COSTA ROMANTICA - Salvataggio Naufraghi Cubani

COSTA ROMANTICA

Salvataggio naufraghi cubani


Nel febbraio 1994 mi trovavo al comando della M/n Costa Romantica, (GRT 53.049,  Lunghezza mt. 220,6 – Larghezza mt. 30,8 – Velocita max. 20 nodi, propulsione Diesel, potenza 28,800 BHP, dotata di 2 X 1200 KW bow thursters, 1 X 1200 KW stern thruster, capacità max passeggeri 1690, equipaggio 579). La nave, in quel periodo, effettuava crociere di sette giorni nei Caraibi, con partenze da Miami.  Avevo seguito, da circa un anno, l’allestimento di questa bella nave che era, allora, l’ammiraglia della flotta Costa Crociere e della marina italiana. Era stata un’esperienza molto interessante e fui molto onorato di assumerne il comando. Sabato 5 febbraio, partiti da Grand Cayman, ultimo scalo della crociera, stavamo navigando verso Miami e ci trovavamo 40 miglia al traverso di Key West; lontanissima, dalla parte opposta, si intravedeva Cuba. Eravamo in acque internazionali. Ad un certo punto il primo ufficiale di guardia, mi informò di aver visto in lontananza, sul lato sinistro, una chiatta con molte  persone a bordo che stavano facendo segnali di luce. Erano circa le 18.00. Mi recai sul ponte di comando, osservai con il binocolo per rendermi conto della situazione e, senza esitare, assunsi il comando riducendo subito la velocità, avvertendo la sala macchina che accostavamo per una manovra di emergenza in mare. Chiamai sul ponte il comandante in seconda, gli ufficiali e il personale addetto alla manovra.  Furono avvertiti i passeggeri e, in pochi minuti, la “Costa Romantica” invertì la rotta andando incontro ai presunti naufraghi. Mentre ci avvicinavamo, avvertivamo sempre più chiaramente le urla e i segnali degli occupanti la zattera. Mandammo anche a tutte le altre navi e alla Coast Guard di Miami il messaggio che stavamo facendo un recupero di emergenza. Non ci furono problemi e ottenni l’autorizzazione anche dell’ immigrazione americana con la richiesta di inviare, subito dopo, i nominativi dei naufraghi recuperati.


 

 

Mi avvicinai lentamente, date le condizioni del mare molto mosso,  non feci mettere la nostra lancia in mare perché sarebbe stato poi molto difficoltoso riagganciarla, ma sfruttando l’ottima manovrabilità della nave, mi accostai lentamente alla zattera sino a sfiorarla,  azionai le macchine e le eliche di manovra, feci aprire il grande portellone centrale della nave dotato di rampa estendibile in senso orizzontale e manovrabile in senso verticale, fermai le macchine e i naufraghi, con l’aiuto del nostro personale, salirono a bordo. Erano in dieci: sette  uomini, due donne e un bambino di 12 anni; erano tutti giovani, il maggiore aveva 41 anni, gli altri un’età compresa tra i 20 e i 30. Erano cubani, tutti provvisti di documenti. La zattera di circa sei metri per tre metri aveva un telaio in ferro sul quale erano state compresse cassette di legno e polistirolo. Erano in mare da oltre  una settimana, allo stremo delle forze, disidratati, bagnati fradici, assetati e affamati. Avevano una cartina nautica che raffigurava la costa americana sulla quale era indicata la rotta da seguire, non avevano però fatto i conti con la corrente del Golfo. Quando li trovammo erano proprio sull’asse della corrente  con un motorino da 15 HP, senza benzina. La corrente li avrebbe portati lontano dalle coste verso il largo. Furono visitati dal nostro medico, vestiti e rifocillati. Riuscimmo  pure a sollevare e recuperare la zattera che poteva costituire un pericolo per la navigazione. Feci fare un annuncio ai passeggeri informandoli che tutti i naufraghi erano sani e salvi e notificai l’esito dell’operazione alle autorità di Miami e alla nostra Società.  Il giorno dopo, effettuato  il controllo dei loro passaporti da parte delle autorità di immigrazione, i naufraghi  furono assegnati ad una associazione che si sarebbe occupata della loro integrazione nella comunità cubana in America.

Capitano Superiore di Lungo Corso

Mario Terenzio PALOMBO

Rapallo, 10 Gennaio 2015

 

 


"MARINA DI EQUA": Naufragio assistito

MARINA DI EQUA - TITO CAMPANELLA

NAUFRAGATE

PREMESSA

 

I naufragi delle Bulk Carrier avvenuti a distanza di tre anni l’uno dall’altro, hanno in comune alcune coincidenze:

 

- Erano navi obsolete

 

- Avevano caricato laminati in Nord Europa

 

- Era inverno. Mare forza e onde alte 10 metri

 

- Sono affondate nello stesso cimitero di navi: Golfo di Guascogna

 

- Nessun superstite

 

- Naufragio assistito... per la MARINA DI EQUA

 

- Naufragio fantasma... per la TITO CAMPANELLA

 

 

I due articoli che seguono intendono essere una raccolta di dati, di testimonianze raccolte qua e là per tenere sempre accesa la fiamma del ricordo delle vittime, ma anche per tenere “alta la guardia” contro coloro che perseguono soltanto il profitto economico e considerano la SICUREZZA una tassa da pagare, non un cammino di civiltà da percorrere insieme.

 

 

 

33° ANNIVERSARIO DELL’AFFONDAMENTO DELLA BULK CARRIER

“MARINA DI EQUA”

UN NAUFRAGIO ASSISTITO

30 vittime, la perdita della nave e del suo carico. Questo é l’ennesimo tributo pagato al Golfo di Biscaglia

 

 

 

29 Dicembre 1981

 

La Marina d’Equa, 32mila tonnellate di stazza e 178 metri di lunghezza, di proprietà della compagnia Italmare, s’inabissò nel golfo di Biscaglia, a circa 175 miglia dalla costa spagnola di La Coruña, nel pomeriggio del 29 dicembre del 1981, trascinando in fondo al mare, in pochi secondi, il carico e i trenta marinai: undici di Meta, sette di Piano di Sorrento, uno di Sorrento e due di Massa Lubrense, insieme ai cinque di Torre del Greco, ai tre dell’isola di Procida ed all’unico cileno.

 

 


Monumento ai Caduti del Mare

In data 29 Dicembre 2006 si è commemorato a Meta il 25° anniversario della scomparsa dei trenta uomini di mare dell'equipaggio della M/n MARINA D’EQUA affondata nel golfo di Guascogna il 29-12-1981.

 

Alle ore 09.50 è stata celebrata una messa in suffragio dall'arcivescovo Mons. Felice Cece presso la Basilica di S. M. del Lauro.

 

Al termine della Santa messa, alla presenza della autorità civili, militari e religiose ci si è recati in corteo sino al largo "Stella Maris" per l'inaugurazione del monumento a tutti i caduti del mare scolpito dal M° Umberto De Martino. Sono intervenuti alla cerimonia diversi sindaci della penisola sorrentina, le autorità portuali di Napoli, e dalla Spagna la testimonianza di un ex marinaio della marina militare spagnola Josè Ignacio ANDRES, all'epoca impegnato nelle purtroppo vane operazioni di soccorso.

 

Alle 17.55, ora precisa in cui la nave è definitivamente inabissata in mare, due minuti di raccoglimento su tutta l'area comunale con rintocchi funerei delle campane di tutte le chiese e serrata estemporanea di tutti gli esercizi commerciali, con le luci spente.

Foto scattata dall’aereo francese poco prima dell’affondamento. La stiva n.1 appare scoperchiata.


La M/n MARINA D'EQUA durante la navigazione sul fiume WESER (Germania) tra BREMEN e BRAKE, alle 02.00 del 10.12.1981 subiva un'avaria ai generatori che le procurava un "Black-Out". Tale fenomeno, comportante l'arresto del Motore Principale, si ripeté più volte nell'arco di circa un'ora; allo scopo di evitare pericolose conseguenze,alle 02.55 fu deciso di ancorare dando fondo all'ancora di sinistra per una lunghezza. Durante la manovra, per effetto della corrente del fiume, la nave ruotò, toccando col lato dritto della poppa sul fondo del canale. Riparato l'inconveniente, la nave proseguì per Brace dove si ormeggiò regolarmente. Successivamente, il giorno 11, fu eseguita una visita occasionale allo scafo da parte del R.I.NA. (a seguito dell'incaglio) e confermata nella sua Classe, non essendo emerso alcun danno. Anche l'avaria ai generatori, individuatane la causa, fu  eliminata e dopo opportune prove, tutto fu trovato in ordine. Si trasferì quindi ad ANVERSA (Belgio) per imbarcare un carico di lamiere in rotoli (coils) e manufatti  metallici per un totale di Tonn. 30.196 da sbarcare in più porti del Golfo Messico.

 

IL VIAGGIO (In sintesi)

DESCRIZIONE DEI FATTI

 

26/12/81 07,18 Sbarcato il Pilota all'altezza della Boa A1 (largo di Ostenda)

 

 

 

26-27/12    Navigazione lungo il Canale della Manica seguendo le rotte prescritte

 

 

 

27/12/81 11,30 Posizione Lat. 49° N - Long. 04° W

 

 

 

28/12/81 12,00 Posizione Lat. 48° N - Long. 08° W

 

 

 

29/12/81 13,55 Posizione Lat. 45°35' N - Long. 11° W - SOS

 

 

 

29/12/81 14,43 La Nave "THEODORE FONTANE" (Germ.Est) riceve sul canale 16 la chiamata di soccorso del MARINA D’EQUA e subito cambia rotta per raggiungere la nave in pericolo.

 

 

 

29/12/81 14.50 circa Inverte la rotta puntando su Brest, mettendo il mare in poppa

 

 

 

29/1278115,36 Le due navi sono in "contatto visivo". e su richiesta del M.d'Equa procedono per Rotta = 070° - Velocità 7 nodi, la nave tedesca in assistenza (Stand-by)

 

 

 

29/12/81 15,47 Giunge sulla verticale del M.d'Equa un aereo "Atlantic 4 CZ" dirottato appositamente da altra missione da parte del CECLANT  (Comando dell'Atlantico della Marina Francese di Brest) che conferma la rotta e la velocità delle due navi.

 

 

 

29/12/81 16,34 Via Roma radio Il M. d'Equa comunica con la Società Armatrice.

 

 

 

29/12/81 17,00 Un altro aereo della Marina Francese (CXI) rileva il precedente (4 CZ) che rientra alla base per fine autonomia.

 

 

 

29/12/81 17,44 Il M.d'Equa chiede che l'equipaggio sia evacuato a mezzo elicotteri.

 

 

 

29/12/81 17,55 Posizione Lat. 45°41'N - Long. 09° 54' W - Le luci del M.d'Equa scompaiono dalla vista della nave tedesca e svanisce l'eco radar.

 

 

 

LA NAVE E' AFFONDATA

 

Queste, in modo sinottico, le ore drammatiche del naufragio. Alle 17,55 del 29 Dicembre 1981 a circa  320 miglia a SW di BREST, il MARINA D'EQUA s'inabissava nell'Atlantico in tempesta. Le cause del sinistro furono attribuite, dalla Commissione d'Inchiesta Ministeriale - come fatto iniziale  - al cedimento degli elementi n° 2 e 3 dei boccaporti della stiva n°1 e come causa finale -  al collasso della paratia tra la stiva 1e 2.

 

 

 

 

 

 

 

Il tutto per le proibitive condizioni del tempo instauratesi nei giorni 27, 28 e 29 Dicembre per la presenza di una depressione di 975 mb. (731 m/m) posizionata in Lat. 43°N e Long. 28°W  che provocava, sopratutto il 29 Dicembre, vento da SW forza 10 e mare  da WSW di altezza significativa di 11 metri. Il ché provocò, come detto, dapprima un notevole imbarco d'acqua nella stiva e, successivamente, per lo sbattimento della massa d'acqua penetrata nella stessa stiva n°1, il cedimento (collasso) della paratia stagna fra la stiva 1 e 2, con conseguente perdita di galleggiabilità e quindi l'affondamento della nave. Nel tragico epilogo, persero la vita trenta uomini di mare, il più giovani dei quali aveva solo diciassette anni.

 

 

Grado - Cognome – Nome - Luogo d'Origine

1- Comandante MASSA Michele Torre del Greco

2- 1° Ufficiale BUONOCORE Anselmo Meta

3- 2° Ufficiale ESPOSITO Raffaele Meta

4- 3° Ufficiale CASTELLANO Costantino Meta

5- All.Uff.Cop. PISANO Gennaro Sorrento

6- All.Uff.Cop. S.N: LAURO Salvatore Piano

7- Radio Telegr. POLESE Salvatore Torre del Greco

8- Dir. di Macchina GAGLIARDI Tullio Meta

9- 1° Macch. CIBELLI Pietro Procida

10- 2° Macch. VISAGGIO Giuseppe Procida

11- 3° Macch. MARESCA Luigi Meta

12- All.Uff.Macch. RUGGIERO Giovanni Meta

13- All.Macch.S.N. VINACCIA Angelo Sorrento

14- Nostromo CIOFFI Luigi Piano

15- Marinaio TORTORA Guglielmo Torre del Greco

16- Marinaio PALOMBA Raffaele Torre del Greco

17- Marinaio TORTORA Luigi Torre del Greco

18- Marinaio D'ELIA Giuseppe Piano

19- Marinaio QUINTANA CORREA Carlos Santiago (Cile)

20- Mozzo PEPE Michele Meta

21- Mozzo S.N. VINACCIA Francesco Piano

22- Caporale SCOTTO di MARRAZZO Giuseppe Procida

23- Operaio AVERSA Antonino Meta

24- Elettricista D'ANGELO Ciro Meta

25- Fuochista CIOFFI Antonio Piano

26- Giov. Macch. ESPOSITO Maurizio Meta

27- Cuoco ESPOSITO Antonio Meta

28- Picc. Cucina CACACE Pietro Massa Lubrense

29- Garz. 2^ GELZO Antonino Massa Lubrense

30- Piccolo PAESE Antonio Meta

Da un documento dattiloscritto riportante la dichiarazione del Comandante Dieter HOHLE resa a Rostock (Germania Est) l’8 Febbraio 1982.

 

………………………………….omissis……………………………

 

“Il giorno 29 dicembre alle ore 14,43 GMT l’Ufficiale di Guardia ricevette un messaggio sul canale 16 che diceva: SHIP ON MY PORTSIDE COME IN (Nave sulla mia sinistra, rispondete) ripetuto a brevi secondi con l’aggiunta: THIS IS A MAY-DAY CALL (Questa è una chiamata di soccorso)- Il 2° Ufficiale Hans Jurgen WOLF, appunto di guardia, rispose al messaggio e furono scambiati i nomi delle navi. Sul nostro radar appariva una sola eco sulla sinistra a circa 11 miglia di distanza ed era inequivocabilmente il M.d’E. Conseguentemente alle 14,50 GMT cambiammo rotta dirigendo per 125°sul bersaglio rilevato e potemmo comprendere meglio il messaggio che diceva : HATCHCOVERS N° 1 STOVE IN (?) (probabilmente Hold = Stiva) SINKING IN POSITION 45°40’N 10°53’W ( Pannelli di copertuta della stiva n° 1 stanno affondando nella posizione 45°40’N 10°53’W). Ci accorgemmo che la longitudine non era corretta. Più tardi la M.d’E. ci chiese a che ora l’avremmo raggiunta e fu risposto: ”IN 40 MINUTI”-

 

Alle 15,36 la M.d’E. ci chiese di metterci in “STAND-BY”  con rotta parallela alla sua, cioè 070°. Ormai la nave era visibile otticamente. Alle 15,50 il primo aereo (aereo militare francese) volò basso sopra di noi.- Dalle 15,54 ci fu uno scambio di messaggi a tre (noi – aereo –M.d’E.) ed apprendemmo che la M.d’E. dirigeva per BREST (distante 300 miglia) che aveva un equipaggio di 30 persone e richiedeva l’intervento di elicotteri per evacuare la gente. L’areo rispose però che a quella distanza l’area non era coperta da elicotteri di salvataggio francesi. Il M.d’E. replicò che dalle coste spagnole la distanza era inferiore e l’aereo rispose che doveva accertarsi se fosse operabile tale possibilità. Successivamente intercettammo un messaggio dell’aereo (francese) che aveva chiamato un peschereccio francese che era nelle vicinanze.

 

Quando fummo al traverso della MARINA D’EQUA. (distanza 0,7 mg. a dritta) notammo che i portelloni centrali della stiva n°1 erano mancanti. Non potei stabilire se questi portelloni erano caduti nelle stive o portati via. Le onde venivano da poppa, spazzavano sulla prua con creste che si rompevano vicino alla stiva n° 1 permettendo così all’acqua di entrare nella stiva. La prua della nave. era molto bassa sull’acqua. La MARINA D’EQUA è affondata alle 17,55 GMT (tempo medio di Greewnich) in posizione 45° 45’ N e 09°45’ W. Circa 10-15 minuti dopo, l’oscurità era totale.

 

 

 

Io non osservai direttamente l’affondamento, perché, in quel momento, ero all’interno del ponte ad ascoltare un messaggio della MARINA D’EQUA, che ascoltavo sul canale 16 VHF (canale di soccorso) ed era la parte finale del suddetto messaggio.

 

In questo messaggio dicevano che un peschereccio francese si stava portando rapidamente nelle vicinanze e sulla sua rotta. E’ mia opinione che la MARINA D’EQUA, al momento dell’affondamento, avesse una prua di circa 70° ed una velocità stimata al disopra dei 7 nodi. Al momento dell’affondamento il MARINA D’EQUA era sulla nostra dritta – a circa un miglio di distanza – mentre noi eravamo su una rotta parallela. L’affondamemto del MARINA D’EQUA, a mia stima, non deve aver superato i 20-30 secondi. Quando la vidi per l’ultima volta, notai il suo fanale rosso di sinistra e quello di maestra ancora accesi, l’antenna radar era in moto e penso che anche qualche luce nei locali interni fosse accesa.

 

 

 

Immediatamente dopo l’affondamento noi girammo sulla sinistra dando l’allarme generale e localizzammo il luogo dove la M.d’E. era scomparsa. All’arrivo notammo cinque o sei portelloni galleggiare, di colore grigio-marrone, una parte di lancia di salvataggio, uno zatterino gonfiabile inadoperato con ancora l’involucro ed altri due sommersi e parzialmente gonfiati. Al tempo dell’affondamento le condizioni meteorologiche erano: vento da 240° forza nove – mare forza otto.

 

 

Per completezza di informazione il Capitano HOHLE, precisa che le precedenti condimeteo erano state le seguenti:

 

12,00 GMT = Vento da 240° forza 9 –   Mare forza 8

 

13,00 GMT = Vento da 240° forza 9 –   Mare forza 8

 

14,00 GMT = Vento da 240° forza 10 – Mare forza 8

 

15,00 GMT = Vento da 240° forza 10 – Mare forza 8

 

16,00 GMT = Vento da 240° forza 9 –   Mare forza 8

 

Da quanto sopra, si evince che il picco massimo della tempesta si è verificato tra le 14,00 e le 16,00 GMT proprio nelle ore (14,43 e 15,36) dei messaggi di soccorso e di richieste di elicotteri.

 

Qui finisce la deposizione del Comandante del Theodore Fontane, che come già detto risulta da un dattiloscritto, peraltro privo di qualsiasi attestato di autenticità da parte di autorità consolari, ma comunque di notevole attendibilità.

Abbiamo consultato la Relazione della Commissione Ministeriale (Biblioteca Collegio Capitani-Compartimento di Napoli) ed in particolare al paragrafo “Condotta della Navigazione” così si esprime:

 

La nave navigava per SW con grosso mare in prora ad una velocità non superiore ai sei nodi quando si verificò il primo sinistro cioè il collasso dei pannelli della stiva n° 1.

 

……………omissis…………

 

E’ altresì  evidente che, dato il tipo di nave, le onde coprivano con frequenza la prora, per cui, la stiva n°1 con la boccaporta aperta, imbarcasse acqua continuamente. Vista l’impossibilità di reggere il mare per i violenti urti che la nave subiva al rovesciarsi delle onde sulla prora, il Comandante deve aver avvisato la macchina di tenersi pronti ad aumentare i giri al momento opportuno, quando, tra un’onda ed un’altra, fosse apparso possibile virare per mettersi col mare in poppa. Quantunque questa fosse notoriamente una manovra rischiosa, peraltro venne considerato un rischio preferibile e fu condotta a buon fine, non risulta esattamente quando, anche se è presumibile entro 1 ora circa dallo sfondamento della boccaporta.

 

…………omissis…………

 

La virata produsse la rottura delle rizze del carico in coperta (telefonata della nave agli Armatori alle 16,34) e ciò può aver fatto presumere che anche il carico nelle stive potesse aver avuto qualche spostamento, comunque la situazione si presentava, nel suo complesso, migliore, in quanto la nave non era più soggetta ai rudi impatti con le onde. Tuttavia la nave era appruata ed il mare lungo, più veloce della nave, entrava da poppavia nella stiva n°1 che si appesantiva sempre più.

 

………omissis………

 

La richiesta di soccorso via elicotteri dimostra la preoccupazione del Comandante, quantunque non sia facile valutare la misura di tale preoccupazione. E’ comunque certo che egli decise di tenere l’equipaggio a bordo sin quando la nave resistesse al mare, piuttosto che affrontare il rischio sicuro connesso con la scelta di farlo scendere in mare, con mezzi salvataggio che, benchè regolamentari, apparivano del tutto inadatti a quelle condizioni di vento e di mare. La commissione ritiene che la decisione fu calcolata e sofferta e presume che l’apparente tranquillità dell’equipaggio nelle ultime ore di vita dellla nave ed anche il senso della telefonata si possono interpretare come segno di responsabilità del Comandante e dell’equipaggio.

 

………omissis………

 

L’imprevisto accadde intorno alle 17,55 del 29 Dicembre, quando la nave affondò, infilandosi di prua in un’onda alla velocità fino ad allora tenuta di 7 nodi restando sommersa in meno di un minuto. La Commissione fa rilevare che l’affondamento in un tempo così breve, può essere collegato soltanto al collasso strutturale della paratia tra la stiva 1 e 2, difficilmente prevedibile senza l’ausilio di calcoli appositi eseguiti con mezzi e con teoria di non comune applicazione.

 

………omissis………

 

Dal paragrafo “ Commento al Traffico RT/RTF/VHF

 

 

Non si spiega come mai il Theodore Fontane non abbia ricevuto il segnale S.O.S. in RT 500 kc/s emesso alle 13,55 dalla Marina di Equa e successivamente ripetuto dalla stazione RT di La Coruna; anche se non ci fosse stato ascolto continuo sul T. Fontane, doveva scattare l’autoallarme. Si rileva altresì che l’autoallarme RT e RTF non è scattato su nessuna delle navi in zona.

 

………omissis………

 

 

Dal paragrafo Coordinamento delle operazioni

 

 

Il punto in cui si trovava la marina di Equa quando chiese soccorso alle 13,55 ed anche il punto in cui la nave affondò alle 17,55 si trovano nella zona di giurisdizione del Centro di Soccorso /SAR) di Plymouth /Gran Bretagna) , a poche miglia di distanza dei limiti delle Regioni dei Centri di Soccorso /SAR) di Madrid e di Brest.

 

………omissis………

 

Riteniamo con queste citazioni di aver in qualche modo apportato altre conoscenze e commenti al disastro della Marina di Equa. Aggiungiamo che in ogni modo parteciparono, dopo l’affondamento, alla ricerca di eventuali superstiti e per diversi giorni seguenti:

 

Mezzi navali

 

Oltre al Theodore Fontane, i pescherecci 280 e 120, peschereccio spagnolo Efru, M/n liberiana Mary Beth, peschereccio Monte Sant’Alberto, Piroscafi Churruca, Langara, AR 41, Lagollan Guidhe. Mari Conchi, Mironich

 

Mezzi aerei

 

Oltre agli arei della marina francese Atlantic 4 CZ e CXI che agirono prima dell’affondamento,gli aerei francesi P2H, Atlantic FXCXE, velivolo inglese Rescue 52, aereo Atlantic francese WH, Fokker spagnolo 27.

 

Quanto sopra fino al 1° Gennaio quando furono interrotte le ricerche. Ma su intervento del Governo italiano, le ricerche furono riprese il 2 e proseguite fino al 4 Gennaio. A quest’ultima ricerca parteciparono gli aerei: francese Atlantic WE, Fokker spagnolo 27, Atlantic italiano I-1015. Il risultato di questa complessa operazione di ricerca a cui hanno partecipato in tempi e a titolo diversi 12 mezzi navali e 10 aerei dalle 17,55 del 29 Dicembre 1981 alle 16,09 del 4 Gennaio 1982, ha portato all’avvistamento ....

 

 

DATA/ORA AVVISTAMENTO MEZZO

 

29/12-22,11     Theodore FONTANE        Due dinghy rossi con bande argentate – VUOTI

 

30/12-05,48           “              “          Due zatterini gonfiabili lanciatidall’aereofrancese –VUOTI

 

30/12-03,17     Aereo franc.FXCXR          Salvagente con luce- VUOTO

 

30/10-10,00     M/pesca Monte Sant’Alberto Massa estesa di nafta 45°54’N e 09°40’ W

 

30/12-16,42     P.fo Churruca                   Resti del naufragio tra 46°40’N/45°40’N e 10°W/09°W

 

30/12-12,30     P.fo Mary Beth                  Pezzo di un’imbarcazione e 1 zattera da 10 persone-

 

VUOTA in 46°06’N

 

30/12-12,55     P.fo Mari Conchi              Un salvagente con la dicutura Duncan

 

30/12-13,06              “         “                   Un salvagente con la dicitura Schothlite

 

04/01-17,15     M/n Camberra                       Avvistato un cadavere in 47°14’N e 06°48’W (*)

 

94/01-18,10     Aereo ital.I-1015               Esplora la zona su indicata con esito negativo

 

(*) circa 150 mg. a Nord Est dal punto di affondamento. Ho qualche riserva che possa essere un membro dell’equipaggio del MARINA DI EQUA. Però tutto può essere possibile. Rimane purtroppo deludente il mancato ritrovamento e/o recupero.

 

Cartina con le rotte seguite dalle due navi a partire dalle 12,00/12,30 fino alle 17,55 del 29/12/1981 ora dell’affondamento in 45°45’N e 09°45’W. In rosso la rotta della MARINA D’EQUA. In Blu la rotta della nave tedesca THODORE FONTANE.

 

CONCLUSIONI

La  Commissione ministeriale d’inchiesta sul naufragio della MARINA DI EQUA, composta da quindici membri – tra cui il Presidente (Consiglio di Stato) due ammiragli, un Capitano di Vascello (CP), sei ingegneri, tre Capitani Superiori di Lungo Corso, due avvocati – insediatosi il 12 Gennaio 1982, ha tenuto complessivamente 19 sedute plenarie e l’ultima – conclusiva – il 31 Gennaio 1983, ascoltato 25 testimonianze dirette o per rogatoria ed aver acquisito agli atti centinaia di documenti e decine di perizie tecniche ed aver effettuato tre visite di accertamento all’estero e dopo aver espresso alcune raccomandazioni per il miglioramento generale delle strutture e dotazioni delle navi esprimeva – tra l’altro – la richiesta di un  maggior dimensionamento dei pannelli dei boccaporti (colonna battente attuale da 7 metri a 11 metri ) dotazioni anche sulle navi da carico di tute protettive galleggianti e protettive della temperatura del mare da 2° a 30° ed all’unanimità così si esprimeva:

 

che il naufragio della MARINA DI EQUA e la conseguente perdita dell’equipaggio e del carico verificatosi il 29 Dicembre 1981 siano da attribuirsi alle circostanze eccezionali sopradescritte e che, pertanto, il sinistro sia avvenuto esclusivamente per caso fortuito, senza dolo o colpa da parte di chicchesia.”

A noi non resta altro che esprimere – a distanza di 25 anni - il rinnovato e più vivo cordoglio ai famigliari delle 30 vittime e notiamo comunque che una serie di circostanze particolarmente negative quali l’eccezionale cattivo tempo – la distanza dalla costa – l’impossibilità di usare i messi di salvataggio e, soprattutto la giovanissima età della maggior parte dell’equipaggio, rendono ancora drammaticamente collettivo il dolore per una tragedia che ha visto coinvolto tanti individui di questa costiera. A loro và il nostro pensiero e la preghiera: riposino in pace!

 

Fortunato IMPERATO


di LUIGI DE ROSA

Le onde colpivano lo scafo incessantemente, cazzotti in pieno volto, jab destro e sinistro, gancio destro e poi montante sinistro a stordirti. Upper cut infiniti d’acqua salata colpivano rabbiosi, senza pietà, e tu, niente,impotente, sbattuto sul ring della vita a resistere sul ponte di una nave. Un freddo micidiale ed un mare infernale, quel lontano dicembre del 1981, mi riempivano di sconforto l’anima; lo avevo detto ad Hans: “maledetta vita la nostra, anni interi su quest’acqua amara e pochi giorni a terra per carpire affetto a una moglie ed a dei figli che ti guardano di anno in anno, di imbarco in imbarco, come uno sconosciuto, vorrei farla finita!” Ma non so fare altro che governare una nave!”
Poi , d’improvviso, quel gracchiare sommesso e sempre più insistente della radio: ”SHIP ON MY PORTSIDE COME IN… THIS IS A MAY-DAY CALL…” Venisti tu, Hans (secondo ufficiale ) ad avvisarmi”: ”Herr Commander Dieter Hohle una nave è in difficoltà… Comandante, una nave italiana ha lanciato il may-day……” Mi precipitai sul ponte di comando, calcolai il tempo che rimaneva :”quaranta minuti e siamo lì” - Dio dammi di più!, pensai,gridai, pregai Arrivammo che la MARINA D’EQUA era lì, fuscello di metallo in un inferno salato, ago di bussola alla deriva senza più né nord né sud, il rumore di un aereo ci fece sperare in soccorsi che non giunsero mai in tempo,…non furono ali d’angelo a sorvolare i sogni, le speranze e il futuro di quei trenta marinai sorrentini, ma quelle impotenti di un semplice aereo militare francese!
A mio parere Signor giudice il mare inghiottì quella nave in venti, trenta secondi….
Vidi il fanale rosso di sinistra e quello di maestra ancora accesi e poi delle luci nei locali sparire nell’oscurità… in quel mare di pece, vidi quelle luci affievolirsi a poco a poco e poi sparire nella notte che non prevede il sorgere di una futura alba, le onde cucirono il sudario d’acqua che finì per inghiottire tutto e tutti.
Pensai alla luce che brilla negli occhi di una madre a cui danno il batuffolo di carne appena partorito ed alla luce che si spense negli occhi delle madri alle quali comunicarono che quel figlio non l’avrebbero più visto. Pensai al figlio e alla figlia, alle mogli che aspettano con gioia, timore e trepidazione il padre e marito che scende dalla scaletta a fine imbarco ed alla solitudine di quella scaletta vuota, poggiata sul fianco della nave…non scenderà più nessuno.

In ricordo dei trenta marinai della nave Marina d’Equa affondata al largo del Golfo di Biscaglia il 29 dicembre 1981

 

 

A cura del webmaster

Carlo GATTI

Rapallo, 23 Ottobre 2014



"TITO CAMPANELLA": Un naufragio fantasma...

“M/n TITO CAMPANELLA

UN NAUFRAGIO FANTASMA

 

14 gennaio 1984

 

La Bulk Carrier M/n TITO CAMPANELLA in navigazione

 

 

Armatore: AFRAMAR – Savona

 

Stazza lorda= 13.342 tonn.

 

Lunghezza ft.= 175,30 metri

 

Larghezza= 21 metri

 

Cantiere: Ansaldo S.A. Livorno

 

Varata:25-giugno-1961
Consegnata: gennaio 1962

 

Velocità: 13,50 nodi

 

Andata perduta in data 14 gennaio 1984  (Golfo di Biscaglia)

 

Ultima posizione: latitudine=45° Nord – longitudine= 8° Ovest in data 13 gennaio. Persero la vita l'intero equipaggio composto da 24 marittimi.

 

 

 

Oxelösund é una città della Svezia meridionale situata 92 km a SW di Stoccolma. La M/n TITO CAMPANELLA, al comando del C.L.C. Luigi Specchi di Viareggio, partì il 7 gennaio 1984 da questo porto con un carico di 20.000 tonnellate di laminati (steel plate) destinato ad Eleusis (Grecia), dove era attesa il 23 o 24 gennaio. La nave fece bunker a Flushing (Olanda) da dove ripartì il 12 gennaio. L’ultima comunicazione Nave-Roma Radio fu trasmessa il 14 gennaio: “navigazione regolare nel Golfo di Guascogna (Biscay). 100 miglia da Capo Villano” – (Estremità della penisola Iberica). La nave, da lì a pochi giorni, sarebbe entrata in Mediterraneo. Secondo i risultati dell’inchiesta parlamentare, che riportiamo in questo articolo, le condizioni avverse del mare incontrate nel Golfo di Biscaglia provocarono lo spostamento delle pesanti lamiere che avrebbero sfondato alcune paratie dello scafo nella stiva n.5. Da questa falla la nave avrebbe imbarcato tonnellate di mare in brevissimo tempo provocandone l’affondamento. La tragedia fu immediata e da bordo non ebbero neppure il tempo di attivare i soccorsi. A bordo c'erano 23 uomini e una donna, Alga Soligo Malfatti, 1° ufficiale di coperta e moglie del comandante.

«Sembra accertato», scrisse il 26 gennaio 1984 un’importata testata: «la Tito Campanella era fatiscente e non affidabile». Un giudizio che non deve stupire visto che un perito svedese, nel dicembre 1983, firmò un rapporto nel quale si diceva: «La nave presenta numerose deformazioni in tutte le stive, interessanti strutture trasversali e paratie». Inoltre, come sostenne la Commissione d'indagine, la stazione telegrafica di bordo era fatiscente, il personale a bordo insufficiente e i mezzi di salvataggio erano vecchi.

 

 

 

 

A distanza di 40 anni da quel tragico naufragio, siamo andati a visitare il porto di Oxelösund in Svezia. La giornata buia e piovosa ha reso ancora più triste il ricordo di quella lunga “bara” che trascinò con sé il suo equipaggio verso gli abissi.

 

 

 

 

 

 

Quei poveri marittimi furono abbandonati  a se stessi, “prima, durante e dopo il naufragio”. Su quel famigerato epilogo, si lessero tante illazioni, supposizioni, intrecci di verità e menzogne che finirono per confondere le idee a tutti. Il caso si chiuse tra polemiche, inchieste di ogni tipo, ma senza una spiegazione attendibile. La verità sparì in Atlantico con il suo carico, forse “mal stivato”, e con il suo equipaggio incolpevole. La nave era obsoleta, ne veniva da un anno di disarmo e non era in ordine, né sotto il profilo meccanico, né per la robustezza dello scafo. Tuttavia, nessuno di quelli rimasti a terra pagò penalmente per quelle disattenzioni... sicuramente qualcuno pagò per farla partire!

 

“Chi é in mare naviga, chi é in terra giudica”

 

Si diceva un tempo. Purtroppo, chi muore non può difendersi e non può puntare il dito contro i veri responsabili, né raccontare il film di quella tragedia. Le Assicurazioni sistemarono le “cose terrene” e gli armatori girarono pagina... Al contrario, le mogli, i figli, i parenti e gli amici piangono da 40 anni quel dolore senza fine, soprattutto non dimenticano, e noi vecchi marinai con il sale nel sangue, siamo ancora e sempre con loro, con quello spirito di solidarietà che in terra si predica... ma che in mare si pratica sempre, allora come oggi.

 

 

Lo spirito di questo scritto é racchiuso in questo semplice collage di memorie, di ricordi, di articoli pubblicati, di foto raccolte qua e là affinché non si perda la memoria di un NAUFRAGIO ANNUNCIATO, di una “vergogna marinara” che non ha testimoni, ma solo silenziosi uomini di mare che ricordano con dolore quella triste perdita e intendono semplicemente tramandarlo alle nuove generazioni di marinai e alla grande Storia, per non dimenticare!

 

 

Vi mostriamo una serie d’immagini di Oxelösund e del suo porto. Un contesto di isolotti, pinete e canali che fanno da scudo a queste banchine fiancheggiate da dune di minerale che il vento solleva e sparge dovunque. Questi porti sono tutti uguali: isolati e squallidi!

 

 

 

 

 

Da una di queste banchine del porto di Oxelösund (Svezia), la nave mollò gli ormeggi per il suo ultimo viaggio. Superate le insidie del Mar Baltico e del Mare del Nord, fu inghiottita dalle onde del Golfo di Biscaglia. Nella tragedia persero la vita 24 persone dell'equipaggio.

Da questa Stazione uscì il Pilota che  vide la nave ed il suo equipaggio per l’ultima volta.

 

 

 

 

Nelle pagine che seguono, riportiamo una raccolta di articoli che uscirono sulla stampa in quei drammatici giorni e delle ottime foto che furono scattate a bordo alcuni mesi prima della tragedia e che ho raccolto dal BLOG “pagine di mare”. Segue infine la Relazione del Senatore dott. Aldo Pastore alla Camera dei Deputati in merito all'affondamento. Tale intervento, a nostro giudizio, fu molto efficace, preciso e puntuale sotto ogni punto di vista: amministrativo, tecnico-marinaro e politico. Da quella relazione emerse un quadro d’insieme che a definire DISASTROSO sarebbe molto riduttivo.

 

 

Purtroppo, dopo quanto é successo a Genova, il 7 maggio 2013, con l’abbattimento della Torre di Controllo dei Piloti da parte di una nave sub standard, non siamo più sicuri che TRAGEDIE come quella della TITO CAMPANELLA abbiano insegnato qualcosa agli “imprenditori del mare”.

 

E’ giusto affermare che nel campo della SICUREZZA NAVALE si sono fatti passi giganteschi, ma é soprattutto consigliabile non abbassare mai la guardia: contro certi “virus” che si annidano nelle pieghe della peggior marineria del pianeta, non esiste alcun vaccino.

 

 

 

 

Intervento alla Camera dei Deputati del Senatore dott. Aldo Pastore

 

 

Signor Presidente, Signor Ministro, Onorevoli Colleghi,

 

 

 

credo sia doveroso, da parte nostra, tributare un sentito riconoscimento ai componenti della Commissione d'Indagine Amministrativa per il lavoro svolto; si trattava di una inchiesta complessa e difficile, si dovevano valutare, con serena obiettività, tutta una serie di fatti e di circostanze in partenza difficilmente spiegabili o interpretabili; ebbene ritengo che la Commissione abbia svolto questo compito con serietà, diligenza e competenza.

 

 

 

Certo: esistono, nella documentazione presentata, ancora delle lacune, dei nodi non sciolti, dei problemi rimasti insoluti e non si tratta, signor Ministro, di problemi di scarsa importanza; tuttavia la Commissione è riuscita a giungere a conclusioni che mi paiono verosimili e pertanto largamente condivisibili.

 

 

 

Quali sono queste conclusioni?

 

 

 

La Commissione ritiene non esservi più alcun dubbio sulla scomparsa per naufragio della nave.

 

 

Aggiunge che il naufragio stesso è stato repentino ed imprevisto.

 

 

Inoltre la Commissione ritiene che la causa più probabile del Sinistro sia rappresentata da uno spostamento del carico, dovuto ai violenti e bruschi movimenti della nave soggetta ad un mare assai tempestoso.

 

 

In particolare (conclude la Commissione) è verosimile che lo spostamento sia avvenuto nella stiva numero cinque, in relazione al tipo di caricazione e rizzaggio eseguiti in tale settore; lo spostamento avrebbe provocato una falla sul fasciame esterno, determinando l'ingresso dell'acqua con il riempimento della stiva suddetta fino al piano di galleggiamento relativo.

 

 

La "Tito Campanella" affondò quindi parallelamente al proprio assetto, senza quindi che il personale sul ponte potesse tempestivamente rendersi conto di quanto stava accadendo.

 

 

 

 

Queste dunque le sintetiche conclusioni della Commissione di Indagine Amministrativa; ma, stando così le cose, noi tutti, signor Ministro, dobbiamo chiederci quali sono state le cause più antiche che hanno condotto al determinarsi di questo tragico evento.

 

 

E queste cause più remote noi le troviamo scritte qua e là nel contesto della relazione della Commissione; vogliamo aggiungere, in tal senso, che il lavoro della Commissione non ha fatto altro che confermare (totalmente o parzialmente) le certezze, le intuizioni o più semplicemente i sospetti che il nostro gruppo parlamentare aveva puntualmente denunciato nell'interrogazione presentata alla Camera in data 24 gennaio 1984.

 

 

Quali sono queste cause più antiche?

 

 

 

1) La vetustà della nave: si trattava di una nave costruita nell'anno 1962, ridotta (come da noi denunciato nella interrogazione) ad un "ammasso di ferro", rassomigliante ad "un relitto appena tirato su dal fondo".

 

 

Queste nostre affermazioni hanno trovato puntuale conferma nel rapporto redatto dal perito svedese Eric Baldall in data 26-27 dicembre 1983; in tale rapporto si legge, infatti, che "la nave presentava numerose deformazioni ed indentature in tutte le stive, interessanti strutture trasversali, paratie, cielo del doppio fondo ed anche la coperta; nessuna delle stive risultava asciutta: in particolare le stive 1, 3 e 6 contenevano da 7 a 70 centimetri di acqua; anche il ponte della nave è stato trovato rugginoso.

 

 

 

 

2) La stazione radio-telegrafica era fatiscente (come da noi puntualmente evidenziato); a tal proposito è vero che la Commissione ha affermato che "un giudizio esauriente sulla funzionalità delle apparecchiature radio-telegrafiche potrà essere dato solo quando sarà completata la raccolta di tutte le informazioni ancora mancanti", ma vi sono, nel contesto della relazione e della documentazione allegata, indizi certi che la stazione non era idonea allo scopo; basti accennare al contenuto del giornale radiotelegrafico del mese di dicembre 1983 (pagine 8 e 9 della relazione della Commissione di Indagine), regolarmente firmate dal Marconista e vistate dal Comandante della nave, o alle dichiarazioni dell'ex Marconista Nappi Raffaele (pagina 45 della relazione).

 

 

 

3) I mezzi di salvataggio a bordo erano sicuramente vetusti; di questo problema si parla soltanto incidentalmente nella relazione della Commissione; ma che la situazione al riguardo fosse disastrosa lo si deduce dalla descrizione fatta a pagina 5 di tali mezzi di salvataggio.

 

 

Essi erano rappresentati da:

 

 

n. 2 imbarcazioni da 40 posti ciascuna, una delle quali munite di motore;

 

 

n. 1 zattera da 20 posti sistemata a poppa;

 

 

n. 1 zattera autogonfiabile da 6 posti;

 

 

n. 40 giubbotti di salvataggio.

 

 

Orbene, l'età di questi mezzi di salvataggio coincideva con l'età della nave e non si sa se essi siano mai stati usati e se su di essi veniva eseguita una regolare e periodica opera di manutenzione.

 

 

L'unica eccezione è costituita dalla zattera di salvataggio autogonfiabile, che è stata sostituita nel corso dei lavori di riparazione e di manutenzione della nave, avvenuti dal 30 agosto al 17 settembre 1983.

 

 

 

4) Il carico delle lamiere è risultato eccedente, sproporzionato alle caratteristiche statiche della Tito Campanella e per di più sistemato in maniera assolutamente scorretta nelle stive della nave.

 

 

Questa affermazione (che peraltro era già presente nel testo della nostra interrogazione) ha trovato esatta conferma nei documenti acquisiti dalla Commissione ed in particolare risulta evidente nelle pagine 27-28 e 29 della relazione.

 

 

 

5) La composizione dell'equipaggio (così come risulta dalla tabella esibita dall'armatore) era insufficiente perchè non comprendeva né il terzo ufficiale di coperta, né il terzo ufficiale di macchina, espressamente previsti dalla Tabella di armamento, approvata nella riunione tenutasi il 23.10.1983 presso la Capitaneria di Porto di Savona tra l'armatore ed i rappresentanti sindacali.

 

 

Queste sono dunque, a nostro giudizio, le cause più antiche che hanno condotto al tragico evento.

 

 

Ma, signor Ministro, la Commissione d'Indagine Amministrativa ha dato altresì conferma alle nostre certezze ed ai nostri sospetti anche per quanto concerne i soccorsi prestati (o meglio non prestati) ed i ritardi con i quali si sono iniziate le ricerche del la nave scomparsa.

 

 

 

Dalla documentazione agli atti e dalla stessa relazione della Commissione si evince infatti che:

 

 

 

1) nessuna notizia sul mercantile è pervenuta in Italia dal 14 gennaio al 19 gennaio senza che alcuno, ai diversi livelli di responsabilità, si preoccupasse della totale assenza di notizie sul mercantile;

 

 

 

2) i mezzi di soccorso italiani hanno partecipato alle operazioni di ricerca in grave ritardo; questi delicati compiti sono stati, in effetti, delegati ai mezzi di soccorso spagnoli, portoghesi e francesi.

 

 

 

Dalla documentazione allegata alla relazione si ricava infatti che:

 

 

 

a) gli spagnoli hanno iniziato le ricerche della Tito Campanella al mattino del sabato 21.1.1984 (pag. 14) mediante aerei e successivamente hanno attivato alla ricerca anche la marina (pag. 20);

 

 

b) i portoghesi hanno partecipato alle ricerche mediante velivoli, inviati in data 23.1.1984 (pag. 21);

 

 

c) i francesi, dalla stessa data, hanno esplorato la zona nord della punta Estaca de Vares (pag. 51);

 

 

d) gli italiani hanno iniziato le ricerche soltanto all'alba del giorno 26 gennaio (pag. 13) mediante due aerei e due elicotteri, in grave ritardo quindi rispetto agli altri e soltanto dopo la visita a Madrid del ministro Carta (visita avvenuta il 24.1.1984).

 

 

 

Sorge, quindi, a questo punto, il problema delle responsabilità, pubbliche e private.

 

 

Certo: tali responsabilità saranno precisate dagli ulteriori accertamenti che verranno effettuati dalla Commissione d'inchiesta formale, prevista dall'art. 580 del Codice della Navigazione; è ovvio, d'altra parte, che ci troviamo di fronte a responsabilità di tipo diverso, alcune aventi rilevanza penale (e come tali di competenza della Magistratura ordinaria), altre aventi significato più propriamente politico.

 

 

Ma non saremmo sinceri e leali con noi stessi e con la società civile che qui rappresentiamo se, già sin d'ora, noi non esprimessimo il nostro pensiero su tali responsabilità, ben sapendo di pronunciare parole dure ed impietose verso tutti coloro che, in qualche modo, consideriamo coinvolti in questa dolorosa vicenda.

 

 

 

Ed allora dobbiamo dire, senza mezzi termini, che a nostro giudizio, portano grandi responsabilità:

 

 

 

1) La società armatrice:

 

 

- per aver consentito ad una nave di tal fatta di compiere viaggi di navigazione internazionali di lungo percorso;

 

 

- per aver posto in mare la Tito Campanella dal maggio all'agosto 1983 (dopo undici mesi di disarmo), senza far effettuare alcun lavoro di manutenzione (vedi pagina 24); per essersi disinteressata del destino della nave dal 14 gennaio al 19 gennaio, ben conoscendo le caratteristiche statiche del mercantile, ben conoscendo la difficile rotta seguita dalla nave e ben conoscendo, infine, quale tipo di bufera si era, in quei giorni scatenata sui mari percorsi dalla Tito Campanella;

 

 

- per avere provveduto a dotare la nave di un organico di personale insufficiente quantitativamente e qualitativamente.

 

 

 

2) Le autorità ed i tecnici preposti alla caricazione della nave (nel porto svedese di Oxelösund)

 

 

- per aver autorizzato ed effettuato un carico sproporzionato rispetto alle effettive possibilità della nave e, per di più, utilizzando un sistema di rizzaggio tecnicamente inidoneo.

 

 

 

3) Il RINA (Registro Navale Italiano).

 

 

 

- per aver dichiarato che la nave era in regola (con tutte le prescritte documentazioni) allorquando riprese i viaggi, partendo da Genova in data 17.9.1983, dopo aver effettuato i lavori di riparazione effettuati dalla ditta Mariotti, lavori che furono controllati dal RINA tramite i suoi Ispettori.

 

 

- Qualcuno, in particolare, deve venirci a spiegare la contraddizione esistente tra le dichiarazioni del RINA del settembre 1983 ed il rapporto del perito svedese Eric Baldall del dicembre 1983; confrontando le due documentazioni sembra addirittura di trovarci di fronte a due navi diverse, l'una quasi nuova, l'altra ridotta ad un ammasso di rottame; in buona sostanza qualcuno deve dirci come sia possibile che una nave possa aver subito un tale rapido deterioramento delle sue condizioni statiche e funzionali in soli tre mesi; sorge veramente il fondato sospetto che la certificazione del RINA sia stata in effetti una documentazione "di comodo" ad uso e consumo esclusivo dell'armatore.

 

 

 

4) Il Governo italiano

 

 

In questa vicenda le responsabilità politiche del Governo possono ricondursi a due distinti tipi di omissione:

 

 

 

a) la prima (contingente e legata direttamente alle vicende della Tito Campanella) è costituita dal fatto che il nostro Governo ha provveduto ad organizzare e ad inviare i mezzi di soccorso con grave ritardo e senza un organico piano di intervento;

 

 

b) la seconda (di carattere più generale e che trascende l'episodio contingente e coinvolge responsabilità governative ben più ampie e complesse in tema di sicurezza del lavoro in mare) è costituita dal cronico e colpevole ritardo con il quale il Governo onora i trattati e le convenzioni internazionali sulla materia; desidero ricordare, a tal proposito, che dopo il naufragio della "AMOCO CADIZ" il Parlamento europeo ha predisposto una direttiva (trasformata dal Consiglio dei Ministri della Comunità in raccomandazione) contenente disposizioni precise in tema di standards minimi di navigabilità e contemplante, tra l'altro, ispezioni di bordo e l'immobilizzo delle navi in condizioni di substandard, prive cioè delle"condizioni minime"; ebbene il nostro Governo ha sempre e costantemente disatteso tale raccomandazione.

 

 

Analoghe considerazioni possono farsi relativamente alla Convenzione Internazionale SAR '79 relativa ai problemi della ricerca e del soccorso marittimo ed al Regolamento Internazionale delle radio-comunicazioni (emanato a Ginevra dall'Unione Internazionale delle Telecomunicazioni), destinato a facilitare la ricerca della posizione di relitti e di naufraghi nel corso di operazioni di ricerca e salvataggio.

 

 

 

Emergono dunque dalla relazione della Commissione, dalla documentazione allegata ed, in ultimo, dalle "conclusioni e proposte di carattere generale (pag. 63 e seguenti) 1.1 delle gravi e precise responsabilità politiche del Governo; e la conferma di questa assenza del Governo sul tema della sicurezza del lavoro in mare deriva altresì dal fatto che durante l'attuale legislatura il Governo, su questo argomento, è riuscito a varare soltanto il Disegno di Legge n. 1230, Disegno di Legge che, per la sua inconsistenza e per la sua fumosità, è stato addirittura dichiarato improponibile dalla Commissione affari costituzionali di questa Camera.

 

 

 

Concludo, signor Presidente, e voglio terminare questo mio intervento con un auspicio (auspicio che, peraltro, è implicitamente racchiuso anche nei suggerimenti formulati dalla Commissione d'Indagine Amministrativa); voglio cioè augurarmi che tragedie come quella della Tito Campanella e di molte altre navi che l'hanno preceduta non abbiano più a ripetersi in futuro; il progresso scientifico e tecnologico consentono oggi di ridurre, in misura significativa, il rischio del lavoro in mare; è compito del Governo, è compito del Parlamento far sì che la nostra legislazione nel settore vada al passo con i tempi ed anticipi, in qualche caso, le innovazioni tecnologiche più significative, tenendo presente che, costantemente, la vita e la dignità dell'uomo debbono prevalere sempre sulla logica mercantile del profitto.

CONCLUSIONE:

 

Le accuse lanciate dal sen. Pastore sono come un proiettore sul luogo del delitto, hanno il grande pregio di fare chiarezza su tanti punti oscuri e sono ancora oggi molto valide e più che giustificate.

 

 

 

 

 

 

 

Tuttavia, sullo sfondo della tragedia rimangono ancora alcuni interrogativi: com’é possibile, in tempo di pace, che una nave di grandi dimensioni come la “TITO CAMPANELLA” svanisca nel nulla senza lasciare tracce nell’etere (S.O.S-Chiamate di Soccorso), sul mare (lance di salvataggio-zattere) o residui sulla costa? La rotta obbligata che congiunge La Manica a Gibilterra é sempre affollata di navi, com’é possibile che nessuno si accorse della sua sparizione? Probabilmente le condizioni meteo marine erano pessime, ma non proibitive. Non si verificarono (grazie a Dio) altri naufragi in quella terribile zona di mare e non ci furono danni alle città costiere.

 

 

 

 

 

 

 

I motivi del naufragio vanno ricercati altrove. Per fortuna la Storia non ha premura...

 

 

 

 

Carlo GATTI

 

Rapallo, 20 ottobre 2014

 


 

 


TROMBE D'ARIA A GENOVA

 

 

LE TROMBE D’ARIA

UN INCUBO PER L’ARCO LIGURE ED IL PORTO DI GENOVA

Le cronache di mezzo agosto 2014 si sono dovute occupare, ancora una volta, di trombe d’aria che si sono abbattute sulla costa genovese provocando gravissimi danni materiali alle strutture del litorale. Per non dimenticare, abbiamo pensato di rievocare, a dieci anni esatti di distanza, i due episodi che misero in ginocchio il porto di Genova paralizzando il settore “containers” per un anno intero. A quei danni ingentissimi, si aggiunse la morte di un portuale genovese che rimase schiacciato dalla gru che doveva proteggerlo.

31.8.1994 - 17.9.1994

 

Due date che i genovesi non hanno più dimenticato

 

 

Il fenomeno meteorologico si ripeté dopo 17 giorni in un’altra zona del porto di Genova: otto gru furono abbattute.

 

Data

Zona

Tipo di gru

Danni Lire

Mor.Fer.

31

Agosto 1994

P.te Rubattino

Elevatori

 

1 - 50

17 Settem.1994

P.te Libia

Portainer

Centinaia di Miliardi

due date

Su tutto l’arco ligure si scatenarono in quel periodo gigantesche trombe d’aria che portarono scompiglio, allarmi, danni e morte. Forse sarebbe più corretto chiamarli tornado*, perché essi dimostarono la stessa forza distruttiva dei loro parenti americani.

La tromba d’aria si sta avvicinando minacciosa alla diga del porto di Genova.

 

Ai piedi della Lanterna si consumò questa ennesima tragedia. Di prora alla nave si vede la gru appena abbattuta. La “VECTIS ISLE” di appena 2.330 t. é stata risparmiata dalla tromba d’aria per pochi metri.

 

Il 1° settembre ’94, l’autore mise in partenza la piccola nave britannica Vectis Isle (vedi foto) da calata Bettolo ponente, a pochi metri dal punto in cui perse la vita lo sfortunato gruista genovese.

L’anziano comandante inglese era ancora sotto schock e raccontò la tragedia al pilota, così come la vide e la visse: “Seguivamo con apprensione la rotta a zig-zag dell’enorme tromba d’aria che proveniva dal mare, mentre eravamo rinchiusi dietro i vetri del nostro ponte di comando. Quando vidi quell’immensa colonna nera puntare decisamente verso il nostro molo, uscii sull’aletta ed urlai al gruista di scendere e scappare. Il portuale si rese conto immediatamente del pericolo, scese e si mise al riparo dietro la gru stessa, che forse, molte altre volte lo aveva protetto da fenomeni atmosferici ben più comuni.

Distruzione e morte. In primo piano la gru che ha investito lo sfortunato portuale. Le gru di Ponte Rubattino erano - “Elevatori Ansaldo IV” – da sei tonnellate costruiti nel 1952.

Nel frattempo il tornado (così lo definì) colpì ed ingoiò brutalmente la prima gru, quella che era posizionata in testata Rubattino, la sollevò e la scagliò come fosse un giocattolo verso la gru più vicina a noi, la stessa che divenne la tragica tomba di quel pover’uomo che vi si era rifugiato dietro.

Non avevo mai visto nulla di più terrificante! Mi creda, anch’io sono all’ultimo imbarco prima del mio “retire”.

 

Ma oggi sono ancora più triste perché ho saputo dal mio Agente che anche il gruista, la vittima del tornado, era al suo ultimo giorno di lavoro prima della pensione.”

 

Per avere una conferma, ancora più precisa, della forza immensa di queste trombe d’aria, si dovette attendere soltanto diciassette giorni, per assistere esterrefatti alla demolizione di gru alte più di venti metri ed un peso di centinaia di tonnellate.

9Queste gru erano del tipo Portainer, costruite dalle officine Reggiane su licenza Paceco e furono allestite nel 1971. Gru di questo tipo, sono tuttora operative, hanno una portata di 45 tonn. ed uno sbraccio di oltre quaranta metri.

Genova ed il suo porto dovettero attendere circa un anno, prima di vedere rimarginate quelle ferite che tante perplessità avevano suscitato non solo negli addetti ai lavori, ma soprattutto nell’opinione pubblica, tuttora incredula, dinanzi a ciò che razionalmente, è fuori statistica e si chiede:

“come è possibile che nel nostro organizzatissimo porto si possano verificare due identici e tragici incidenti, in tempi così ravvicinati”?

COME SI FORMA LA TROMBA D’ARIA?

 

L’insorgere di questo genere di fenomeni e’ strettamente legato alle condizioni atmosferiche. Quando si e’ in presenza di correnti d’aria calda negli strati inferiori e di correnti d’aria fredda negli strati piu’ alti, possono innescarsi fenomeni turbolenti. A causa della differenza di peso, l’aria calda degli strati sottostanti tende a salire verso l’alto, mentre quella fredda e’ spinta verso il basso. Se le condizioni delle correnti lo consentono, questo movimento di masse d’aria puo’ provocare un cilindro d’aria rotante intorno ad un asse perpendicolare al terreno. Processo di formazione di una tromba d’aria: la continua spinta delle correnti d’aria calda verso l’alto, puo’ allungare il cilindro d’aria verso l’alto creando appunto la tromba d’aria.

*Dalla grande enciclopedia “IL MARE”:

TORNADO: colonna d’aria posta in violenta rotazione, apparentemente sospesa alla base di un cumulolembo. Il terribile vortice presenta in genere un diametro di alcune centinaia di metri; ruota in senso antiorario e produce vento stimato da 100 a 300 km orari. La sua traiettoria è governata dalla sua nuvola madre. Il tornado che non è una per turbazione tropicale come uragani o tifoni, può verificarsi anche in Italia (Venezia 11 settembre 1970), ma raggiunge le massime frequenze in Australia e negli Stati Uniti dove se ne contano fino a 200 l’anno, specialmente nelle grandi pianure dei Fiumi Missisipi, Ohio e Missouri.

Carlo GATTI

Rapallo, 10 Ottobre 2014

 

 


COSTA VICTORIA - SOCCORSO IN ATLANTICO

COSTA VICTORIA

SOCCORSO IN OCEANO ATLANTICO


Al comando della Costa Victoria, (nella foto) il pomeriggio del 27 novembre 1998, partimmo da Genova, salutando come sempre con i fischi della sirena e con tanta tristezza nei  cuori i nostri famigliari che continuavano a farci segno dalla banchina, sino a quando la nave era in vista. Le traversate atlantiche erano crociere che stavano diventando sempre più richieste. I nostri ospiti erano per il 50% italiani e per il resto di varie nazionalità; i porti più o meno erano sempre gli stessi. Questa volta, per avere una navigazione più confortevole e una minore onda lunga atlantica dopo Gibilterra, la nave fece scalo a Casablanca e, a seguire, a Santa Cruz de Tenerife per poi raggiungere i Caraibi.

St.Marteen

Partimmo da Tenerife con un forte vento in poppa, diretti al primo scalo dei Caraibi, la bella isola di St. Maarten. Il vento si manteneva teso, la nave superava tranquillamente i 21 nodi e i passeggeri si godevano la splendida giornata sui ponti esterni rinfrescati da una lieve brezza che dava un senso di piacere a chi si  stava crogiolando al sole.


Stavamo navigando tranquillamente da due giorni, quando, sul tardo pomeriggio, avvistammo  all’orizzonte una barca a vela (nella foto) lunga circa 18 metri. Poco dopo fummo chiamati dall’imbarcazione che ci segnalava di avere delle difficoltà: stava procedendo a vela, ma utilizzava soltanto il fiocco in quanto il forte vento dei giorni precedenti le aveva spezzato il boma, si erano scardinati i perni della connessione del giunto con l’albero e lo stesso giunto era danneggiato. Secondo l’equipaggio della barca a vela - tre donne e quattro uomini di nazionalità francese - il danno sarebbe stato riparabile se avesse potuto avere assistenza. Mi feci dare le generalità: erano due coppie intorno ai 50 anni, con tre figli, due ragazzi e una ragazza di oltre 20 anni. Tutti appassionati di vela, avevano intenzione di proseguire verso l’isola di Antigua. Dal nostro ufficio  security di terra, al quale chiedemmo di controllare le generalità avemmo conferma della veridicità delle informazioni ricevute. Per ridurre i tempi di avvicinamento diedi agli occupanti della barca la rotta sulla quale dovevano procedere per venirci incontro. Non appena fossimo stati a circa due miglia di distanza avrebbero dovuto ammainare il fiocco e non tentare alcuna manovra di contatto con noi. Gradatamente cominciai a ridurre la velocità, mentre il nostro personale era al portellone principale, pronto alla manovra.


Fermai la nave quando la barca era a una distanza di circa cinque metri al nostro traverso. La barca che ci apprestavamo ad assistere era veramente bella e comoda, ricordo che si chiamava “La Belle Etoile”. Data la vicinanza il lancio delle nostre cime a bordo fu facile. Comunicai via radio a Louis, che stava al timone, di utilizzare il motore e mettersi con la prora al mare, tirare le cime e affiancarsi, assicurandolo che i nostri parabordi avrebbero protetto l’imbarcazione. La manovra riuscì perfettamente, l’onda lunga causava un po’ di beccheggio, ma l’ormeggio sottobordo era sicuro. Gradatamente, utilizzando le eliche di manovra, mi traversai al mare lungo, proteggendo ulteriormente la piccola imbarcazione dall’onda lunga.  Il nostro carpentiere e l’operaio meccanico salirono a bordo e verificarono che per la riparazione erano necessarie almeno due ore, in quanto si doveva ricostruire un pezzo solido di rinforzo in acciaio, fattibile  con i nostri mezzi. Avvertii i passeggeri della situazione; molti di essi avevano già filmato con le cineprese la manovra ed erano curiosi di sapere che cosa avremmo fatto. Nel frattempo, dal nostro portellone, su gentile richiesta di Louis, provvedemmo a completargli il rifornimento di gasolio e a fornirgli due grossi sacchi di provviste alimentari di ogni genere. Il lavoro fu completato in oltre due ore, nel corso delle quali il nostro personale aveva effettuato una riparazione permanente. Sicuramente, in quel punto, il boma non si sarebbe più rotto, neppure con vento forte. La gioia dei francesi fu immensa, si sentivano ora sicuri di poter continuare il loro viaggio. Era loro intenzione trasferire l’imbarcazione ad Antigua per poi ritornare in patria in aereo perché i ragazzi frequentavano l’università; successivamente, in estate, avrebbero visitato tutte le isole dei Caraibi.

Dopo circa 20 giorni ricevetti, tramite posta elettronica, la conferma del buon esito del loro viaggio con molti ringraziamenti per la nostra assistenza ed efficienza. I francesi aggiungevano di aver fotografato la “Costa Victoria” dalla loro barca, e di averne  fatto una foto gigante da tenere in ricordo di quella loro esperienza in mare.

I nostri passeggeri si erano entusiasmati nel seguire l’operazione di soccorso ed avevano ascoltato con interesse dal direttore di crociera, la sera, in teatro, tutti i dettagli dell’intervento, esposti nelle varie lingue straniere. Avevano apprezzato molto il nostro gesto e ricevetti numerose lettere  lusinghiere di complimenti, specialmente dagli ospiti francesi. Il nostro viaggio proseguì tranquillo sino all’arrivo, dopo aver effettuato gli scali più belli e interessanti dei Caraibi.

Una nave di "Costa Crociere" in uscita da Port Everglades

Domenica 13 dicembre entrammo in porto a Port Everglades (Florida), concludendo ancora una volta con successo e gradimento degli Ospiti la traversata atlantica.

C.S.L.C. Mario Terenzio PALOMBO

COSTA VICTORIA

Dati Tecnici:

Consegnata alla Costa Crociere  nel 1996 dal cantiere Lloyd Werft  (Bremerhaven- Germania), dove è stata costruita. (DESIGN Italiano – progettata da uno studio di  ingegneri italiani).  Ho avuto l’onore di seguirne l’allestimento e assumerne  il comando.

Le dimensioni della nave erano state studiate dall’armatore sulla base di parametri logistici e commerciali, perché potesse transitare lungo il Canale di Panama, passare sotto i ponti più importanti del mondo e operare tranquillamente in quasi tutti i porti del Mediterraneo.

La “Costa Victoria”  è lunga 253 metri, larga 32.2, GRT: 75.176, (Stazza lorda) potenza apparato motori 30.000 KW, (propulsione diesel elettrica)  capacità massima passeggeri 2370, equipaggio 790. E' dotata di tre eliche di manovra prodiera da 1.700 KW ciascuna e 2 poppiere da 1.700 KW ciascuna, due timoni attivi tipo “Becker” che danno alla nave un notevole effetto evolutivo.

Webmaster Carlo GATTI

Rapallo, 28 Agosto 2014






COSTA CONCORDIA - Un incubo da ricordare....

 

COSTA CONCORDIA

 

Un incubo da ricordare, tra superstizione e realtà.

Si sono spenti i riflettori sulla Costa Concordia e il mondo intero ha tirato un sospiro di sollievo.

 

Il TEAM del Giglio, composto da tecnici di 26 nazionalità, suddivisi in numerose specializzazioni, ha avuto ragione di esultare e lasciarsi andare a manifestazioni “liberatorie” contro un nemico insidioso che era presente sin dalla nascita  della nave: la sfortuna! Le navi, come le persone, hanno un destino e se “il buon giorno si vede dal mattino”, la rituale e ben augurante bottiglia di champagne, come molti ricorderanno, non andò in frantumi al momento del varo. Un segno premonitore? I marinai sono superstiziosi e quel giorno non pochi si coprirono gli occhi per non vedere la fine del varo… osarono troppo? Ma non ebbero tutti i torti. I marinai e le navi hanno dei riti da rispettare, come tutte le cose antiche, materiali e spirituali di questo mondo.


Il relitto della Costa Concordia é finalmente ormeggiata sulla diga del porto di Voltri. Sullo sfondo una Maersk sta scaricando i suoi containers. (foto J.C.Gatti)

 

La nave è una creatura modellata dall’uomo che le ha dato una struttura, la forma, lo slancio, la velocità, il movimento, persino il “mugugno” quando soffre, quindi ha una sua personalità.

Il relitto attraccato alla diga di Voltri non è la Costa Concordia vista da lontano sugli schermi di casa nostra, mentre certi commentatori esultavano ed esaltavano la magia dei tecnici, come se questi avessero potuto ridare un volto umano all’oggetto di quel macabro funerale che lentamente procedeva verso la meta finale. Oggi, nulla di tutto questo è percepibile. Chi è stato a bordo a contatto con le sue strutture dilaniate, ci ha raccontato dell’odore acre, pungente del relitto tirato sul da fondo, d’aver visto un ammasso di strutture deformate dalla sua caduta sul fianco e uomini senza sorriso e senza volto alla ricerca affannosa di un naufrago ancora mancante e delle membra di altri passeggeri identificati soltanto in parte.

 

Diciamocelo con sincerità: la più grande sfortuna della Costa Concordia fu l’imbarco di un capitano che non era all’altezza di tanta grandezza ingegneristica, innovativa architettura e superba tecnologia e con un equipaggio addestrato, nonostante le “malignità diffuse”. La nave era talmente up-to-date da poter navigare come un drone telecomandato da terra. Magari gli armatori avessero osato tanto…!

 

Il Comandante di un veliero oceanico, fino alla seconda metà dell’800, aveva a bordo soltanto un collaboratore: lo scrivano, un 1° ufficiale ante litteram che aspirava al comando senza interferire nel “magistero” del suo superiore considerato dall’equipaggio: secondo soltanto a Dio.

 

Con l’avvento della Rivoluzione Industriale, le navi furono motorizzate e le responsabilità del Comandante cominciarono a dividersi con il Direttore di macchina e gli ufficiali macchinisti. Per non essere da meno, furono imbarcati anche gli ufficiali di coperta che avrebbero garantito giorno e notte la guardia sul ponte di comando.  Con l’emigrazione verso le Americhe e l’Australia, le responsabilità del Comandante aumentarono e si divisero con quelle dei Commissari di bordo. Con l’avvento della Radio, ci furono immediati vantaggi per la sicurezza dei viaggi oceanici, ed anche i Radiotelegrafisti diventarono protagonisti di salvataggi accanto al Comandante. In seguito, con l’imbarco dei Medici di bordo ed oggi con gli ufficiali Periti-Elettronici, il Direttore di Crociera e gli Ingegneri addetti al controllo delle strutture portanti della nave, il Comandante è diventato il manager che coordina l’insieme di questi  settori, sebbene egli stesso, sia tenuto ad emettere gli ordini e le procedure che la legge gli impone.

 

In quella lunga notte del naufragio all’isola del Giglio, emerse inoltre una nuova “struttura di comando” che opera da terra: l’Unità di Crisi della Compagnia, istituita per supportare il Comandante nei momenti di grave difficoltà.

 

A questo punto la domanda che sorge quasi spontanea è la seguente:

 

“Ma cosa è rimasto a bordo dell’antico carisma del Comandante?”

 

Qualcuno potrebbe rispondere: “Nulla o quasi nulla!”

 

Eppure, in quel “quasi” solitamente pronunciato con tono sommesso e rassegnato, si nasconde l’elemento più importante della questione:  l’EQUILIBRIO.

 

La nave ha bisogno di un Comandante che sia dotato di grande equilibrio, di grande personalità, ma soprattutto di tanta esperienza. Un uomo che conservi lo stile del vecchio Comandante di velieri, ma che sia anche padrone assoluto delle insidie nascoste nella tecnologia del nuovo millennio.

 

La nave moderna è ancora più “sensibile” delle navi di vecchia generazione. I timoni sono molto più reattivi di un tempo e basta un nonnulla per “esagerare” un’accostata. Per questo motivo è erroneo ed insensato scaricare colpe su un modesto  timoniere che in manovra, ancor più che in passato, deve essere assistito ed affiancato da un ufficiale di coperta che ripeta gli ordini e ne controlli le esecuzioni, nello stesso modo in cui fu esercitato per secoli su tutti i ponti di comando del mondo, fin dai tempi più remoti. Le moderne eliche propulsive e di manovra sono in grado di garantire una velocità rotatoria vertiginosa, che è simile a quel giocattolo elettronico che ogni bimbo manovra in modo perfetto sotto i nostri occhi, senza avere  - naturalmente -  4.000 persone a bordo.

 

Allora ci si chiede: Per quale recondito motivo quel tizio passò al comando? In fase dibattimentale emerse, fra l’altro, il contenuto di certe “note caratteristiche”, non proprio esaltanti, che furono stilate nei suoi confronti. Cosa sia successo in seguito? Non ci é dato sapere. Forse il vero responsabile di tanta imperizia lo si può immaginare inserito in quella lista “epurata”  da Carnival subito dopo la tragedia.

 

Rimane da affrontare un ultimo punto: la formazione dei Comandanti.

 

Lo psichiatra Gian Paolo Buzzi, socio di Mare Nostrum, nonché studioso della materia e membro di Commissioni USA per la formazione di Comandanti di navi e di aerei, ci ha raccontato che da circa un decennio queste categorie sono sottoposte a TEST e controlli molto innovativi sulla soglia di reazione al pericolo, con la valutazione di parametri operativi come il coraggio, la freddezza, la determinazione, la capacità organizzativa nei momenti di grave difficoltà ecc… Possiamo solo augurarci che questa terribile esperienza della nostra marineria abbia scosso tutti gli ambienti decisionali del settore che, secondo le ultime statistiche, è diventato tra l’altro l’unico elemento realmente trainante dell’economia italiana.

 

 

Completiamo il senso di questo articolo con una fotografia che circola sul web e che certifica, più di tante parole, la pericolosa tendenza di certi comandanti-esibizionisti, sostenuti da armatori senza scrupoli, nel regalare EMOZIONI ai passeggeri in modo del tutto gratuito...

Lasciamo al lettore i commenti su questo incredibile passaggio tra i faraglioni di Capri di una nave di 20.000 tonnellate.

Carlo GATTI

Rapallo, 12 Agosto 2014

 

 

 

 


PRINCIPESSA JOLANDA. Un errore di Percorso...

IL VARO DELLA PRINCIPESSA IOLANDA

 

Un errore di percorso...

Nell’arco del 1800, quasi ogni paese della Riviera di levante ha ospitato un cantiere navale di piccole o grandi dimensioni, in un angolo del proprio litorale. Molti furono, quindi, i velieri, i pinchi, le tartane, i leudi e i gozzi che nacquero sotto gli occhi dei nostri nonni per opera dei “mastri geppetto” che, da queste parti, si chiamano maestri (mastri) d’ascia. Il loro ricordo, per fortuna, si perpetua ancora attraverso qualche raro figlio o nipote che professa questa arte, quasi di nascosto, con la stessa maestria di un tempo.

Foto Archio Pietro Berti

F.1 In questa rara fotografia  si può notare la bellezza e lo slancio del brigantino a palo ISIDE, un’autentica opera d’arte.

 

Nel suo libro ‘Capitani di Mare e Bastimenti di Liguria’, lo storico camogliese Giò Bono Ferrari ci racconta del Cantiere di Rapallo che fu attivo dal 1868 fino allo scoppio della Prima guerra mondiale.

“... proprio ove ora s’erge, fra una gloria di palme, di pinastri e di fiori, il bronzeo monumento ai Caduti, sorgeva allora il sonante cantiere navale, dal quale scesero in mare maestosi bastimenti da 1000 e più tonn. La strada delle Saline, quella dalla tipica porta secentesca, pullulava a quei tempi di calafati e maestri d’ascia. E v’erano i “ciavari” con le massacubbie ed i ramaioli, nonché i fabbri da chiavarde per commettere i “cruammi” (corbame). E gli stoppieri, i remieri e il burbero Padron Solaro, socio del camogliese De Gregori, che aveva fondachi di velerie, d’incerate e di bosselli. I costruttori che s’alternarono sull’arenile di Rapallo furono dei più valenti in Liguria: G.Merello, il Craviotto e l’Agostino Briasco. E i clienti più affezionati di quel Cantiere furono i camogliesi”.

 

Tralasciando i nominativi delle imbarcazioni minori destinate al cabotaggio: Tartane, Golette, Scune, Leudi, elenchiamo i seguenti bastimenti di oltre 1000 tonn. che erano destinati alla navigazione oltre i Capi (Horn, Buona Speranza, Leewin) da sempre considerati i “CAPI” dei continenti che guardano verso Sud.

 

ISIDE –           nave, costruttore G.Merello, Armatore Cap. Rocco Schiaffino

 

ESPRESSO – nave, costruttore Craviotto, Armatore F. Ferrario

 

GENEROSO C. nave, costruttore A.Briasco, Armatore Cap. A. Chiesa di Ruta. Questo veliero affondò nella Sonda di Montevideo, l’anno 1874. La figlia dell’armatore signora Luisa Chiesa, sposa del capitano del barco Filippo Ogno, si salvò con parte dell’equipaggio, dopo di tre giorni di lotta con il mare in tempesta.

 

FERDINANDO – nave, costruttore G.Merello, Armatore F. Schiaffino di Camogli

 

NICOLETTA - nave, costruttore G.Merello, Armatore A. Felugo di Camogli

 

SIFFREDI -   nave, coStruttore G.Merello, Armatore A. Siffredi

 

GIUSEPPE EMANUELE – nave, Armatore cap. Filippo Denegri di Camogli

 

CACCIN – il maestoso e ammirato alcione di ben 1.500 tonn. marca “Stella”. Che il Briasco ideò e costruì per l’armatore G.B. Cichero di Recco.

 

Oggi si stenta ad immaginare che la zona descritta da G.B. Ferrari, sia stata il cuore pulsante dell'industria e del commercio di Rapallo, quando anche la lingua, intrisa di termini marinareschi e mestieri ormai scomparsi, odorava di pece, catrame e rimbombava di echi medievali, ultimi sibili di un'era legata al prezioso legname da costruzione navale.

 

Il Congresso di Vienna (1815) diede il primo “colpo di timone” al pianeta- mare, e dai riformatori, intellettuali e docenti vennero regole moderne ed una forte spinta a creare una ‘Nuova Marina Mercantile’, che doveva unificare tutte le tradizioni marinare del Paese e trasformarle secondo una formula tanto breve quanto efficace: “L'arte del navigare va accompagnata da una scienza del navigare stesso”.

A metà ‘800 si passa, quindi, dal romanticismo dei “Capitani Coraggiosi” ad una classe di professionisti. Cantieri e Scuole Navali sorgono dirimpettai, perché legati ai “bisogni” della nuova industria marittima che sente avvicinarsi il rombo del motore della Rivoluzione Industriale e quindi la necessità di essere pronti al passaggio epocale dalla marineria velica a quella moderna.

 

La transizione dal legno al ferro

 

Nella seconda parte del XIX secolo, la marineria mondiale si trovò ad un giro di boa e, per adeguarsi ai nuovi venti di rinnovamento, dovette affrontare una duplice trasformazione, sia in campo militare che in quello mercantile: la transizione dal legno al ferro e dalla vela al motore.

 

La costruzione in ferro richiedeva la radicale conversione della manodopera ed una nuova organizzazione dei cantieri.
 In campo militare, invece, il passaggio dalle navi a vela in legno, alle navi a motore in ferro fu più rapido a causa del nazionalismo che premeva sugli Stati europei accelerandone la spinta tecnologica: occorrevano navi sempre più armate, potenti e veloci.

 

Per rimanere nel nostro ambito regionale, in questo periodo rientrò il progetto e la costruzione, in soli otto anni, dell’Arsenale Militare di La Spezia (1862-1869) e la fondazione della Regia Scuola Superiore Navale di Genova (1871).

Le altre cause che accelerarono lo smantellamento dei cantieri navali minori, furono il progressivo insabbiamento di buona parte del litorale marittimo e, in gran parte, l’incalzante processo industriale che convertì o sostituì progressivamente le aziende a conduzione familiari configurandosi come uno stabilimento di lavoro fra i più complessi.

 

Più in generale, con l'avvento della propulsione meccanica, le tecniche costruttive dovettero  adeguarsi alle nuove esigenze commerciali. Costruire navi non era più esercizio da maestro d'ascia, carpentiere e nostromo, ma diventò una professione tagliata su misura per l’Ingegnere navale. Maturò così a fine secolo il passaggio di consegna dei segreti costruttivi dal Capo Cantiere all’Ingegnere laureato presso le facoltà Universitarie. Il suo bagaglio scientifico era quasi sempre arricchito da esperienze acquisite su scali “furesti”: francesi, inglesi o tedeschi durante le costruzioni di famosi transatlantici di cui riportiamo i nomi più celebri, la Compagnia di navigazione, la data del varo e la stazza lorda.

 

- GREEK (CHIGNECTO) (Union Castle) 1893, 4.747 G.T – ST. LOUIS (American Line) 1895, 11.269 G.T. – ST. PAUL ( American Line) 1895, 11.629 G.T. - KAISER WILHELM DER GROSSE (Norddeuscher Lloyd) 1897, 14.349 G.T. - BRAEMER CASTLE (Castle Line) 1898, 6.266 G.T. – CARISBROOK CASTLE (Castle Line) 1898, 7.626 G.T. – OCEANIC (White Star) 1899, 17.274 G.T. - FURST BISMARCK (Hapag) 1899, 8.430 G.T. - GLENART CASTLE (Union Castle) 1900, 6.575 G.T. – KRONPRINZ WIHELM (Norddeutsceh Lloyd) 1901, 14.908 G.T.  – REPUBBLIC (Hapag Lloyd) 1903, 18.072 G.T. - KAISERIN AUGUSTE VICTORIA (Hapag Lloyd) 1905, 24.581 G.T. – LUSITANIA (Cunard) 1906, 31.550 G.T.  – MAURETANIA (Cunard) 1906, 31.938 G.T. – TITANIC OLYMPIC (White Star) 1911 G.T.46,329-45.328

Dal brigantino “disegnato segretamente sulla sabbia dal mago del vecchio cantiere”, ormai in crisi d’identità, si passò alla sala a tracciare: una vastissima proiezione di linee matematiche e analitiche prefiguravano il progetto della nuova costruzione in grandezza naturale.

 

La ‘sala a tracciare’ era una struttura coperta sul cui pavimento costole, bagli, madieri, venivano disegnati (appunto: tracciati) per poi essere riprodotti in simulacri di legno chiamati seste, da inviare all'officina carpentieri in ferro. Qui, le strutture prendevano forma, tagliando, piegando, forando lamiere e profilati che poi venivano trasferiti sullo scalo, sistemati al loro posto e collegati al resto dello scafo. Lo scafo cresceva così, con un elemento strutturale alla volta.

 

 

La “sala a tracciare” era quindi la cella del nuovo tempio, ed il ‘sacerdote’ che officiava il nuovo rito costruttivo era l’Ingegnere navale. La sua professionalità diventò garanzia e marchio di qualità dei nuovi prodotti navali sul mercato internazionale. La concorrenza tra gli stati europei di grande tradizione storico-navale fu molto aspra e, inizialmente, vide primeggiare gli Stati che ben prima di noi avevano investito sulla rivoluzione industriale.

 

Agli inizi del ‘900 il mercato delle ‘navi di linea’ per il trasporto degli emigranti era in forte espansione e, su pochi ma efficienti cantieri, si concentrò la risposta all’insistente domanda del mercato. Le nostre maestranze costruirono navi di grande qualità ed  eccellenza, in particolare, le navi passeggeri crebbero di numero, di stazza e di dimensioni. In questa accanita competizione, l’Italia riuscì a ritagliarsi un posto di assoluto prestigio che, ancora oggi - nel terzo millennio - costituisce l’asse portante della nostra economia.

 

Ritornando in Riviera...

 

Rapallo, città turistica già nota all’estero per le sue bellezze naturali e climatiche, fu una delle prime città a scegliersi un destino diverso: il turismo di élite, dotato di strutture alberghiere di altissimo livello. La sua rinuncia alla cantieristica navale fu quindi obbligata dall’impossibile convivenza tra il rumoroso scalo posto sul bagnasciuga e la tranquillità cercata dal turista proveniente dal nord, già pesantemente industrializzato e inquinato dai ‘fumi carboniferi’.

 

Il tramonto dei velieri rapallesi coincise, quindi, con le crescenti e svariate opportunità che il nuovo secolo andava dispensando. Spesso, i nuovi investitori sul turismo erano emigranti italiani di ritorno dalle Americhe che puntarono sulle località rivierasche, già pubblicizzate nelle Americhe per il clima da sogno, i bagni di mare, le escursioni culturali di arte profana e religiosa, l’arte eno-gastronomica, ma anche per quelle ludiche, con il celebri impianti dei campi da golf, tennis ecc...

 

Con il primo dopoguerra ripresero, inoltre, a cadenza settimanale, le manifestazioni sportive automobilistiche, nautiche (veliche e motonautiche), ciclistiche natatorie nel Tigullio che proseguirono per tutti gli anni ’60 e giù di lì.

Buona parte della tradizione cantieristica rivierasca si sposta, con caratteristiche del tutto moderne, nella vicina Riva Trigoso.

 

 

 

Riva Trigoso nacque da una favola.....

Una leggenda molto conosciuta in paese narra delle vicende di due giovani rivani, appunto Riva e Trigoso, ai tempi in cui Riva veniva sovente attaccata dai pirati Saraceni.

 

Si dice che quando Riva Trigoso era un piccolissimo paese di pescatori, vi abitava un giovane molto bello e forte di nome Trigoso, il quale amava la bella e brava Riva, dalle trecce color dell'oro. I due decisero di sposarsi, ma, il giorno delle nozze, durante i festeggiamenti, il borgo fu invaso dai pirati Saraceni, che saccheggiarono il villaggio e rapirono le donne più belle; nel tentativo di difendere la sua amata rapita, Trigoso perse i sensi a causa di uno scontro con i pirati, mentre Riva veniva caricata sulla più grossa delle navi nemiche.

 

Quando Trigoso riprese i sensi le navi saracene stavano iniziando a prendere il largo e, realizzato quanto era successo, corse in riva al mare dove iniziò a chiamare a gran voce il nome di Riva, ma, non appena i pirati lo sentirono, gli scoccarono contro una scarica di frecce che lo colpirono in pieno petto e lo fecero cadere al suolo morente. Riva assistette alla scena dalla nave e quando vide il suo sposo morire si scagliò contro il capitano della nave, che la uccise con diverse pugnalate al ventre; subito dopo che spirò, alcuni pirati la presero e la buttarono di peso in mare.

Non appena l'acqua si tinse del rosso del sangue, comparve una grossa onda che colpì la nave e da cui fece cadere diversi forzieri e bauli contenenti una gran quantità d'oro. I pirati non riuscirono però a localizzare il punto esatto e, dopo giorni di ricerche, decisero di salpare. La notte stessa degli Angeli   discesero dal cielo e collocarono, nel punto in cui Riva era morta, un grande scoglio (l'attuale scoglio dell'Asseu), per ricordare ai posteri la giovane fanciulla. Nello stesso momento, nel punto dove morì Trigoso i ciottoli iniziarono un canto d'amore.

 

Passarono molti giorni e anche diversi anni, i pirati non tornarono più e intanto il paese si iniziava ad ingrandire e, mentre i ciottoli continuavano imperterriti a cantare la loro canzone d'amore, la baia dove i pirati persero il loro tesoro (presumibilmente al largo dell'attuale spiaggia di Renà) venne chiamata la Baia d'Oro e i pescatori decisero di dare al loro paese un nome per ricordare i due giovani e la loro grande storia d'amore: il nome, appunto, di Riva Trigoso.

 

A volte le favole si avverano ...

 

Riva Trigoso ritrovò il suo Tesoro, ma non era quello dei pirati, bensì  un grande Cantiere Navale

 

Per quasi tutto l’800, RIVA TRIGOSO era un modesto borgo di uomini di mare divisi tra coloro che imbarcavano per il lungo corso su velieri mercantili, quelli che sceglievano la pesca a corto e medio raggio, ed infine il terzo gruppo, dedito alla costruzione di leudi, rivani e gozzi, tipiche imbarcazioni locali usate per commercio e trasporto di materiali da costruzione e derrate alimentari come vino e formaggi.

 

F.2 Leudi sulla spiaggia di Riva Trigoso

Chi ha un po’ di salmastro nelle vene, sa che un rivano qualunque ha dato molto all’Italia sul mare, e dinnanzi al suo patrimonio genetico occorre riflettere e fare chapeau.

 

Il Cantiere navale di Riva Trigoso, grazie alla sua perfetta location, assorbì sia le maestranze locali citate, sia quelle dei cantieri rivieraschi in via d’estinzione. Questo ‘passaggio di consegne’ garantì, in ogni caso, la sopravvivenza di quel patrimonio di dati tecnici maturato da molte generazioni di costruttori navali. Grazie a questo intelligente connubio, Riva Trigoso  diventò in breve tempo uno dei maggiori Cantieri Navali Italiani.

 

F.3  Il C.L.C. Erasmo Piaggio, Senatore del Regno d’Italia

L’uomo che vide lungo, l’artefice del ‘magic moment’ rivano, fu Erasmo Piaggio  (Genova 1845-1932), l’imprenditore-armatore che il 1°agosto del1897 fondò il Cantiere dallaSocietà Esercizi Bacini, costituita dallo stesso senatore per la gestione dei Bacini di Carenaggio dii Genova. Erasmo Piaggio era ancheAmministratore delegato della società Navigazione Generale Italiana  (N.G.I), nata nel 1881  dalla fusione delle flotte  Rubattino e Florio e rinforzatasi con le flotte Raggio e Piaggio. Sotto la sua direzione questa compagnia si andava imponendo sui traffici internazionali con oltre ottanta unità. Il Piaggio ne curava l'ammodernamento con costruzioni studiate in base alle richieste sempre più esigenti della clientela.

 

Il progetto del cantiere, nato per assorbire la maggior parte delle commesse della grande compagnia di navigazione, era quello di un grande complesso in cui concentrare ed assolvere le funzioni di costruzione, esercizio e manutenzione. Il progetto non fu, probabilmente, capito dagli altri membri della compagnia che si opposero in nome di interessi diversi. Di Erasmo Piaggio si racconta che alla fine andò per la sua strada, fondando qualche anno dopo una propria compagnia, il Lloyd Italiano che, legandosi al cantiere di Riva Trigoso, avrebbe costruito le sue navi sotto la regìa dello stesso Piaggio.

L’imprenditore-armatore ne affidò la realizzazione alla Società Esercizio Bacini. I lavori iniziarono il 15 giugno 1898  e dopo quattro mesi si approntarono le prime lamiere. Nel febbraio seguente funzionavano otto scali attrezzati con officine e servizi tecnici ed amministrativi su un'area di 30.460metri quadrati.  Nel settembre successivo si approntò unafonderia di ghisa,  cui seguì quella di bronzo.

Già dal primo anno dalla fondazione, il cantiere diede lavoro a circa 400 persone, delle quali 300 erano di Riva e dintorni. Sullo scalo numero 1 fu impostato un bacino galleggiante in ferro per il porto di Genova, mentre, contemporaneamente furono impostati sugli scali 2 e 3 i piroscafi Flavio Gioia e Amerigo Vespucci della Navigazione Generale Italiana. Sugli scali 4, 5 e 6, sempre per la Navig. Generale, furono impostati l’Isola di Procida, il Sicilia e il Sardegna, mentre lo Zelina e l’Ester occuperanno gli scali 7 e 8.

Elenco cronologico parziale di navi varate a Riva Trigoso dalla sua fondazione fino al drammatico varo della Principessa Jolanda.

 

. Bacino galleggiante 1899.

•   Barca a vapore "ZELINA" 1899.

•   Barca a vapore "FLORA" 1899.

•   Piroscafo postale "FLAVIO GIOIA" maggio 1900.

•   Piroscafo postale "AMERIGO VESPUCCI" giugno 1900.

•   Piroscafo postale "SICILIA" 4 maggio 1901.

•   Piroscafo postale "SARDEGNA" 15 giugno 1901.

•   Rimorchiatore "PROVENCAL I" 1901.

•   Rimorchiatore "PROVENCAL II" 1901.

•   Nave veliero "IOLANDA" 24 giugno 1902.

•   Nave a palo "ERASMO" 18 febbraio 1903.

•   Nave a palo "REGINA ELENA" giugno 1903.

•   Brigantino goletta "EMILIA" 1904.

•   Piroscafo "FLORIDA" 23 giugno 1905.

•   Piroscafo "INDIANA" 10 ottobre 1905.

•   Rimorchiatore "ALLIANCE" 1905.

•   Piroscafo fluviale "DOMINGO" 1905.

•   Piroscafo "LUISIANA" 18 marzo 1906.

•   Piroscafo "VIRGINIA" 10 settembre 1906.

•   Piroscafo fluviale "NATALE" 1906.

•   Nave passeggeri "PRINCIPESSA IOLANDA" 22 settembre 1907 (affondata)

Dall'inizio fino al 1915 si costruirono 65 unità mercantili per la N.G.I, per il Lloyd Italiano, per la Transatlantica Italiana, per laSocietà dei Servizi Marittimi,  e anche per altri armatori. Si costruirono anche le navi  per emigranti del Lloyd e fra queste le due Principesse, figlie dell’allora Re, il Principessa Mafalda, ritenuto il migliorpiroscafo da passeggeri dell'epoca, gemella della Principessa Mafalda, affondata durante ilvaro nel 1907.

F.4 La Principessa Jolanda é sullo scalo. Ultimi istanti di festa e di attesa trepidante prima del VARO.

Il disastroso varo della Principessa Jolanda

 

Un incidente di percorso!

Comandante Ernani Andreatta, lei ed il suo Museo Marinaro di Chiavari, siete gli eredi, i testimoni e i conservatori dell’attività, ormai scomparsa, dei Cantieri Navali Gotuzzo - Rione Scogli di Chiavari che costruì velieri e imbarcazioni di ogni tipo. Francesco Tappani, responsabile del varo della Principessa Jolanda, era suo cugino, il quale “si era fatto le ossa” imparando il mestiere dal padre Matteo Tappani proprio nel Cantiere Gotuzzo. Nessuno meglio di lei può raccontare per Mare Nostrum come si svolsero i fatti, magari aggiungendo, se possibile, qualche inedito storico.

FRANCESCO TAPPANI, capo del progetto delle due “Principesse Iolanda e Mafalda” nel cantiere dei Piaggio, era mio cugino. Suo padre, Matteo Tappani aveva sposato la sorella GIULIA di mio Nonno LUIGI GOTUZZO. Mia madre era infatti Adele GOTUZZO degli omonimi cantiere navali di Chiavari che vararono, in tre generazioni oltre 120 velieri destinati per la maggior parte a viaggiare su rotte oceaniche. Sul suo titolo di studio si é equivocato parecchio, specialmente da parte di chi, non avendo navigato, non sa che con la parola Ingegnere, s’intende il tecnico di bordo, il macchinista navale. In inglese: engineer, in tedesco: ingenieur, nelle lingue scandinave: ingenjör, in francese: ingeniéur.

 

Essendo il Cantiere Navale un territorio internazionale per eccellenza, é probabile ed intuibile che il titolo d’Ingegnere gli sia stato attribuito sul campo,  senza la sua complicità.

 

Una leggenda metropolitana, che stranamente sopravvive ancora oggi, tramanda che dopo questo varo il direttore Tappani si uccise.

 

Si, ne sono perfettamente al corrente, ma ciò è completamente falso. Francesco Tappani, che in seguito divenne emerito Podestà di Chiavari, dal 1932 al 1942, fu un uomo di grande ingegno e di grande perizia tecnica, purtroppo non aveva un solido fondamento teorico. La sua arte era esclusivamente basata sul “genio” e sull’esperienza pratica che aderiva perfettamente alla tendenza dei costruttori navali liguri dell’epoca – e forse non soltanto dei liguri – che rifuggiva da ogni teorica cultura tecnica: “Matteo Tappani, padre di Francesco, era analfabeta”, così afferma un libro inedito del quale sono in possesso, pur essendo valente costruttore, avendo costruito agli “Scogli” di Chiavari velieri in legno che furono considerati di “genio” e giudicati fra i più belli ed efficienti. Il "presunto" analfabetismo di Matteo Tappani, da tutti chiamato "U SCIU MATTE'" non era raro a quei tempi anche se in genere qualcuna di queste persone aveva il genio della matematica. Cioè nel far di conto e di calcolo, Tappani era senza dubbio un genio.

Prova ne sia che firmò i progetti di straordinari velieri come il LUIGIA RAFFO, Il SATURNINA FANNY, L'AUSTRALIA e poi ancora, a Riva Trigoso le navi a palo ERASMO e REGINA ELENA, navi  a quattro alberi con  scafo in ferro. Queste ultime due furono poi cedute dall'armatore RAFFO di Chiavari e acquistate dall'armatore tedesco Laeiz che,   nella vela mondiale,  fu uno dei più importanti. Non solo, nel libro del RINA (a quel tempo si chiamava "VERITAS ITALIANO") del 1883 e seguenti, per quanto riguarda la "Nave" MARIA RAFFO, gemello del LUIGIA, vengono riportati i dettagliati piani di costruzione dei legni  di questa nave portandola ad esempio come "archetipo" costruttivo al quale bisogna attenersi per ottenere i certificati RINA di navigabilità. Chiaramente c'è scritto " COSTRUTTORE MATTEO TAPPANI". (Chiavari Marinara Pag. 48 e seguenti).

Quindi affermare "tout court" che  Matteo Tappani era analfabeta, mi sembra troppo forte e forse assolutamente NON VERO.  Però in quel libro (del quale esistono solo due copie al mondo e una è in mio possesso) scritto a macchina e mai stampato che si intitola "APPUNTI DISORDINATI , QUANTO A DATE, IMPRECISI" sulla storia dei CANTIERI NAVALI DI RIVA TRIGOSO, c'è scritto così. In poche parole, non ho il coraggio di pensare che un uomo ritenuto da tutti come "IL GENIO DELLA COSTRUZIONE NAVALE A VELA" fosse analfabeta. Questo è il mio pensiero.  Inoltre lo stesso libro parla anche di "DISEGNI COSTRUTTIVI CHE SI FACEVANO SULLA SABBIA",  di Matteo TAPPANI restano dettagliati e straordinari piani di costruzione di tutti i generi ancora adesso oggetto di grande ammirazione da parte degli addetti ai lavori. Forse qualcuno disegnava per lui? O forse essendo solo "righe e curve" li tracciava lui stesso? Insomma "il romanzo dell'epoca eroica della vela" nel caso di MATTEO TAPPANI si immerge ancora di più in:  "MISTERO ED EMOZIONE" !

 

 

Ci fu una punizione per il responsabile del disastroso varo?

No! Francesco Tappani non fu materialmente punito e, non solo conservò il suo posto, ma gli anziani Piaggio lo mandarono a “distrarsi” in un lungo viaggio di studio. Pare accertato che andò in Germania presso un cantiere navale per apprendere eventuali esperienze dall'estero.

 

Il Cantiere Navale di Riva Trigoso non era certo al primo esperimento...

Il Cantiere di Riva Trigoso, sorto nel 1889, aveva già costruito transatlantici tipo “Florida” nel 1905, dopo di ché si accinse a costruire i tipi “Principessa”, navi lussuose progettate da Rocco Piaggio che avrebbe dovuto costituire la “Coppia Grande Ammiraglia” sulla linea Genova-Buenos Aires.

 

Che ruolo giocò l’Assicurazione in questa vicenda?

Il disgraziato varo della “Principessa Jolanda” fu dal lato tecnico una grave sciagura, ma lo fu anche dal lato finanziario, in quanto la Società Assicuratrice, basandosi sul fatto che il Direttore del Cantiere, Francesco Tappani, non fosse Ingegnere, invocò la clausola contrattuale del “Fault of skill” (deficienza di capacità) che la dispensava dai suoi obblighi di risarcimento del danno derivante dalla perdita della nave, cosicché l’onere relativo dovette essere sopportato quasi totalmente dalla Società Armatrice. Seguì per i Piaggio un periodo sconfortante. Circa la responsabilità tecnica, i campi erano divisi: i più Anziani della Famiglia Piaggio erano propensi ad ammettere qualche attenuante alle responsabilità di Tappani; Rocco Piaggio, invece, attribuiva a Tappani  ogni responsabilità dando rilievo alla clausola invocata dagli assicuratori.

 

Era tempo di cambiare qualcosa nell’organizzazione del Cantiere?

Rocco Piaggio, sempre fermo sulla dannata clausola assicurativa, insisteva sulla necessità di dare un nuovo e più elevato indirizzo alla direzione del Cantiere. “Bisogna” – diceva – “abbandonare il sistema di fare i disegni sulla sabbia”.  (A quei tempi esisteva a Riva Trigoso una splendida e lunga spiaggia di sabbia finissima che si prestava a tracciare sulla stessa scarabocchi da parte di ragazzi). “Il varo” – diceva ancora Rocco Piaggio – “E’ una operazione di funambolismo”.

Sta di fatto che, con la mentalità di allora, non era facile dare istruzioni in lingua italiana piuttosto che in dialetto genovese, mostrando disegni a provetti marinai quali “Sanpee” (San Pietro) e “Gambalesta”, il primo abilissimo attrezzatore velico, l’altro capace pontista acrobata. Entrambi sembravano voler dire – come del resto anche gli altri Capi (capitecnici) – “Siamo nati su questa spiaggia, abbiamo costruito navi, abbiamo sempre fatto così, volete ora insegnarci con i  “papée” (disegni)? “

Si trattava dunque di cambiare strategia e dare il giusto valore agli Ingegneri?

 

E’ qui da osservare che anche all’epoca delle Principesse prestavano la loro opera in cantiere valenti ingegneri – quale ad esempio Quartieri – che però non erano efficacemente utilizzati, anzi erano regolarmente by-passati dal Tappani.

 

Rocco Piaggio, dopo la drammatica esperienza della P.Jolanda, attenendosi ad un giusto criterio, forse ancora oggi seguito, si faceva segnalare dalla scuola i giovani che dimostravano le giuste  attitudini.

Una  Storia amara

La Principessa Jolanda venne commissionata dal Lloyd Italiano ai cantieri navali di Riva Trigoso insieme alla Principessa Mafalda, sua nave gemella, in onore delle figlie del re Vittorio Emanuele III. Per le due navi, che avevano ciascuna:

 

Stazza Lorda: 9.210 tonnellate – lunghezza: di 141 metri, larghezza: 17 metri

 

due alberi, due fumaioli, due eliche, un apparato motore da 12.000 cavalli e velocità: 18 nodi, erano previsti 100 posti in classe lusso, 80 in prima classe, 150 in seconda e 1.200 posti per gli emigranti.

 

 

La Principessa Iolanda e La Principessa Mafalda, costruite per vincere la concorrenza in campo internazionale, erano già state abbondantemente reclamizzate; in particolare la Jolanda, su illustrazioni che la mostravano già navigante prima del varo e vantando inoltre per le due gemelle una trasformazione epocale per quanto riguardava il trattamento e i servizi per gli emigranti. Sarebbe stato quindi un danno d’immagine sul teatro internazionale, recuperarla e rimetterla in funzione come se niente fosse.

 

Le intenzioni del Lloyd Italiano erano di destinare le due veloci e lussuose navi al servizio di linea per il Sud America, in concorrenza con le società di navigazione straniere di grande prestigio come la Cunard o la White Star Line, la Royal Mail, la Amburghese Sud Americana, il Lloyd Reale Olandese ecc.

 

 

La Principessa Jolanda, primo vero transatlantico italiano di lusso, costò sei milioni di lire e venne dotata - fra i primi - di illuminazione elettrica, telegrafo senza fili e telefono in ogni cabina. Rispetto alla Principessa Mafalda, la Principessa Jolanda venne ultimata per prima, e, allo scopo di entrare in servizio il prima possibile, era già stata completamente allestita con attrezzature, motori, arredamenti e suppellettili. Si preferì distruggerla sul posto recuperando tutto quello che si poteva e ricominciare da capo con la Principessa Mafalda che scendeva in acqua l’anno dopo ed era la copia perfetta della Principessa Iolanda.

Il significato del Varo Tradizionale

 

“Il varo di una nave ha sempre rivestito un fascino particolare, soprattutto nei tempi antichi, quando la navigazione in mare aperto comportava dei rischi e delle difficoltà oggi difficilmente immaginabili.

 

I marinai, letteralmente, affidavano la propria vita alla nave ed il significato più profondo della cerimonia del varo risiedeva nel legame di assoluta fiducia che gli uomini le assegnavano.

 

Proprio per questo motivo durante il varo si celebrava la benedizione, per sottolineare la solennità del rito che conferiva alla nave un prestigio senza eguali in altri mezzi di trasporto.”

 

Fasi del varo:

 

Prima fase – Dall’inizio del movimento all’inizio dell’immersione in mare.

 

Seconda fase – Dall’inizio dell’immersione a quando la parte dello scafo comincia a sollevarsi e a galleggiare con una rotazione intorno all’asse trasversale dell’estremità posteriore dell’invasatura.

 

Terza fase - Quando tutto il sistema liberamente galleggia e si allontana dall’avanscalo.

L’ultimo periodo della seconda fase del varo è fra tutti il più critico, in quanto che la pressione sempre che vada continuamente diminuendo, pur tuttavia si manifesta su una limitata zona di appoggio dello scalo, ciò che può produrre effetti dannosi alla nave ed al piano di scorrimento, il quale può perfino cedere sotto l’eccesso di peso. Per tale

 

motivo, questa fase va accuratamente studiata, allo scopo di prevenire codesti dannosi effetti.

22.9.1907

 

 

Il Varo della “PRINCIPESSA  JOLANDA”

Alla presenza di numerose Autorità, la Principessa Jolanda fu varata alle 12,25 del 22 settembre 1907 a Riva Trigoso. Madrina della cerimonia fu Ester Piaggio, moglie del senatore Erasmo Piaggio, presidente del Lloyd Italiano.

F.5 Questa foto coglie l’attimo dell’inizio del drammatico varo della

 

Principessa Jolanda.

Il consueto urlo di gioia che si levò dagli operai del Cantiere al momento del varo, fu strozzato da un angoscioso silenzio e dalla paura per la vita del personale imbarcato, da quel momento drammaticamente in pericolo.

 

 

F.6 Improvvisamente accadde l’imprevisto ...

La grande nave, madrina la signora Ester Piaggio, scende in mare con le bandiere al vento, contornata da decine di barche e tra le acclamazioni della folla. Subito dopo aver perso l'abbrivio a poco più di cento metri dalla riva il piroscafo comincia a sbandare sul lato sinistro. Il fumo bianco che si vede sotto la prua è dato dall'attrito dei vasi (sostegni di legno sotto lo scafo) che scorrono sullo scalo. Il sistema è stato convenientemente lubrificato il giorno prima del varo.

Appena terminata la corsa sullo scivolo del varo e toccata l'acqua, la nave si piegò su un fianco, iniziando ad imbarcare acqua dagli oblò non ancora montati. Concluse la sua corsa mare ed impiegò circa venti minuti per abbattersi definitivamente sul fianco. Nel frattempo le maestranze diedero inutilmente fondo l’ancora di dritta per controbilanciare lo sbandamento. I rimorchiatori cercarono di trascinarla verso il fondale sabbioso del basso arenile.

 

La Principessa Jolanda imbarcò acqua e si arrese per sempre ai molteplici tentativi di recupero, messi in opera successivamente, sotto la direzione dell’Ing. Tappani.

Operazioni di Salvataggio

F.7 Nelle due immagini, sopra e sotto, La Principessa Jolanda ha dato fondo l’ancora per contrastare lo sbandamento. Si noti il personale assiepato sullo scalandrone nell’attesa che il rimorchiatore li porti in salvo.

 

F.8 Un  po’ di Buona Sorte

 

La lentezza con cui la nave si piegò sul fianco, permise il completo salvataggio delle maestranze del Cantiere ad opera delle numerose imbarcazioni che affiancarono la sfortunata principessa.

F.9 Vista sul fianco sinistro, ormai abbattuta di 80°, la Principessa Jolanda imbarca acqua anche dai ponti superiori. Il drammatico sbandamento della nave, ripreso dal lato opposto, contrasta con la festosa esposizione del Gran Pavese

 

I Danni

F.10   Lo scafo della Principessa Iolanda fu abbandonato ai danni del Cantiere costruttore. La nave fu in seguito demolita sul posto. I motori furono recuperati ed installati su due navi da carico già in costruzione.

Nelle settimane seguenti al naufragio furono molte le visite e le ispezioni al relitto. I tecnici del cantiere navale salirono sulla fiancata della nave, che spuntava dall'acqua, per valutarne la situazione e la possibilità di recupero. Tuttavia, ciò non fu ritenuto possibile. Venne perciò prelevato quanto si poté salvare, mentre il resto della nave fu recuperato, smaltito e venduto ai demolitori.

F.11

Cause dell'affondamento

Il cedimento dell’avanscalo

 

-  Il mancato zavorramento dei doppi fondi della nave

 

-  In via preventiva, non furono chiusi gli oblò dei ponti inferiori della nave.

 

- A rendere totale la perdita contribuì, con tutta probabilità, un R - A negativo.

 

 

Dalle varie fotografie esistenti si nota che il pescaggio della Principessa Jolanda era veramente esiguo e che il baricentro era esageratamente alto. Poiché il carbone non era ancora stato caricato ed era privo di zavorra, bastò pochissimo per dare alla nave lo sbandamento iniziale, che si aggravò di lì a poco. Inoltre, durante la discesa sullo scivolo del varo, mentre la poppa, con una rotazione sull'asse trasversale della nave, aveva toccato l'acqua e aveva iniziato a sollevarsi, la prua premette contro lo scivolo stesso, forse causando una falla sulla chiglia che contribuì all'affondamento.

Alla fine venne stabilito che l'intera responsabilità della perdita del piroscafo era da attribuirsi al cantiere navale, colpevole di errori di calcolo

Molte polemiche sorsero al varo del Principessa Jolanda per il suo rovesciamento avvenuto non appena aveva toccato l’acqua.

Non tutto il male viene per nuocere

 

E, come si suol dire, “dopo aver toccato il fondo” in quella tristissima occasione, il Cantiere di Riva Trigoso in seguito non sbagliò mai più un colpo.

Il suo prestigio é arrivato a toccare livelli d’eccellenza tecnologica che non ha pari in Europa, specialmente nel campo delle costruzioni militari. Il numero di navi costruito dal Cantiere di Riva Trigoso a noi risulta essere di 185 navi dal 1899 al 2013, ma potremmo sbagliarci per difetto.... Questi dati, più o meno ufficiali, onorano la nostra terra di Liguria, il nostro Paese e le nostre maestranze alle quali AUGURIAMO di superare al più presto l’attuale momento di crisi dell’occupazione.

 

STABILITA’ STATICA TRASVERSALE

 

  • E’ accertato che gli oblò non erano stati montati; se quindi a nave sbandata, la fila più bassa si é immersa sott’acqua, la nave ha cominciato a imbarcare acqua aggravando ulteriormente la situazione.
  • Il cedimento accertato dell’avanscalo, potrebbe aver causato una falla sotto lo scafo, dando inizio alla tragica sequenza.
  • La stabilità può essere “stabile”, “instabile”, “indifferente”. Questo dipende dalla posizione reciproca fra il centro di gravità e il centro di carena o di spinta e il metacentro. Il metacentro è il punto d‘intersezione del piano diametrale con la direzione della spinta applicata al nuovo centro di carena a nave sbandata. Man mano che la nave in acqua calma, si inclina, M comincia, sul piano diametrale a scendere verso G. Finché è al disopra di G la nave è in equilibrio stabile, quando coincide con G è in equilibrio indifferente, quando M passa al di sotto di G, l’equilibrio è instabile e la nave si capovolge.

Si consideri una nave liberamente galleggiante in acqua calma e con ponti orizzontali. In queste condizioni il G (baricentro) e il peso P coincidono (spinta verso il basso) e  C (centro di carena o di spinta S verso l’alto) risultano allineati nel diametrale. Fig. a sn.

 

Quando una causa esterna, vento o mare, fa sbandare una nave, mentre G rimane fermo, il C si sposta verso il lato più immerso e la spinta diventa parallela al P formando con essa una coppia di forze raddrizzanti, il cui momento misura, in T per m la stabilità statica trasversale.

F.12  Sagome, pescaggi, dimensioni, angolo di sbandamento, posizione degli oblò sono state ricavate dalle fotografie;

 

La posizione del centro di spinta (C/S) si ritiene essere abbastanza precisa;

 

La posizione del centro di gravità (G/P) è approssimata. Apprezzata e desunta in funzione del pescaggio. Comunque anche se G/P fosse stata più in basso la situazione generale non sarebbe cambiata di molto.

 

Dalle sagome prese in esame risulta che per uno sbandamento di 12°/18° la prima fila di oblò sarebbe già stata sotto il livello del mare.

F.13

Rappresentazione grafica di una nave sbandata sulla dritta. Il metacentro m è basso sotto il baricentro G, la nave ha altezza metacentrica negativa. Questa nave non rimane né in verticale né inclinata.
 Probabilmente si è capovolta al varo.

Equilibrio delle forze durante lo scorrimento

B

 

Bilancio delle forze al momento della rotazione

C

 

Bilancio delle forze al momento del saluto

Per schematizzare quello che può succedere durante il varo, possiamo immaginare di "congelare" i momenti più importanti: A) - il distacco, quando inizia lo scivolamento dell'invaso sullo scalo; B) - la rotazione, quando la nave comincia lo strapiombamento, quando la prua si solleva dallo scalo con tutto l'invaso; C) - il saluto, quando la prua affonda in acqua prima di lasciare lo scalo.

 

Cominciamo a descrivere la fase del distacco. La preparazione dev'essere accurata, dato che il varo è un'operazione che in caso di problemi non può essere interrotta o rallentata.

 

Bisogna trasferire il carico della massa della nave dalle taccate e dai puntelli che l'hanno sostenuta durante la costruzione, all'invaso, una struttura di sostegno costituita da due grandi pattini di legno che dovranno far scivolare, con l'aiuto di un lubrificante, la nave sullo scalo.

 

Prima di lasciar andare la nave, le taccate di appoggio sullo scalo vanno gradualmente smontate. Le taccate di poppa, che sono le più pericolose poiché sopportano un carico enorme, vanno demolite per ultime, subito prima del varo. Per questa ragione l'operazione di rimozione delle taccate di poppa è sempre stata in passato particolarmente pericolosa e non era facile reclutare personale disposto a compiere l'operazione.

 

Non sempre l'inclinazione dello scalo è sufficiente a vincere l'attrito iniziale: può essere necessario il ricorso a martinetti idraulici o ad altri mezzi ausiliari per dare l'abbrivio iniziale all'invaso. Una volta che la nave ha iniziato a scivolare verso l'acqua, il calore che si sprigiona dall'attrito fra lo scalo e l'invaso è enorme, addirittura da incendiare il lubrificante sotto i pattini.

 

Dal punto di vista delle forze agenti sulla nave, dopo il distacco e durante lo scivolamento, sulla stessa agiscono la forza di gravità e la reazione dello scalo. Le due forze non sono in equilibrio, dato che il piano dello scalo è inclinato, e la risultante è proprio la forza che accelera costantemente la nave verso l'acqua (figura A).

 

A questo punto, tutto dipende dalla lunghezza dello scalo. Se lo scalo fosse di lunghezza infinita non ci sarebbero problemi particolari, infatti la poppa man mano che si immerge riceve una spinta idrostatica sempre maggiore, fino al momento in cui riesce a sollevarsi dall'invaso mentre questo prosegue la sua corsa: questo è il momento della rotazione.

 

In questo caso (figura B), mentre la forza di gravità rimane invariata, la spinta idrostatica aumenta con l'immersione della poppa, fino al punto in cui:

 

S x (a+b) > P x a

cioè il momento dovuto al galleggiamento supera quello dovuto al peso e la poppa comincia a sollevarsi dall'acqua.

 

Quando invece, lo scalo non è lungo abbastanza da immergere la poppa e consentire la rotazione, si verifica il fenomeno opposto: la poppa cade verso il basso con tutto l'invaso (non essendoci più lo scalo a sostenerli) e la prora si solleva nel momento dello strapiombamento.

 

Se lo strapiombamento è di breve durata non ci sono problemi, altrimenti la stabilità trasversale può risultare compromessa. Il calcolo della lunghezza minima di scalo necessaria ad evitare lo strapiombamento è una delle verifiche più importanti da eseguire prima del varo. Nei casi più critici, si costruisce un prolungamento dello scalo per eliminare o ridurre questo fenomeno.

 

Schematizzando anche questo fenomeno in termini di forze (figura C) si può dire che si ha lo strapiombamento quando il baricentro si trova sulla verticale della fine dello scalo:

P x a > S x (a+b)

cioè il momento dovuto al peso supera quello dovuto al galleggiamento e la poppa tende a precipitare verso il fondo.

 

Il momento conclusivo del varo è il sollevamento completo della nave e dell'invaso. Anche in questo caso, se lo scalo risulta corto, l'invaso a prua si trova improvvisamente privo di sostegno e la prua effettua un tuffo verso il basso che si chiama saluto.

 

Il diagramma delle forze (figura C) ci aiuta a comprendere il saluto se consideriamo quello che accade nell'istante in cui l'invaso lascia lo scalo. Se, quando l'invaso si trova sulla verticale dello scalo, la nave non è già in equilibrio fra peso e spinta idrostatica, cioè: R > 0

 

allora appena viene a mancare la reazione dello scalo, la prora si immerge in acqua con un tuffo fino a ristabilire il naturale assetto di galleggiamento.

 

Come nel caso precedente, anche il saluto, se l'altezza del tuffo è piccola, non crea alcun problema al varo, ma tale altezza va accuratamente verificata nei calcoli.

 

Se  (r - a) era   Inizialmente minima o addirittura negativa, ciò avrà influito in modo determinante...al rovesciamento della nave.

 

Se lo strapiombamento è di breve durata non ci sono problemi, altrimenti la stabilità trasversale può risultare compromessa. Il calcolo della lunghezza minima di scalo necessaria ad evitare lo strapiombamento è una delle verifiche più importanti da eseguire prima del varo. Nei casi più critici, si costruisce un prolungamento dello scalo per eliminare o ridurre questo fenomeno.

RINGRAZIO

IL COMANDANTE ERNANI ANDREATTA per l’intervista concessa a MARE NOSTRUM

 

Il COMANDANTE NUNZIO CATENA per la Revisione scientifica del Varo

 

L’AIDMEN per lo studio sulla STABILITA’ STATICA TRASVERSALE

Carlo GATTI

Rapallo, 3 Gennaio 2014

 


La Tragedia TEXACO CARRIBEAN

LA TRAGEDIA DELLA TEXACO CARRIBEAN

 

La petroliera Texaco Caribbean aveva equipaggio italiano, molti dei quali erano liguri. L’INCIDENTE ebbe luogo l’11.1.1971 nel Canale della Manica, a 13 km dallo Stretto di Dover.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La TEXACO CARIBBEAN aveva una bella linea ed era anche veloce per la sua epoca, ecco le sue Caratteristiche: Anno di costruzione: 1965 Cantiere: Kieler Howaldtswerke AG, Kiel Inc. - Stazza Lorda: 13.604 tonn. Dislocamento: 20875 tonn. lunghezza: 175 m - Larghezza: 23.8 m - Pescaggio: 12.5 m - Bandiera: Panama - Armatore: Texaco Panama. Inquinamento: bunker - fuel oil. Quantità: 600 tonn.

 

 

 

Le tragiche immagini della TEXACO CARIBBEAN in agonia subito dopo la collisione con la nave peruviana PARACAS l’11 gennaio 1971.

 

UNA TRAGICA CATENA DI NAUFRAGI

 

11 gennaio 1971 - Canale della Manica – Nebbia fittissima –

 

1a COLLISIONE

 

La petroliera di bandiera panamense con equipaggio italiano: TEXACO CARIBBEAN, partita da un porto olandese e diretta a Trinidad, navigava in zavorra sulla “regolare” corsia discendente del Canale della Manica quando, improvvisamente, fu colpita dal cargo peruviano PARACAS di 12.000 t. che, ignorando le recenti normative sulle ROTTE di SICUREZZA del Canale, navigava contromano sulla rotta più breve, lungo la costa inglese. (Secondo queste disposizioni le navi dirette verso il nord dovevano seguire rotte vicine alla costa francese, mentre quelle dirette al sud si dovevano tenere vicine a quelle britanniche).

La TEXACO CARIBBEAN esplose, fu tagliata in due ed affondò versando in mare 600 tonn. di bunker e acqua di zavorra. Nella collisione, otto marittimi persero la vita mentre ventidue furono salvati dai soccorritori. La PARACAS proveniva dal Perù ed era diretta ad Amburgo con un carico di pescato e olio di pesce. Nella collisione subì seri danni, non tali però da impedire l’aggancio del Rim.re di salvataggio HEROS che la trainò ad Amburgo, dove arrivò il 14 gennaio. La Coast Guard Britannica fece piazzare segnalamenti luminosi sul posto per allertare le navi in transito della presenza del relitto, ma a questo proposito, subito dopo la seconda collisione avvenuta poche ore dopo, si aprì una acerrima discussione tra i responsabili della navigazione nella Manica. Non pochi, infatti, sostennero che la collisione poteva essere evitata se il tratto di mare, dove era affondata la parte anteriore della Texaco Caribbean, fosse stato delimitato da numerosi e potenti segnali di pericolo. Tuttavia, nonostante le ricerche portate avanti fino a tarda notte e rese difficili da un fitto velo di nebbia, non fu possibile localizzare il relitto. Il caso volle che a trovarlo,  fosse stato proprio il mercantile tedesco. Per quanto riguarda i superstiti italiani della motocisterna, le speranze di ritrovarli in vita furono fin da subito perdute. Infatti, se gli otto marittimi italiani fossero sopravvissuti all'esplosione, non avrebbero potuto resistere più di trenta ore in un mare ghiacciato. Le ricerche comunque, continuarono, almeno per recuperare i corpi.

2a COLLISIONE

 

Si era ancora alla ricerca degli otto dispersi della motocisterna TEXACO CARIBBEAN, venuta a collisione con il cargo peruviano PARACAS e spezzatosi in due dopo una tremenda esplosione, quando, quasi nello stesso punto del canale della Manica, accadde l’impensabile: un mercantile tedesco di 2.700 tonnellate, il BRANDENBURG colò a picco urtando contro un troncone della petroliera.

 

Sette le vittime e 14 marinai dispersi

 

La tragedia ebbe un epilogo fulmineo - Con lo scafo squarciato da prua a poppa, il Brandenburg affondò in due minuti. Vani risultarono i disperati messaggi SOS del radiotelegrafista tedesco e, di lì a poco, furono avvistati molti corpi inanimati alla deriva, in balia della corrente nelle acque gelide della Manica - I Piloti del Canale denunciarono la scarsa sicurezza del traffico marittimo.

 

I soccorsi ritardarono di quel tanto che solo 11 naufraghi, su 32 membri dell’equipaggio, furono salvati dai pescherecci locali. Gli altri 14 superstiti furono raccolti dalla Viking Warrior, la stessa unita che aveva soccorso i marinai italiani della Texaco Caribbean. Nelle ore successive al disastro furono recuperati i corpi di sette marittimi mentre dei rimanenti quattordici non si trovò mai più alcuna traccia. Un battello fanale e 5 boe luminose furono aggiunte a quelle già posizionate. Un superstite che volò in mare senza rendersene conto,  riferì d’aver udito uno schianto tremendo mentre si trovava sotto coperta e d’aver capito subito che la nave aveva avuto una collisione. Il marconista del mercantile affondato ebbe appena il tempo di inviare un confuso messaggio di soccorso, messaggio che richiamò sul posto decine di imbarcazioni, in particolare pescherecci inglesi, che si trovavano nelle vicinanze.

 

 

 

3a COLLISIONE

 

Nonostante le tragiche collisioni avvenute nel mese di gennaio, il 27 febbraio la nave greca NIKKI proveniente da Dunkerque (Francia) e diretta ad Alessandria d’Egitto, ignorando anch’essa gli “avvisi di sicurezza” emessi dalla Coast Guard, entrò in collisione con il relitto sommerso ed affondò. L’equipaggio della petroliera HEBRIS, che si trovava in quella zona ormai diventata un girone infernale, vide la NIKKI affondare e diffuse immediatamente i segnali di soccorso via radio. La HEBRIS, intravedendo dei naufraghi in mare, si avvicinò al luogo dell’affondamento, ma quando giunse sul posto in mare non c’era più alcun superstite. La NIKKI s’inabissò con tutto il suo equipaggio. Da quel momento i tre relitti rappresentavano un pericolosissimo rischio per le navi in transito, ed un secondo battello fanale fu posizionato all’ancora con l’aggiunta di altre 10 boe luminose. Nonostante i provvedimenti attuati a scopo preventivo, nei due mesi successivi, la Coast Guard fece rapporto a ben 16 navi che avevano ignorato sia i battelli-fanale, che le boe. Per fortuna non ci furono ulteriori incidenti. Le operazioni di sgombero dei relitti della TEXACO CARIBBEAN, DEL BRANDENBURG e del NIKKI durarono ben 18 mesi.

Ciò che é successo nel nord-est dell’Europa, celebre per la sua millenaria storia marinara é a dir poco imbarazzante ...

 

Il sistema di separazione del traffico navale nel Canale della Manica (TSS, Traffic Separation Scheme) entrò in vigore alcuni anni prima di questa catena di incidenti ma, al momento delle collisioni, diversi Comandanti consideravano ancora “facoltativa” e non “obbligatoria” l’osservanza delle nuove ROTTE DI SICUREZZA.

 

ALBUM FOTOGRAFICO - TEXACO CARIBBEAN


 

(Nella foto) - Il C.l.C. Ernani Andreatta sbarcato dalla TEXACO CARIBBEAN con il grado di Comandante pochi mesi prima dall’affondamento della petroliera. A lui porgo un fervido ringraziamento per averci fornito il materiale (notizie e foto)

“per non dimenticare”

i nostri cari amici “marittimi” travolti da un tragico destino.

 

Carlo GATTI

Rapallo, 1 Gennaio 2014

 


WILHELM GUSTLOFF - Una tragedia dimenticata

WILHELM GUSTLOFF

UNA TRAGEDIA DIMENTICATA

 

Quando si parla di grandi naufragi si viene catturati quasi sempre da nomi famosi come: Principe de Asturias (500 vittime), Titanic (1.513), Empress of Ireland (1.024), Lusitania (1.152), Conte Rosso (1.300), Andrea Doria (54) e di altri di cui la cronaca si occupa, purtroppo, anche ai giorni nostri. Alcuni di questi “relitti d’autore”, addirittura, riemergono ciclicamente dagli abissi per approdare sugli schermi del cinema sotto forma di fiction che addomesticano la vera storia per un pubblico bisognoso di sogni per esorcizzare il nemico che sta dietro l’angolo.

 

Ancora una volta prendiamo le distanze da questo mondo virtuale e puntiamo invece il riflettore su una tragedia che, sebbene quasi nessuno conosca, detiene tuttora un tragico primato: l’altissimo numero di vittime.

 

 

Si tratta della nave passeggeri tedesca Wilhelm Gustloff (nella foto) che fu affondata da un sommergibile sovietico il 30 gennaio 1945 nel Mar Baltico durante l’ultima fase della Seconda guerra mondiale. Il naufragio causò, secondo le ultime prove documentali, la morte di oltre 10.000 persone, divenendo il più grave mai registrato nella storia navale.

 

La Wilhelm Gustloff, costruita dalla Blohm und Voss di Amburgo, fu varata nel 1937, per la compagnia Kraft durch Freude (KdF = ”Forza attraverso la gioia”) che era un'organizzazione ricreativa della Germania nazionalsocialista. Aveva la considerevole stazza di 25.893 tonnellate ed era lunga oltre 200 metri. L’inaugurazione della Wilhelm Gustloff ebbe luogo presso il cantiere n.51 della B.&V. Non si trattava di una nave passeggeri particolarmente innovativa, ma rappresentava un efficace strumento di propaganda riunendo l’ideale dell’unità  “ariana”, il sogno tedesco e l’affermazione dell’ideologia nazista.
Doveva per questo motivo chiamarsi Adolf Hitler, ma le fu imposto Wilhelm Gustloff, capo della sezione elvetica del partito nazionalsocialista che fu assassinato il 4 febbraio del 1936 a Davos dallo studente ebreo David Frankfurter. L’omicidio aveva l’obiettivo di scuotere il popolo ebraico esortandolo a combattere contro l'oppressione nazista.

 

La Gustloff era la nave ammiraglia della flotta KdF che possedeva numerose altre navi altrettanto grandi e famose, ma la Gustloff aveva un suo fascino particolare e numerose furono le crociere compiute nell'Oceano Atlantico, nel Mar Mediterraneo e nei mari del Nord, alle quali aderirono la ricca borghesia tedesca dell’epoca.

 

 

La sua storia bellica inizia come “Trasporto Truppe” (nella foto) nel maggio del 1939, quattro mesi prima dell'inizio della Seconda guerra mondiale. La Gustloff si affiancò ad altre quattro navi della KdF, la Robert Ley, la Der Deutsche, la Stuttgart, la Sierra Cordoba, ed infine la Oceana (non facente parte della KdF). Tutte queste navi avevano il compito di trasportare la Legione Condor dalla Spagna alla Germania dopo il successo ottenuto dai nazionalisti franchisti contro le forze repubblicane.

 

 

 

Nel settembre del 1939, le forze armate tedesche trasformarono ufficialmente la Gustloff in “Nave Ospedale” (Lazarettschiff D) (vedi foto) assegnandola alla Kriegsmarine. Non poteva trasportare materiale bellico ed era monitorata secondo un rigido protocollo internazionale. Era stata riverniciata di bianco, con una banda verde lungo tutta la carena su entrambi i lati e mostrava numerose croci rosse sul ponte, sul fumaiolo e sui lati. Il primo impiego della nave ospedale fu nella zona di Danzica al termine della campagna polacca. Rimase per molte settimane alla fonda in quella baia per l’imbarco e la cura di numerosi feriti supportando le operazioni di guerra contro i sovietici. Dal maggio 1940 fino al luglio dello stesso anno, la Gustloff operò nella zona di Oslo in Norvegia, come ospedale galleggiante durante la campagna di Norvegia (nome in codice “overlord”). Lasciò Oslo con 560  feriti a bordo e durante l'estate del 1940, le fu ordinato di tenersi in allerta per  l’invasione dell'Inghilterra, che fu poi cancellata. Ancora una volta salpò da Oslo con altri 414 feriti. Subito dopo il viaggio terminò il servizio di “Nave Ospedale” e si spostò a Gotenhafen (Gdynia-Polonia) e venne adattata come “Nave Caserma” al servizio della Kriegsmarine affiancando i numerosi U-boot tedeschi. La Gustloff, prima sotto il comando della 1ª Divisione Unterseeboots (sottomarini), e poi della 2ª Divisione Unterseeboots, rimase all'ancora a Gotenhafen per oltre quattro anni.

 

 

L’Epilogo. Nel gennaio del 1945 la W. Gustloff rientrò in servizio prendendo parte attiva all'Operazione Annibale che fu la più imponente evacuazione di tutta la storia: 2.000.000 di rifugiati, soldati e feriti furono salvati, trasportati e messi al sicuro dall'avanzata sovietica verso ovest. Tutte le più grandi navi della KdF: Cap Arcona, Robert Ley, Hamburg, Deutschland, Potsdam, Pretoria, Berlin, Goya ed altre vennero utilizzate per l’O.A. nei porti di Danzica e Gotenhafen. Non tutti però riuscirono a salvarsi. Dalle 25.000 alle 30.000 persone morirono, soprattutto in seguito agli affondamenti della Gustloff e del Goya per un totale di oltre 15.000 morti. Considerando il numero di persone trasportate, le condizioni climatiche e il periodo di guerra, tale operazione fu comunque un successo dimostrando l’organizzazione e la determinazione della macchina di soccorso tedesca.

 

 

L’atto finale della Wilhelm Gustloff secondo l’interpretazione del pittore Irwin J.Kappes

 

L'affondamento. Quando la Gustloff uscì dal porto di Gotenhafen il 30 gennaio 1945, il tempo era pessimo: vento molto forte, nevicava e la temperatura era –10° e molte lastre di ghiaccio consistente galleggiavano pericolosamente nel Baltico. In quelle condizioni climatiche, la sopravvivenza per un naufrago erano nulle. La Gustloff, armata solo di qualche arma antiaerea, iniziò il suo ultimo viaggio senza alcuna scorta militare e senza installazioni antisommergibili.

 

 

Alle 21,08 del 30 gennaio 1945 il sommergibile russo S-13 comandato da Alexander Marinesko, lanciò tre siluri contro la Gustloff. Il primo colpì la nave a prua sotto la linea di galleggiamento. La nave sbandò subito a dritta. Immediatamente fu lanciato l'SOS e i razzi di segnalazione. Il secondo siluro la colpì sotto la piscina facendo esplodere l’intera struttura, ed infine il terzo siluro colpì la Sala Macchine devastando l'intero scafo. In quelle condizioni, la nave resistette 40 minuti all’invasione del mare dalle numerose falle. Poi si mise in verticale e s’inabissò di prora. La Gustloff affondò nelle acque nere e fredde del Baltico portando con sé oltre 10.000 persone. La più attendibile ricerca sul numero delle vittime é quella di Heinz Schön che riassume il “quadro” delle persone imbarcate secondo il seguente schema: 8956 rifugiati, 918 tra ufficiali e membri della 2. Unterseeboot-Lehrdivision, 373 donne delle Unità Ausiliarie, 173 uomini delle forze navali, 162 soldati feriti per un totale di 10.582 persone.

 

L'affondamento della Gustloff fu il più grave e spaventoso evento nella storia navale. Nessuna tragedia ebbe perdite di vite umane così pesanti. Ad inizio secolo lo scrittore tedesco Günter Grass ha raccontato il dramma di questo transatlantico nel libro: “Il passo del gambero”. Oggi il relitto della Wilhelm Gustloff é considerato alla stregua di un cimitero di guerra. L’intera area é interdetta a qualsiasi tipo d’immersione in segno di doveroso rispetto verso la più grande tragedia del mare.

 

Carlo GATTI

Rapallo, 19 settembre 2013

 


L'URAGANO SANDY affonda il BOUNTY del cinema

L’uragano “Sandy”

affonda il Bounty del cinema

L’imbarcazione era stata utilizzata nel film I Pirati dei Caraibi

Un momento felice del Bounty

Come un film, peggio del peggior film, l’uragano Sandy, la tempesta più prevista e pubblicizzata della storia, capace di tenere in ostaggio 60 milioni di americani, ha fatto due vittime sul mare e ha affondato uno scafo simbolo, un nome storico della letteratura, del cinema e della storia della navigazione: la “replica” del Bounty.

Il Bounty sta affondando

Era una copia della fregata mercantile della Royal Navy britannica, costruita per il film del 1962: 'Gli ammutinati del Bounty', con Marlon Brando nel ruolo di Fletcher Christian, il 'secondo di bordo' che nel 1789 comandò la rivolta contro il capitano William Bligh, e poi guidò gli ammutinati fino all'isola di Pitcairn, dove si stabilirono per sfuggire alla Royal Navy che aveva iniziato a cercarli ovunque. La storia ci racconta che l’inquieto ufficiale imbarcò nel 1787  sul veliero Bounty diretto a Tahiti per un carico di "alberi del pane”. Fu nominato Secondo su raccomandazione del comandante William Bligh, diventandone poi il luogotenente durante la navigazione. Il Bounty raggiunse Tahiti il 26 ottobre 1788 dove sostò per cinque mesi prima di rientrare alla base con il carico il 17 aprile1789. Poche settimane dopo, il 28 aprile 1789, a circa 1300 miglia a ovest di Tahiti, nei pressi di Tonga, Fletcher Christian capitanò il celebre ammutinamento decidendo, tra l’altro, di abbandonare il capitano della nave e i marinai a lui fedeli su una scialuppa in mezzo al mare.

173 anni dopo, nel 1962, Lewis Milestone decide di portare sul set la vera storia dell'ammutinamento, tratta dal romanzo “Mutiny on the Bounty” di Charles Bernard Nordhoff e James Norman Hall. Il film ruota attorno ad un grande Marlon Brando, affiancato sul set da Trevor Howard, Richard Harris, Hugh Griffith e Richard Haydn. Per l'occasione, Hollywood costruì una copia praticamente esatta del Bounty originale che é sopravvissuta 50 anni, forse troppo per un veliero in legno d’epoca, sebbene motorizzato e attrezzato di moderni strumenti e di conforts.

La cronaca di questi giorni ci dice che il veliero “H.M.S. Bounty” non ha avuto scampo contro onde alte 7/8 metri, sollevate dai 50 nodi di vento furioso mentre si trovava al largo delle coste del North Carolina. Impossibilitato a governare, il veliero ha iniziato ad imbarcare acqua, le pompe di sentina sono andate rapidamente fuori uso e, dopo alcune ore, il comandante ordinò al suo equipaggio di abbandonare le nave e di lui non si seppe più nulla. I quattordici sopravvissuti ce l'hanno fatta grazie allo spericolato intervento della Guardia Costiera, prima con un Hercules C-130 da ricognizione, poi con due elicotteri intervenuti in loro soccorso a circa 90 miglia a Sud-Est da Capo Hatteras che hanno issato i naufraghi a bordo con i verricelli di bordo. Poi, nella serata un altro elicottero ha localizzato il corpo "inanimato" di Claudene Christian, 42 anni che, per ironia della sorte, aveva lo stesso cognome del protagonista degli “Ammutinati del Bounty”. Non c'é stato invece nulla da fare per il veliero. Dopo essere stato  abbandonato alla deriva, si é poi sfasciato tra le secche di un basso fondale.  “Il suo albero di maestra svetta ora tra le onde”, ha riferito l'ammiraglio della Guardia Costiera, Robert Parker.

Il Bounty aveva lasciato il Connecticut giovedì 25 ottobre con a bordo 11 uomini e 5 donne tra i 20 e i 66 anni, tutti consapevoli della pericolosità della traversata. Secondo i sopravvissuti, il comandante avrebbe cercato di aggirare l’uragano, ma dopo due giorni in balia della tempesta si è reso conto che le difficoltà aumentavano: “Credo che ci saremo dentro per parecchi giorni”, aveva scritto in un messaggio sulla pagina Facebook della nave, una sorta di diario di bordo. “Cerchiamo di uscirne prima possibile”.

Lunedì 29 ottobre, il Bounty ha cominciato a imbarcare acqua, i motori sono andati in avaria, la nave si é traversata agli elementi, é seguito il lancio del May Day-May Day, l’abbandono-nave e il si “salvi chi può” sulle scialuppe calate nel mare tempestoso. Al momento dell’arrivo del primo elicottero, una luce stroboscopica era visibile sull’albero di maestra del Bounty ormai semi affondato.

Come vedremo tra poco, la forza distruttrice della natura ha infatti paralizzato parte del Nord America, bloccando letteralmente New York. Metropolitane invase dall'acqua, strade allagate, corrente elettrica saltate, linee telefoniche mute. La Grande Mela si é piegata al passaggio di Sandy.

Una bella immagine del Bounty

Storia della tempesta

L'Uragano Sandy è stato definito un Ciclone Post-Tropicale di fine stagione che ha colpito la Giamaica, Cuba, Bahamas, Haiti, Repubblica Dominicana e la Costa Orientale degli Stati Uniti  raggiungendo la zona a sud della Regione dei Grandi Laghi  degli Stati Uniti e il Canada orientale. È il diciottesimo ciclone tropicale, la diciottesima tempesta di ‘nome’ e il decimo uragano  del 2012.


La rotta a salire dell’uragano Sandy vicino al suo picco di forza il 29.10. 2012

Formazione  ........         22 ottobre 2012

Venti più veloci ........     175 km/h

Pressione minima ........ 940 mbar

Vittime  .................      182 (110 negli USA)

Danni  ...................      50 miliardi $

Aree colpite  ..............   Giamaica, Cuba, Hispaniola, Bahamas, Florida

Sandy si è sviluppato nel Mar dei Caraibi  occidentale il 22 ottobre 2012. È diventato depressione tropicale ed è stato promosso tempesta tropicale sei ore più tardi. La vasta depressione si é mossa lentamente dalle Grandi Antille verso nord rinforzandosi. Il 24 ottobre il fenomeno Sandy, poco prima di investire la Giamaica, è stato classificato uragano. Nel suo vorticoso movimento verso nord, Sandy ha ripreso il mare e nelle prime ore della mattina del 25 ottobre ha investito Cuba come uragano di categoria 2. Durante la tarda serata del 25 ottobre, Sandy si é leggermente indebolito passando a uragano di categoria 1. Nelle prime ore del 26 ottobre, ha investito le Bahamas. Sandy brevemente indebolito a tempesta tropicale nelle prime ore del mattino del 27 ottobre, si é poi di nuovo rinforzato, classificandosi di categoria 1 durante la mattinata. Poco prima delle 8 del mattino del 29 ottobre, Sandy ha accostato a nord-nord-ovest, si é avvicinato verso la costa degli Stati Uniti, mantenendo categoria forza 1. L'impatto di Sandy si é esteso dalla Virginia al New England, con venti fortissimi che hanno raggiunto l’hinterland producendo cospicue nevicate sui monti del West Virginia.

La tempesta tropicale di proporzioni mai viste prima da quelle parti, ha colpito New York city la sera del 29 ottobre allagando subito numerose strade, scantinati tunnel a Lower Manhattan e in altre aree della città. Secondo le stime del Comune, solo nella fascia costiera degli Stati Uniti oltre 4 milioni di persone sono rimaste senza energia elettrica.

CONCLUSIONE: abbiamo riportato appositamente la storia di SANDY per sottolineare che l’emergenza nazionale era già stata dichiarata il 22 ottobre quando si cominciò a monitorare lo spostamento sempre più preoccupante di quella eccezionale massa ciclonica. Da quel momento, l’allerta generale fu diffuso in ogni angolo della terra e fu mantenuta sino al suo esaurimento finale.

Sfogliando l’album dei ricordi, notiamo che già nei primi anni ’60, ogni nave proveniente dall’Europa e destinata ad un qualsiasi porto atlantico degli USA, durante la “rottura dei tempi”, era continuamente bombardata dai “gale warning” locali (avvisi di burrasca molto precisi). Qualsiasi piccola o grande depressione era segnalata, seguita e monitorata. Dopo 50 anni, nel campo della meteorologia satellitare, la tecnologia ha fatto passi da gigante, eppure c’é sempre qualche “belinone” che ne sa una più del diavolo... Questa volta é stato il turno della “replica” del Bounty. D’accordo che era perfettamente funzionante, motorizzata e che veniva impiegata per trasportare passeggeri in cerca di emozioni... ma era pur sempre un “legno” di 50 anni. Tutto ha un limite! L’area interessata alla depressione era di ben 3200 Km. Come pensava il Comandante di aggirarla? Quella sua presenza davanti a Capo Hatteras mentre scendeva dalla Carolina del Nord verso la Florida, per sfidare Sandy nei giorni della sua massima esplosione e potenza, ci appare oggi misteriosa, inquietante, per non dire folle! A questo punto esiste il sospetto, più che fondato, che il delirio d’onnipotenza di certi comandanti della nostra epoca, probabilmente “sniffanti” e in cerca di gloria, debba essere contrastato dalle Autorità prima che un intero settore finisca in malora.

Carlo GATTI

Rapallo, 19 settembre 2013