
porta fuori la nave. Molto meglio sei compagni
piangere sulla nave che non piangerli tutti’.

“Solcavamo gemendo l’angusto passaggio:/ da una parte era Scilla, dall’altra Cariddi/ divina, che l’acqua salata inghiottiva del mare/ con suono tremendo, che poi rigettava di fuori/ e tutta in gorgoglio travolta bolliva/ come una caldaia sul fuoco che arde:/ la schiuma in alto lanciata giù ricadeva/ battendo le cime d’entrambi gli scogli./ E quando di nuovo l’acqua salata inghiottiva/ del mare pareva sconvolgersi dentro;/ […] lo sguardo era fisso a Cariddi, fisso alla morte./ Fu allora che Scilla ghermì dalla nave/ concava sei dei compagni, i più forti;”

Ulisse (Odisseo) tenta di superare i mostri Scilla e Cariddi. Scilla mangia sei volte sei compagni di Ulisse, mentre Cariddi risucchia le acque. Dopo aver affrontato i due mostri, Odisseo, approdato con i suoi compagni sull'isola di Trinacria, non riesce a frenare la voglia dei compagni di banchettare con le invitanti mucche di Elio (altre versioni dicono di Era o Apolo). Per questo Odisseo racconta di essere stato per nove giorni in balia di terribili tempeste scatenate da Zeus, con la nave e i compagni uccisi da Scilla.

Ulisse riesce così ad evitare il naufragio dell’intera nave sacrificando però sei dei suoi compagni, e tristemente continua il suo viaggio fino a Itaca.


In realtà, proprio dove il mito si fonde con la leggenda e dove i racconti antichi trovano poi riscontro, ecco che ci si chiede: ma chi erano Scilla e Cariddi?

Due ninfe diventate mostri


Le statue di Scilla e Cariddi scolpite da Giovanni Angelo

Montorsoli sulla fontana di Orione a Piazza Duomo.

Ci sono diversi racconti popolari tradizionali che hanno fatto nascere molte leggende attorno a Scilla e Cariddi, ma è certo che prima di essere tramutate in due mostri, esse erano due bellissime ninfe del mare.



SCILLA

Scilla, dagli occhi azzurri, era figlia di Forcis e Ceto, figlia di Gea e Ponto, anch’esso un mostro simile ad una balena. Secondo il mito, Scilla vive presso le rive di Zancle, in Calabria, e lì che incontrò Glauco, figlio di Poseidone, che s’innamorò perdutamente di lei.

Ciò nonostante la ninfa respinse il dio marino e quest’ultimo chiese aiuto a Circe, per conquistarla. La maga, però s’innamorò di Glauco e gli chiese di diventare il suo compagno, ma egli rifiutò, perché era completamente rapito da Scilla. Allora la maga trovò il modo di rifilare alla bella ninfa un filtro, che la trasformò in un essere mostruoso, dalle molte gambe serpentine, alle cui estremità si trovano delle bocche con cui divorava i marinai. Scilla, allora, si rifugiò in una grotta, nello stretto di Messina, insieme a Cariddi. Una immagine spaventosa che ha alimentato la loro fama.

La storia è diversa per Cariddi, una naiade figlia di Poseidone e di Gea, ma a differenza della prima, lei era dedita alle rapine prima di diventare un mostro, ed era nota per la sua voracità. Zeus, dopo che ella rubò dei buoi a suo figlio Eracle e a Gerione, il gigante a tre teste, decise di punirla gettandola in mare e trasformandola in un mostro orrendo, simile a una lampreda.

Si dice che per risucchiare le sue vittime, Cariddi creava dei veri e propri vortici nel mare, dove le navi affondavano e lei poteva soddisfare la sua voracità. Lo stesso avvenne poi nei racconti narrati nell’Odissea, dove lo stesso Ulisse si trovò ad affrontare i due terribili mostri.



Geograficamente Cariddi è collocabile sulla punta messinese della Sicilia, a Capo Peloro.

Scilla è sulla spiaggia calabrese, da Punto Pizzo ad Alta Fiumara.

OMERO - ODISSEA

SCILLA E CARIDDI

 

L’altro scoglio, più basso tu lo vedrai, Odisseo, / vicini uno all’altro, / dall’uno potresti colpir l’altro di freccia. / Su questo c’è un fico grande, ricco di foglie; / e sotto Cariddi gloriosamente l’acqua livida assorbe. / Tre volte al giorno la vomita e tre la riassorbe / paurosamente. Ah, che tu non sia là quando riassorbe.

A rendere un’Odissea il passaggio nello Stretto, sin dai tempi in cui Messina era una perla della Magna Grecia, erano soprattutto le correnti irregolari e imprevedibili, capaci di raggiungere una velocità di svariati km/h e di generare vortici letali. Fra questi, due in particolare avevano le sembianze mostruose di esseri ultraterreni, Cariddi (“Colei che risucchia”) sul versante siculo, nei pressi di Torre Faro, e la dirimpettaia Scilla (“Colei che dilania”), nello specchio d’acqua su cui si specchia Cannitello, fra Alta Fiumara a Punto Pezzo.

Figlia di Poseidone (dio il mare) e di Gea (dea la terra), Cariddi. Punita da Zeus per la sua insaziabile voracità e trasformata in un mostro marino, funestava le imbarcazioni in transito sullo Stretto, ingoiando tre volte al giorno un enorme quantità d’acqua per poi sputarla, “deglutendo” barche e marinai. A parlare di Cariddi sono Omero, nel canto XII dell’Odissea, Virgilio, nell’Eneide, e anche Dante, che nell’Inferno si serve dell’immagine del mostro marino per descrivere l’eterno scontrarsi degli avari e dei prodighi: era una delle Naiadi (ninfe che presiedono a tutte le acque dolci della terra) che secondo alcune versioni avrebbe prima rubato e poi divorato i buoi.

(«Come fa l’onda là sovra Cariddi, / che si frange con quella in cui s’intoppa, così convien che qui la gente riddi»).

LA LEGGENDA DELLA FATA MORGANA



Stretto di Messina - La leggenda di Fata Morgana

Una illusione Ottica

di Carlo GATTI

LINK

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=336;morgana&catid=54;saggi&Itemid=160

Dalla costa reggina molto di rado, per breve tempo e di solito in giornate calde e con aria e mare calmi, si produce il noto fenomeno di miraggio detto fata morgana, che dà l’impressione di un avvicinamento della costa sicula, gli edifici della quale si prospettano in mare o nell’aria con immagini stranamente allungate, deformate, sempre nuove, simulando città fantastiche e anche schiere di uomini in moto.

La leggenda ci tramanda che, dopo aver condotto suo fratello Artù ai piedi dell'Etna, Morgana si trasferisce in Sicilia tra l'Etna e lo stretto di Messina, dove i marinai non si avvicinano a causa delle forti tempeste, e si costruisce un palazzo di cristallo.


Sempre in base alla leggenda, Morgana esce dall'acqua con un cocchio tirato da sette cavalli e getta nell'acqua tre sassi, il mare diventa di cristallo e riflette immagini di città. 

Grazie alle sue abilità, la Fata Morgana riesce ad ingannare il navigante che, illuso dal movimento dei castelli aerei, crede di approdare a Messina o a Reggio, ma in realtà naufraga nelle braccia della fata.


Guardando da Messina verso la Calabria, si vede come sospesa nell'aria l'immagine di Messina e, viceversa, guardando da Reggio Calabria verso Capo Peloro, si vede Reggio nello stretto.

 

RIENTRIAMO ORA NEL TERZO MILLENNIO

Siamo nel 2021 e dobbiamo precipitosamente ritornare con i piedi sulla terraferma per rivolgerci alla SCIENZA che ci spiega in breve cosa succede da sempre nello Stretto:

Il braccio di mare che separa la Calabria dalla Sicilia è largo oltre 3 chilometri a nord, fra Torre Cavallaro e il Capo Peloro, e 16 chilometri circa a sud, fra la Punta Péllaro e il Capo d’Alì; nel senso della lunghezza si estende per 33 chilometri. La profondità varia da 120 a 150 metri nel punto più stretto. Contrariamente all’opinione, diffusa nell’antichità dai filosofi greci, che lo Stretto fosse stato aperto da un terremoto o dalla furia del mare agli albori della storia, i moderni studi geologici hanno dimostrato ch’esso esiste da tempi molto remoti: per lo meno dall’epoca in cui ebbero luogo quei movimenti della crosta terrestre che furono alla base della struttura dell’Appennino; lo Stretto, anzi, doveva essere più largo di oggi. La navigazione in esso fu ritenuta pericolosa fin dall’antichità e in effetti presenta difficoltà soprattutto per le correnti rapide e irregolari e per i venti che vi spirano violenti e talvolta in conflitto.

La corrente principale, dovuta al livellamento dei bacini tirrenico e ionico attraverso lo Stretto e al relativo flusso, va da sud a nord col nome di rema montante; quella determinata dal riflusso, con direzione opposta, si chiama rema scendente. Queste correnti toccano una velocità massima di oltre 9 chilometri all’ora e si alternano di sei in sei ore; di norma raggiungono l’intensità massima dopo 4 ore dall’inizio e diminuiscono fino a mezz’ora prima della corrente opposta. Ogni corrente ha ai lati i bastardi, cioè controcorrenti, che si sviluppano in località note circa un’ora dopo l’inizio della corrente. Nei punti d’incontro di correnti opposte, oppure dove una corrente trova notevoli differenze di fondo, si formano vortici detti garófali o réfoli, di cui i principali sono quelli chiamati dagli antichi Scilla e Cariddi, che si formano con la montante, il primo sulla costa calabrese da Alta Fiumara a Punta Pezzo, il secondo alla spiaggia del Faro. I due famosi vortici derivano dall’urto delle acque contro la Punta Torre Cavallo e il Capo Peloro. Cariddi talvolta è accompagnato da un rimescolio delle acque così violento da mettere in pericolo le piccole imbarcazioni. Notevole è anche il vortice che si forma, con la scendente, davanti al faro di Messina e con i venti sciroccali e in giorni di luna piena o nuova rende il mare agitato tra la Grotta e le acque di San Ranieri. Altri garófali sono a Sant’Agata, Punta Grotta, San Salvatore dei Greci, Punta Pezzo e Catona.

Le acque dello Stretto con la montante si abbassano di circa 15 o 20 centimetri; con la scendente si alzano di altrettanto, con un dislivello massimo di mezzo metro. Le depressioni maggiori si hanno in agosto, le elevazioni massime in novembre, dicembre e parte di febbraio. Nei giorni di maggior forza delle correnti, la montante è sempre più violenta della scendente e riesce a strappare dal fondo erbe e alghe. Quando è rafforzata da particolari condizioni meteorologiche getta sulle spiagge di Ganzirri, del Faro e anche di San Ranieri, pesci abissali dagli occhi atrofizzati, con organi produttori di fosforescenza e di forme inconsuete.

Si conclude così il nostro breve viaggio virtuale nello STRITTU che ci ha portato a ritroso nel tempo, quando il breve tratto di mare era “popolato” da mostri, divinità e strane creature, fra misteri, prodigi e fenomeni atmosferici (all’epoca) inspiegabili. Una leggenda siciliana che ispira la fantasia e ci riporta alla memoria viaggi e avventure che hanno reso l’attraversamento dello Stretto di Messina una prova di coraggio nell'immaginario collettivo.

Possiamo definirlo lo Stretto del Mito, reso immortale da alcuni dei più grandi scrittori di sempre, affascinati dalla suggestione di un luogo che nei secoli ha terrorizzato viaggiatori e marinai a causa soprattutto della sua variegata fauna e del perenne scontro fra lo Jonio e il Tirreno.

Millenni di storia e leggenda in un luogo unico al mondo.

Carlo GATTI

Rapallo, 1 Settembre 2021

 


DAL GARUM ALLA COLATURA DI ALICI DI CETARA

DAL GARUM ALLA COLATURA DI ALICI DI CETARA


Porto di Pompei

Con il termine garum si designava quel particolare condimento ottenuto dalla macerazione e dall’auto digestione enzimatica di alcune varietà di pesci. Il sale che veniva aggiunto aveva la funzione di conservante. Le sostanze proteiche degradate dagli stessi enzimi presenti nelle interiora del pesce avevano la funzione di creare aminoacidi liberi, grassi polinsaturi e lipidi essenziali.

Nel porto di Pompei arrivavano anche mercanzie da ogni luogo del Mediterraneo Abbiamo ampie prove di questi traffici commerciali che venivano regolati dalle esigenze di mercato. Presso il Museo Archeologico di Boscoreale sono esposti alcuni esempi di anfore per il trasporto del vino, dell’olio e del garum. La differente morfologia delle anfore, i bolli di fabbrica e le iscrizioni dei contenuti ci fanno comprendere come questi prodotti tipici dell’industria locale venissero trasportati attraverso il mare anche a terre lontanissime.

Il garum di Pompei era servito sulle tavole delle ricche dimore da Leptis Magna a Sidone, da Argo a Tarros, da Gibilterra a Cipro. Un commercio fiorentissimo che connotava rotte e guidava l’economia verso prodotti tipici e oggettivamente validi.

La nostra salsa aveva probabilmente un gusto acidulo ed odoroso di mare. Un forte carattere la distingueva, soprattutto se associata a pietanze quali le cacciagione, i crostacei, ed anche le stesse zuppe di pesce. Nella lingua greca oggi alcuni tipi di pesci piccoli e saporiti e le stesse alici si definiscono con il termine “gavros” ossia ΓΑΥΡΟΣ. Possiamo pensare quindi che le stesse radici gastronomiche di questo condimento, già esistevano tra i popoli del bacino orientale del Mediterraneo. Lo stesso sale ad esempio, utilizzato come conservante naturale delle proteine era noto nel mondo egizio, dove veniva utilizzato miscelato ad altre sostanze per formare il natron.

 

Navigando qua e là per il WEB mi sono imbattuto, per una strana duplice coincidenza.


GARUM MARE NOSTRUM


La prima è che il Garum é una mia vecchia conoscenza di quando mi capitava di visitare i musei di archeologia marina; la seconda é Mare Nostrum, nome che conosco “abbastanza” bene…

Ho pensato quindi di passare la parola a questi nostri Amici di Viareggio che non conosco, ma che sento in qualche modo vicini ai nostri ideali. Non è quindi un caso che il nostro Presidente Agostino Lertora, oltre ad essere un provetto nuotatore e pescatore subacqueo, abbia pure una certa fama di cuoco specializzato in piatti di pesce, come gli amici di F/b ben sanno. La sua fama, per dire il vero, abbraccia anche l’arte pittorica di quel settore, come dimostra la foto che segue:

La parola agli esperti!

“Negli ultimi anni la nostra associazione, nell’ambito dei suoi progetti di ricerca e di studio , sta operando per la valorizzazione delle qualità nutraceutiche del pesce, ed in particolare del pesce azzurro, comunemente identificato con l’appellativo di “pesce povero”.
L’interesse per questa iniziativa è motivata dalla scarso gradimento che i bambini e le bambine hanno nei confronti del pesce, e della scarsa conoscenza delle sue qualità salutistiche.
Il nostro progetto sul pesce coinvolge i pescatori dei nostri mari, ed è condotto con la collaborazione di enti pubblici, fra i quali il Comune di Viareggio, dove è presente la più importante realtà di pescatori della Toscana; la Regione Toscana, che da alcuni anni sostiene progetti legati alla valorizzazione dei prodotti locali nell’ambito delle filiere corte e della ristorazione scolastica.


Nel lavoro di studio e di ricerca sulla tipicità, sulle tradizioni e sul nostro patrimonio alimentare legato al pesce, abbiamo intercettato il
garum, un condimento a base di pesce azzurro, fra i più noti dell’antichità e che i romani adoravano e producevano in grandi quantità nell’area del Mediterraneo.


Dai nostri studi e ricerche abbiamo rilevato che questo condimento con molta probabilità prende il nome da un pesce “Garos”, da cui è derivato il nome “Garon“ usato dagli antichi Greci, e il nome
“Garum” usato dai Romani.


A partire dal II sec. A.C. questa salsa di pesce, usata prevalentemente come condimento ebbe un successo crescente. La qualità del
garum veniva indicata con lettere dipinte sulle anfore ed assicurava anche l’anno di produzione. Le migliori salse erano denominate Garum Excellens (ottenuto con alici e ventresche di tonno); Garum Flos Floris (ottenuto con sgombri, alici, sardine); Garum Flos Murae (ottenuto dalle murene). Il garum prodotto nelle colonie romane dell’Africa settentrionale, della Spagna, veniva chiamato Garum Sociorum. Una delle più importanti officine per la produzione del garum si trovava a Pompei.
Il
garum veniva utilizzato sia come condimento, sia come ingrediente di cottura. Con il garum si insaporivano i funghi e le uova, mescolato all’aceto o ad altre erbe aromatiche, costituiva una salsa di condimento delle carni o del pesce alla brace.


Le sue qualità medica mentali erano altrettanto note: efficace disintossicante e antidolorifico. Le sue proprietà energetiche erano utilizzate dagli eserciti per le loro operazioni militari.
Molte sono le citazioni che si ritrovano sul
garum in epoca romana, il che confermerebbe la sua larga diffusione in tutta l’area del Mediterraneo e i suoi molteplici usi in cucina e come elemento altamente energetico. Fra le citazioni più note, possiamo ricordare quelle di Apicio nel “De ReCoquinaria”; Marziale; Varrone; Plinio Il Vecchio in Naturalis Historia; Columella nel De Rustica.


Il
garum resterà presente nella tradizione gastronomica alto medievale, con fabbriche di produzione a Bisanzio e nell’area adriatica, per avviarsi successivamente verso un progressivo declino. Uno dei principali ed ultimi porti di smercio di questo prodotto è stata la citta’ di Lunae (Luni) in Liguria.


Ai giorni nostri si producono alcune salse a base di pesce, con procedimenti diversi, fra le quali la colatura di
Alici di Cetara.


Il progetto di recupero del
garum, ed in particolare la produzione del “Garum Mare Nostrum” è iniziato tre anni fa.


Nel mese di luglio del 2011 si è realizzata una prima produzione sperimentale del garum mare nostrum. In particolare gli ingredienti usati sono stati: pesce azzurro (alici, sgombri, sardine) pescato nel Mar Tirreno; sale marino integrale; erbe aromatiche della macchia mediterranea (rosmarino, alloro, timo), seguendo alcune tecniche di produzione e conservazione da noi codificate, con riferimento alle fonti storiche”.

Noi possiamo solo aggiungere che la qualità del Garum in antichità veniva indicata con lettere dipinte sulle anfore ed assicurava anche l’anno di produzione. Nella casa di Paquius Proclus, personaggio in vista nell’ultimo periodo di Pompei, è stata trovata un’anfora contenente Garum stagionato di tre anni: ciò dimostra che questa salsa può essere conservata per lungo tempo.
Esisteva un Garum ordinario e uno di qualità, a seconda dell’utilizzo di residui di pesci di vario tipo o piccoli pezzi di pesce scelto. Il Garum migliore era il gari flos, il fiore del Garum, il più puro, il primo liquido filtrato; il Garum nigrum godeva di grande reputazione e si vendeva in vasetti.

Le migliori salse erano così denominate:


Garum Excellens, ottenuto con alici e ventresche di tonno;
Garum Flos Floris, (tipo extra) ottenuto con diverse qualità di pesci (sgombri, alici, tonni, ecc.);
Garum Flos Murae, ottenuto dalle murene.


Altri tipi di Garum si riferiscono a particolari commistioni, come l’Oxygarum, una sorta di bevanda digestiva con numerose erbe tritate, l’Hydrogarum che era lavorato con erbe aromatiche. L’Halex o Allec era il residuo del Garum, ma poteva essere fatto anche con pesci delicati; Apicio inventò un Allec da fegato di triglia (mullus) che faceva macerare nel Garum, il quale ricorda l’olio di fegato di merluzzo considerato nel passato un potente ricostituente per i bambini.


Tre anfore per il garum

Il miglior Garum veniva prodotto da una cooperativa di Cartagine, il cosidetto Garum Sociorum, che si produceva con il gusto prevalente dello sgombro. Un’anfora di sei litri di Garum Cartaginese costava allora mille sesterzi (circa mille euro attuali). Ottimi e più economici erano i tipi prodotti a Pompei, Antibes (sulla Costa Azzurra) ed in altri pochi centri del Mediterraneo.


Garum ottenuto dalla riproduzione sperimentale (GARCÍA VARGAS)


“Garum di Pompei” in fase di preparazione

 

Il garum, nota e famigerata salsa di pesce fermentato, era molto diffuso e apprezzato nel mondo romano; non solo infatti era un metodo, alternativo alla salagione a secco (salsamentum), di conservare il pesce, ma forniva all’alimentazione un buon apporto di sale e serviva a esaltare il sapore di quasi ogni piatto, grazie all’elevata quantità di glutammato (quello che oggi troviamo nel dado da cucina o nella salsa di soia). La lavorazione del pesce, tanto salato quanto in salse, ha origine mesopotamica ed egizia risalente al III millennio a.C., o ancor prima; essa passò poi al Vicino Oriente e fu nota fin dal VII secolo a.C. ai Greci, i quali chiamavano tarichos il pesce salato e garon la salsa, per la quale utilizzavano una specie di piccolo pesce non meglio identificato, il garos. Contemporaneamente, con le loro colonizzazioni, i Greci portarono la produzione in occidente, ma non bisogna dimenticare anche il ruolo dei Fenici, specialmente verso le coste iberiche, che non a caso in seguito saranno i maggiori e migliori produttori. Furono proprio i Fenici a dare inizio a una pesca intensiva, finalizzata alla lavorazione, in particolare nelle aree limitrofe allo stretto di Gibilterra, passaggio obbligato dei tonni nelle migrazioni fra Mediterraneo e Atlantico. Fenicio è il primo impianto di produzione noto, con vasche per la salagione, a Gadir, l’odierna Cadice, risalente al V secolo a.C. Furono, di nuovo, i Fenici a generalizzare l’uso di anfore per il trasporto di questi prodotti, rinvenute in tutto il Mediterraneo. I Romani, poi, recepirono anch’essi queste tecniche e, con l’aumento della domanda, nacque una produzione “industriale”, destinata al commercio anche a lungo raggio, tramite delle anfore specializzate. I centri produttivi romani, detti cetariae, più numerosi e grandi di quelli fenici, si concentrarono soprattutto sulle coste, sia atlantiche che mediterranee, della Baetica, nel sud dell’Hispania. Altri importanti esportatori furono le province dell’Africa settentrionale e la Sicilia, ma Plinio ricorda come centro di produzione rinomato anche Pompei. Una delle cetariae meglio note e studiate è quella di Baelo Claudia, sempre vicino a Cadice. Questi impianti producevano probabilmente tanto il garum quanto il salsamentum e sono caratterizzati da vasche per la salagione, generalmente quadrangolari, ma a volte anche circolari, come alcune di Baelo Claudia che, per le grandi dimensioni, potrebbero essere state destinate a dei cetacei.





La Colatura di Alici è il prodotto principe del borgo marinaro di Cetara, splendida cittadina dell’illustre Costiera Amalfitana. Il liquido di colore ambrato, dalle presunte origini asiatiche e ben noto successivamente agli antichi romani, si ottiene dalla lunga maturazione delle alici sotto sale.

La ricetta venne poi in qualche modo recuperata nel Medioevo da parte dei gruppi monastici presenti in Costiera Amalfitana, i quali ad agosto erano soliti conservare sotto sale le alici in botti di legno con le doghe scollate e poste in mezzo a due travi, dette mbuosti; sotto l'azione del sale, le alici perdevano liquidi che fuoriuscivano tra le fessure delle botti. Il procedimento si diffuse successivamente tra la popolazione della costa, che la perfezionò con l'utilizzo di cappucci di lana per filtrare la salamoia.

La colatura d'alici viene soprattutto utilizzata come condimento di spaghetti, ma anche per insaporire piatti a base di pesce o verdure, come ad esempio la scarola per la pizza ripiena; inoltre con verdure saltate in padella con olio, aglio e peperoncino, quali bietole, spinaci, ecc. Da alcuni è apprezzata anche come condimento per pomodori, olive, persino per panini farciti e uova cotte in vari modi.

“Un prodotto simbolo importante per il rilancio della enogastronomia – dichiara Mauro Rosati, direttore Generale Qualivita – che, data la notorietà che aveva assunto a livello nazionale ed internazionale in questi anni, ora potrà essere tutelato dalle imitazioni”.


Sicuramente abbiamo sentito parlare di Marco Gavio Apicio, un ricco romano vissuto nel I secolo d.C., e del suo “De re coquinaria”, preziosa fonte di informazionI sulle abitudini alimentari degli antichi romani.

Con le sue 478 ricette, alcune delle quali assai stravaganti, ci trasmette la cultura gastronomica del tempo, conosciuta e praticata nelle case dei ricchi, naturalmente. Singolare è la continuità che si riscontra con alcune preparazioni gastronomiche in uso ancora oggi, divenute col tempo vere prelibatezze.

Sembra infatti che Apicio, da grande buongustaio quale era, avesse trovato il modo per ottenere una pietanza simile al moderno foie gras, ingozzando le povere oche con i fichi!

Ma è il garum il vero protagonista della ricca tavola romana, una salsa ottenuta dalla fermentazione di interiora di pesce, il cui solo pensiero sicuramente ci disgusterebbe.


Sorprendentemente esiste un erede del garum nella cucina italiana: la colatura di alici.

Non si produce con interiora, ma con alici eviscerate, ma chissà se la più antica tradizione prevedesse l’uso di alici intere.

Attualmente il borgo di pescatori di Cetara, situato in costiera amalfitana, detiene il primato nella produzione della colatura di alici.

Il garum era preparato mescolando le interiora di pesce con sale e diversi tipi di spezie. Il tutto veniva fatto macerare esponendolo al sole per un paio di mesi.

Il liquido che si formava veniva filtrato, ed era la parte più preziosa, il garum appunto.

la parte solida serviva per la preparazione di un altro tipo di salsa, l’allec.

A Cetara le alici impiegate per la trasformazione sono tradizionalmente quelle pescate tra il 25 marzo, festa dell’Annunciazione, e il 22 luglio, S. Maria Maddalena.

Dopo essere state pulite (vengono rimosse testa e interiora), le alici vengono prima tenute per una giornata in grandi vasi con abbondante sale, poi poste in botticelle chiamate terzigni, a strati alternati con il sale.






CARLO GATTI

Rapallo, 28 Gennaio 2021


NAVI E STELLE


NAVI E STELLE

Tipo di astro

Costellazione

Nome

Tipo di nave

Dal

Al

MOTTO, traduzione e note

Costellazione

ANDROMEDA

Andromeda

Torpediniera

1936

1941


Costellazione

ANDROMEDA

Andromeda

Avviso scorta

1943

1971

Marina USA, come Caccia di scorta, dal 1943 al 1951 con il nome di Wesson

Stella

AQUILA

Altair

Torpediniera

1936

1941


Stella

AQUILA

Altair

Avviso scorta

1943

1971

Appartenuta alla Marina USA dal 1943 al 1951, come Caccia di scorta, Gandy

Costellazione

AQUILA

Aquila

Avviso a ruote

1840

1875


Costellazione

AQUILA

Aquila

Torpediniere avviso

1888

1912


Costellazione

AQUILA

Aquila

Esploratore leggero

1914

1939

ALARUM VERBERA NOSCE   Paventa l'impeto delle mie ali

Costellazione

AQUILA

Aquila

Portaerei

1941

1945

( Ex transatlantico Roma )

Costellazione

AQUILA

Aquila

Corvetta

1961

1991

ALARUM VERBERA NOSCE   Paventa l'impeto delle mie ali

Costellazione

ARIES

Ariete

Torpediniera

1943

1949

MAGIS TENACIA QUAM CORNIBUS EVERTO  Distruggo di più con la tenacia che con l'impeto

Stella

CANIS MAJOR

Sirio

Torpediniera d’alto mare

1905

1923

SIDUS VIGILANS Stella vigilante Sirio: occhio del Cane che veglia sopra il limitar di Dio!

Stella

CANIS MAJOR

Sirio

Pattugliatore d’altura

2003



Stella

CANIS MINOR

Procione

Torpediniera d'alto mare

1906

1924

CAVE CANEM   Attenti al cane

Stella

CANIS MINOR

Procione

Avviso scorta

1936

1943


Personaggio

CAPRICORNUS

Ibis

Corvetta cacciasommergibili

1943

1971

IBIS, REDIBIS, NON MORIERIS IN BELLO  Andrai, ritornerai, non morirai in guerra

Stella

CARINA

Canopo

Torpediniera d’alto mare

1907

1923


Stella

CARINA

Canopo

Torpediniera

1937

1941


Stella

CARINA

Canopo

Avviso scorta

1952

1981

CON ARDIRE E CON TENACIA

Costellazione

CASSIOPEIA

Cassiopea

Corvetta

1937

1959


Costellazione

CASSIOPEIA

Cassiopea

Pattugliatore d’altura

1989

2023

ADSUM  Sono presente… ( sottinteso : Sono presente ovunque vi sia da combattere )

Costellazione

CENTAURUS

Centauro

Torpediniera d’alto mare

1907

1922

NON E' MAI  TARDI  PER ANDAR PIU'  OLTRE  tratto “La  Nave” D'Annunzio

Costellazione

CENTAURUS

Centauro

Torpediniera

1936

1943


Costellazione

CENTAURUS

Centauro

Avviso scorta

1952

1984

FERREA MOLE FERREO CUORE Motto Div. Centauro donato bandiera comb.

Costellazione

CENTAURUS

Chirone

Rimorchiatore d’alto mare

1942

1987

Centauro Chirone : mitico personaggio, metà uomo e metà cavallo

Costellazione

CETUS

Balena

Rimorchiatore

1911

1943


Costellazione

COMA BERENICES

Berenice

Corvetta

1942

1943


Stella

CORONA BOREALIS

Gemma

Sommergibile

1936

1940


Costellazione

CYGNUS

Cigno

Torpediniera

1937

1943


Costellazione

CYGNUS

Cigno

Avviso scorta

1957

1983

PRIMUS IN ACIE   Primo nel combattimento

Costellazione

DELPHINUS

Anfitrite

Sommergibile

1934

1941

Il Delfino, convinse Anfitrite a seguirlo nella dimora sottomarina di Poseidone

Costellazione

DELPHINUS

Delfino

Sommergibile

1892

1919


Costellazione

DELPHINUS

Delfino

Sommergibile

1931

1943

SUBSUM SED SUPERIS OBSUM  Sto sotto ma nuoccio a chi sta sopra

Personaggio

ERIDANUS

Climene

Torpediniera

1936

1943

Fetonte ( significa Radioso) era il figlio mortale del Dio Sole e della oceanina Climene

Costellazione

ERIDANUS

Eridano

Nave idrografica

1895

1907


Costellazione

ERIDANUS

Eridano

Cisterna per acqua

1910

1937


Stella

GEMINI

Castore

Torpediniera

1888

1925


Stella

GEMINI

Castore

Torpediniera

1937

1943


Stella

GEMINI

Castore

Avviso scorta

1955

1980

ARDISCO AD OGNI IMPRESA

Stella

GEMINI

Polluce

Torpediniera

1888

1911


Stella

GEMINI

Polluce

Torpediniera

1937

1942


Costellazione

GRU

Gru

Corvetta cacciasommergibili

1942

1971

TIMEO SED TIMOREM  Non temo che la paura

Costellazione

HERCULES

Ercole

Pirofregata II rango a ruote

1841

1875

Dal 1841 al 1861,  appartenente alla Marina del Regno delle Due Sicilie

Costellazione

HERCULES

Ercole

Rimorchiatore

1944

1989


Costellazione

HERCULES

Ercole

Rimorchiatore costiero

2002


Acquisito dalla MMI nel 2014

Costellazione

LEO

Leone

Esploratore leggero

1921

1941

QUIA SUM LEO   Perché sono il Leone

Costellazione

LIBRA

Libra

Torpediniera

1938

1964


Costellazione

LIBRA

Libra

Pattugliatore d’altura

1989

2023

PATIENS  VIGIL AUDAX   Paziente, vigilante, audace

Costellazione

LINX

Lince

Esploratore leggero

1921

1921


Costellazione

LINX

Lince

Torpediniera

1938

1943


Costellazione

LUPUS

Lupo

Torpediniera

1938

1942

FULMINEO SULLA PREDA

Costellazione

LUPUS

Lupo

Fregata

1977

2003

FULMINEO SULLA PREDA

Costellazione

LYRA

Lira

Torpediniera

1938

1944

Appartenente alla Kriegsmarine ( Marina Militare Tedesca ) dal 1943 al 1944

Stella

LYRA

Vega

Torpediniera

1936

1941

NON NISI IN OBSCURA SIDERA NOCTE MICANT Le stelle non brillano soltanto in una notte oscura

Stella

LYRA

Vega

Pattugliatore d’altura

1990

2022

SEMPRE E OVUNQUE

Costellazione

MUSCA

Mosca

Torpediniera da costa

1882

1898


Costellazione

ORION

Orione

Torpediniera d’alto mare

1907

1923

SPLENDORE IN CIELO GLORIA IN MARE

Costellazione

ORION

Orione

Avviso scorta

1937

1964

SPLENDORE IN CIELO GLORIA IN MARE

Costellazione

PEGASUS

Pegaso

Torpediniera d’alto mare

1905

1923


Costellazione

PEGASUS

Pegaso

Avviso scorta

1936

1965


Personaggio

PERSEUS

Medusa

Sommergibile

1911

1915

La celebre Gorgona Medusa era l’unica delle tre Gorgoni a non essere mmortale

Personaggio

PERSEUS

Medusa

Sommergibile

1931

1942


Costellazione

PERSEUS

Perseo

Torpediniera d'alto mare

1906

1917

VINCERA'  CHI VORRA'  VINCERE

Costellazione

PERSEUS

Perseo

Torpediniera

1936

1943

VINCERA'  CHI VORRA'  VINCERE

Costellazione

PERSEUS

Perseo

Fregata

1980

2005

VINCERA'  CHI VORRA'  VINCERE

Costellazione

PHOENIX

Fenice

Corvetta cacciasommergibili

1943

1965

RESURGIT  Risorge

Costellazione

PHOENIX

Fenice

Corvetta

1990

Serv

RESURGIT  Risorge

Costellazione

SAGITTA

Freccia

Cacciatorpediniere

1899

1911


Costellazione

SAGITTA

Freccia

Cacciatorpediniere

1929

1943

DELIBERATA DI TOCCARE IL SEGNO

Costellazione

SAGITTA

Freccia

Motocannoniera

1965

1985


Costellazione

SAGITTA

Saetta

Motocannoniera

1966

1986


Costellazione

SAGITTARIUS

Sagittario

Torpediniera d'alto mare

1905

1923

NON COHIBETUR SAGITTA  La mia freccia non sia trattenuta

Costellazione

SAGITTARIUS

Sagittario

Fregata

1978

2005

NON COHIBETUR SAGITTA  La mia freccia non sia trattenuta

Stella

SCORPIUS

Antares

Torpediniera

1936

1943


Costellazione

SERPENS

Serpente

Torpediniera d'alto mare

1906

1916

VAFER REPENTE LETIFER  Astuto, rapido e letale

Costellazione

SERPENS

Serpente

Somm. piccola crociera

1932

1943

INSIDIARUM EXPERIENS  Intraprendente nelle insidie

Personaggio

SEXTANS

Urania

Incrociatore torpediniere

1889

1921


Personaggio

SEXTANS

Urania

Corvetta cacciasommergibili

1942

1971


Stella

TAURUS

Alcione

Torpediniera

1938

1941


Stella

TAURUS

Alcione

Corvetta antisom

1953

1992

NIHIL ME DEFLECTIT   Niente mi distoglie

Stella

TAURUS

Aldebaran

Torpediniera

1936

1941


Stella

TAURUS

Aldebaran

Avviso scorta

1943

1975

Appartenuta alla Marina USA dal 1943 al 1951, Caccia di scorta, nome  Thornill

Stella

TAURUS

Atlante

Rimorchiatore

1927

1968

Atlante è una stella dell’Ammasso delle Pleiadi della costellazione TAURUS

Stella

TAURUS

Atlante

Rimorchiatore d’altura

1978


Atlante è una stella dell’Ammasso delle Pleiadi della costellazione TAURUS

Stella

TAURUS

Elettra

Unità Polivalente di Supporto

2003

Serv

Anima i silenzi aerei 

Ammasso

TAURUS

Pleiadi

Torpediniera

1938

1941


Stella

TAURUS

Sterope

Cisterna per nafta

1939

1947

Sterope è una stella dell’Ammasso delle Pleiadi della costellazione TAURUS

Stella

TAURUS

Sterope

Nave logistica di squadra

1944

1977

Appartenuta dal 1944 al 1959 alla Marina USA con il nome di FORBES ROAD ( dal 1944 al 1947 ) e di Enrico Insom ( dal 1947 al 1959 )

Costellazione

URSA MAIOR

Orsa

Avviso scorta

1936

1943


Costellazione

URSA MAIOR

Orsa

Fregata

1980

2003

FORTITUDINE  FORTIOR   Più forte della forza

Costellazione

URSA MAIOR

Orsa Maggiore

Yacht

1994

Serv

Ad maiora duco

Personaggio

URSA MINOR

Aretusa

Incrociatore torpediniere

1889

1912

Nella mitologia greca, le sette stelle dell’Orsa MinoreAretusa, Estia, Espera, Esperusa ed Esperia erano le Esperidi: Egle, Eritea,

Personaggio

URSA MINOR

Aretusa

Torpediniera

1938

1958


Personaggio

URSA MINOR

Aretusa

Nave  idro – oceanografica

1999

Serv

ARETHUSA UNDIS PROSPICIT  Aretusa guarda avanti

Stella

URSA MINOR

Stella Polare

Nave da trasporto

1883

1911


Stella

URSA MINOR

Stella Polare

Yacht

1965

Serv

Cantieri Navali Sangermani di Lavagna Ex vento vis in viris fortitudo

Stella

VIRGO

Spica

Torpediniera d'alto mare

1905

1923

GLORIA E  LATOR   Foriero di gloria

Stella

VIRGO

Spica

Pattugliatore d’altura

1990

2022

VIGILE  ATTENDO   ( Motto già appartenuto al sommergibile F15 )

Asteroide

Z - Asteroide

Cerere

Cisterna nafta

1915

1943

Dal 1915 al 1924 della Kriegsmarine ( Marina Militare Tedesca ) nome di Baltrum

Personaggio

Z – Pianeta

Galatea

Sommergibile

1934

1948

Satellite del pianeta Nettuno

Personaggio

Z – Pianeta

Galatea

Nave Idro - oceanografica

2002


Felix Galatea vivas

Pianeta

Z - Pianeta

Giove

Nave cisterna

1917

1946


Pianeta

Z - Pianeta

Marte

Nave cisterna

1892

1947

Marina Austriaca come Vesta, nel 1923, data Regia Marina in conto riparazione danni

Pianeta

Z - Pianeta

Nettuno

Nave cisterna

1917

1954


Pianeta

Z - Pianeta

Saturno

Rimorchiatore

1905

1973


Pianeta

Z - Pianeta

Saturno

Rimorchiatore d’altura

1987



Personaggio

Z - Pianeta

Titano

Rimorchiatore d’altura

1988


Satellite del pianeta Saturno

Pianeta

Z - Pianeta

Urano

Nave cisterna

1922

1954



* Serv : Unità navale in servizio e che risulta iscritta al ruolo del Naviglio Militare alla data del 31- Marzo - 2007.

ANDROMEDA



 

 

Nome scientifico: ANDROMEDA

Costellazione dell’Emisfero Celeste Nord, ampia 722 gradi2 e presente nell’Almagesto di Tolomeo del 140.

Mitologia greca: Andromeda, figlia di Cefeo e di Cassiopea, minacciata dalla Balena, venne salvata da Perseo e dalla loro unione nacquero Perses (progenitore dei Persiani) e Gorgofone (madre di 5 figli, tra cui Tindaro, Re di Sparta e marito di Leda).

Almak deriva dall’arabo Al anak al ard = un piccolo animale del deserto (simile al tasso)

Effemeridi nautiche  Nr. 6 stella gigante gialla

Alpheratz (oppure Sirah) deriva dall’arabo Al surrat al faras = Ombelico del cavallo

Effemeridi nautiche Nr. 1 stella subgigante bianca-azzurra

Torpediniera Andromeda

Classe Spica – Serie Perseo


Varata a Genova Sestri Ponente il 28 Giugno 1936

Dislocamento standard  630 t

Lunghezza 81,9 m  -  Larghezza  8,2 m - Pescaggio 3 m

Equipaggio: 116 (6 Ufficiali e 110 sottufficiali e marinai)

Armamento:  3 cannoni 108/47 – 8 mitragliere –

4 tubi lanciasiluri – 2 lanciabombe di profondità

Partecipazione alla guerra civile spagnola 1937 – 1938

Operazioni navali in Grecia e Albania 1940 – 1941

Affondata il 17 Marzo 1941, da aerosiluranti inglesi nella Baia di Valona in Albania


Corvetta Andromeda

Classe Aldebaran

Varata il 17 Ottobre 1943 a Newark (USA) con il nome di

Morgan Wesson

Dislocamento standard  1.796 t

Lunghezza 93 m - Larghezza 11,23 m - Pescaggio 3,56 m

Equipaggio 189

Armamento: 3 cannoni 75/60 – 6 cannoni 40/56

18 mitragliere – 1 porcospino – 8 lanciabombe e 1 scarica bombe

Partecipazione alla Guerra nel Pacifico 1943 – 1945, ceduta all’Italia il 10 Gennaio 1951 e denominata Andromeda

Radiata nel 1972


IL NATALE A NEW YORK DI UN EQUIPAGGIO SOPRAVVISSUTO

IL NATALE A NEW YORK DI UN EQUIPAGGIO SOPRAVVISUTO…

Versione Natalizia di un brano del libro

QUELLI DEL VORTICE

La storia del rimorchiatore d’Altura Vortice è stata scritta sul mare da tanti equipaggi. Su di loro è rimasto impresso un sigillo indelebile, corredato di una “certificazione” che è stata rilasciata dalla più esclusiva Università Marinara di Genova – Facoltà: Rimorchi d’Altura Il diploma di laurea però è impresentabile, perché è impregnato di sudore, è sporco del grasso di molte redance e maniglioni, è unto dall’olio del troller ed è schiacciato da pesanti catene.

Il centro della depressione e l’atterraggio del VORTICE a New York sono pericolosamente in rotta di collisione. La metropoli americana é già truccata per l’imminente Natale 1970


Il velo notturno, bloccato a ponente da un’entità superiore, tramonta più lentamente del solito. Le tenebre, acquattate dietro l’orizzonte, sembrano intenzionate a frenare le luci dell’alba, forse per non “chiarire” il suo infausto progetto. Poi, lentamente, la luce nascente di poppa, scolpisce uno scenario dantesco, che si estende come un arco tra i due traversi del Vortice che procede verso ponente, cavalcando su onde alte ormai sei metri o forse anche di più.

Il ponte di comando è largo quel tanto che basta per sgranchirsi le gambe tra un’onda e l’altra. Charly usa esercitare questo tipo di footing per sciogliersi i muscoli e quando il mare monta e ringhia, l’esercizio è utile, almeno così pensa, per esorcizzarne, con una specie di balletto rituale quella nenia furiosa che annunzia la nuova sfida all’O.K. Corral...

Qui la situazione appare molto più grave, perché le misure ed il peso dell’avversario sono fuori scala. Charly lo sa e per una sorta di vanto giovanile non lo teme, tuttavia non osa provocarlo, neppure con lo sguardo. Il gran match sta per cominciare e Charly non intende svelare le sue strategie né tanto meno le sue emozioni all’avversario che si avvicina minaccioso, a testa bassa, simile più ad un toro gigantesco che carica infuriato, che ad un pugile raffinato che usa colpire sempre con jabs pungenti, sfuggenti e senza tregua.


Poi, senza alcun preavviso, verso le otto, il mostro sbuffante apre le sue fauci e mostra i suoi contorni più alti, che paiono scolpiti da mani diaboliche nella nera lava. La sua parte inferiore, ancora lontana, appare invece invitante, affascinante, magica come una grotta di smeraldo, colma d’acqua scintillante… da bere! La caverna stregata è l’occhio del mostro, che incanta e attira le sue vittime per divorarle senza pietà.


Alle spalle di quell’inferno incalzante c’è il sinuoso fiume Hudson che porta alla festosa New York, con i suoi docks resi celebri da Marlon Brando in “Fronte del Porto” e che Charly rivede ora in trasparenza, brulicanti di gente festosa e laboriosa. Su quella immaginaria e cromatica tavolozza non mancano le maestose navi passeggeri, i liners giganteschi che ornano, come tanti fiori freschi appena giunti dall’Europa, l’ovale di Manhattan brulicante d’immensi grattacieli che fluttuano come fantasmi sulle note di West Side Story.

Non è tempo di sognare, il vento forte solleva ormai creste insidiose e disegna con i suoi poderosi artigli, simmetriche graffiate di schiuma che s’infrangono minacciose sui vetri del ponte di comando e scivolano poi lungo i fianchi dello scafo.

“Guardate! Quell’oscuro disegno di prora sembra la costa, invece temo che sia qualcosa di molto più duro e impenetrabile rispetto a ciò che dovremmo vedere domani a quest’ora”.

Il nostromo Zeppin, madido di sudore, stenta a tenere la rotta. La prora, nel precipitare verso l’incavo dell’onda, spiattella attorcigliandosi come un serpente. I colpi del tagliamare sono secchi e sordi nella caduta, lamentosi nel risalire disperato in verticale come un naufrago in cerca d’aria pura verso il cielo aperto.

Charly rimane in posizione d’attesa: alla cappa in mezzo al ring, nella speranza di un’improbabile clemenza dell’avversario o di una più improbabile sospensione del match, per la manifesta inferiorità di un imprudente e vanitoso sfidante.

L’equipaggio, assicurata la chiusura di tutte le aperture dello scafo, corazzati gli oblò e bloccati tutti i tipi d’attrezzature esterne e interne, si è radunato nel caruggio centrale. Nessuno è solo e tutti sono pronti al peggio…


Il muro avanza nella bonaccia. Siamo nell’occhio del Ciclone

 

Il Vortice si trova proprio nel centro della depressione diffusa e riportata nel bollettino meteo americano.

Di prora riappare a tinte evanescenti quel lago azzurro smeraldo, proprio come un miraggio. Si tratta dell’occhio ammaliatore che tanti marinai, prima del Vortice, ha già attirato e divorato nelle sue viscere infernali come vittime sacrificali.

Il Vortice, simile ad un puledro appena domato, si trova improvvisamente nella più surreale bonaccia di vento e di mare; frena guardingo, si solleva ancora una volta, si scrolla il sudore di dosso, sbuffa e sconcertato per la falsa accoglienza, si blocca d’istinto.

Charly sa che la straordinaria “grotta azzurra” è un’infida trappola, zeppa di secche e senza vita. Così come teme che pochi al mondo, o forse nessuno abbia mai potuto raccontare d’essere uscito vivo dall’occhio di una simile tempesta…

La respirazione è diventata nel frattempo tremendamente difficile.

Charly, superato mentalmente l’incantesimo di quella magia, fiuta appena in tempo il tragico pericolo incalzante. Reagisce prontamente con rabbia e, strappando l’interfonico dal suo alloggio, urla all’equipaggio di tenersi forte, con tutta la forza possibile. Avverte la macchina di rimanere attaccati ai comandi:

“Presto manovreremo per la vita. Un muro nero e gigantesco si sta avvicinando a folle velocità!”

Chi può in quei reali frangenti, riportare un po’ di sereno in quegli animi scoraggiati e disperati? I veri marinai hanno paura del mare. Chi, più dei marinai sa gestire la paura che non è rassegnazione o fatalità, ma freddezza e calma interiore che provengono da una preghiera?

I marinai vivono positivamente la solitudine e sono dei veri esperti nel ritrovare dentro di sé quella fermezza che li soccorre, sempre, nella tragicità di certi episodi. Questa forza d’animo, per alcuni si chiama Madonna di Montallegro, per altri della Guardia, del Boschetto oppure lo stesso… Dio Misericordioso.

Poi, si sa! Ritornato il sereno, riemerge uno strano pudore ed i santi invocati diventano: destino, fatalità o addirittura bravura umana… ”Parola di marinaio?”

Sul Vortice, anche i più duri di cuore ed i più ostinati di cervello si piegano e, tenendosi stretti l’uno all’altro, pregano. Chi in silenzio, chi ad alta voce.

Quella vulcanica ombra grigia che Charly vede avanzare terrificante come l’incubo di “Una notte sul Monte Calvo”, non è una montagna staccatasi dal continente, neppure il più mastodontico dei piovaschi apparso sulla terra. E’ un’onda di proporzioni catastrofiche!

Ecco il volto della morte!

Sogghigna Charly.


Mancano cento metri all’inevitabile inghiottimento e i tre uomini sul ponte di comando possono soltanto guardare attoniti l’immensa cresta bianca veleggiare ad altezze celestiali. Già!! Proprio verso quel cielo che sembra averli abbandonati per sempre.

La collisione avviene dopo qualche istante ed il Vortice, come un infimo Golia, s’impenna in verticale e fiero soltanto della sua gioventù, penetra il mostro infilzandolo nel ventre, ad un terzo della sua altezza.

E poi c’è il buio più totale! Profondo! Abissale! Lunghissimo come il film della propria vita che scorre lucido, senza fretta, tra gli affetti lasciati per sempre.

Un enorme scroscio d’acqua precipita sopra lo scafo e tuona come un’esplosione. Il Vortice, schiacciato da una pressa gigantesca, è risucchiato verso gli abissi. Poi, carico d’aria, si ferma di schianto, ha ancora una stridula impennata e comincia a salire lentamente, emana flebili ruggiti, come un vecchio leone schiacciato da un branco d’elefanti. Segue un sussulto rapido e poi risale a pallone, urlando insieme al suo equipaggio che percepisce la salvezza. Il VORTICE è ferito gravemente.  Tonnellate di mare diabolico sono entrate dappertutto portando l’umiliazione e la devastazione.

Il Miracolo

Quando la fine sembra ormai giunta, improvvisamente avviene il miracolo. La “risurrezione” dagli abissi si attua con un’insperata emersione, col rivedere improvvisamente la luce e con i comandi del Vortice che rispondono ancora. In queste fasi distinte, ma collegate strettamente tra loro, c’è il ritorno alla vita. I miracoli purtroppo non si ripetono, almeno per i comuni mortali.

Charly lo teme, si avventa sull’interfonico ed urla alla macchina:

“Datemi  “tutta forza ripetuta e con la massima urgenza.  Dobbiamo volare!”

Il mostro, sicuro ormai della vittoria, non dà tregua. Il colpo di maglio, simile al precedente, è già lì, sospeso, statuario, in posa arcuata, a poche decine di metri, urlante d’odio, ghignante nella sua immensità. Il suo martello è pronto a sferrare con micidiale crudeltà l’ultimo colpo su l’ignobile ed arrogante insetto che ha osato sfidarlo.

Charly balza come un giaguaro sulla ruota del timone e grida a Zeppin:

TUTTA A SINISTRA

insieme, in un abbraccio terrificante e sovraumano, s’avvinghiano urlando appesi alle caviglie della ruota che vibra al limite della rottura. Nella rotazione forzata degli ingranaggi, caldi guizzi d’olio sprizzano sui loro volti già intrisi di sudore.

Bobby abbassa ancora la leva del telegrafo e ripete l’ordine con rabbia :

Tutta forza avanti

Il Vortice parte come una poderosa cannonata ed accosta piegandosi sul fianco sinistro, appiccicato a quella parete livida, perfettamente verticale e levigata come la pista di un circo di periferia.

In quella curva perfettamente circolare, impressa nell’onda densa come un muro, c’è l’ultima speranza.

Chi può dirlo di preciso?  La sensazione è quella di un vero e proprio tuffo in una rotazione avvitata. Attimi di terrore! Il rumore dei motori è sparito, è racchiuso, ovattato nel tunnel verde che lo avvolge a spirale come un serpente che sta per soffocarlo.

Il ponte di comando, sbandato al limite del rovesciamento, perde ogni riferimento visivo e ogni connotazione nautica.

Stivali, incerate, strumenti, sgabelli, bandiere, coperchi, tazze e tazzine sono rimescolati, sparpagliati dal mare vivo e poi lanciati senza mirare come micidiali proiettili impazziti.

Il Vortice è riuscito a girarsi e mettersi il mare in poppa!

Ma l’onda implacabile lo insegue e quando lo raggiunge gli scarica poi il suo macigno dall’alto di quella collina assetata di sangue. La cresta, come una fragorosa valanga, colpisce in pieno la poppa del Vortice che pare staccarsi di netto dal resto dello scafo. La prora, ormai sfuggente, reagisce arrampicandosi in alto, svirgolando come un rettile impaurito che sottrae la sua coda al predatore.

Lo sforzo di Zeppin, Bobby e Charly sulla ruota del timone è immane e forse volutamente esibizionista, plateale, pensò Charly:

“A quel mostro bastardo ed infernale non possiamo che mostrare il volto della nostra sofferenza, del nostro coraggio e quella parte “assistita” della nostra debole intelligenza umana”.

Tra i vetri appannati e striati di bianco, le ombre nere di tre marinai lottano ancora, confusamente attorcigliati. E’ l’unico segno di vita! Il Vortice è ingovernabile, ma non può traversarsi alle onde. Il timone è diventato una ruota di pietra. Nella rinata speranza di vita, quegli uomini veri triplicano le forze ormai esaurite e, dall’Isola dei morti ritornano lentamente alla vita.

Il Vortice ed il suo equipaggio sono ora un ammasso violentato, ammaccato e ferito, ma ancora uniti nei colpi ricevuti, in parti eguali. Tutti a bordo hanno lottato. Nessuno ha deluso l’altro. Ognuno ha dato il massimo di sé, con estremo coraggio ed ora insieme hanno messo le ali.

La musica tambureggiante, scolpita, asimmetrica ed imprevedibile di Prokofiev, lascia la ribalta e, in virtù di un’altra magia, le prorompenti Walkirie fanno il loro ingresso sul nuovo palcoscenico, nella trionfale cavalcata liberatrice di Wagner.

Sospeso come un falco che prende l’ultimo fiato, il Vortice scivola ora in picchiata verso il basso, sparisce e riemerge come un grosso pallone grondante di verde-oceano e striato di schiuma biancastra. Poi risale planando dolcemente alle massime altezze, per restare immobile alcuni istanti sulla cresta dell’onda, e infine precipita a folle velocità, con una schioccante panciata….

Il mostro ci ha pestato ed ora ci prende per il culo. Ci culla e ci spinge, ci risucchia, ci schiaffeggia, ci accarezza e ci scrolla come ragazzini sulla spiaggia dei Cavi in una giornata di burrasca”.

Ammette Charly, cui non restano che vuote parole per frenare l’emozione, un vago senso di sconfitta e tanta stanchezza.

Il Vortice naviga ora verso casa, con un assetto poco virile. Sbandando e sculettando vistosamente, si ritira verso il suo angolo, dolorante come un pugile colpito e frastornato dai colpi.

L’equipaggio è a pezzi, ma vivo, è stato salvato da un “gong celeste” ed è fiero per le manovre fortunate del suo capitano.

Quel silenzio colmo di sagge meditazioni esistenziali è rotto, ben presto, da un urlo incontenibile di gioia, che sale dal carruggio del Vortice, e prende ancora più forza nella tromba delle scale.

“Hip-Hip-Hurrà !! “ Forse per esorcizzare il drago che sputa ancora fiamme e vapori sulfurei,  ma non fa più paura a nessuno. Hip-Hip-Hurrà !!”  Forse per ringraziare il Cielo del dono ricevuto.“Hip-Hip-Hurrà !!”   Per un brindisi di Champagne alla gioia di vivere.

Con una ritirata strategica, la prima parte della spedizione prende una piega assolutamente atipica ed il Vortice, esibendosi in un insolito surf Atlantico, si fa sberleffi della tempesta. Alla comprensibile paura dell’equipaggio, subentra la reazione nervosa, che mira ora al recupero d’energie ed alla rivincita su un avverso destino, mediante un gioco ancora pericoloso, ma affascinante.

La tempesta spinge ancora forte di poppa e scarica, talvolta, sullo scafo onde ancora più alte che, un Vortice sprezzante e altezzoso, respinge ormai sicuro di sé, fuggendo a zig zag come una lepre sulle colline di Carpenissone. Il solcometro, purtroppo, segna 12 nodi di velocità, il doppio di quella registrata con mare calmo e con lo stesso numero di giri-motore. Sembra impossibile, ma il Vortice sta volando.

Passata è la tempesta… Tre navi sono affondate davanti a New York… Il rimorchiatore d’altura VORTICE prende il pilota dell’Hudson e verso mezzogiorno é in banchina. E’ la X-mas Eve (la vigilia di Natale). Il destino gli ha fatto vedere l’inferno ed ora il PARADISO della nascita di Gesù Cristo ed anche quello della rinascita di un equipaggio che ormai tanti davano per disperso.

Quando chiamai mia moglie per AUGURARLE il BUON NATALE, con una punta d’invidia mi disse: “beati voi che passate le feste nella città natalizia più famosa del mondo! Immagino che il viaggio sia andato bene! Avete ritardato solo qualche giorno”. Ricordo d’averle rispostoUn viaggio indimenticabile, ora prenderemo due navi Liberty a rimorchio per la Spagna mediterranea. MAI DI PEGGIO! – Cosa significa? – Te lo spiegherò al ritorno!

Carlo GATTI

Rapallo, 15 Dicembre 2020


DUE STORIE DI MARE D'ALTRI TEMPI

Capitani Camogli

Due storie d'altri tempi

UNA TOCCATA A CAMOGLI

Il veliero sfruttava il Maestrale per costeggiare verso il porticciolo da Ponente. Quella notte d'aprile, lo stesso Capitano Giuseppe Piarengo era al timone del "Pietro Terzo". Con i binocoli, cercava di scorgere le lenzuola rosa che sua moglie Virginia doveva stendere dalla casa sulla spiaggia. Quando la nave doppiò il Castel Dragone, finalmente le scorse: significava che Giuseppe avrebbe visto poco dopo i suoi cari.

Diede ordine al Nostromo di ridurre la velatura e così la velocità. Dalla spiaggia di Ponente si staccò un gozzo con delle persone a bordo. Ai remi c'era "Ghelō", suo suocero, poi riconobbe la sua consorte con i due bimbi. Dopo che i tre salirono in coperta, il gozzo ritornò a terra e scomparve nella penombra del "Giorgio".

Il Capitano istruì il Nostromo di spiegare tutte le vele e di dirigere al largo della Punta, per far poi rotta verso Sud. Giuseppe abbracciò finalmente la famiglia, la quale era euforica di trovarsi su quella splendida nave. Rimasti soli, i due coniugi parlarono delle loro prospettive future.

Virginia era preoccupata, pareva che da tempo, lo sconforto si fosse sparso tra la gente, pure i figli erano insensibili, anzi, lei aveva l'impressione che non avessero più sogni. Giuseppe la rassicurò affermando che ora avrebbero passato dei giorni fantastici a bordo della sua nave, che avrebbe raccontato loro di quando fu quasi ucciso da un pirata malese, di quando il Presidente Argentino apprezzò il suo concerto di violino oppure di tutti i tipi di alberi "foresti" che si trovavano nella vallata di Camogli. La sua nave era adatta a quello scopo: li avrebbe allontanati per un po’ dai pensieri cattivi di ogni giorno. E che sarebbe rientrata in porto appena quella buriana fosse passata.

Nello sciacquio del Golfo Tigullio, tutti si addormentarono. Solo il Capitano - fumando la sua pipa di "albatross" - era vigile al timone e già pensava alla prossima storia da raccontare ai suoi: "...verso fine '800, il veliero "Teresa Olivari" giaceva inerme in una bolla di calma equatoriale nel Mare di Singapore...".=

P.S. Se sei arrivato a leggere sino qui, probabilmente abbiamo allontanato per qualche attimo le preoccupazioni di ogni giorno! Immagini Archivio Ferrari.

Capitani Camogli

ALBERI E ALBERI


A differenza dell'Inglese (trees, masts), in Italiano dobbiamo specificare di quali "alberi" stiamo parlando, cioè quelli naturali o quelli navali. Inaspettatamente, sceglieremo quelli naturali, che sono comunque ben "radicati" alla tradizione marinara Camogliese.

La pianta che oggi è sistemata sul viso di Camogli (cioè l'insieme Basilica-Castel Dragone) è una palma. Forse fu scelta (nel 1930-40?) sull'onda dell'esotica moda delle passeggiate a mare della Costa Azzurra o forse, per richiamare l'originale funzione protettiva del Castello dai pirati Barbareschi.

Comunque sia, notiamo da un'immagine antecedente al 1920 (?) che sul Castel Dragone vi era un albero che non era una palma. Non siamo in grado di affermare di quale albero si trattasse, fatto sta che sale la curiosità di capire se a Camogli siano mai stati importati alberi "foresti", molto probabilmente dai naviganti di tempo fa.

Ecco allora che ci ritroviamo nelle tranquille passeggiate sulle nostre alture. E' abbastanza comune individuare alberi non propriamente Liguri all'interno delle ville di Camogli.

Si incontrano le grandi sequoie della California, sicuramente portate a Camogli da chi navigava a San Francisco; si trovano anche dei "redwood", cioè un tipo più piccolo di sequoia, generalmente originari dell'Oregon, che ha un grande approdo, Portland. Poi, l'eucalipto, proveniente dall'Etiopia, le nostre navi toccavano Djibouti. Non manca il Canada con Halifax, delle cui terre la quercia è il simbolo nazionale; poi il famoso cedro del Libano, il cui porto principale è ancor oggi Beirut. Dal Centro America o dai Caraibi qualcuno importò degli esemplari di seibò, un enorme albero coi fiori scarlatti. Qualche marinaio amante del buon vino aveva importato per la sua casa nel verde anche la vite di Madeira, il cui porto, Funchal, offre ancor oggi un punto di appoggio prima o dopo la traversata Atlantica. Ed infine il celebre "pitchpine" dell'Alabama: molte navi di Camogli toccavano il porto di Mobile, famoso appunto per il traffico di legname. Il pitchpine è un pino di dimensioni ridotte ma che ha un alto contenuto di resina, per questo era molto usato nelle costruzioni navali.

La passeggiata nei viottoli di Camogli alta volge al termine, ritorniamo sul Lungomare chiedendoci: "ma che albero era quello sul Castello?".=

Immagini (Archivio Ferrari): "Porto di Camogli" e "Alture di Camogli".

Bruno MALATESTA

Rapallo, 30 Ottobre 2020