MARY CELESTE - UN MISTERO MAI SVELATO

MARY CELESTE

Un mistero mai svelato…


Il brigantino goletta MARY CELESTE in un dipinto d’epoca quando si chiamava AMAZON

 

Mary Celeste non è solo il nome di un veliero, ma il nome di un mistero ancora oggi irrisolto.

È il 1872 quando la nave viene ritrovata a vagare nell’oceano Atlantico, senza traccia dell’equipaggio a bordo, motivo per cui in seguito la sua storia diventerà famosa.

Anche prima di tale evento, questa imbarcazione dimostrò, in diversi episodi, di non essere nata tra le grazie della Dea Bendata: una nave sfortunata, soprattutto per i suoi equipaggi che la scelsero come casa.

 

Fu costruita nel 1861 da Joshua Dewis, nel porto di Spencer, una piccola comunità locale nella Nuova Scozia. Mary Celeste, occorre precisare, non è il primo nome che ebbe scritto sullo scafo a prua e a poppa, infatti, la nave fu chiamata “Amazon” dal giorno del suo varo, nel 1861, fino al 1869.

Considerato un veliero maledetto nell’ambiente marinaro, attira le prime attenzioni quando Robert McLellan (primo Comandante della nave) contrae la polmonite solo nove giorni dopo averne assunto il comando, una polmonite che presto gli sarà fatale.

Fu il primo di tre comandanti che morirono a bordo del veliero escludendo Benjamin Briggs perché disperso in mare.

C’é di più, durante uno dei suoi primi viaggi, il brigantino entra in collisione con una barca da pesca, motivo per cui deve ritornare in cantiere, dove però scoppierà un incendio durante i lavori di routine che distruggerà una parte importante dello scafo e che lo terrà ancora per diverse settimane lontano dal mare.


La nave poi, passata a nuovi capitani, vive sei anni di viaggi importanti finché nel 1867, durante una tempesta, si arena a Sud del Canada, di conseguenza, viene venduta per 1,750$.

L’anno successivo, la nave passa a nuovi proprietari:

-Sylvester Goodwin

-Daniel T. Sampson

-James H. Winchester

-Benjamin Spooner Briggs (Capitano della nave)


Una volta acquisita la proprietà, il veliero verrà rinominato Mary Celeste con cui presto inizierà una nuova fase della sua vita.

L’intento dei partners, era quello di utilizzare la nave per commerciare con i porti dell’Adriatico, intraprendendo quindi lunghi viaggi oceanici.


Foto della Mary Celeste nel 1869.

 

L’Ultimo Viaggio Della Mary Celeste


La Mary Celeste, come abbiamo raccontato, non era mai stata una nave fortunata, ma soltanto nel 1872 raggiunge la più completa notorietà “negativa” diventando uno dei più chiari esempi di “nave fantasma”.

Il 5 novembre il brigantino salpa con 10 persone a bordo, tra cui 8 marinai e la famiglia del comandante Benjamin Briggs che comprende la figlia Sophia Matilda di appena due anni, e la moglie Sarah E. Briggs di quasi trentuno.

La nave viaggiava con 1.701 barili di alcol industriale nelle stive, un carico dal valore che si stima intorno ai 50.000$ dell'epoca e che, secondo la rotta prestabilita, partito da Staten Island, sarebbe dovuto arrivare a Genova nella seconda metà di dicembre.


Poco meno di un mese dopo, a discapito di quanto sarebbe dovuto normalmente accadere, la Mary Celeste fu ritrovata ancora “navigabile”, ma l’equipaggio era svanito nel nulla.


Nonostante sia passato un mese, dal momento in cui la nave salpò dagli Usa, al momento in cui fu ritrovata non lontana dalle Isole Azzorre, si sa per certo che tutto successe nel giro di una settimana, o più probabilmente, di una notte.

Sul diario di bordo del cuoco/cambusiere della nave Edward W. Head, che l’avvista per prima, l’ultima annotazione sulla Mary Celeste risale al 25 novembre.

La nave viene poi ritrovata il 4 dicembre dalla nave Dei Gratia a circa 600 miglia dalle coste portoghesi.

Il capitano della Dei Gratia, David Morehouse, salì a bordo della nave insieme a due marinai del dell’equipaggio e rimase quasi impietrito davanti alle condizioni della nave.

Le vele, ridotte a stracci fradici, continuavano a gocciolare, come per infierire sul resto della nave che già grondava acqua.

Il cibo era ancora nei piatti, i letti erano sfatti e gli oggetti personali ancora al proprio posto.

Nelle annotazioni precedenti trovate a bordo, non venne nominata alcuna causa che a lungo andare avrebbe potuto giustificare l’accaduto e questo esclude l’esistenza di un virus all’interno della nave oppure di un avvelenamento. Le pietanze, rimaste nei piatti, dipingevano uno scenario bizzarro, dove sembrava che l’equipaggio, da un momento all’altro, avesse deciso di abbandonare il veliero.

Di conseguenza si é indotti a pensare ad un frettoloso abbandono nave da parte dell’equipaggio per un motivo sconosciuto, e che poi il vascello abbia vagato sotto la spinta di venti e correnti per circa sette giorni ma, da calcoli effettuati dagli esperti, negli ultimi due giorni avrebbe invertito la rotta tornando indietro e ripercorrendo le ultime 100 miglia prima di essere avvistata.

Tutte le teorie circa la scomparsa delle 10 persone, si vedono accomunate nel pensare che scappare dal brigantino fosse una mossa estrema dovuta probabilmente alla paura che la nave potesse affondare da lì a poco....

Tutte le teorie quindi girano intorno ad un avvenimento tanto grave da indurre l’equipaggio ad abbandonare il brick, forse solo provvisoriamente?


Recupero ed Arrivo della MARY CELESTE a Gibilterra

Una parte dell’equipaggio della Dei Gratia fu incaricata di portare la nave abbandonata a Gibilterra. Il viaggio si concluse felicemente e pochi giorni dopo il procuratore generale Frederick Solly Flood aprì un’inchiesta sul caso che nel frattempo suscitò un clamore enorme negli ambienti marittimi di tutto il mondo.

Furono tre le ipotesi intorno a cui il procuratore girò intorno per qualche mese.

  • La prima ipotizzava che l’equipaggio si fosse ubriacato con l’alcol contenuto nei barili trovati vuoti e che in seguito, una volta perso il controllo, avrebbe ucciso gli ufficiali per poi naufragare a bordo della scialuppa poche ore prima della tempesta. In ogni caso, ciò fu impossibile dato che l’alcol contenuto nei barili, non era abbastanza in quantità e neanche abbastanza forte per procurare una sbornia tale da causare la tragedia.
  • La seconda ipotesi era quella che i due capitani delle corrispettive navi si fossero precedentemente messi d’accordo per ingannare le agenzie assicurative, ma essendo Briggs comproprietario della nave, avrebbe guadagnato una misera cifra dall’assicurazione, che divisa tra i due uomini e i propri equipaggi, si sarebbe dimostrato quasi come un’inutile perdita di tempo.
  • L’ultima ipotesi, la preferita di Flood, teorizzava che gli uomini della Dei Gratia avessero ucciso quelli della Mary Celeste in cerca della ricompensa per averla riportata indietro, ma in mancanza di prove, anche questa venne scartata dalla procura, lasciando il caso ufficialmente irrisolto.


Una volta chiusa l’inchiesta la nave tornò nelle mani di uno dei quattro armatori: Mr. Winchester che, anche a costo di svenderla, cercò di liberarsene il più in fretta possibile.

Nonostante quello di Winchester non fosse che un regalo, un brigantino del genere venduto a meno di un terzo di quanto i 4 proprietari lo pagarono, non fu comunque facile sbarazzarsene dato che 17 marinai rifiutarono d’imbarcarsi, convinti che la nave fosse maledetta.

Passa comunque di proprietario in proprietario fino al 1885 quando il suo ultimo, un certo Gilman C. Parker tentò di compiere una frode facendo sbattere la Mary Celeste contro una scogliera.

Lui e suoi due soci finirono però in tribunale nel momento in cui le agenzie assicurative si accorsero della truffa; la cosa strana é che nonostante l’illecito, il Giudice rilasciò i 3 uomini.

Nel giro di poco tempo, questi persero tutto: uno dei tre finì in manicomio, un altro si suicidò e Gilman C. Parker morì nel giro di pochi mesi.


Incisione della nave il giorno del ritrovamento (5 dicembre del 1872)

Le varie Ipotesi dell’abbandono della Nave ….


L’Ipotesi più credibile è quella che ipotizza la presenza di una tromba marina nella notte del 25 novembre, durante la quale, la nave avrebbe dato all’equipaggio la certezza di affondare, una ragione più che valida per fuggire su una lancia e lasciare il brigantino al suo destino.

Secondo le testimonianze di navi in zona, pare certo che durante la stessa notte ci sia stata una tempesta, con presenza di trombe marine.

Ad accreditare questa teoria c’è il ritrovamento di una sonda in una delle stive di bordo; com’é noto, detto strumento serve per misurare l’altezza dell’acqua penetrata nei locali interni della nave.

Tuttavia, la teoria perde consistenza nel momento in cui l’equipaggio avrebbe deciso di lasciare il brigantino per salvarsi a bordo di una scialuppa, perché la Mary Celeste, in collisione contro una tromba marina, avrebbe offerto più riparo e più speranza di vita di una piccola scialuppa che non avrebbe resistito a lungo sotto i colpi di mare e alla forza del vento di quel fenomeno meteo così violento.

Briggs era considerato da tutti un capitano molto esperto che non avrebbe mai commesso un simile errore.

Proprio per questo motivo si pensa che la causa dell’abbandono-nave poteva essere un’altra e che la tempesta sia arrivata nelle ore successive al loro abbandono, dove avrebbe potuto prendere facilmente il sopravvento sulla scialuppa, la quale non avrebbe pertanto fatto in tempo a raggiungere la terraferma o un’altra imbarcazione.


Un’altra teoria - Considerata anche questa tra le più valide - è quella riguardante un finto incendio causato dalle esalazioni dell’alcol.

Dei 1701 barili che formavano il carico, 9 furono trovati vuoti.

Questi nove, oltre al contenuto, avevano di diverso dagli altri barili il materiale con cui erano costruiti: legno di quercia rossa e non quercia bianca, come gli altri.

L’ipotesi più plausibile riguardante questi fumi è che i vapori interni di questi nove barili abbiano riempito la stiva fuori uscendo da questo locale appena ne avrebbero avuto occasione, magari per un controllo in stiva oppure attraverso degli spifferi, i fumi avrebbero invaso in un secondo la nave spaventando tutto l’equipaggio.

L’ignoranza del tempo su certi prodotti industriali di ultima generazione, lasciò spazio alla fantasia del Capitano che si spaventò del fatto che la nave potesse esplodere.

I fumi, in realtà innocui, spinsero il Capitano, con la sua famiglia ed il resto dell’equipaggio, ad allontanarsi dalla nave a bordo della scialuppa che non fu trovata a bordo della nave.

Ipotesi sulla possibile dinamica

Si allontanarono quindi un centinaio di metri dalla nave, legati a questa con una cima da rimorchio nell’attesa che si potesse ritornare a bordo del veliero una volta passato il pericolo di una eventuale esplosione.

In seguito, il cielo come il mare avrebbe preso un colore più scuro mentre le onde come le nuvole avrebbero cominciato ad incresparsi.

La tempesta segnalata arrivò quando ancora l’equipaggio della Mary Celeste era a bordo della scialuppa ed il moto ondoso in crescendo spezzò la cima di rimorchio e li allontanò dalla nave.

Nei giorni successivi, l’equipaggio sarebbe morto di sete o di fame prima di riuscire a trovare la terraferma o un'altra imbarcazione.

Immagino la disperazione che in poche ore invase la piccola imbarcazione, il pianto incontenibile della bambina che come gli altri raggiunse piano piano la morte di sete.

È probabile che, nella paura di poter aspettare anche diversi giorni in attesa dell’esplosione, l’equipaggio avesse deciso di portarsi delle scorte di cibo e di acqua potabile che però non bastarono per la loro sopravvivenza.

Quelle scorte di cibo, però, non fecero che illuderli, che dargli false speranze.

Mi piace pensare che l’equipaggio non si diede alla violenza e che quelle scarse scorte di cibo non abbiano favorito risse, disordini e provocato la morte dei naufraghi più deboli.


Altre teorie vogliono ipotizzare un possibile ammutinamento, reso improbabile dal fatto che il capitano Benjamin Briggs era un uomo rispettato a bordo della nave che comandava.

Proprio per questo, l’unica ragione per cui l’equipaggio avrebbe avuto motivo di uccidere il proprio capitano, sarebbe stata quella d’impossessarsi del carico che, come abbiamo visto, rimase quasi illeso fino al giorno del ritrovamento.

Proprio perché tale carico, tanto prezioso (all’epoca valeva sui 46,000$) arrivò incolume alla Dei Gratia, si esclude anche un atto di pirateria.


In seguito, nella cultura di massa, la storia della
Mary Celeste diventò materiale valido per diversi libri, film e fiction, allontanandosi sempre di più dalla realtà, proponendo alieni e mostri marini all’interno della vicenda.

Nello sviluppo di questi si ipotizzano quindi le teorie più bizzarre ed infondate, a volte spacciate per vere da fonti non attendibili, altre volte nate solo con lo scopo di intrattenere un pubblico ignaro di storie marinare.


All’interno di una rivista nasce la teoria riguardante Abel Fosdyk, il quale sarebbe stato un passeggero clandestino della nave che avrebbe assistito alla morte dell’intero equipaggio, divorato dagli squali.

Il capitano Briggs ed un altro paio di marinai si sarebbero buttati in mare in seguito ad una simpatica disputa grazie a cui provarono stabilire chi fosse più bravo a nuotare vestito, mentre la famiglia del capitano ed il resto dell’equipaggio (Escluso Fosdyk) sarebbe stato a guardarli su un ponte speciale con cui il piano superiore del brigantino si prolungava a picco sul mare.

Il ponte speciale sarebbe crollato addosso al capitano ed all’equipaggio in mare, motivo per cui uno di quelli in acqua avrebbe cominciato a perdere sangue ed avrebbe attirato gli squali.

La vicenda diventa bizzarra quando la rivista Lo Strand Magazine circa quarant’anni dopo il ritrovamento della nave, pubblica alcuni carteggi e documenti riguardanti Abel Fodsyk provando a giustificare ed a dare per vera tale teoria, probabilmente in cerca di fama.


Negli ultimi anni la televisione ha provato ad ipotizzare dei finali sempre più assurdi accostando realtà con pura fantasia come, per esempio, nella nota fiction degli anni ‘60 “Doctor Who” dove viene supposto che la Mary Celeste fosse stata travolta dagli alieni.

Nonostante ci siano teorie più probabili di altre, non esiste nulla di certo e per questo la Mary Celeste rimane il nome di un mistero che probabilmente non verrà mai svelato.

 

Leonardo D’Este


Rapallo, 9 Settembre 2020


NAUFRAGIO DELLA FUSINA - 50 ANNI DOPO

IL NAUFRAGIO DELLA FUSINA

50 ANNI DOPO

ALCUNI RICORDI PERSONALI…



Posizione del relitto della M/n FUSINA nelle acque a nord dell’isola di San Pietro, Sono passati 50 anni da quella sera del 16 gennaio 1970, era un venerdì in cui il Fusina, partito da Portovesme poche ore prima, affondò in meno di un’ora, forse a causa del mal tempo o per altre cause di cui parleremo. Una cosa é certa: il maestrale, il vento più sardo di tutti che nasce in Provenza e s’abbatte furioso sulle coste occidentali della Sardegna e per una settimana é in grado di sollevare onde alte anche sette o otto metri.


LA DINAMICA DELLA TRAGEDIA


La notte del 16 gennaio 1970, la nave Fusina, partita da Portovesme in serata con un carico di blenda destinato a Fusina (Porto Marghera, Venezia). C’era una discreta maestralata in corso, ma non fu solo quella la causa del naufragio, la FUSINA, come si può vedere dalla foto, era una nave solida e moderna. La causa del naufragio, come fu accertato in seguito, fu lo spostamento del carico, un carico molto pericoloso. La nave sbandò e si capovolse a nord dell’isola di San Pietro, con un bilancio drammatico. Dei 19 membri dell’equipaggio, la maggior parte di origine veneta, 18 persero la vita, compreso il minorenne Angelo Barbieri, il cui corpo non fu mai trovato. Ci fu un solo superstite, il cameriere di bordo Ugo Freguja, considerato un “miracolato” per il modo in cui riuscì a salvarsi.

M/n FUSINA


A sinistra il Comandante MARIO CATENA – A destra UGO FREGUJA

Stralcio alcune parti dell’articolo di Mauro CARTA

Il comandante Mario Catena, un veneziano di cinquantadue anni, fece di tutto per salvare le vite affidate alla sua responsabilità: lanciando due volte l’SOS (senza risultato, trovandosi all’epoca la nave in una zona ombra per i segnali radio), illuminando il cielo con tutti i razzi di segnalazione disponibili, cercando di mettere a mare le scialuppe di salvataggio, senza riuscirvi a causa del forte sbandamento, delle onde violentissime, del panico che si era scatenato a bordo. Nessuno, in quella notte di burrasca, raccolse la richiesta di soccorso. Alla fine, il comandante ordinò di lanciarsi fuori bordo, nell’acqua gelida, con i soli giubbetti di salvataggio.

Un solo uomo, dopo aver nuotato disperatamente per otto ore, riuscì a raggiungere miracolosamente la terra in un punto dove poteva allontanarsi dalle onde e dagli scogli. Era Ugo Freguja, il cameriere di ventotto anni, che alla fine sarà, su diciannove uomini che componevano l’equipaggio del Fusina, l’unico superstite. Dobbiamo proprio a lui la testimonianza di quelle ore paurose. Freguja si abbandonò al sonno una volta a terra, sfinito, si risvegliò soltanto la mattina dopo e, soccorso da un pescatore, comunicò finalmente al mondo la notizia del naufragio della sua nave.

Che cosa resta oggi del Fusina? Un relitto, adagiato sul fondo del mare, coricato sul lato di dritta, a novantotto metri di profondità, due miglia a nord di Cala Vinagra.

Negli anni 62-63 ho navigato sulla t/n FINA ITALIA da 3° e 2° uff.le di coperta. Era soprannominata “la freccia del Golfo persico”. Aveva una portata lorda di 31.500 tonn. ed una velocità superiore ai 18 nodi.

Dei miei 15 mesi d’imbarco, ben 6 li navigai con l’allora 1° Ufficiale Mario CATENA, lo sfortunato Comandante che perì 50 anni fa a bordo della FUSINA, come abbiamo raccontato con grande tristezza. Di lui mi é rimasto nel cuore un episodio che più di tanti discorsi di circostanza, rede l’idea del carattere “marinaro” della persona, ma soprattutto di quel senso “paternalistico” che a bordo delle navi mercantili é difficile esercitare perché tutto é improntato al grado e alla “antica” disciplina sintetizzata dal concetto “safety first”. Non vorrei essere frainteso: le navi funzionano molto meglio di qualsiasi altro ambiente lavorativo di terra proprio perché da millenni esiste un impianto disciplinare che conferisce ad ogni membro dell’equipaggio le responsabilità di cui risponde sempre n prima persona.


La foto della cisterna MIRAFLORES, gemella della FINA ITALIA, mostra la passerella che viene usata dall’equipaggio per collegare in sicurezza il centro nave e la poppa.

Eravamo in Atlantico, nel mezzo di una vasta depressione da cui non si poteva scappare. La nave era bassa perché carica alla marca. La coperta era battuta da onde gigantesche. Le petroliere di quel tempo avevano il Ponte di comando sopra il cassero a centro nave dove alloggiavano tutti gli ufficiali di bordo. A poppa c’era la Sala Macchine, la cucina, gli alloggi dei Sottufficiali e della Bassa forza. Quando il mare era in tempesta il cassero centrale poteva rimanere isolato, per quanto ci fosse una passerella sopraelevata che permetteva il trasferimento del personale da una parte all’altra, per il trasporto non solo del personale ma anche delle vivande nelle ore di pranzo e di cena.

Fu proprio in quella difficile circostanza, con rollate di circa 20° che il 1° Ufficiale Mario CATENA si offrì (d’autorità) per andare a poppa a ritirare il cibo per tutti gli ufficiali.

“E’ inutile rischiare tutti. Vado solo io! Mi legate la vita con una cima lunga e siate pronti a virarla qualora mi vedeste decollare…”

Appena il Primo giunse al centro della passerella fu investito da un’onda alta almeno 10 metri, sparì totalmente nella schiuma e nel panico totale non ci rimase che tirare con forza la cima legata al suo corpo e sentimmo, grazie a Dio, che era ancora attaccato anche se la caduta gli aveva procurato molte ferite. L’uomo era forte e coraggioso, pertanto riuscì ad agguantare i candelieri e con la forza della disperazione, come lui stesso ci raccontò, si era salvato dal decollo…

Lo raggiungemmo per riportarlo a centro nave, ma lui insistette di voler andare a poppa… Era dolorante e claudicante ma non desistette dal compiere la missione per la quale si era offerto per tutti noi. Completammo insieme il tragitto e poi raggiungemmo finalmente la riposteria a centro nave.

Ecco chi era il Comandante Mario Catena: un padre che sentiva un grande senso di protezione verso il suo equipaggio che a bordo rappresentava la sua stessa famiglia, un uomo di mare che non temeva nulla, neppure le situazioni più difficili che in mare non mancano mai.

Nella mia carriera ho avuto modo di rivivere scene di quel tipo, anche peggiori, ed ogni volta ho pensato al coraggio di quel 1° Ufficiale il quale, con un gesto d’altruismo per lui del tutto “normale”, modificò il mio concetto d’umanità che ancora oggi, a distanza di quasi 60 anni, ricordo con grande emozione.


Ugo FREGUJA, L’unico superstite del naufragio

 

M/n ANNA MARTINI

LA TRAGICA SORTE TOCCATA ALLA FUSINA MI RIPORTA ALLA MENTE ALCUNI ALTRI RICORDI PERSONALI CHE MI SPINGONO AD APRIRE UNA BREVE PARENTESI …

Nel 1967, tre anni prima del naufragio della FUSINA, chi scrive era imbarcato sulla M/n ANNA MARTINI come 1° Ufficiale di coperta.

Il mio Comandante era un “viareggino” vicino alla pensione. Il tipo aveva un caratteraccio che si attenuava solo dopo irruenti esplosioni di bestemmie irripetibili … Lui e questa “carretta” letteralmente tirata su dal fondo nel primo dopoguerra, furono la migliore palestra professionale per la mia successiva carriera. Quel Comandante si era forgiato e temprato sui bovi e le paregge del suo paese, navigava a vista e vedeva i pericoli con largo anticipo, i suoi calcoli astronomici non erano precisamente i frutti raccolti all’Istituto Nautico, ma erano sempre originati da osservazioni acute del colore del mare e delle nuvole, dal volo dei gabbiani, dall’umore del vento che lui percepiva sul nasone avvinazzato, una specie di sensore a parabola che non lo tradiva mai, così diceva lui…, ma io penso tuttora che la sua vera capacità di navigare fosse il risultato di una grande esperienza maturata nella lotta contro i colpi di mare … e quindi dalle paure sofferte nell’arco della sua vita di uomo di mare.

Su quella carretta piena di buchi tamponati col cemento, il nostro solito viaggio era la traversata Genova-Cagliari con 90 auto FIAT caricate anche sulla “normale” …. ed il ritorno con 2.500 tonnellate di sale (dello Stato e dei Conti Vecchi) per calata Bengasi a Genova.

Quando in banchina non c’erano le FIAT… (a causa degli scioperi di quel periodo…), si navigava alla busca anche fuori dagli Stretti, come pirati a caccia di “noli”, senza radar, girobussola e con un radiogoniometro finto… Scalammo Siviglia per carbone, Safì (Marocco atlantico) per fosfati, Casablanca (merce varia), e ancora La Nouvelle (Golfo del Leone) per grano, a Porto Empedocle per salgemma (sale di miniera) e poi Marsiglia per caolino e molti altri scali minori con attrezzature prinordiali.

Nel nostro vagabondare per il Mare Nostrum praticando il contrabbando per rimpinguare il magro salario del Navalpiccolo, non mancarono i viaggi per caricare minerale proprio a Portovesme (Sardegna), carico destinato all’industria della nostra penisola.

Quando giunse l’ordine di fare rotta per quel primo viaggio di blenda, il Comandante mi guardò fisso negli occhi e mi disse: “Lei ha fatto esperienze su petroliere e navi passeggeri, ma sa cos’é la BLENDA?”

Con un certo imbarazzo confessai la mia totale ignoranza. Ed il Comandante viareggino rinverdì le sue “memorie” con un certo abbrivo che tornava a galla come fosse successo il giorno prima….

Allora le racconto brevemente del mio incontro/scontro a Portovesme con questo minerale bastardo. Ovviamente fui informato che il minerale andava caricato entro certi limiti di umidità, ma nessuno mi spiegò mai il motivo. Dovetti impararlo a mie spese…

A caricazione terminata con la supervisione di tecnici e periti chimici, mollai gli ormeggi e quando fummo sull’imboccatura eravamo già sbandati 10° a dritta. Mi resi subito conto del problema ma pensai ad una falla sul lato dritto di una stiva. Accostai immediatamente a sinistra e rientrai in porto a tutta forza. Ormeggiammo col lato più alto, il sinistro, ed i cavi in tensione ci salvarono dal rovesciamento. Lo sbandamento aveva superato i 30°. Le Autorità, il caricatore e tutti gli addetti ai lavori erano ancora in banchina… Tutti sapevano cos’era successo eccetto il sottoscritto col quale tutti però si complimentarono per la riuscita manovra che evitò il naufragio nel salotto di casa…. Nessuno ebbe il coraggio di salire a bordo”.

“Comandante, metta la nave in sicurezza, la leghi con tutti cavi di bordo in banchina e poi venga nel mio ufficio insieme al Perito chimico e al caricatore”. - Mi urlò il Capitano del porto –

Giunto nella “camera caritatis” dell’Autorità Marittima, notai che ce l’avevano tutti con il Perito chimico perché non avrebbe controllato correttamente l’umidità della blenda… e che avrebbe dovuto sospendere la caricazione ecc… ecc…”

“Qual è il punto? Cosa succede quando il carico é bagnato? – Chiesi quasi infastidito –

“Succede che appena si mette in moto, dal motore si sprigionano vibrazioni in ogni angolo della nave che ovviamente si propagano nelle stive che, in brevissimo tempo, si trasformano in giganteschi frullatori. A questo punto l’umidità diventa acqua, monta sulla superficie del carico e appena la nave accosta, per esempio a dritta, l’acqua scorre verso la paratia di dritta facendola sbandare… per farla affondare senza pietà… e giù bestemmie…!

Io ho avuto la fortuna di poter rientrare in porto prima che potesse accadere l’irreparabile!

Sior, ora lei é informato. Lei é il responsabile del carico, ma io le sarò sempre vicino, notte e giorno e le mostrerò come va trattata certa gente… e se poi ci sarà da “menare” entrerà lei in gioco con la sua esuberante giovinezza…”

Questo racconto, basato sui miei ricordi personali di oltre 50 anni fa, vuol solo dimostrare quanto siano insidiosi i pericoli che l’uomo di mare incontra non solo nel mare in tempesta, ma anche sulla terraferma dove gli interessi comuni degli addetti ai lavori convergono sulla necessità che la nave parta al più presto senza perdite di tempo! - “TIME IS MONEY” – Questa é la regola in ogni porto del mondo grande o piccolo che sia.

Ho ancora un brevissimo ricordo da raccontare, proprio sul Comandante Mario Catena della FUSINA. Era il 1964

MA COSA E’ IN REALTA’ QUESTA BLENDA? A COSA SERVE?

Ci siamo informati!

LA BLENDA

La sfalerite o blenda è il minerale dal quale si estrae industrialmente lo zinco, come sottoprodotto anche cadmio (Il cadmio è un metallo bianco-argenteo, abbastanza tenero; il cadmio metallico è impiegato nell'industria per la produzione di acciaio e plastiche. I composti sono usati nella produzione di batterie, di componenti elettronici e di reattori nucleari), gallio (Il gallio è usato per tenere insieme alcuni nuclei di bombe nucleari. Tuttavia, quando i nuclei sono tagliati e si forma polvere di ossido di plutonio, il gallio rimane nel plutonio. Il plutonio diventa quindi inutilizzabile come combustibile perché il gallio è corrosivo per parecchi altri elementi, indio (L'indio è usato principalmente per la fabbricazione di leghe bassofondenti, di cuscinetti e altre parti in movimento nell'industria automobilistica; alcuni suoi composti (arseniuro, antimoniuro e fosfuro) hanno assunto una certa importanza come semiconduttori).

I giacimenti italiani più significativi del minerale BLENDA sono quelli della Sardegna, in particolare Montevecchio nel Medio Camidano, Monteponi nell’Inglesiente e "Sos Enattos" di Lula (Nuoro). Vi sono altri giacimenti nel Nord Italia.

Il nome deriva dal greco σφαλερός (sfalerós, ingannatore) poiché anticamente il minerale era ritenuto ingannevole per i minatori. L'elevato peso specifico ed il fatto di trovare questo minerale associato con altri minerali metalliferi, tra cui la galena, faceva ritenere il minerale utile per estrarre metalli utili ma nessuno riusciva poi ad ottenerli. Tuttavia lo zinco venne ottenuto dai cinesi e, con la mediazione degli arabi, il metodo di estrazione dello zinco arrivò in Europa solamente nel medievo.

SFALEROS – Ingannatore…

M/n FUSINA – DATI NAVE

Nome

:

FUSINA

Anno di costruzione

:

1957

Cantiere

:

Cantiere Navale Pellegrino – Napoli (Italia)

Armatore

:

Società Armatrice S.A.N.A. – Trieste (Italia)

Nazionalità

:

Italiana

Stazza lorda

:

2.706 tonnellate

Stazza netta

:

1.474 tonnellate

Portata lorda

:

4.275 tonnellate

Lunghezza

:

95,60 metri

Larghezza

:

13,45 metri

Altezza

:

7,06 metri

Immersione

:

6,68 metri

Apparato motore

:

1 motore Fiat diesel ( 2 tempi – 7 cilindri)

Cavalli asse

:

1.750

Eliche

:

1

Velocità massima

:

14,20 nodi

Stive

:

3 x 4.517 metricubi

Data affondamento

:

Venerdì 16 gennaio 1970

Causa affondamento

:

Spostamento del carico

Rotta

:

Da Porto Vesme a Venezia

Equipaggio

:

19

Morti

:

18

Mare

:

Mediterraneo

Stato

:

Italia

Regione

:

Sardegna

Località

:

Isola di San Pietro

Ubicazione

:

39° 12’ 12” N – 8° 14’ E

Profondità

:

- 98 metri

CARLO GATTI

Rapallo, 4 Agosto 2020


M/T BOCCACCIO (Classe Poeti) - Finì in tragedia

M/T BOCCACCIO

(Classe Poeti)

Ebbe due vite: una fortunata in patria con la TIRRENIA e l’altra tragica con la Compagnia Saudita di Navigazione El Salam Shipping&Trading


Negli anni '60, durante il boom economico italiano (1958-1963), la richiesta di trasporto di automezzi da e per le isole italiane crebbe notevolmente. La Tirrenia, tuttavia, non disponeva di unità in grado di soddisfare questa domanda, essendo la flotta della compagnia di Stato costituita prevalentemente da navi atte al trasporto di passeggeri e solo secondariamente di autoveicoli.

La Tirrenia, che già nel 1963 reagì adeguando alcune delle navi già in flotta dotandole di garage, ordinò una serie di sei navi ro-ro gemelle alla ITALCANTIERI.

Queste prime sei navi della classe BOCCACCIO, consegnate tra il 1970 ed il 1971, erano lunghe 131 metri e larghe 20, per una stazza lorda di 6.900 tonnellate. Potevano trasportare 1.000 passeggeri e 200 autovetture e disponevano di 506 posti letto. VergaDeledda, costruite nel 1978, avevano le stesse dimensioni.

Il traghetto BOCCACCIO fu venduto, nel gennaio 1999, alla Compagnia Saudita di Navigazione El Salam Shipping&Trading, battente bandiera panamense che la ribattezzò AL SALAM BOCCACCIO 98.

Tra il 1991 ed il 1992 tutte le unità della prima serie, ad eccezione della Leopardi, furono sottoposte ad importanti lavori di ristrutturazione in diversi cantieri navali italiani. La tuga contenente il ponte di comando fu prolungata fino a poppa e su di essa furono aggiunti altri tre ponti, (vedi foto sopra) alterando drasticamente la linea delle navi, ma aumentando la capacità passeggeri (passata a 1.300 persone), il numero di posti letto (887) e il numero di autovetture trasportabili (passato a 320 grazie all'aggiunta di alcuni car deck). Per compensare la perdita di stabilità dovuta al notevole incremento dell'altezza le navi furono dotate di due controcarene laterali. Furono inoltre saldati i due portelloni garage laterali di prua.

Per maggiore chiarezza, riportiamo qui sotto una tabella che sintetizza, per ognuna di esse, le fasi della propria esistenza in servizio dal Varo al Destino finale.

Unità della classe POETI

 

Nome

Varo

Cantiere

Entrata in servizio

Destino finale

Boccaccio

8 giugno 1969[11]

Castellammare di Stabia[11]

8 luglio 1970[11]

Affondata nel Mar Rosso il 3 febbraio 2006, più di 1.000 vittime

Carducci

28 luglio 1969[12]

Castellammare di Stabia[12]

21 settembre 1970[12]

Demolita in India nel novembre 2006 come Carducci[13]

Pascoli

11 gennaio 1970[14]

Palermo[14]

3 febbraio 1971[14]

Demolita in India nel luglio 2006 con il nome di Pascoli 96

Leopardi

14 marzo 1970[15]

Castellammare di Stabia[15]

24 gennaio 1971[15]

Demolita in India nel marzo 2005

Petrarca

12 dicembre 1970[16]

Palermo[16]

22 luglio 1971[16]

Affondata al largo di Duba nel giugno 2002

Manzoni

19 febbraio 1971[17]

Castellammare di Stabia[17]

29 ottobre 1971[17]

Demolita in India nell'agosto 2006

Deledda

26 maggio 1977[18]

Castellammare di Stabia[18]

1 luglio 1978[18]

Demolita nel 2008 in Bangladesh come Z Yuan

Verga

10 settembre 1978[19]

Castellammare di Stabia[19]

16 ottobre 1978[19]

Demolita in Turchia nel 2011 come Dimitroula.

La seconda vita delle navi Classe BOCCACCIO

La Leopardi fu venduta nel 1994 alla Al Salam Shipping, prendendo il nome di Santa Catherine e venendo impiegata in servizi nel Mar Rosso. Nello stesso anno la Deledda fu venduta ad una compagnia di navigazione cinese, partendo alla volta della Cina il 4 gennaio 1995 con il nome di Zhong Yuan. La Verga fu posta in disarmo a Napoli al termine della stagione estiva 1996; il traghetto fu venduto nel febbraio 1997 alla greca G.A. Ferries, prendendo il nome di Dimitroula e venendo immessa nei collegamenti interni greci. Le altre cinque unità della classe furono tutte poste in disarmo in vari porti italiani alla fine della stagione estiva 1997, venendo acquistate in blocco dalla El Salam Shipping nel 1999. Rinominate Al Salam Boccaccio 98, Al Salam Carducci 92, Al Salam Manzoni 94, Al Salam Petrarca 90 e Al Salam Pascoli 96, negli anni seguenti alternarono servizi nel Mar Rosso a noleggi, soprattutto estivi, nel Mediterraneo.

Mediamente i POETI, nella loro trentennale attività con la TIRRENIA, scalavano diverse volte la settimana il porto di Genova ed erano, per noi Piloti del porto, appuntamenti amichevoli, per non dire fraterni con tutti i Comandanti ed ufficiali che a turno ne formavano lo Staff del Comando. Erano le navi a cui eravamo maggiormente affezionati, le sentivamo anche nostre non solo perché appartenevano ad una Compagnia di Stato, ma perché erano state la PALESTRA su cui eravamo cresciuti professionalmente gomito a gomito con i loro validissimi e specializzati Comandanti. Non basterebbe un voluminoso libro per raccontare succosi aneddoti … e momenti di tensione con il vento di tramontana a oltre 60 km/h, oppure durante improvvisi blackout in mezzo al traffico contemporaneo di navi che alle 08 di mattina e alle 17/18 di sera entravano, uscivano e facevano movimenti interni al porto.

Una mattina, di ”feroce” tramontana, trovai sul ponte di comando il simpaticissimo Renato Pozzetto che conversava con il Comandante il quale me lo presentò e mi disse che il comico aveva un po’ di premura per il ritardo che la nave aveva accumulato in navigazione per via del cattivo tempo.

Gli dissi: “stia tranquillo Sig. Renato, con questo vento le manovre sono rapidissime, o vince lui o vinciamo noi, alla fine vince il più forte e, alla fine… amici come prima!”

Terminata la manovra mi disse: “… e la M….! Mi sembrava di essere su un motoscafo RIVA…nel golfo Tigullio! Complimenti… Ciao-Ciao!

Con questo simpatico ricordo, il lettore si rende conto che la classe poeti aveva una formidabile personalità, manovrabilità e che per lunghi anni diede un contributo enorme al collegamento tra i porti del continente e le nostre isole maggiori e minori.

CRONACA DI UN NAUFRAGIO 04/02/2006

Il 2 febbraio 2006 la Al-Salam Boccaccio 98 con a bordo 1272 passeggeri e 104 membri dell'equipaggio mentre navigava tra Arabia Saudita ed Egitto nel Mar Rosso naufragò causando circa 1.000 vittime tra morti e dispersi. Il naufragio della Al Salam Boccaccio 98 è considerato uno dei peggiori disastri marittimi della storia. Vennero recuperati 388 naufraghi.

 



Nelle foto (infrarosse) un'unità U.S. Navy in cerca dei dispersi

Il traghetto Al Salaam Boccaccio 98 è colato a picco in piena notte al largo di Hurghada. Sarebbe dovuto arrivare nel porto egiziano di Safaga, ma ha finito il suo viaggio in fondo al mare.

A bordo c’erano circa 1400 persone: 104 uomini dell’equipaggio e 1.272 passeggeri, la maggior parte dei quali egiziani emigrati in Arabia Saudita per lavoro e pellegrini di ritorno dalla Mecca. Ma la lista dei passeggeri annovera anche un centinaio di sauditi e alcuni cittadini di altri paesi mediorientali.
La nave che trasportava anche alcune decine tra automobili e Tir, era partita da Jeddah via Dubah.

Immediata fu la reazione del presidente Mubarak: “La rapidità del naufragio e il fatto che a bordo non ci fosse un numero sufficiente di scialuppe di salvataggio - disse alla tv egiziana il suo portavoce, Suleiman Awad - conferma che sulla nave c'era un problema”. L’atto successivo del capo di stato fu quello di esigere un’inchiesta urgente per chiarire la dinamica della disgrazia, e verificare i criteri di sicurezza del traghetto affondato e delle decine di traghetti identici che ogni settimana percorrono la stessa tratta.

Sono trascorsi 16 anni ma le cause della tragedia sono ancora ignote. Lo scafo potrebbe aver urtato violentemente contro una delle mille secche che rendono questo tratto di mare tra i più insidiosi, oppure contro una delle grandi torri di corallo che si alzano dai fondali vulcanici.

Ma le cause possono essere altre dovute al cattivo tempo in corso quella notte, pertanto si potrebbero essere aperte delle falle nello scafo in seguito allo spostamento del carico, oppure un incendio improvviso. Una cosa é certa: La nave s’inabissò in pochissimo tempo e, pare, che le lance di salvataggio non fossero sufficienti per tutti i passeggeri imbarcati e per l’equipaggio.

Le inchieste accertarono che da bordo partì un SOS. Le autorità egiziane negarono di aver ricevuto la richiesta di aiuto precisando che l'ultimo contatto radio era stato regolare, anche se le condizioni meteo erano cattive. Ma il Centro coordinamento soccorsi dell'aeronautica militare britannica di Kinloss, in Scozia, smentì subito la versione del Cairo. «Abbiamo raccolto l'SOS proveniente dalla nave alle 23.58. Abbiamo trasmesso l'informazione ai francesi che l'hanno girata agli egiziani».

Al momento, la causa giudiziaria é ancora in corso. Riporto gli aggiornamenti al 2020 redatti da Riviste specializzate:

SHIPPING ITALY.IT

Le vittime dell’affondamento di una nave che ha navigato sotto bandiera di Panama possono proporre un’azione di risarcimento danni dinanzi a un tribunale italiano nei confronti del registro navale (RINA) che ne aveva fornito la classificazione e certificazione. E’ questa la conclusione a cui è giunta la Corte di Giustizia Europea che ha pubblicato una nota a seguito della sentenza appena pronunciata per spiegare che quindi il gruppo guidato da Ugo Salerno non potrà godere di una sorta di immunità giuridica a casa propria. Una richiesta di chiarimenti in tal senso era stata espressamente inviata in Lussemburgo dalla Corte dal Tribunale di Genova,

Il caso in questione riguarda infatti il traghetto Al Salam Boccaccio ’98, battente bandiera della Repubblica di Panama, e affondato nel Mar Rosso nel 2006 con a bordo più di 1.000 persone che hanno perso la vita. I parenti delle vittime e i sopravvissuti all’affondamento si erano rivolti al Tribunale di Genova chiamando in causa il RINA SpA (Registro Italiano Navale) che lo controlla chiedendo il risarcimento dei danni derivanti dalla responsabilità civile della società per aver fornito classificazioni e certificazioni a una nave che è poi affondata. Il RINA aveva provato appunto a opporsi al giudizio in Italia ritenendo che il tribunale di Genova non potesse essere competente sulla questione. La Corte di Giustizia Europea ha ora stabilito che così non è.

Il RINA, a seguito del pronunciamento del Lussemburgo, ha precisato quanto segue:

“In merito al comunicato stampa diffuso dalla Corte di Giustizia Europea relativo alle conclusioni sulla questione preliminare proposta dal Tribunale di Genova in un procedimento relativo all’incidente occorso nell’anno 2006 alla nave Al Salam Boccaccio, il RINA precisa che la Corte ha espresso la propria posizione esclusivamente sulla questione di carattere processuale dell’individuazione della giurisdizione competente. La Corte ha, inoltre, stabilito che le verifiche necessarie all’applicazione in concreto dei principi da essa stessa affermati dovranno essere effettuate dal giudice nazionale, al quale spetterà pronunciarsi sulla propria competenza. Resta del tutto estranea al giudizio della Corte del Lussemburgo e, quindi, alla pronuncia di oggi, ogni valutazione nel merito della vicenda. RINA in proposito ribadisce e conferma la correttezza del proprio operato”.

18/09/2019 MEDI TELEGRAPH

Naufragio del “Boccaccio”, sarà la Corte Ue a decidere sul risarcimento / GALLERY

Genova - I parenti delle vittime chiedono la condanna del RINA, ma la società genovese respinge la richiesta. L’affondamento del traghetto è avvenuto 13 anni fa.

18/09/2019

Genova - Approda davanti alla Corte di giustizia Ue la richiesta di risarcimento dei parenti delle vittime del traghetto Al Salam Boccaccio 98 ai danni di RINA (Registro Navale Italiano).

La vicenda risale al 2 febbraio 2006, quando a seguito del naufragio della Al Salam Boccaccio 98 nelle acque internazionali del Mar Rosso morirono più di mille persone. L’imbarcazione batteva bandiera panamense, ma era stata costruita in Italia e aveva ricevuto le certificazioni navali e la classificazione dal Rina.

Nel 2013 i parenti delle vittime e i sopravvissuti al naufragio si sono rivolti al Tribunale di Genova chiedendo la condanna del RINA al risarcimento danni sulla base della sua sede legale e sostenendo che le attività di classificazione e certificazione rese dal RINA sarebbero state eseguite colposamente, producendo l’instabilità della nave e l’insicurezza della sua navigazione e causandone l’affondamento.

Una richiesta respinta dal RINA, che chiede l’immunità giurisdizionale e sostiene che l’indennizzo sia da riferirsi allo Stato su cui si basa l’attività amministrative della nave, quindi Panama. Per risolvere il contenzioso, il Tribunale di Genova si è rivolto alla Corte di giustizia Ue. Le conclusioni dell’Avvocato Generale saranno lette il 3 dicembre 2019.

Il "vecchio poeta" adesso giace tuttora in fondo al Mar Rosso, con il suo spaventoso carico di morti, 37 anni dopo aver toccato per la prima volta l'acqua salata.

E ancora nessuno sa spiegarsi il perché di questa tragedia ammantata di giallo e di mistero, che ha per protagonista il traghetto "Al Salam Boccaccio 98", Vecchio, vecchissimo, battente bandiera panamense che fu inghiottito dalle acque con il suo carico di pellegrini e di emigranti egiziani – Vecchio, eppure in piena regola per la navigazione ….

Sentiamo la versione di un marittimo che il Boccaccio lo conosceva bene.

«Conoscevo bene questa nave, ho navigato a lungo come marittimo su quel bordo - racconta Amedeo Schiavone - oggi segretario regionale ligure della Filt-Cgil. Ne ho poi seguito tutta la vita, la trasformazione, la vendita, fino alla tragedia. C'è una cosa che oggi, guardando la foto d’epoca che tutti i Tg hanno trasmesso, mi ha veramente colpito. E’ il fatto che il traghetto aveva il "bordo libero" molto basso, cioè quella linea celeste che deve sempre restare fuori dall' acqua perché è il limite al carico. Bene, quella linea era semicoperta. Cos' è accaduto non lo so, ma una nave stravecchia e stracarica non dovrebbe navigare neanche nel lago di Massaciuccoli. Perché un conto è un certificato di idoneità alla navigazione e uno le condizioni in cui si naviga. E nel mare può davvero accadere di tutto».

Carlo GATTI

Rapallo, Mercoledì 27 Maggio 2020


L’AFFONDAMENTO DELLA MOTONAVE PAGANINI

 

28 giugno 1940

L’AFFONDAMENTO DELLA MOTONAVE PAGANINI


Rappresentazione pittorica del naufragio

Una tragedia dimenticata, come l'ha definita qualcuno, o comunque poco nota. È quella dell'affondamento della motonave Paganini, esplosa il 28 giugno 1940 al largo di Durazzo. A bordo del piroscafo c'erano oltre novecento soldati: provenivano per la maggior parte dalla Toscana, e in particolare da tre reparti fiorentini.


Due belle e felici immagini della PAGANINI in navigazione


L’affondamento della motonave “Paganini” fu forse il primo disastro della Seconda guerra mondiale. In quei giorni, si ammassavano truppe in Albania destinate all’occupazione della  Grecia.

La sera del 27 Giugno del 1940, la motonave Paganini salpa da Bari facendo rotta per Durazzo. Si tratta di una nave civile di poco meno di 2.500 tonnellate, noleggiata alla Tirrenia.


L'imbarco avviene nella confusione più totale: non ci sono elenchi, per anni questo particolare agevolerà le illusioni di molte famiglie. Addirittura, quattro soldati di Anghiari fanno un salto a casa a casa per salutare le famiglie, perderanno la nave a loro destinata, saliranno sulla Paganini, per loro significa la morte. Un altro perde la nave per andare a comprare le sigarette, prenderà il piroscafo successivo, si salverà.

Al tramonto del 27 giugno il convoglio, formato dalla Paganini, da una nave cisterna, e dalla nave scorta cacciatorpediniere Fabrizi, parte alla volta dell'Albania.


La nave sbandata é in preda al fuoco, tra poco s’inabisserà

All’alba del 28 giugno la nave M/N PAGANINI ha un sussulto causato da un’esplosione nella stiva N.2. Immediatamente divampa un furioso incendio, la cui causa è tutt’ora controversa.

Le fiamme si levano subito altissime, grida, disperazione, panico. Il naufragio avviene alle 6,15 mentre la motonave si trova al largo di Durazzo.

A bordo del piroscafo, che può trasportare 58 passeggeri, oltre alle merci, vi sono oltre 900 soldati del diciannovesimo reggimento artiglieria e una sezione dell'Istituto geografico militare, entrambe di stanza a Firenze.

La maggior parte proviene della Provincia di Firenze, altri dalle città e dalle zone circostanti: Mugello, Chianti, Val di Sieve, Valdarno. Di queste zone si contano numerosi caduti, dispersi e naufraghi che furono tratti in salvo. Centinaia erano i soldati della val di Sieve presenti in Albania, inquadrati nei Reggimenti della Divisione Venezia.
Dei circa 220 morti e dispersi, secondo la lista pubblicata fino dalla sera dell’11 luglio, il 90% delle vittime era in forza al 19° Reggimento Artiglieria della Divisione di Fanteria Venezia di stanza a Firenze, con sede alla Caserma Baldissera, detta la Zecca.
In un mare di fuoco, i soccorsi sono difficili e scarsi, nonostante la vicinanza della costa albanese. Per molti giorni non si hanno notizie, poi l'11 luglio i famigliari apprendono dai giornali della sorte dei loro cari.

Il ministero della guerra invia alle famiglie le solite fredde parole di circostanza. I bollettini di guerra non parleranno mai dell'accaduto.

Secondo le indagini esperite dal tribunale di Tirana nel luglio 1940 l'incendio, scoppiato nella stiva n. 2 della motonave, è dovuto a sabotaggio.

Quanti furono i morti, i dispersi, i mutilati? Incertezze e carenze burocratiche hanno alimentato per anni le speranze di chi non si rassegna alla fine dei loro cari. C'è poi il mistero dei grandi invalidi: feriti straziati, privati degli arti e della vista che sarebbero stati ospitati in alcuni istituti fiorentini. Circostanza, anche questa che avrebbe alimentato la speranza di alcune madri e mogli che per anni sono state alla ricerca dei loro cari.

Il naufragio della Paganini è passato sotto silenzio, per quasi settant'anni non si è riusciti a sapere quasi niente. Cos'è accaduto veramente? Quanti sono i morti e i dispersi? Sono molti i misteri che hanno avvolto la fine della motonave che è costata la vita a oltre 219 soldati, secondo le fonti ufficiali, secondo altri la cifra complessiva sarebbe di 340 uomini.

Fa da sfondo alla tragedia il pressapochismo e l'impreparazione che caratterizza l'entrata in guerra dell'Italia e la vicenda della Paganini ne è la riprova lampante: soldati, armi, muli, paglia, fieno e macchinari sono sistemati alla rinfusa nelle stive e ammassati in coperta, mancano le scialuppe di salvataggio e le vie di fuga non sono adeguate all'abbandono veloce della nave, i giubbotti di salvataggio non sono adeguati e molti non sanno usarli.

La storiografia ufficiale si è dimenticata della Paganini, rimasta invece nella memoria di molti. Ogni anno nella basilica della Santissima Annunziata a Firenze è celebrata una Messa in suffragio dei caduti. L'appuntamento si ripeterà anche quest'anno alle 12 di lunedì 28 giugno.

IL DIFFICILE RECUPERO DEI NAUFRAGHI

La Fabrizi affiancò la Paganini sul lato dove si erano concentrati più uomini, e l’equipaggio della torpediniera si prodigò nel recuperare quanti più uomini possibile. In tutto la torpediniera riuscì a trarre in salvo 437 naufraghi, tra cui parecchi feriti ed ustionati, anche in modo grave.


Due immagini d'epoca della Paganini in fiamme al largo di Durazzo

Il relitto della Paganini, la cui posizione era nota ad alcuni abitanti di Durazzo, è stato ritrovato ed identificato nel gennaio 2009 da un gruppo di subacquei guidato da Cesare Balzi. La nave giace a 35 metri di profondità a 2,4 miglia dalla riva tra Durazzo e Capo Pali (ed a quattro miglia dall’uscita del porto di Durazzo), sbandata di 45 gradi a sinistra, con le strutture superiori che giungono a 28 metri; la prua è rivolta a sudovest, con rotta 210°. La zona prodiera è la più danneggiata, con parte del ponte e della plancia che sono crollate (non solo per effetto dell’incendio, ma anche a causa della pesca con la dinamite effettuata da alcuni pescatori locali), mentre la poppa è relativamente ben conservata, in particolare la poppa estrema, unica parte della nave a non essere stata raggiunta dall’incendio del 28 giugno 1940. I locali interni sono ricoperti da uno strato di sabbia e fango. La campana della Paganini è stata recuperata e restaurata ed è conservata dal National Center of the Stocktaging of Cultural Properties del Ministero del Turismo, Cultura, Gioventù e Sport dell’Albania, a Tirana.

Ogni anno, il 28 giugno – sin dal 1941, vengono commemorati i caduti della Paganini con una messa celebrata nella Basilica della Santissima Annunziata a Firenze.

ALCUNI DATI TECNICI E STORICI

Motonave mista da 2424 (o 2427) tsl, 1421 tsn e 2985 tpl, lunga 85,34-89,61 m, larga 12,19 e pescante 6,4, con velocità massima 13,7 nodi. Appartenente alla Società Anonima di Navigazione Tirrenia, con sede a Napoli, ed iscritta con matricola 55 al Compartimento Marittimo di Fiume.

Breve e parziale cronologia.

15 novembre 1927

Impostata nel Cantiere Navale Triestino di Monfalcone (numero di costruzione 194).

23 luglio 1928

Varata nel Cantiere Navale Triestino di Monfalcone.

29 settembre 1928

Completata per la Compagnia Adria Società Anonima di Navigazione, con sede a Fiume. Ha cinque gemelle: DonizettiPucciniRossiniVerdiCatalani (la serie «Musicisti»), tutte destinate ad andare perdute in guerra, tre di esse con fine particolarmente tragica. Possono trasportare 58 passeggeri più le merci.

1° gennaio 1937

Trasferita alla società Tirrenia, che ha assorbito la compagnia Adria. Unitamente alle gemelle, la Paganini, noleggiata dal Commissariato per la Marina Mercantile (Ministero delle Comunicazioni), presta servizio sulla linea n. 32 (Fiume-Venezia-Ancona-Bari-Catania-Malta-Messina-Palermo-Napoli-Livorno-Genova-Imperia-Marsiglia-Barcellona-Tarragona-Valencia-Fiume per totali 3997 miglia nautiche).

10 giugno 1940

L’Italia fa il suo ingresso nella seconda guerra mondiale; la linea n. 32 viene sospesa e la Paganini viene fermata a Livorno.

La motonave viene poi noleggiata dal Ministero della Marina (senza essere requisita; altra fonte data l’inizio del noleggio al maggio 1940, anziché al giugno) per trasportare truppe in Albania, in previsione dell’invasione della Grecia.

18-26 giugno 1940

Lavori di adattamento alla mansione di trasporto truppe: nelle stive prodiere e poppiere vengono sistemate centinaia di cuccette per i soldati; vengono realizzati box per alloggiare gli animali; poi la nave si trasferisce a Taranto e qui viene armata con un cannone da 120/45 mm, sistemato a poppa, e due mitragliere contraeree binate da 13,2 mm, collocate sul cielo della plancia.

Per chi desiderasse approfondire l’argomento, segnalo il blog:

CON LA PELLE APPESA AL CHIODO

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Carlo GATTI

 

Rapallo, 6 Novembre 2019

 


CITY OF ADELAIDE Il relitto trasformato in una foresta galleggiante

 

CITY OF ADELAIDE

Il relitto trasformato in una foresta galleggiante


CARRICK fu un clipper a motore ausiliario costruito nel 1864 dai cantieri William Pile & Hay di Sunderland con il nome di City of Adelaide per la DeVitt & Co. di Londra per i viaggi in Australia di merci e passeggeri.

Fu lussuosamente attrezzato per il massimo comfort dei passeggeri di prima classe. La seconda e la terza venivano attrezzate quando necessario.

Stazza 860 tonnellate. Lunghezza metri 53,85.

Venne varato il 7 maggio 1864.

Dal 1864 al 1893 è stato utilizzato per trasporto di merci varie e di emigranti verso l'Australia ed al ritorno con lana australiana per l'Inghilterra.

Era una delle poche navi che nella seconda metà dell'800 facevano regolari viaggi su quella rotta e da sola diede grande impulso allo sviluppo australiano: si calcola che il 60% della popolazione del Sud Australia possa rintracciarne l'arrivo degli antenati nei manifesti di bordo di questo bastimento.

I viaggi vennero effettuati sempre con le vele; molto raramente e per pochi tratti fu utilizzato il motore ausiliario successivamente montato.

Dal 1865 al 1887 è stato riadattato internamente per adibirlo al trasporto di emigranti verso il Nord America ed al ritorno carico di legname per l'Inghilterra.

Nel 1887 fu rivenduto ai Dixon's di Londra, riarmato a brigantino ed utilizzato per il solo trasporto merci.

Nel 1893 cessò l'utilizzo delle vele. In quell'anno è stato disalberato ed utilizzato per diversi servizi: per trent'anni, sino al 1923, dalla Southampton Corporation come lazzaretto di isolamento per i malati di colera.

Nel 1924 venne acquistato dall'Ammiragliato Britannico che lo ricostruì ribattezzandolo Carrick, lo portò a Glasgow e e per i successivi ventitrè anni lo utilizzò come Comando della Divisione Clyde della Marina, per la Riserva Navale e per il servizio alloggiamenti.

Attualmente si trova ad Irvine nel North Ayrshire in Scozia, sede di un museo.

ISOLA MAGNETICA  QUEENSLAND – AUSTRALIA



Magnetic Island si trova all'interno del Parco Marino della Grande Barriera Corallina, dichiarata Patrimonio dell'Umanità, ma è caratterizzata da un paesaggio differente dalle tipiche foreste pluviali tropicali che coprono le altre isole della zona. Intorno a 275 milioni di anni fa, le forze della natura crearono uno straordinario paesaggio fatto di terreni rocciosi e massi giganteschi. Il livello delle precipitazioni registrato a Magnetic Island è inferiore rispetto alle zone umide tropicali a nord e alle Isole Whitsunday a Sud. Il suo clima è tipico dei tropici asciutti e il territorio è coperto da foreste di eucalipti.

I proprietari storici di Magnetic Island, gli aborigeni Wulgurukaba, abitano sull'isola da migliaia di anni. Nella loro lingua, l'isola si chiama "Yunbenun". I cumuli di conchiglie, gli utensili in pietra e i siti d'arte rupestre sono testimonianze fisiche del loro forte legame con l'isola. Magnetic Island oppure Headland, venne così denominata da James Cook il 7 giugno 1770, mentre viaggiava lungo la costa orientale dell'Australia, mentre superava l'isola, sentiva un effetto magnetico sulla bussola della sua nave.

Il Magnetic Island National Park copre più di metà della superficie di Magnetic Island e offre oltre 24 chilometri di sentieri percorribili a piedi. L'itinerario Forts Walk, percorribile in un'ora e mezza di cammino, consente di ammirare forti della Seconda guerra mondiale, incredibili panorami e, talvolta, di incontrare un koala. Mount Cook sorge al centro dell'isola ed è il punto più alto. Durante i mesi estivi (da dicembre a febbraio) le tartarughe marine nidificano sulle spiagge.

ALBUM FOTOGRAFICO

A cura di PINO SORIO

sta galleggiante La denominazione di Magnetic Island (conosciuta localmente come "Maggie") si trova al largo della costa di Townsville nel nord del Queensland.


La CITY of ADELAIDE fu una nave a vapore varata nel 1864 a Glasgow-Scozia.

In seguito fu convertita in “barque” per il trasporto di merci. Nel 1912 prese fuoco. E nel 1916, quel che rimase dello scafo andò ad incagliare nella Baia di Cockle (Isola Magnetica-Australia).

Durante la Seconda guerra mondiale quattro persone furono uccise durante le esercitazioni degli aerei della RAAF che avevano individuato il relitto e se ne servivano come bersaglio.


GATTI CARLO

Rapallo, 4 Ottobre 2019


IL NAUFRAGIO DEL P.FO RAVENNA

IL PIROSCAFO PASSEGGERI RAVENNA viene affondato da un U-BOOT tedesco

Al largo di Capo Mele (Liguria)

PRIMA GUERRA MONDIALE

4 Aprile 1917

272 persone vennero salvate da diciotto barche di pescatori locali. Le vittime furono soltanto 6. Il relitto del piroscafo RAVENNA giace a quasi 100 metri di profondità tra Laigueglia e Andora. Davanti al santuario di Nostra Signora delle Penne a Capo Mele.


La strada statale SS1 scorre da Laigueglia a Marina di Andora passando per il promontorio di Capo Mele davanti al quale avvenne il naufragio.


Il faro di Capo Mele è situato sull’omonimo promontorio che divide le località di Laigueglia e Andora provincia di Savona (Liguria).


Piroscafo RAVENNA

ALCUNE NOTE STORICHE

La battaglia dell'Atlantico incentrata principalmente sugli attacchi dei sommergibili tedeschi al traffico mercantile alleato fu, durante la Prima guerra mondiale (1914-1918), il confronto più importante e protratto nel tempo tra le Marine inglese e statunitense da un lato e la Marina tedesca dall'altro che contrastava i rifornimenti dagli USA all’Europa sulle rotte più battute.

 

Nel maggio del 1915, l'U-20 tedesco affondò il transatlantico RMS LUSITANIA. Delle 1.345 vittime, 127 erano civili americani. L'evento fece rivolgere l'opinione pubblica americana contro la Germania e fu uno dei fattori principali dell'entrata in guerra degli Stati Uniti a fianco degli Alleati durante la prima guerra mondiale.

Il 31 gennaio 1917 la Germania dichiarò che i suoi U-Boot si sarebbero impegnati in una “guerra sottomarina indiscriminata”

Al culmine dell’azione degli U-Boote, nella primavera del 1917, erano state affondate non meno di 800 navi per circa 2 milioni di tonnellate. Nel giugno dello stesso anno le perdite raggiunsero: 3.880.000 tonn.

U-Boot è il termine tedesco per indicare genericamente i sommergibili, ed è l'abbreviazione di Unterseeboot, letteralmente "battello sottomarino”. Il termine è utilizzato nelle altre lingue per indicare i battelli sottomarini utilizzati durante la Prima e la Seconda guerra mondiale dalla marina militare tedesca (Kriegsmarine). Talvolta è utilizzata la forma anglicizzata U-Boat.

Il piroscafo RAVENNA non é ricordato dalle comunità locali come “relitto”, ma soltanto con il suo nome: là giace a circa 100 metri di profondità il RAVENNA…

Come se l’atto di vigliaccheria compiuto dal KILLER tedesco non avesse avuto successo, nonostante il piroscafo fosse stato colpito con molta precisione nella fiancata destra da un micidiale siluro e venisse inghiottito dal mare in pochi il 4 aprile 1917. Un affondamento che non divenne una tragedia del mare perché 272 persone vennero salvate da diciotto barche di pescatori locali. Le vittime furono soltanto 6.

Il salvataggio compiuto con grande coraggio e tempismo dagli uomini della costa, sempre attenti con lo sguardo rivolto verso il mare. Questo é il vero ricordo che é rimasto nel cuore di quei pescatori laiguegliesi che a distanza di 102 anni continuano a tramandarselo di padre in figlio.

Dalla Rocca di Gibilterra gli inglesi controllavano il transito di tutte le navi ma la tecnologia degli strumenti navali era ancora agli albori per cui l’entrata in Mediterraneo dell’U-boot tedesco non fu segnalata. Tuttavia da diverse imbarcazioni venne segnalata la presenza di motovelieri di un certo tipo che venivano usati per rifornire i sommergibili avversari. Le Capitanerie alzarono il livello di vigilanza. Anche il presidio militare (Corpo di Guardia di Fanteria) di Capo Mele fu allertato ma … era orma troppo tardi!

Da un ingiallito quotidiano trovato dal giornale AVVENIRE.IT leggiamo l’interessante intervista al Comandante del RAVENNA poco dopo il salvataggio.

Buongiorno Comandante, prima di tutto come sta’? Si è rifocillato?

«Si certo grazie, beh considerando le circostanze direi che c’è andata bene. Siamo a qui a raccontarla dopo tutto…».

Bene iniziamo allora, le farò delle domande piuttosto secche, sa dobbiamo compilare un questionario circa tutte le azioni di sommergibili nemici contro navi mercantili. La sua si chiamava?

«“Ravenna”, piroscafo nazionale “Ravenna”».

Il suo nome Capitano?

«Pasquale Zino».

Porto di partenza?

«Buenos Aires».

Quando siete partiti?

«Esattamente un mese fa, il 4 marzo 1917».

Porto di destinazione? «Genova».

La posizione della nave, data e ora all’avvistamento del sommergibile?

«A circa 2,5 miglia al largo di Capo Mele, oggi 4 aprile 1917 alle ore 09:15 avvistammo un siluro».

Data, ora e posizione della nave quando questa venne affondata e/o abbandonata?

«4 aprile 1917, h.09:30 a 2,5 miglia al largo di Capo Mele Laigueglia».

Mentre le parole del capitano, interrogato poche ore dopo aver abbandonato per ultimo la sua nave, risuonavano nella stanza della Regia Delegazione di Porto di Laigueglia, i passeggeri e l’equipaggio erano all’asciutto. Non grazie alle insufficienti scialuppe di salvataggio ma al soccorso portato da 38 pescatori a bordo di 15 barche di Laigueglia e 3 di Alassio. Uomini con decine d’anni di duro lavoro sulle spalle, con i figli in guerra, che mollarono le reti già calate e remarono con tutta la forza che avevano nelle braccia verso il piroscafo. Le barche lo circondarono come per tenerlo a galla traendo in salvo 189 passeggeri e 83 membri di equipaggio: 272 persone. All’appello ne mancarono 6, perite nello scoppio del siluro lanciato dal sommergibile tedesco U52. I pescatori non riuscirono a caricare subito tutti e fecero più volte la spola tra il molo e il punto dell’affondamento. Tra quelli rimasti in mare, in attesa, un marinaio si aggrappò all’anta di un armadio. Quando tornarono a prenderlo non si separò più da quel pezzo di legno: rientrato a casa dipinse su di esso la scena del salvataggio con una dedica alla Madonna. I “reordi” – così erano detti i pescatori – lavorarono anche al recupero degli oggetti che via via affioravano: vele, remi, bussole, recipienti di latta, casse, fanali a globo di vetro, tele, timoni, secchi, valigie… E alla fine attesero un pezzo di carta. Non una banconota ma un attestato che certificasse la loro azione eroica, da mostrare con orgoglio ai figli scampati al fronte. Il tempo e la burocrazia diventarono nemici imbattibili.

Nel centesimo anniversario, la lettera dal Quirinale al sindaco di Laigueglia Franco Maglione in cui si sottolinea «il partecipe sentimento di vicinanza del Presidente Mattarella per questa dolorosa ed eroica pagina di storia», l’inaugurazione di un memoriale e la consegna di un encomio solenne agli eredi rintracciati dei salvatori (la ricerca da parte del Comune è tuttora in corso), hanno saldato il debito morale dello Stato. Nella tre giorni settembrina dei festeggiamenti in onore di San Matteo, patrono di Laigueglia (nella classifica dei borghi più belli d’Italia), sono previste altre iniziative in memoria del “Ravenna”. Una nave, non un relitto.

Fonte: Agenzia BOZZO – Camogli

 

LA STORIA DELLA NAVE RAVENNA - DATI NAVE E TESTIMONIANZA DEL COMANDANTE TEDESCO

Il piroscafo Ravenna - Dati principali:

Impostato nel 1899 nel cantiere Nicolò Odero di Genova per conto della Compagnia Italia S.A. di Navig a
Varato: 2.3.1901.
Dislocamento: 4.101 tsl e 2.549 tsn.
Lunghezza: mt. 110,69

Larghezza: mt. 13,25.
Un fumaiolo, due alberi.
Una motrice a triplice espansione da 2.500 hp,

Velocità: 12 nodi.
Passeggeri: 42 passeggeri in cabina, 1.250 per emigranti nella stiva.

Equipaggio: 70.

Il 5 giugno 1901 (altre fonti citano il 18) salpò da Genova per il viaggio inaugurale con destinazione Montevideo e Buenos Aires.

Dal gennaio al marzo 1903, noleggiata dalla tedesca Hamburg-Amerikanische Packetfahrt A.G., fece tre viaggi sulla rotta Genova - Napoli - New York.
Il 27 aprile 1903, di ritorno da New York, al largo della costa algerina perdette l'elica e fu rimorchiato a Gibilterra dal piroscafo britannico Calabria.
Nel 1904, ripresi i viaggi in Sud America, incluse gli scali di Rio de Janeiro e Santos.
Il 31 marzo 1906, noleggiato dalla Navigazione Generale Italiana, fece un viaggio Genova - Palermo - New York.
Allo scoppio della guerra italo-turca del 1911 il piroscafo venne requisito:

dal 13 ottobre 1911 al 20 marzo 1912 fu utilizzato come trasporto materiali e truppe tra Napoli e Tripoli.
Il 5 gennaio 1916 venne ancora requisito dal Regio Esercito per il trasporto truppe in Albania.
Il 19 marzo 1916 l'Esercito, per evitare omonimie, diede all'unità il nome di Ravenna I.
Agli inizi del 1917 riprese il servizio civile riprendendo anche il primitivo nome.

Il 4 aprile 1917 l'unità stava rientrando a Genova da Buenos Aires. Mentre navigava lungo la costa ligure, giunta a due miglia al largo di Capo Mele la vedetta avvistò la sagoma di un sommergibile in direzione dell'Isola Gallinara e diede l'allarme.

Il comandante tentò di cambiare rotta per scansare il siluro. Per poco non vi riuscì ed il piroscafo venne colpito a poppa. L'affondamento fu rapido: le stive poppiere vennero allagate e la nave, non appena prese la posizione verticale, colò a picco alla pos. 44°00’N – 08°28’E ed ora giace a 90 m. di profondità.

Nonostante il rapido evolversi degli eventi si ebbero solo sei vittime, tra cui un membro dell'equipaggio.

Il siluro venne lanciato dal sommergibile tedesco U 52 al comando del cap. Hans Walter.
Una parte dei naufraghi raggiunse la riva nuotando; altri vennero recuperati dai pescatori di Andora e di Albenga.

Al momento dell’affondamento il Ravenna aveva nelle stive un carico di 60.000 quintali di lana greggia argentina, 31.000 quintali di sego, carbone, cavalli e macchine agricole.
Solo nel 1930 iniziarono i lavori per il recupero del carico, a cura dei palombari della Sorima che, con la nave Rostro, usarono mine elettriche per aprire il relitto.

 

Estratto dal Giornale di Bordo del comandante Hans Walther del

smg. SMU 52.



3 aprile 1917:

Il vento proveniente da sud ovest esclude qualsiasi attività.

Durante il giorno rimaniamo attraccati, di notte sott’acqua.

4 aprile 1917 : Emersi dopo una notte sott’acqua.

4 aprile 1917
: Emersi, fermi, tempo pessimo, proviamo verso mezzogiorno, usiamo il periscopio perché è impossibile l’osservazione diretta dal ponte. Posizione di attacco davanti ad una nave a vapore con rotta verso Est. Attacco, impossibile avvicinarsi, causa cambio rotta della nave di 90°. Nascosti sott’acqua poi riemersi ed ormeggiati.

4 aprile 1917 : Emersi, e ritornati in immersione con rotta verso la costa. Sotto Alassio avvistiamo due piccoli battelli a vapore. A sud-ovest avvistiamo una colonna di fumo, facciamo rotta verso l’avvistamento. Nave a vapore con rotta verso Genova, facciamo fuoco con il siluro N° 1. Il vapore è colpito a babordo ed affonda in 15 minuti. Dal numero delle scialuppe (12) e dall’armamento (un cannone da 12 cm) e secondo la misura visiva ritengo la grandezza di 7000 t.s. Un accertamento più esatto non è possibile in quanto da sud ovest si vede nuovamente fumo all’orizzonte e più navi sono in vista. Facciamo rotta verso di loro. Tutte le navi si avvicinano alla costa: emersi per fare fuoco, veniamo investiti da fuoco nemico proveniente dalla costa.

Capitano Hans Walther

 

Carlo GATTI

Rapallo, 5 Settembre 2019


COME ABBIAMO TROVATO L’U-BOOT DI CAMOGLI

COME ABBIAMO TROVATO L’U-BOOT DI CAMOGLI

Autore: Eva Bacchetta - Fotografo: Lorenzo Del Veneziano

U455 SUB N 243 - DICEMBRE 2005

 . DOVREBBE ESSERE L’U 455, DATO PER DISPERSO IL 6 APRILE 1944 CON TUTTO L’EQUIPAGGIO. PROBABILMENTE URTO’ UNA MINA AMICA, O FORSE FU UN SUO STESSO ORDIGNO A ESPLODERE MENTRE VENIVA LANCIATO IN MARE. L’IPOTESI POTREBBE ESSERE CONFERMATA DAL FATTO CHE LA DEFLAGRAZIONE GLI SQUARCIO’ LA POPPA. LA SCOPERTA AQUISTA UN’ IMPORTANZA ANCORA MAGGIORE SE SI CONSIDERA CHE SI TRATTA DEL PRIMO SOMMERGIBILE TEDESCO RINVENUTO IN MEDITERRANEO. LA TECNICA DELLE IMMERSIONI.

Il varo di un U-Boot

I fantasmi degli uomini che abitano le centinaia di relitti sommersi sepolti nelle profondità marine del golfo di Genova, aleggiano inesorabili sopra la superficie di quel mare che nel corso degli anni ha voluto far rivivere nella storia dei tempi alcune di quelle anime, attraverso la nostra umile testimonianza nel ritrovare e nel descrivere gli scafi affondati nell’oscurità e nel buio di una distesa di acqua diventata, dal momento della perdita, loro segreta tomba di ferro.
 Da quando abbiamo dedicato parte delle nostre energie al ritrovamento di relitti dimenticati nell’oblio del tempo e solo scritti nella antichità del mare, un particolare battello affondato ha incuriosito le nostre menti ed ha animato la ricerca e sostenuto i nostri sforzi: un sommergibile tedesco dato per disperso nel 1944 nel mare antistante Portofino.
 Come riferisce Clive Cussler, famoso ricercatore di relitti sperduti, in uno delle sue opere:

 “Per mettersi alla ricerca di un relitto perduto, non occorre l’appoggio del governo o dell’università, non occorre un camion pieno di costose attrezzature e nemmeno aver ereditato un milione di dollari. Quel che serve davvero sono l’impegno, la perseveranza e l’immaginazione. Ci sono cose fatte dall’uomo che non si possono trovare mai. Alcune non andarono mai perdute, altre sono frutto dell’immaginazione di qualcuno e tutte le altre non si trovano nemmeno nelle vicinanze di dove si suppone siano. 
La ricerca è la chiave di tutto. Le ricerche possono migliorare la probabilità del successo o farci capire che non ci sono speranze. 
Se e quando un relitto decide di farsi trovare, vuol dire che si tratta di un puro caso. La verità è che la ricerca per un dilettante, è una noia mortale. Ti ritrovi a ballonzolare fra le onde, a sfinirti di sudore, mentre ti sforzi di vincere il mal di mare osservando la linea sempre retta dello schermo del tuo ecoscandaglio. Eppure, quando sullo schermo compare una immagine oppure quando vedi una traccia diversa e ti rendi conto che hai incontrato una anomalia o qualcosa di simile a quello che stai cercando, l’attesa si fa palpitante. E allora, il sangue, il sudore, le lacrime spese sono dimenticati. Ti senti pervaso da una sensazione di trionfo, che è meglio di qualsiasi vittoria.
Quando i sub riemergono e ti dicono che ciò che hai trovato è quello che stavi cercando, allora ancor di più ti senti rincuorato e soddisfatto.
 C’è sempre il fattore “sorpresa” e quello che trovi potrebbe non essere quello che stavi cercando e per di più non sapevi nemmeno che proprio quello fosse lì!

U-Boot della Classe VII C in navigazione

La meraviglia ha caratterizzato il mese di agosto di quest’anno a causa del ritrovamento di quello che non credevamo essere proprio li!!!!
 Un alone di mistero ha da sempre contornato la storia di tale U-BOOT, tanto da farlo diventare una leggenda a cui tutti avvaloravano un filo di verità. 
Un sommergibile che nei racconti della gente si spostava da un punto all’altro dell’immensa distesa del blu infinito nel Mare di fronte a Genova, tanto da far pensare che l’equipaggio potesse cambiarlo di posto di qua e di la per scappare, avvalorando ancora di più la leggenda e avvicinando la vicenda dell’U-Boot alle storie misteriose di pirati dominatori dei mari e di fantasie straordinarie.
 Un famoso corallaro narrava di essere sceso sui resti del battello, di averne riconosciuto lo scafo perfettamente integro ad una profondità di circa 80/90 metri davanti a Cala dell’Oro; la sua morte avvenuta alla fine degli anni 90 aveva messo a tacere ogni diceria riguardante questa leggenda lasciando il sommergibile avvolto da una nebbia impossibile da dissipare.

Riccio Melone

Il corallaro nulla aveva lasciato a prova della sua interessante scoperta e quella micidiale arma da guerra del 3 Reich continuava indisturbata la sua missione di segretezza.
 Negli ultimi anni tante giornate abbiamo perso nello scandagliare i fondali dagli 80 ai 95 metri, da Cala dell’Oro a Punta Chiappa con la speranza di trovare un innalzamento di quel terreno altrimenti aridamente piatto e riportare alla luce la vicenda di quella nave ormai nascosta nelle braccia protettrici di un mare che a volte non lascia adito a nessuna illusione.
 Grazie alla nostra fama di ricercatori di relitti scomparsi e per la nostra passione per la scoperta e la ricerca del passato,veniamo contattati dal padre di uno dei nostri collaboratori, Andrea, il quale ci informa di una zona in cui frequentemente si reca per pescare.
 Il fondo è sui 120 mt. e molte volte, dice, chiazze di olio o gasolio arrivano in superficie dalla profondità. Parte della primavera la dedichiamo alla ricerca anche sui volumi che disponiamo. Si dice che alla fine della guerra i tedeschi vistisi perduti buttarono in mare molti armamenti, fra cui carri armati, camion, cannoni mai più ritrovati. Forse una nave riposa li sotto e accantoniamo la ricerca del sottomarino. Partiamo con gli occhi fissi su uno schermo dell’ecoscandaglio la cui immagine non cambia mai, intere distese deserte di pianura ineluttabilmente priva di qualsiasi forma di vita anche extraterrestre.

 

La chiglia dell'U-Boot e Il periscopio dell'U-Boot

Ad un certo punto un segnale non nitido si innalza dal fondale di 120, 115 fino a 75 metri! Non siamo sicuri della conformazione di quel che il trasduttore cosi’ faticosamente ha letto riportando l’immagine sullo schermo, ma decidiamo ugualmente di scendere e perciò programmiamo un tuffo, vista la profondità molto impegnativa ad estate inoltrata. 
Scendere a quelle quote non è semplice, la prudenza prende il sopravvento sulla curiosità e sull’avventura; non sappiamo cosa ci aspetta la sotto, forse un relitto, ma il segnale poco definito dell’ecoscandaglio non ci fa presagire niente di buono. 
Il primo agosto si parte alla volta di quel punto misterioso che un po’ ci avvicina per l’enigma al famoso sottomarino. 
La squadra è composta da Lorenzo Del Veneziano, Massimo Croce e Gianluca Bozzo in assistenza profonda, mentre in assistenza lungo la cima di discesa, Loredana, Roberto, Peter che forniranno le diverse bombole in caso di emergenza.
 Ad un via di Lorenzo lanciamo il pedagno, composto da un blocco di cemento pesante 50 kg; la cima arancione sfreccia rapidamente nel blu, come un rettile che insegue la sua preda, dopo quarantacinque secondi si ferma bruscamente.
 Tutto è pronto un ok e giù, verso un ignoto che sarà presto rivelato. Il mare in quel punto è di un blu intenso e sembra voler invitare i subacquei verso un segreto nascosto per tanti anni e mostrane un lato fino ad allora dimenticato e sepolto in una miriade di vita e di movimento.
 Alla quota di 100 metri Lorenzo, come da programma, lascia i due compagni; purtroppo il pedagno non si è fermato nel punto più alto di quel qualcosa che vive nelle profondità marine e ancora solo l’elemento liquido copre la loro visuale. 
Dopo circa venti metri Lorenzo arriva sul fondo, incuriosito da una cima tesa verso l’alto la segue, risale in diagonale per alcuni metri: un’ombra minacciosa incombe su di lui, alza lo sguardo e lo vede, enorme, integro, perfetto, come una lama piantata nel cuore di un uomo, sparge tutto il suo sangue sul fondo di un mare che lo ha soppresso per sempre, condannandolo all’oscurità eterna dei tempi.

Torre dell'U-Boot

Lorenzo riconosce distintamente la torretta, di quello che capisce essere un sottomarino, in tutta la sua circonferenza, intatta con i paraspruzzi sporgenti quasi a voler distruggere qualsiasi forma vivente possa avvicinarsi. Parte dello scafo è lanciata verso la lontana superficie come a voler fuggire da quelle sabbie mobili che come un feroce felino lo hanno inghiottito, senza nessuna pietà, nelle sue fauci. 
Mille stati d’animo si diffondono nel cuore di Lorenzo; timore, rispetto, reverenza al pensiero di uomini che forse giacciono in quella tomba di ferro affondata nel buio e dimenticata dall’umanità intera, ma anche gioia, orgoglio e un senso profondo di vittoria per aver riportato alla vita una vicenda data perduta nel nulla. 
E’ un sottomarino, forse proprio quello dell’antica leggenda, intatto in tutta la sua linea assottigliata dello scafo, una terribile ed invincibile macchina da guerra che ora giace inerme e sconfitta, dominata, ma nello stesso tempo protetta, da una massa enorme di acqua che non vuole lasciarla andare via. 
Il tempo programmato termina, Lorenzo si dirige rapidamente verso i suoi due compagni di cui vede distintamente le luci, simili a due occhi amici nella nebbia.
 Nel Mar Ligure risultano dispersi due sottomarini, mai più ritrovati, artefici di battaglie di una guerra la cui lezione l’uomo non ha mai voluto imparare, ma anche vicende di uomini scomparsi per la loro patria che non hanno potuto avere un degno e meritato ricordo da parte dei loro cari. 
I due battelli sono L’Usurper, battente bandiera inglese, disperso nell’ ottobre del 1943 nel Golfo di Genova.
 L’Usurper parti’ da Algeri il 24 settembre diretto alla Spezia; Il 3 ottobre ha ordine di spostarsi nel Golfo di Genova; non rispose al segnale successivo dell’11 ottobre. Con molta probabilità fu affondato dal battello anti sommergile tedesco UJ2208 il 3 di ottobre del 1943, il quale fece rapporto di un attacco ad un sottomarino nel Golfo di Genova proprio in quel giorno.
 Il secondo battello è l’ U-BOOT tedesco 455, il quale era partito dalla base di Tolone e era alla sua decima missione in Mediterraneo. Ultimo contatto avvenuto fu alla Spezia dove avrebbe dovuto unirsi agli UJ che lo avrebbero scorato fino in Francia, incontro mai avvenuto. Si pensa che il sommergibile sia affondato nell’aprile del 1944 su mina amica. Questa vicenda è ancor più avvolta dal mistero in quanto in quei giorni non ci sono notizie di nessun attacco alleato nel Mar Ligure.
 L’immersione successiva effettuata con Gabriele Paparo, permette a Lorenzo di scattare alcune fotografie dal cui studio si evince con un buon margine di sicurezza essere un U-BOOT tedesco. Nelle settimane successive abbiamo l’onore di avere presso il nostro Centro Luigi Casati e Jean Jackes Bolanz per organizzare una spedizione finalizzata ad una documentazione foto-video che possa farci capire qualcosa di più sul battello misterioso. 
Nelle immersioni di esplorazione, sei in tutto, vengono scattate parecchie fotografie e qualche tassello al puzzle viene lentamente aggiunto. 
Si tratta indubbiamente di un sommergibile tedesco classe VII C, presumibilmente appunto U-455. Lo scafo perfettamente integro per due terzi di nave, si trova piantato nel fondo del mare con la prua rivolta verso l’alto simile ad un animale agonizzate che lotta furiosamente per restare appeso alla sua precaria esistenza. Nella parte prodiera sottilissima nella sua estremità sono nettamente distinguibili i timoni di profondità, rivolti verso l’alto ad avvalorare l’ipotesi che il battello navigasse in immersione e, sentendosi colpito, cerco’ disperatamente di riemergere, ma l’acqua fu più veloce ad inghiottirlo. Sul lato di dritta l’ancora saldamente ferma al proprio posto; su tutto il ponte sono visibili i resti del teak che lo ricoprivano, quasi totalmente annientato dalla forza divoratrice del mare.

 

Sul ponte dell'U-Boot con Gigi

La visione della torretta è simile ad un incontro con un essere soprannaturale di cui avere timore, qui dove il sommergibile raggiunge la sua massima circonferenza, regna indiscussa e dominante verso quei sudditi che ora sono solo subacquei che osservano in silenzio lo spettacolo e che non ne riconoscono la sovranità.
 Nella sua parte principale sono chiaramente individuabili l’antenna di superficie o radiogoniometro riposta nel suo vano, il rilevatore ottico completamente mimetizzato dalla miriade di ostriche e microrganismi che hanno camuffato perfettamente anche ogni parte dello scafo, il periscopio il cui occhio artificiale timidamente ricerca un nemico che ora non c’è più e la bussola incastonata nella consolle.
 Il portellone principale appare aperto e lascia lo scenario ad un tunnel totalmente privo di luce e di vita. Lorenzo e Gigi, dedicano parte di una immersione alla pulizia dell’ingresso per valutare la possibilità di entrare all’interno dello scafo. E’ Gigi il prode avventuriero che, sentendosi nel suo Habitat, tenta l’ingresso nello stretto tunnel, ma dopo pochi attimi Lorenzo lo vede tornare indietro; tutto è sigillato e chiuso, ogni segreto del battello rimarrà per sempre custodito all’interno delle sue profonde viscere. Sulla torretta si possono vedere i paraspruzzi e la ringhiera; nella parte di poppa lo scafo è visibile ancora per circa una quindicina di metri. Sul fondo sono riconoscibili i resti della parte poppiera, tutto è disordine e distruzione, avvolto nel buio e nella profondità il fiero battello pare vergognarsi della sua triste fine; parte dello scafo si rialza in una sorte di richiesta di aiuto che non arrivò mai. Sul fondo sono sparse la poppa con individuabile un’elica e i resti distrutti forse di un siluro. 
La visione d’insieme data dalla posizione del battello è suggestiva ed emozionante, la buona visibilità presa quasi in tutte le discese ha permesso di ammirarne la maestosità e la fierezza dello scafo che sembra ancora voler svolgere il suo dovere. Lo scafo è affusolato e sottile, sul ponte si può vedere l’argano per l’ancora e il portello per l’evacuazione di emergenza.

 

Il sub Lorenzo del Veneziano  con il suo amico Gigi intorno allo scafo.

Sulla parte prodiera e sulla estremità della torre sono presenti i resti dell’antenna che giacciono inoffensivi come due moncherini simbolo di una lotta mai vinta.
 Pensare che li hanno camminato uomini durante una guerra devastatrice da un senso di doveroso rispetto e fa apparire il tutto avvolto da un segreto che non può essere rivelato. 
Il glorioso sommergibile che tanto si era mimetizzato ha forse trovato oggi la sua pace e il riposo eterno; non possiamo esprimere nessun giudizio sull’andamento e sulle conclusioni di una guerra che ha portato da entrambe le parti perdite umane devastanti, ma possiamo renderci testimoni di un rinvenimento di grande interesse per chiudere un paragrafo dello studio del passato che era rimasto insoluto.
 Il sommergibile tedesco dato per disperso dalla Kriegsmarine nel Mar Ligure, pare essere proprio li. La classe del battello perduto era un VII C e più precisamente l’U-455, quello che giace in fondo al nostro Mare genovese appartiene è quella classe; ora il suo silenzio è stato rotto dalla soddisfazione di aver ridonato la memoria a chi era stato ormai abbandonato per sempre e per una scoperta subacquea di notevole valore.

 

 

I BATTELLI DI TIPO VII

 

Dietro la nascita , lo sviluppo e la sconfitta dell’arma subacquea tedesca si cela Karl Donitz. Fu lui infatti che ne sviluppò e migliorò i progetti. 
I classe VII furono quelli che lui volle per combattere la guerra, i loro successi furono il diretto risultato delle sue tattiche e la sconfitta analogamente fu dovuta ai suoi errori.
 Donitz dedico’ alla Marina tutta la sua esistenza; allo scoppio delle ostilità divenne “Konteradmiral“ e gli venne attribuito il titolo di Comandante in Capo degli U-Boot, fino ad arrivare a Comandante in Capo della Kriegsmarine e , sul finire della guerra, successore di Hitler a Capo del governo. 
La produzione su larga scala era dovuta al fatto che Donitz aveva chiaro in mente la necessità di svolgere una guerra di tonnellaggio; compito della Marina Tedesca era quello di interrompere le linee di comunicazioni da cui l’Inghilterra dipendeva attraverso l’attacco dell’unica arma disponibile a dispetto della netta superiorità di superficie dell’avversario. 
Da qui la famosa tattica dei “branchi di lupi“ che effettuavano serie di attacchi in forze allo scopo di abbattere più forze mercantili nemiche possibili.
 I tipo VII erano battelli a scafo singolo, lo scafo resistente a tenuta stagna svolgeva anche la funzione di scafo esterno. Attorno allo scafo resistente, a prua e a poppa, veniva realizzato un rivestimento leggero e permeabile che serviva per scopi idrodinamici e forniva gli spazi necessari per ospitare le casse di zavorra. Nel tipo “C"  venne inserita un’ ulteriore cassa per incrementare la riserva di spinta positiva. Inoltre due strutture laterali, controcarene esterne, lunghe ed affusolate, contenevano altre casse zavorra e depositi per il carburante.
 Lo spazio fra lo scafo resistente ed i rivestimenti esterni era in gran parte bagnato, ma alcuni spazi erano a tenuta stagna o nei quali l’ingresso e l’uscita dell’acqua erano voluti e controllati per bilanciare il battello o per portarlo nell’assetto desiderato. 
Esternamente la struttura dell’estrema parte prodiera era a libera circolazione d’acqua ed in essa si trovavano gli sgusci per la fuoriuscita dei siluri, i servomeccanismi per i portelli esterni dei tubi lancia siluri e l’argano dell’ancora, oltre le casse di zavorra. L’ancora veniva ritratta sul lato di tribordo, all’altezza dell’estremità anteriore dei tubi lanciasiluri; i cui portelli aprivano verso l’interno e una volta richiusi combaciavano perfettamente con le linee della murata. 
I timoni orizzontali comparivano su ciascun lato del rivestimento prodiero. Sopra i timoni, vi erano le aperture per il sistema di sensori idrofonici. Subito sopra trovavano posto due diaframmi circolari del sistema telefonico subacqueo, mentre altri due erano una cinquantina di centimetri verso poppavia.

La coperta che fungeva da naturale proseguo del rivestimento dell’estrema prua che raggiungeva il centro nave, detto anche “vela”, era ricoperta completamente da un pagliolato in assi di legno.
 Le murate erano caratterizzate da una lunga fila di aperture piuttosto ampie per favorire l’ingresso e il deflusso dell’acqua. Per lo stesso scopo era stata prevista la lunga e sottile fessura fra il rivestimento della coperta e le controcarene esterne. 
Parecchie sezioni del pagliolato erano incardinate a portello o completamente mobili per permettere l’accesso ai boccaporti sottostanti che venivano sfruttati per immagazzinare vari materiali ed equipaggiamenti, tra i quali i siluri.

La plancia della falsatorre (la parte esterna della torretta) era pieno di supporti e vari equipaggiamenti; lì alloggiavano la custodia cilindrica del periscopio di ricerca e subito dopo quella di attacco, l’ottica per l’attacco in superficie, il supporto del faro di segnalazione e uno sguscio per il ricovero dell’antenna del radiogogniometro. Su entrambi i lati erano posizionate le luci di via in appositi recessi. Il condotto di aspirazione dei diesel si trovava sotto il rivestimento di coperta poppiero e risaliva fino sotto l’armamento dell’antiaerea posta sulla falsatorre. Le aperture attraverso cui l’aria entrava erano ricavate sulle fiancate della stessa, la bussola era situata sulla parte anteriore della vela. Inoltre la parte anteriore della plancia era dotata di un bordo paraspruzzi.
 Spostandosi verso poppa, come nel caso del rivestimento di prua, anche qui troviamo una struttura d’acciaio ricoperta con un pagliolato in legno; proseguendo si nota il boccaporto stagno delle cucine, il portello dello scivolo siluri poppieri, e la sezione mobile sotto la quale vi era il tubo lanciasiluri posteriore, inoltre, come a prua, tre paia di bitte rettraibili.
 Nell’estrema zona poppiera trovavano collocazione i supporti delle eliche, la seconda coppia di timoni orizzontali e quelli direzionali. Infine vi era una grande cassa zavorra poppiera sistemata all’interno del rivestimento che circondava il tubo lanciasiluri. 
Lo scafo resistente era una struttura a sezione circolare del diametro di 4,7 metri, lo spessore variava dai 16 ai 18,5 mm a centro nave, in corrispondenza della camera di manovra.

 

Un ponte divideva gli spazi interni dello scafo in due livelli, quello principale in cui viveva ed operava l’equipaggio ed il doppio fondo dedicato principalmente a serbatoi e depositi.
 Da prora a poppa si trovavano i seguenti compartimenti:

Camera di lancio prodiera: 

La parte anteriore dello scafo era interamente dedicata ai tubi lanciasiluri, alle sistemazioni per il loro funzionamento e a quelle per la movimentazione e lo stivaggio dei siluri. Qui trovavano posto dai quattro ai sei siluri più armi di riserva e relativi equipaggiamenti. La camera di lancio ospitava a volte parte delle cuccette per l’equipaggio, sei per lato, subordinate comunque alle esigenze funzionali dell’armamento. Sotto il deposito siluri vi era una paratia curva al di sotto della quale si trovava la cassa d’assetto di prora e le due casse di compensazione per controbilanciare la diminuzione del peso determinata dal lancio dei siluri.

 

Alloggi prodieri equipaggio:

 Divisi dal vano precedente da un boccaporto, questo compartimento era più spazioso del precedente, anche perché gli occupanti erano generalmente dei graduati. Vi era una toilette con doccia, degli armadietti e quattro cuccette per i sottoufficiali con tre piccoli scaffali per gli oggetti personali. E un tavolo dove consumare i pasti. 
Un'altra leggera paratia con un portello divideva questo compartimento con quello successivo dedicato agli ufficiali. Il locale era composto da due cuccette per lato, un tavolo e quattro guardaroba relativamente ampi.
 L’ufficiale in comando aveva una propria cabina a poppavia a sinistra. A poppavia dell’alloggio del comandante si trovava la camera di manovra, mentre di fronte ad essa i locali dedicati ai sensori acustici e agli apparati radio.
 L’area sotto il ponte di questa sezione veniva occupata dal compartimento accumulatori prodiero, a poppa del quale vi era un deposito munizioni per il pezzo d’artiglieria e le mitragliere sistemate in coperta. Sui entrambi i lati vie erano collocati delle estensioni del serbatoio carburante anteriore collegate attraverso le paratie stagne.

Camera di manovra: 

Durante l’immersione il comando e controllo della nave veniva esercitato dalla camera di manovra. In questo locale perciò si trovavno tutti i sistemi di governo e le valvole per l’allagamento delle casse. Al centro la stanza era dominata dalle colonne dei due periscopi, uno di ricerca e subito dietro quello di attacco. La timoneria principale si trovava all’estremità anteriore del compartimento. 
Nel doppio fondo trovavano la loro collocazione casse e serbatoi.

Torre:

 Tra i due periscopi vi era un boccaporto stagno con una scala a pioli dalla quale si accedeva alla torretta.
 La torretta era estremamente angusta, sporgeva dallo scafo per poco più di due metri e conteneva tutti gli equipaggiamenti necessari al lancio dei siluri.
 Sul cielo di questo piccolo compartimento un portello stagno permetteva l’uscita sulla plancetta della falsatorre.

Alloggiamenti poppieri e cucine: 

Attraverso un portello stagno si accedeva agli alloggi sottoufficiali poppieri, quattro per lato, con relativi armadietti.
 Nella parte posteriore era situata una cucina dotata di lavello, fornelli elettrici e due cambuse.

 

Sala Macchine:

 Era occupata interamente dai due grandi motori diesel per la propulsione in superficie e relativi accessori.

Sala motori elettrici e camera di lancio poppiera:

 diviso da una paratia era ubicato il locale contenente i due motori elettrici per la propulsione in immersione. Vi erano due grossi compressori per l’aria e dietro il tubo lanciasiluri poppiero con il serbatoio di aria compressa ad esso associato.
 Sotto il ponte era collocato il siluro di riserva e dietro, la cassa di compensazione, mentre la cassa di assetto poppiera era a poppavia del deposito di ricarica.



U 455 nel dettaglio. Possiamo affermare con un buon margine di sicurezza che il battello da noi ritrovato sia U 455, anche se nessun potrà mai averne l’assoluta certezza in quanto lo scafo è ineluttabilmente sigillato e nulla manifesta al di fuori di esso, tranne essere l’emblema di morte e alienazione dell’umanità intera. 
I primi battelli della classe VII, come il sottomarino in questione, sei per la precisione furono commissionati nel 1934. Furono i primi di oltre settecento esemplari. Nel corso della storia del loro sviluppo, che si spinge fino al 1944, i battelli di tipo VII furono realizzati in sei diverse versioni.
 L’U455, battello tipo VII C, fu costruito dal Cantiere Deutsche Werke AG, Kiel Gaaden; ordinato il 16 gennaio del 1940 e varato il 21 Giugno del 1941. 
Iniziò il suo dovere di macchina da guerra nell’agosto del 1941 sotto la 5 flottiglia a Kiel come nave scuola, li si fermò fino al dicembre dello stesso anno.
Nel gennaio del 1942 fino al febbraio del 1944 venne trasferito alla 7 flottiglia a ST Nazaire e dal marzo del 1944 fino al giorno della sua scomparsa aprile 1944 operava presso la base di Tolone nella 29 flottiglia. Due uomini comandarono il fiero battelo dal 21 agosto 1941 fino al 22 novembre del 1942 Hl Hans-Heinrich Giessler e dal 22 novembre del 1942 fino al 6 aprile del 1944 KL Hans Martin Scheibe.

Il comandante Giessler

MISSIONI DEL U-455

15.01.1942- 28.02.1942

Primo viaggio-missione attiva. 
U455 parte da Kiel sotto il comando di Hans-Heinrich Giessler e arriva a Bergen dopo sei settimane.

 

21.03.1942-30.03.1942 Secondo viaggio-missione attiva. 
U455 parte da Bergen sotto il comando di Hans-Heinrich Giessler e dopo solo una settimana arriva a St. Nazaire.

 

16.04.1942-10.06.1942 Terzo viaggio-missione attiva. 
U455 parte da St. Nazaire sotto il comando di Hans-Heinrich Giessler e torna a St. Nazaire dopo otto settimane di missione.
 Durante questo incarico colpisce due unità che navigavano in convoglio scortate dal ON89 e dal SL111
Il 3 maggio 1942 affonda la nave inglese BRITISH WORKMAN, mentre l’11 giugno la nave inglese GEO H JONES.

 

22.08.1942-28.10.1942 Quarto viaggio-missione attiva. 
U455 parte da St. Nazaire sotto il comando di Hans-Heinrich Giessler e torna a St. Nazaire dopo nove settimane e mezza di missione.

 

24.11.1942-24.01.1943 Quinto viaggio-missione attiva. 
U455 parte da St. Nazaire sotto il comando di Hans-Martin Scheibe e ritorna a St. Nazaire dopo oltre otto settimane di missione.

 

23.03.1943-23.04.1943 Sesto viaggio-missione attiva. 
U 455 parte da St. Nazaire sotto il comando di Hans-Martin Scheibe e torna a St.Nazaire dopo quattro settimane di missione.
Durante questo viaggio colloca delle mine che provocarono l’affondamento dell’unità francese ROUENNAIS il 25 aprile del 1943

 

30.05.1943-31.07.1943 Settima missione attiva.
 U455 parte da S. Nazaire sotto il comando di Hans-Martin Scheibe e vi ritorna dopo meno di nove settimane.
 Durante questo mandato il 2 giugno viene attaccato da un aereo nemico ( RAF 248 squadra ) e subisce lievi danni; viene nuovamente attaccato il 19 giugno da un aereo (USAAF 2 squadra), anche in quest’occasione esce illeso dallo scontro grazie alla nave appoggio che lo ha prontamente difeso senza però abbattere il mezzo.


 

20.09.1943-11.11.1943 Ottavo viaggio- missione attiva
U455 parte da St. Nazaire sotto il comando di Hans-Martin Scheibe e arriva a Lorient dopo sette settimane e mezzo di missione.

 

06.01.1944-03.02.1944 Nono viaggio- missione attiva
U455 parte da Lorient sotto il comando di Hans-Martin Scheibe e arriva a Tolone dopo quattro settimane.

 

22.02.1944-06.04.1944 Decimo viaggio-missione attiva
U455 parte da Tolone sotto il comando di Hans-Martin Scheibe e viene dato per disperso il 6 aprile 1944. Nessun superstite.

 

L’IMMERSIONE VISTA DA LORENZO DEL VENEZIANO

La discesa sul sommergibile è sicuramente da considerarsi tra le più impegnative che io abbia pianificato nel Mediterraneo.
Le difficoltà sono molteplici, profondità e corrente , sono le più importanti oltre alla luminosità che a quelle quote nel Mar Ligure è notevolmente ridotta. 
Per scendere ho utilizzato un rebreather a circuito chiuso elettronico automiscelante, BUDDY INSPIRATION, con diluente 8% di ossigeno e 70% di Elio, pressione parziale dell’ossigeno costante a 1.3, che ritengo mi abbia dato un buon margine di sicurezza rispetto al convenzionale circuito aperto. Vantaggi a livello decompressivo e la tranquillità di avere una scorta di gas notevole. A profondità cosi’ elevate il manometro di un sistema a circuito aperto scende molto rapidamente comportando comunque nel subacqueo un minimo stress dovuto alla gestione della scorta di gas.
In ogni caso per affrontare una eventuale emergenza nel caso di guasto della macchina avevo con me un 12 litri di trimix 12% di Ossigeno e 50% di Elio, un 10 litri di Ean 36 e un 7 litri di Ossigeno puro, oltre varie bombole che avevo precedentemente posizionato sulla cima di discesa.
Ho effettuato nove immersioni tutte con BUDDY INSPIRATION, massima profondità raggiunta 120 metri, profondità media delle immersioni 105 metri; i tempi di fondo compresi fra 18 e 20 minuti, mi hanno comportato un RUN TIME compreso fra i 90 e i 110 minuti. Il programma decompressivo da me utilizzato è stato RGMB. 
La visibilità incontrata è stata sempre discreta anche se in alcuni casi la corrente, a volte anche sul fondo, ci ha costretto a limitare la nostra ricerca esclusivamente sullo scafo del relitto. Abbiamo esplorato intorno allo carena per un raggio di circa dieci metri trovando pezzi di lamiera contorti ed non identificabili.
 Ho effettuato un numero discreto di fotografie con scafandro ed illuminatori Foto Leone che spero possano avere dato l’idea dello stato di conservazione del sommergibile, oltre un video con camera digitale e scafandro autocostruito .

Un ringraziamento particolare a Luigi Casati, Jean Jackes Bolanz, Gianluca Bozzo, Massimo Croce, dott. Guido Parodi, Loredana De Sole, Massimo Mazzitelli, Roberto Liguori, Gabriele Paparo, Luca Pozzi

Sponsor: Giòsub - Dive System - Foto Leone

 

Webmaster Carlo GATTI

 

 

Rapallo, 19 febbraio 2013

 

 

 


CAMOGLI 1916: TRAGEDIA IN SPIAGGIA

CAMOGLI 1916: TRAGEDIA IN SPIAGGIA

In quell’inverno del 1916, le “buriane” erano una dietro l’altra. La nostra costa era flagellata dai cavalloni impetuosi,  generati da un libeccio che pareva non avesse termine.

Erano passate da poco le 17 di quel 12 dicembre, quando un brigantino a palo, l’Astrea,  proveniente da Marsiglia, stava dirigendo su Genova per due motivi: perché era il suo porto di destinazione e perché aveva bisogno di “ridosso” da quel mare implacabile. Fu inutile: il porto di Genova era sbarrato poiché in quegli anni della Prima Guerra Mondiale, si bloccavano gli accessi ai porti dopo il tramonto!



In quest'immagine dell'archivio Ferrari, si vedono gli scogli della "Pianora delle Chiappe" che sono oggigiorno nella spiaggia

Il Comandante Edoardo Mennea di Sorrento, decide allora di mettere la prua verso Portofino, nella speranza che quel promontorio possa offrire un po’ di riparo al libeccio. Mentre il veliero si trova all’altezza di Camogli, verso le 22, la tempesta si fa più spietata e il Comandante decide di spiaggiare nella nostra costa, nell’intento di salvare la nave e l’equipaggio. Un marinaio inizia a suonare il corno da nebbia, usato a quel tempo anche per le situazioni di pericolo, così da allertare gli abitanti di Camogli in quella tragica sera. E difatti, poco dopo, la spiaggia vicino alla chiesa vede brulicare molti camogliesi che cercano di offrire assistenza a quello sfortunato brigantino.
Tramite funi vengono salvate sei persone, ma quattro, incluso il Comandante Mennea non ce la fanno. Poco dopo, verso mezzanotte, il veliero si sconquassa definitivamente sugli scogli denominati “Pianora delle Chiappe”, cioè proprio sotto la nostra Basilica e che oggigiorno sono pressoché  assorbiti dalla spiaggia.



Una panoramica dal Castel Dragone con - a sinistra - i resti dell'ASTREA

L’Astrea, di 807 tonn.di stazza, lungo 57 metri, era stato costruito nel 1890 nei cantieri di Loano, a quel tempo molto famosi e usati anche da vari armatori camogliesi. Si chiamava originalmente Pietro Accame ed era proprietà di quella celebre famiglia di armatori di Pietra Ligure – gli Accame - che poi si radicarono anche a Loano e Genova. Nel 1886 cambiò il nome in Astrea appunto, dopo essere stata acquisita da un armatore di Meta di Sorrento.


La targa commemorativa sul ceppo dell'ancora dell'ASTREA


Altra veduta dei reperti dell'ASTREA


La bigotta dell'ASTREA - dono di Ido Battistone - conservata al Civico Museo Marinaro
"Gio Bono Ferrari" di Camogli



Dipinto raffigurante l'ASTREA in arrivo a Napoli. Opera (venduta) attribuita a De Simone.
(gentile concessione Antichità Bruzzone - Genova)

A Camogli, oggi rimangono ancora i resti di quella tragedia. Sulla terrazza verso mare del Castel Dragone, si trovano pezzi d’ancora dell’Astrea. Al nostro Civico Museo Marinaro “Gio Bono Ferrari” si trova una bigotta, cioè una specie di puleggia senza scorrimenti, che serviva a collegare più “manovre dormienti” insieme, cioè assicurava quei cavi che tenevano ben salda l’alberatura del veliero. Quella bigotta è un dono di Ido Battistone, l’indimenticato leader del famoso sciabecco camogliese “Ō Dragōn”.

 

Bruno Malatesta 8/2014 (foto dell'autore)
Bibliografia: "Il romanzo della vela" di Tomaso Gropallo - Ed. Mursia;
"Quaderni Nr. 5&6 del Civico Museo Marinaro G.B. Ferrari" - Nuova Editrice Genovese.=

Rapallo, 2 Settembre 2019


Ricordando la HAVEN vent'anni dopo....

 

Ricordando la HAVEN

vent’anni dopo...

Il relitto é indicato nella parte sinistra della cartina

Due rapallesi, Pino Sorio (Ufficiale di Macchina) e Livio Alessandri (Ufficiale di Coperta) navigarono sulla Amoco  Mildford Haven in seguito ribatezzata HAVEN.

10 Aprile 1991 - L’attenzione e lo sgomento di tutti erano ancora rivolti alla collisione avvenuta nella notte tra la MOBY PRINCE in uscita dal porto di Livorno e la petroliera AGIP ABRUZZO ancorata in rada. Le notizie grandinavano ancora gracchianti, confuse, controverse su tutte le frequenze portuali e soltanto le parole: “Bettolina”, “Agip Abruzzo”, “Moby Prince”, “Nebbia”, filtravano anonime, limpide, inesorabili e sufficienti a definire un quadro che ormai aveva preso corpo in tutta la sua drammaticità. Nello scalo labronico si contavano ancora i 140 morti e ognuno cercava disperatamente la spiegazione che ancora oggi, a distanza di vent’anni, nessuno é riuscito a dare. “..ma le disgrazie non giungono mai sole..” recita un vecchio adagio! E qualche volta pare proprio che la biblica Apocalisse si materializzi in alcune  “prove pratiche” per testare le già flebili forze di noi umani.

11 Aprile 1991 - Nella tarda mattinata, dalla vicina  Arenzano giungeva come un fulmine a ciel sereno la notizia di un’altra immane sciagura del mare. In quella tranquilla rada rivierasca, ad appena 90 miglia di distanza da Livorno, si aprì improvvisamente un secondo girone infernale. Sulla superpetroliera HAVEN, ancorata ad 1,5 miglio dalla spiaggia, scoppiò un spaventoso incendio seguito da ripetute esplosioni che spararono la coperta del castello di prora distaccandola di netto dal resto dello scafo. In breve tempo e per ogni cisterna, s’innescò una catena di deflagrazioni che divamparono e trasformarono la nave in un immenso rogo. La tragedia ebbe un lungo epilogo che possiamo così sintetizzare: 5 marittimi su 36 d’equipaggio perdettero la vita. La superpetroliera Haven di 335 metri di lunghezza, con una capacità di carico di 230.000 tonn. colò a picco. La liguria subì Il più grave disastro ecologico mai avvenuto in Mediterraneo e forse nel mondo. Ma come andarono veramente le cose? Erano le 12.40  quando  il Pilota Giancarlo Cerruti, di guardia al Porto Petroli di Multedo, udì il segnale di soccorso “mayday-mayday” lanciato dalla Haven e si precipitò con la pilotina verso la calma rada di Arenzano. Il viaggio durò 20 interminabili minuti e il contatto radio tra Comandante e Pilota fu intenso e drammatico. I soccorsi furono allertati immediatamente e si udirono frasi spezzettate del tipo: “lance di salvataggio, immediata evacuazione, salvataggio con gli elicotteri ed altre concitate richieste” . Appena la pilotina giunse sotto la poppa della nave, una terrificante esplosione scosse la petroliera a centro nave. Erano le 13.00. Pezzi di lamiera infuocata volarono in tutte le direzioni risparmiando fortunosamente l’imbarcazione dei piloti. In quell’istante la voce del Comandante s’interruppe. Il Pilota capì che la morte lo aveva falciato sul Ponte di Comando mentre ancora dava ordini al suo equipaggio e chiedeva aiuto per la sua nave in grave pericolo. A terra la gente ebbe un sussulto d’incredulità quando vide un fungo “atomico” ergersi in volute di fumo nero che rotolavano gonfiandosi lentamente verso il cielo limpido, primaverile. Tutto accadde con diabolica rabbia sopra quel lungo scafo nero che reagiva ad ogni esplosione con lugubri boati e lingue di fuoco che squarciavano l’aria come saette, la colonna di fumo nero era alta ormai più di 300 metri. Da subito la nave apparve così martoriata da rendere vana qualsiasi strategia di recupero. La conferma si ebbe quando il mio amico Silvan, che si trovava a bordo di un rimorchiatore in avvicinamento, mi disse d’aver visto la prora inarcarsi e poi spezzarsi. Una parte dell’equipaggio della HAVEN riuscì a tuffarsi in mare a pochi metri dalla pilotina di Cerruti che li raccolse, insieme al suo timoniere Parodi. Furono salvati 18 naufraghi. Il valoroso pilota dichiarò: “non fu facile sottrarre alle fiamme quei corpi che a stento respiravano ed erano ricoperti di viscido crude-oil. Riuscimmo a  salvarli con la forza della disperazione”. Ne morirono cinque, alcuni sotto i suoi occhi mentre  l’imbarcazione si allontanava, quasi affondando per il sovraccarico. Gli altri superstiti rimasti intrappolati in quei roghi di fiamme furono salvati dai rimorchiatori e dagli ormeggiatori in un secondo momento e con molta fortuna. Giancarlo Cerruti, insieme agli altri eroi di quella triste giornata, ricevettero numerose benemerenze e attestati di stima per la freddezza, il coraggio e spirito di solidarietà dimostrati in quella terribile circostanza. L’entità di quel rogo immenso fu tale da rendere vano ogni sforzo per soffocarlo. Non restò che contenere l’espansione del crude-oil per evitare quel disastro ecologico di cui nessuno, purtroppo, vantava esperienze e strategie di contrasto sicure. Tutta l’attenzione si concentrò quindi nel predisporre misure antinquinamento stendendo infiniti chilometri di “panne” a protezione del litorale usando tutti i mezzi disponibili per il ricupero del prodotto che ancora galleggiava in superficie  avendo resistito al fuoco. L’agonia durò tre giorni e nessuno, dall’Ammiraglio Alati all’ultimo marinaio dei rimorchiatori, ormeggiatori e di quel fantastico Corpo dei Vigili del Fuoco, si riposò un solo attimo. Il problema che si pose alle Autorità e alla cittadinanza non era di facile soluzione e forse, ancora oggi, vale la pena di ricordare qualche particolare. Il tempo stava cambiando. Una brezza fresca da scirocco (SE) increspò il mare. Il 12 aprile fu deciso di tentare l’aggancio della poppa della HAVEN per trainarla verso la costa con lo scopo di gestire al meglio lo spegnimento e le operazioni antinquinamento. La nave era ridotta ormai ad un relitto. Il rimorchiatore Istria, con il supporto manuale della motobarca VVFF, imbrigliò con un cavo d’acciaio l’asse del timone della petroliera allungandolo con uno spezzone di cavo che passò all’Olanda, un rimorchiatore di notevole potenza. Durante l’operazione d’aggancio, la nave emanava un tale calore che i marinai e i pompieri rischiarono l’asfissia, lo svenimento e quindi la vita stessa. Verso sera iniziò il traino verso Arenzano con grosse difficoltà. Il vento era girato a libeccio (SW) rinforzando e minacciando di spiaggiare chilometri di “panne antinquinamento” (barriere verticali, galleggianti e semisommerse). Se ne perdettero molte, mentre altre furono rimorchiate in porto e furono salvate. Il comandante  dell’Olanda F.Capato dichiarò:  “il convoglio procedeva come una “mosca sul catrame fresco” e il relitto dava chiari segni di collasso, l’inclinamento andava via-via accentuandosi… anche l’immersione era visibilmente in aumento…ancora fuoco e fiamme e si udivano scricchiolii dovuti allo sforzo del traino ed all’azione del mare sempre più mosso, con un’onda di ritorno che ne aumentava l’altezza”. Tutti gli occhi erano puntati sul relitto cercando di coglierne ogni segnale anticipatore della fine.

Nella nottata del 13 Aprile, il relitto raggiunse  la posizione assegnata dalla Capitaneria, era completamente in fiamme e vittima dell’ennesima esplosione. In tarda  mattinata   l’Olanda mollò il cavo. Il relitto restò immobile sul posto e affondò il mattino del 14 Aprile in Latitudine =44°22’44” N- Longitudine= 008°41’58” E. ad 1.05 miglia da Capo Arenzano, su un fondale di circa 70 mt. Al contrario di quanto accadde a Livorno, le cause del disastro della Haven vennero subito intuite dagli esperti. Nei giorni precedenti, la superpetroliera aveva sbarcato 80.000 tonn. di crude-oil all’Isola Artificiale di Multedo. Andò quindi alla fonda fuori Arenzano, e vi rimase con tempo buono nell’attesa di far rotta verso un nuovo porto per scaricare le 220.474 tonn. che aveva ancora nelle cisterne. La nave non era quindi operativa e poteva solo essere impegnata, con le pompe di bordo, nella manovra di travaso di parte del carico per raggiungere un buon assetto di navigazione. Sulle petroliere, il 1° Ufficiale di Coperta ha la responsabilità del carico, e per le operazioni d’apertura e chiusura delle numerosissime valvole, si avvale del Tanchista (sottufficiale) e di altri assistenti di coperta. Il 30 gennaio 1992, nel corso dell’Inchiesta Formale, il Tanchista dichiarò che quella mattina il Primo Ufficiale ordinò di chiudere determinate valvole d’intercettazione alle cisterne del gas inerte, e che egli lo fece. Mentre il Primo Ufficiale, al contrario, dichiarò d’aver ordinato l’apertura delle stesse. Ma dalla ripresa subacquea effettuata in presenza dei periti, le valvole “sospettate” risultarono tutte chiuse. L’evento che appare più accreditato dagli esperti é che si sia creata, in fase di pompaggio del prodotto, una sovrapressione nella cisterna n°1 determinata proprio dall’ipotesi appena descritta. L’operazione durò 70 minuti determinando progressivi e devastanti “cedimenti strutturali”, con emanazione di scintille che, in presenza di gas nelle tubazioni, innescarono i primi incendi ed esplosioni. L’effetto domino, come abbiamo già descritto, si propagò con effetti ritardati anche di molte ore, ma la reazione a catena di esplosioni fu inevitabile e l’agonia della nave si protrasse per quasi tre giorni. Alcune considerazioni tecniche:

- La sezione di prora fu addirittura staccata dal resto dello scafo ed affondò a circa 6 miglia dal relitto principale e giace su un fondale di 480 metri.

- Il petrolio greggio (crude-oil) a contatto con l’acqua di mare subisce alterazioni chimiche notevoli. Nel caso dell’incendio della Haven, durato 3 giorni, vi é stata una accelerazione del processo di evaporazione del prodotto, con liberazione delle frazioni più leggere e pericolose per l’inquinamento favorendo il rapido affondamento dei residui più pesanti dell’acqua di mare e questa massa asfaltica-bituminosa è diventata perennemente inerte e non pericolosa.

- Ciò che non avremmo mai voluto leggere: “ 4 giugno 2011, Arenzano - Un sub è morto ieri pomeriggio nel corso di un’immersione sul relitto della petroliera Haven. Il sub tedesco si chiamava Martin Rehermann e. da quanto riferito da Carabinieri e Guardia Costiera, sarebbe stato colto da malore mentre stava risalendo in superficie ....

- Per gli appassionati “sub” prendiamo in prestito dalla HAVEN Deco Station alcuni interessanti dati di profondità.

La statuetta del Gesù Bambino di Praga, fissata  sul ponte di comando del relitto.

Carlo GATTI

Rapallo, 12.10.11


L'AFFONDAMENTO DEL P.FO ANDREA SGARALLINO

L’AFFONDAMENTO DELL’ANDREA SGARALLINO

PORTOFERRAIO - ISOLA D’ELBA

La nave trasportava civili e militari che tornavano all'Isola d'Elba dopo l'8 settembre 1943. Fu la più grave sciagura nelle acque italiane durante la guerra, con oltre 300 morti.


Il piroscafo ANDREA SGARALLINO fu costruito dai cantieri Orlando di Livorno nel 1930 e portava il nome di un garibaldino della Spedizione dei Mille. Stazzava 731 tonnellate e poteva trasportare 330 passeggeri alla velocità massima di 14 nodi (26 Km/h).

La nave prese servizio nella flotta della Società Anonima di Navigazione Toscana, passata in seguito sotto il controllo della Terni ed infine ceduto ad un armatore privato. Fu assegnato al servizio di collegamento tra Piombino e Portoferraio.

Allo scoppio della guerra, il 10 giugno 1940, il piroscafo fu requisito dalla Regia Marina e venne armato. In versione bellica con livrea mimetica, L'Andrea Sgarallino fu riclassificato Nave Ausiliaria F-123 e cominciò ad operare nel teatro del Mediterraneo.

La Vedetta Foranea Sgarallino (nave adibita al controllo delle zone portuali) entrerà nella storia dopo la resa dell’Italia l'8 settembre 1943.

Una settimana dopo il proclama Badoglio le forze germaniche attaccarono le guarnigioni italiane sull'Isola d'Elba e, per costringerle rapidamente alla resa, il 16 settembre bombardarono Portoferraio con 10 Stukas. L'Andrea Sgarallino fu requisito in porto e nuovamente posto in servizio di collegamento con il continente il 21 settembre.


Con questa livrea mimetizzata, il piroscafo Andrea Sgarallino fu silurato a poche miglia a Nord Est dell’isola d’Elba dal sommergibile inglese H.M.S UPROAR. Era il 22 settembre 1943.



H.M.S UPROAR P31 - IL KILLER DEL PIROSCAFO ANDREA SGARALLINO

L’ULTIMO VIAGGIO

SULLA ROTTA

Piombino-Portoferraio.

Ore 8:30 del 22 settembre 1943.


Il giorno successivo il piroscafo, che indossava ancora la livrea mimetica e batteva bandiera tedesca, salpò da Piombino poco dopo le 8:30 del mattino e fece rotta come sempre verso l'Isola d'Elba. Aveva caricato circa 330 passeggeri, molti dei quali erano militari italiani sbandati che rientravano presso le loro famiglie sull'isola dell'Arcipelago toscano. Il tratto di mare Piombino-Portoferraio, 14 miglia nautiche, un’ora di navigazione per quella nave, come qualcuno aveva sospettato, era il più pericoloso per gli agguati tesi dai sottomarini britannici. Nell’ambiente si sapeva e qualcuno suggeriva che sarebbe stato meglio procedere per la Corsica che era già stata occupata dagli Alleati che avrebbero sicuramente offerto la protezione aerea.

Prevalsero gli ottimisti imprudenti e, quel giorno, ogni famiglia elbana pianse un figlio, un marito, un congiunto, un parente, un amico.

La nave militarizzata italiana, partita dalla vicina Piombino, era ormai vicina al suo porto di destinazione Portoferraio per sbarcare civili e militari che tornavano a casa dopo l’8 settembre. Quei poveri ragazzi, dopo mille vicissitudini, trovarono la morte nell’ultimo braccio di mare, quando vedevano già le proprie case e le proprie famiglie nell’attesa di poterli riabbracciare.

Il loro KILLER, il smg. H.M.S UPROAR P31, era in agguato proprio davanti alle porte di casa, in attesa di colpirlo a tradimento con un siluro molto preciso nel fianco.

Riprendiamo come FONTE attendibile un accurato servizio di PANORAMA sul siluramento e rapido affondamento del piroscafo ANDREA SGARALLINO.

“Dai racconti di uno dei pochissimi superstiti, Stefano Campodonico, durante il viaggio l'equipaggio discusse a lungo riguardo all'opportunità di attraccare sulle coste della Corsica già occupata dagli Alleati. Verso la fine della rotta, l'Andrea Sgarallino superò la località Nisportino (Rio nell'Elba) nella zona Nord-orientale dell'isola dove giungeva a vista del Forte Stella di Portoferraio. Alle 9:49 circa una terribile esplosione udita distintamente nell'abitato di Portoferraio squarciò lo scafo nella nave. L'Andrea Sgarallino era stato colpito dal siluro lanciato dal sommergibile britannico "HMS Uproar" (che aveva partecipato all'affondamento della Bismarck). Comandato dal Tenente di Vascello Laurence Edward Herrick, L'Uproar aveva inquadrato la livrea nemica e non aveva avuto dubbi sul siluramento, che in pochi minuti causò la tragedia. L'Andrea Sgarallino, ferito a morte, affondò in fiamme in pochi minuti dopo essersi spezzato in due tronconi. Quel giorno piovigginava sull'Elba e molti dei passeggeri non ebbero scampo perché si erano stipati sottocoperta per ripararsi dalle intemperie.

Molti di loro furono storditi dalla forza dell'esplosione o scaraventati contro le pareti in ferro della nave per lo spostamento d'aria ed affogarono risucchiati dal vortice della nave che si inabissava. Soltanto quattro di loro si salveranno, aggrappati ai resti dell'imbarcazione che avrebbe dovuto riportarli alle loro case: oltre al citato Stefano Campodonico (che perderà una gamba a causa delle ferite) solo altri tre furono i superstiti. Saranno salvati da pescherecci dopo alcune ore tra i flutti poiché si temeva che il sommergibile inglese potesse colpire ancora. Alla fine della giornata, saranno recuperati solamente 11 degli oltre 300 corpi tra cui quello del Comandante dello Sgarallino, Il Sottotenente di Vascello Carmelo Ghersi”.

IL RELITTO

ALBUM FOTOGRAFICO

DELL’ANDREA SGARALLINO IN PIENA ATTIVITA’

E DEL SUO RELITTO SUL FONDO



Sopra e sotto – Il piroscafo ANDREA SGARALLINO in una foto scattata quando era ancora una nave passeggeri civile che mostrava sulla ciminiera il logo della Società Anonima di Navigazione Toscana. Come abbiamo già visto, la nave fu requisita dalla Regia Marina il 10 giugno 1940 quando L’Italia entrò nella Seconda guerra mondiale.

Le foto che seguono mostrano il relitto riverso sul fianco sinistro alla profondità di 66 metri.






Carlo GATTI

Rapallo, 20 agosto 2019