L'URAGANO SANDY affonda il BOUNTY del cinema
L’uragano “Sandy”
affonda il Bounty del cinema
L’imbarcazione era stata utilizzata nel film I Pirati dei Caraibi
Un momento felice del Bounty
Come un film, peggio del peggior film, l’uragano Sandy, la tempesta più prevista e pubblicizzata della storia, capace di tenere in ostaggio 60 milioni di americani, ha fatto due vittime sul mare e ha affondato uno scafo simbolo, un nome storico della letteratura, del cinema e della storia della navigazione: la “replica” del Bounty.
Il Bounty sta affondando
Era una copia della fregata mercantile della Royal Navy britannica, costruita per il film del 1962: 'Gli ammutinati del Bounty', con Marlon Brando nel ruolo di Fletcher Christian, il 'secondo di bordo' che nel 1789 comandò la rivolta contro il capitano William Bligh, e poi guidò gli ammutinati fino all'isola di Pitcairn, dove si stabilirono per sfuggire alla Royal Navy che aveva iniziato a cercarli ovunque. La storia ci racconta che l’inquieto ufficiale imbarcò nel 1787 sul veliero Bounty diretto a Tahiti per un carico di "alberi del pane”. Fu nominato Secondo su raccomandazione del comandante William Bligh, diventandone poi il luogotenente durante la navigazione. Il Bounty raggiunse Tahiti il 26 ottobre 1788 dove sostò per cinque mesi prima di rientrare alla base con il carico il 17 aprile1789. Poche settimane dopo, il 28 aprile 1789, a circa 1300 miglia a ovest di Tahiti, nei pressi di Tonga, Fletcher Christian capitanò il celebre ammutinamento decidendo, tra l’altro, di abbandonare il capitano della nave e i marinai a lui fedeli su una scialuppa in mezzo al mare.
173 anni dopo, nel 1962, Lewis Milestone decide di portare sul set la vera storia dell'ammutinamento, tratta dal romanzo “Mutiny on the Bounty” di Charles Bernard Nordhoff e James Norman Hall. Il film ruota attorno ad un grande Marlon Brando, affiancato sul set da Trevor Howard, Richard Harris, Hugh Griffith e Richard Haydn. Per l'occasione, Hollywood costruì una copia praticamente esatta del Bounty originale che é sopravvissuta 50 anni, forse troppo per un veliero in legno d’epoca, sebbene motorizzato e attrezzato di moderni strumenti e di conforts.
La cronaca di questi giorni ci dice che il veliero “H.M.S. Bounty” non ha avuto scampo contro onde alte 7/8 metri, sollevate dai 50 nodi di vento furioso mentre si trovava al largo delle coste del North Carolina. Impossibilitato a governare, il veliero ha iniziato ad imbarcare acqua, le pompe di sentina sono andate rapidamente fuori uso e, dopo alcune ore, il comandante ordinò al suo equipaggio di abbandonare le nave e di lui non si seppe più nulla. I quattordici sopravvissuti ce l'hanno fatta grazie allo spericolato intervento della Guardia Costiera, prima con un Hercules C-130 da ricognizione, poi con due elicotteri intervenuti in loro soccorso a circa 90 miglia a Sud-Est da Capo Hatteras che hanno issato i naufraghi a bordo con i verricelli di bordo. Poi, nella serata un altro elicottero ha localizzato il corpo "inanimato" di Claudene Christian, 42 anni che, per ironia della sorte, aveva lo stesso cognome del protagonista degli “Ammutinati del Bounty”. Non c'é stato invece nulla da fare per il veliero. Dopo essere stato abbandonato alla deriva, si é poi sfasciato tra le secche di un basso fondale. “Il suo albero di maestra svetta ora tra le onde”, ha riferito l'ammiraglio della Guardia Costiera, Robert Parker.
Il Bounty aveva lasciato il Connecticut giovedì 25 ottobre con a bordo 11 uomini e 5 donne tra i 20 e i 66 anni, tutti consapevoli della pericolosità della traversata. Secondo i sopravvissuti, il comandante avrebbe cercato di aggirare l’uragano, ma dopo due giorni in balia della tempesta si è reso conto che le difficoltà aumentavano: “Credo che ci saremo dentro per parecchi giorni”, aveva scritto in un messaggio sulla pagina Facebook della nave, una sorta di diario di bordo. “Cerchiamo di uscirne prima possibile”.
Lunedì 29 ottobre, il Bounty ha cominciato a imbarcare acqua, i motori sono andati in avaria, la nave si é traversata agli elementi, é seguito il lancio del May Day-May Day, l’abbandono-nave e il si “salvi chi può” sulle scialuppe calate nel mare tempestoso. Al momento dell’arrivo del primo elicottero, una luce stroboscopica era visibile sull’albero di maestra del Bounty ormai semi affondato.
Come vedremo tra poco, la forza distruttrice della natura ha infatti paralizzato parte del Nord America, bloccando letteralmente New York. Metropolitane invase dall'acqua, strade allagate, corrente elettrica saltate, linee telefoniche mute. La Grande Mela si é piegata al passaggio di Sandy.
Una bella immagine del Bounty
Storia della tempesta
L'Uragano Sandy è stato definito un Ciclone Post-Tropicale di fine stagione che ha colpito la Giamaica, Cuba, Bahamas, Haiti, Repubblica Dominicana e la Costa Orientale degli Stati Uniti raggiungendo la zona a sud della Regione dei Grandi Laghi degli Stati Uniti e il Canada orientale. È il diciottesimo ciclone tropicale, la diciottesima tempesta di ‘nome’ e il decimo uragano del 2012.
La rotta a salire dell’uragano Sandy vicino al suo picco di forza il 29.10. 2012
Formazione ........ 22 ottobre 2012
Venti più veloci ........ 175 km/h
Pressione minima ........ 940 mbar
Vittime ................. 182 (110 negli USA)
Danni ................... 50 miliardi $
Aree colpite .............. Giamaica, Cuba, Hispaniola, Bahamas, Florida
Sandy si è sviluppato nel Mar dei Caraibi occidentale il 22 ottobre 2012. È diventato depressione tropicale ed è stato promosso tempesta tropicale sei ore più tardi. La vasta depressione si é mossa lentamente dalle Grandi Antille verso nord rinforzandosi. Il 24 ottobre il fenomeno Sandy, poco prima di investire la Giamaica, è stato classificato uragano. Nel suo vorticoso movimento verso nord, Sandy ha ripreso il mare e nelle prime ore della mattina del 25 ottobre ha investito Cuba come uragano di categoria 2. Durante la tarda serata del 25 ottobre, Sandy si é leggermente indebolito passando a uragano di categoria 1. Nelle prime ore del 26 ottobre, ha investito le Bahamas. Sandy brevemente indebolito a tempesta tropicale nelle prime ore del mattino del 27 ottobre, si é poi di nuovo rinforzato, classificandosi di categoria 1 durante la mattinata. Poco prima delle 8 del mattino del 29 ottobre, Sandy ha accostato a nord-nord-ovest, si é avvicinato verso la costa degli Stati Uniti, mantenendo categoria forza 1. L'impatto di Sandy si é esteso dalla Virginia al New England, con venti fortissimi che hanno raggiunto l’hinterland producendo cospicue nevicate sui monti del West Virginia.
La tempesta tropicale di proporzioni mai viste prima da quelle parti, ha colpito New York city la sera del 29 ottobre allagando subito numerose strade, scantinati tunnel a Lower Manhattan e in altre aree della città. Secondo le stime del Comune, solo nella fascia costiera degli Stati Uniti oltre 4 milioni di persone sono rimaste senza energia elettrica.
CONCLUSIONE: abbiamo riportato appositamente la storia di SANDY per sottolineare che l’emergenza nazionale era già stata dichiarata il 22 ottobre quando si cominciò a monitorare lo spostamento sempre più preoccupante di quella eccezionale massa ciclonica. Da quel momento, l’allerta generale fu diffuso in ogni angolo della terra e fu mantenuta sino al suo esaurimento finale.
Sfogliando l’album dei ricordi, notiamo che già nei primi anni ’60, ogni nave proveniente dall’Europa e destinata ad un qualsiasi porto atlantico degli USA, durante la “rottura dei tempi”, era continuamente bombardata dai “gale warning” locali (avvisi di burrasca molto precisi). Qualsiasi piccola o grande depressione era segnalata, seguita e monitorata. Dopo 50 anni, nel campo della meteorologia satellitare, la tecnologia ha fatto passi da gigante, eppure c’é sempre qualche “belinone” che ne sa una più del diavolo... Questa volta é stato il turno della “replica” del Bounty. D’accordo che era perfettamente funzionante, motorizzata e che veniva impiegata per trasportare passeggeri in cerca di emozioni... ma era pur sempre un “legno” di 50 anni. Tutto ha un limite! L’area interessata alla depressione era di ben 3200 Km. Come pensava il Comandante di aggirarla? Quella sua presenza davanti a Capo Hatteras mentre scendeva dalla Carolina del Nord verso la Florida, per sfidare Sandy nei giorni della sua massima esplosione e potenza, ci appare oggi misteriosa, inquietante, per non dire folle! A questo punto esiste il sospetto, più che fondato, che il delirio d’onnipotenza di certi comandanti della nostra epoca, probabilmente “sniffanti” e in cerca di gloria, debba essere contrastato dalle Autorità prima che un intero settore finisca in malora.
Carlo GATTI
Rapallo, 19 settembre 2013
La caduta della TORRE DI CONTROLLO DI GENOVA
LA CADUTA DELLA TORRE DI CONTROLLO DEL PORTO DI GENOVA
Una Tragedia annunciata?
La vecchia e la nuova Torre di Controllo del traffico del Porto di Genova. Un passaggio di consegne finito in tragedia.
PREMESSA: Le navi che approdano nel porto di Genova vanno “girate” all’arrivo oppure alla partenza. L’allungamento di molti Ponti ed il riempimento di zone portuali strategiche hanno drasticamente concentrato in avamporto questo tipo di manovra.
La cementificazione del Porto di Genova, ha cercato di dare risposte ‘moderne’ alle richieste dello shipping internazionale, ma il suo impianto é medievale, e questi limiti geografici e corografici sono, a nostro modesto avviso, tra le probabili cause della tragedia della Torre di Controllo del Traffico.
Il disegno schematico evidenzia (nella parte alta) l’allungamento dei pontili nel bacino ad anfiteatro del Porto Vecchio, da sinistra: tombamento del Passo Nuovo e Calata Sanità, modifica di Ponte Assereto e Ponte Colombo, Andrea Doria, Ponte dei Mille ed infine la trasformazione delle Calate interne fino al Molo Vecchio. Nel disegno é anche visibile (nella parte bassa a sinistra) il riempimento di Calata Bettolo. La freccia rossa indica la zona Bacini e la T.C. scomparsa.
Questa bella immagine delle Stazioni Marittime del Porto Vecchio è successiva ai lavori di allungamento di Ponte dei Mille
Premetto che, nel rispetto delle indagini in corso, non mi occuperò della manovra della Jolly Nero, ma piuttosto della situazione che si é venuta a creare in porto, dopo l’operazione di trasformazione e di allungamento di molte banchine per adattarle alle nuove esigenze del mercato navale.
Pochi si sono accorti che queste ‘gettate di cemento’ hanno costretto i piloti a cambiare le “tradizionali manovre”, a causa degli spazi sempre più ridotti, anche a scapito della sicurezza.
La cementificazione iniziata più o meno nel 2001-2002 é andata progressivamente aumentando fino all’anno in corso che, come tutti sappiamo, ha visto la distruzione della Torre di Controllo dei Piloti da parte di una nave in manovra di uscita e, con molto ritardo, questa immane tragedia ha reso un po’ tutti consapevoli dei passi “imprudenti” che sono stati compiuti in oltre dieci anni di affannosa rincorsa dei traffici in fuga dall’Italia.
Come sempre succede dopo un disastro, da più parti, ogni giorno, vengono sollevate obiezioni, supposizioni, accuse e dichiarazioni a dir poco STRANE. In effetti, si continua a trattare le persone come fossero bambini ritardati... ed anziché spiegare le verità nude e crude, si preferisce lasciare l’ultima parola al prete di turno, alla fatalità, alla pietra tombale e così via...
I lavori di ammodernamento del porto iniziati negli anni ’90, videro i primi ‘allungamenti importanti’ nel 2001-2002, e sono poi proseguiti come da note qui di seguito riportate:
Articolo del 2009 - AUTORITA’ PORTUALE
Stato di avanzamento piano delle opere.
- Presentato stamani a Palazzo San Giorgio lo stato di avanzamento del piano delle opere del porto di Genova, già cantierate o in via di cantierizzazione, avviate nel corso del 2009 e di prossimo avvio nel 2010 ...........
- L’intervento darà una risposta lungamente attesa al compendio dove proseguono peraltro i lavori per Calata Bettolo, a cui la seconda fase di dragaggio dovrebbe imprimere un’accelerazione, e dove partiranno a giorni i lavori per il riempimento Ronco-Canepa..........
- Per quanto riguarda invece l’area passeggeri è in fase di assegnazione la gara per la realizzazione grande banchina di Ponte dei Mille con un accosto di 340 metri destinato alla navi passeggeri di ultima generazione.
Articolo del 24/09/2011
Inaugurata la nuova banchina Ponte dei Mille.
Merlo: “Genova raggiungerà 1 milione di passeggeri”
Genova. Da oggi la più bella Stazione Marittima d’Europa ha una nuova banchina. Infatti, è stato inaugurato stamane, alla presenza delle autorità, l’ampliamento del lato di ponente della banchina di Ponte dei Mille.
Calata Bettolo per metà é ormai riempita.
Ampliamento del terminal container di Calata Bettolo.
L'intervento prevede la realizzazione di una nuova banchina a sud dell'esistente Calata Bettolo, a chiusura dello specchio d'acqua tra Ponte Rubattino e Calata Canzio (vedi foto n.4). Il piazzale ottenuto a seguito del tombamento dello specchio acqueo antistante Calata Bettolo costituirà il Nuovo Terminal Contenitori della capacità a regime di oltre 400.000 TEU/anno, in grado di operare su navi portacontainer della settima generazione, con lunghezze di oltre 380 metri e pescaggi di oltre 14.50 metri, grazie ad uno sviluppo di banchina di oltre 750 metri ed un tirante d'acqua di progetto di 17 metri.
E’ inoltre, prevista la costruzione di una unità funzionale, ad est di Calata Olii Minerali, denominata Darsena Tecnica, destinata ad attività di bunkeraggio navale e piattaforma ecologica (vedi foto n.2). La darsena tecnica è a levante e piccole cisterne lavoreranno nella nuova testata Calata Canzio (lungo canale).
Una veduta aerea del Porto di Genova dei primi anni ’90, con i suoi 22 km di lunghezza e le sue quattro imboccature. (Imbocc. di Levante-Fiera; Imbocc. Centrale–Italsider; Imbocc. Porto Petroli Multedo-Aeroporto; Imbocc. di Ponente-Porto Container di Voltri) – Nella foto si nota una nave in entrata davanti alla Fiera, tra poco sarà all’altezza del citato Superbacino ed entrerà in Avamporto. Poco avanti si vede un’altra nave in movimento davanti alla vecchia Torre di Controllo. Tra poco questa seconda nave entrerà nel bacino di evoluzione delle Grazie (tra Calata Gadda e i Bacini di Carenaggio). Sullo sfondo, il bacino ad anfiteatro del Porto Vecchio dove hanno girato il REX, la MICHELANGELO e le moderne navi da crociera prima dell’allungamento dei moli.
04.00 del 26 luglio del 1997 - Partenza Superbacino da Genova. Quattro piloti: Aldo Baffo, Giuseppe Fioretti, Carlo Gatti e Ottavio Lanzola presero posizione su ogni lato del Superbacino......
In questa immagine si vedono chiaramente le dimensioni del manufatto costruito in cemento armato, lungo 370 mt., largo 80 e alto una ventina di metri. Posizionato davanti all’imboccatura di levante del Porto, impediva ai Piloti la visuale del traffico navale. Questa megastruttura, nata e cresciuta in porto, era destinata al raddobbo delle superpetroliere di 350.000 tonnellate di portata, che furono costruite dopo il blocco del Canale di Suez alla fine della Guerra dei Sei Giorni (6.6.67). La sua forma, simile ad un enorme parallelepipedo vuoto e senza copertura, era il risultato dell’assemblaggio di otto elementi che era iniziato con il varo, tutt’altro che facile, del primo pezzo nel lontano 28 aprile 1975.
Questo “ostacolo” fu all’origine della costruzione della nuova Torre di Controllo abbattuta dalla Jolly Nero.
Un po’ di Storia: Verso la metà degli anni ’80, proposi ai miei colleghi piloti ed alle Autorità dell’epoca, la necessità di poter operare da una Torre di Controllo del traffico alta e moderna, che superasse in altezza il superbacino galleggiante che impediva la visuale delle navi in avvicinamento all’imboccatura di levante. Tutti erano consapevoli che all’epoca, in certi giorni della settimana e in certi orari particolari, si doveva gestire l’approaching di 10-15 navi contemporaneamente, oltre a quelle in uscita, in movimento e in attesa di istruzioni. La direzione del traffico era diventato il problema principale per la sicurezza del porto. Il superbacino era inattivo, ed era così alto che dalla vecchia Torre di Controllo, alta quattro piani, i piloti erano completamente ciechi. Il presidente del Porto di allora, Roberto D’Alessandro ci promise la realizzazione di un prototipo di T.C. da parte dell’Italimpianti. Purtroppo, i suoi scontri con il console Batini lo videro sconfitto. Ritornai alla carica nei primi anni ’90, con il Capo Pilota Adriano Macario, sensibile al problema e con alcuni Dirigenti dell’allora CAP, i quali capirono al volo che la realizzazione di una moderna T.C. sarebbe diventata il fiore all’occhiello di un Porto Integrato all’avanguardia, con le sue 4 imboccature (quattro piste d’atterraggio) ecc... Lo studio, la progettazione, la strumentazione, la funzionalità, la logistica ecc.... c’impegnarono per molti anni di duro lavoro. Tutto andò per il meglio, ma la sua “tranquillità operativa” durò solo pochi anni a causa, come si é visto, di una progressiva cementificazione che andò via via a restringere e a ridurre nel tempo il numero dei bacini d’evoluzione dislocati in tutte le zone portuali e che per anni avevano permesso ai piloti di girare le navi contemporaneamente.
Una annotazione importante
Fino ad una decina di anni fa, esisteva in porto la “Consuetudine” che obbligava tutte le navi in arrivo ad ormeggiare con la prora fuori, per essere pronte a sgomberare in caso di emergenza. Va da sé che tutte le navi in arrivo nel Porto di Genova DOVEVANO ESSERE GIRATE in determinati “slarghi”. Oggi le cose sono cambiate: il 40% delle navi in arrivo vengono ormeggiate con la “prora a terra” sia per ridurre i tempi di manovra, sia per la sparizione o diminuzione degli slarghi stessi.
Dove ‘giravano’ le navi prima della cementificazione selvaggia e dove ‘girano’ oggi?
Navi destinate al Porto Nuovo di Sampierdarena, (i cosiddetti pontili a pettine).
Fin dalla sua costruzione (tra le due guerre mondiali), le navi hanno sempre “girato” secondo queste modalità:
- lunghezza 50-100 mt. girano sul posto.
- lunghezza 100-220 mt. girano con la prua a ponente in canale, perché la distanza tra le testate dei pontili e la diga foranea é di 210 metri.
- lunghezza superiore a 220 metri (Jolly Nero), sia in entrata che in uscita (se necessario) evoluivano a CALATA BETTOLO, ormai tombata definitivamente. Questa manovra é stata fatta per circa 90 anni. Oggi queste navi girano in AVAMPORTO
Bacini di evoluzione PORTO ANTICO
AVAMPORTO, lo slargo che s’incontra entrando in porto, ha sempre avuto lo specifico scopo (direi storico), proprio per le sue dimensioni, di ‘agevolare’ gli incontri tra le navi in uscita e quelle in entrata, evitando i passaggi ravvicinati in canale e in altre zone più strette (accesso ai bacini di carenaggio, calata Sanità x grandi n. container, traghetti in transito ecc...).
Questa foto, ripresa sulla T.C. da una delle vittime, vale più di tante parole..............
Con la cementificazione in atto, l’AVAMPORTO é diventato l’unica ZONA DI EVOLUZIONE SICURA, ma di DI MASSIMO PERICOLO PER LA T.C. (vedi foto 7)
Aggiungo, inoltre, che detta pericolosità é stata anche accentuata da altre strutture e banchinamenti costruiti agli Olii Minerali - la zona diametralmente opposta a ponente, della T.C. - già descritta all’inizio.
BACINO PORTO VECCHIO, abbiamo visto che ormai é destinato a ZONA DI EVOLUZIONI SOLTANTO PER I TRAGHETTI e navi similari per l’avanzamento del cemento e la riduzione drastica dell’acqua di manovra.
BACINO CALATA GRAZIE, (vedi foto n.5). Si tratta di un’area di evoluzione che é stata dragata tra i Bacini di Carenaggio e Calata Gadda. Viene tuttora usata quando soffia forte la tramontana, ma presenta altri problemi su cui é inutile soffermarci. Durante i lavori di dragaggio a Calata Gadda, le GRANDI NAVI PASSEGGERI SONO STATE GIRATE PREFERIBILMENTE IN AVAMPORTO. Si preferisce girare queste navi in AVAMPORTO anche durante forti sciroccate e libecciate.
ZONA DI EVOLUZIONE DAVANTI A CALATA SANITA’. Si usa questa zona di evoluzione quando vi é concomitanza di manovre di navi passeggeri destinate alle Stazioni Marittime. (Vedi margine inferiore foto.n.5)
Così si presentava il Bacino Porto Vecchio prima degli allungamenti dei pontili. In rosso i terminal passeggeri di un tempo.
Davanti a Ponte dei Mille e Ponte Andrea Doria evoluì il REX (250 mt.), il CONTE DI SAVOIA e, in seguito, noi girammo la MICHELANGELO-RAFFAELLO (275 mt.) - EUGENIO C. e le grandi navi moderne (eccetto le ultime, ovviamente).
CONCLUSIONE:
All’epoca della progettazione e costruzione della T.C. crollata, nessuno tra gli addetti ai lavori, aveva conoscenza dei progetti che avrebbero fronteggiato il gigantismo navale. Nel frattempo centinaia di Operatori Portuali di tutti i continenti vennero a Genova per studiarne l’ubicazione, l’operatività e quant’altro. Nessuno mosse mai critiche o avanzato progetti per migliorarne la sicurezza.
Tuttavia, oggi sarebbe importante sapere come mai, una volta avviati i lavori di ammodernamento, non siano state prese in considerazione le denunce di pericolose oscillazioni della T.C. a causa del vento e della vicinanza delle navi in evoluzione.
La Torre di Controllo nacque per dare SICUREZZA ALLE NAVI, non per essere essa stessa vittima della mancanza di sicurezza. Non averla protetta dai cambiamenti delle dinamiche navali in atto nell’ultimo decennio é stata una fatale omissione. Si spera che le indagini in corso rivelino le vere cause e individuino le responsabilità di chicchessia affinché i nove giovani operatori della T.C. non siano morti invano.
Dalle dichiarazioni udite in TV subito dopo la tragedia, uno dei massimi dirigenti del porto si é così espresso:
“Quella nave non doveva girare lì, non si é mai visto una cosa del genere!”
Che tristezza! No comment!
Carlo GATTI
Rapallo, 18.5.2013
Riportiamo il commento di un nostro socio ing. A.B. sul crollo della Torre di Controllo dei Piloti di Genova:
"Grazie alle foto scattate durante la costruzione della Torre dei Piloti, la struttura di base é ben visibile.
Si trattava di una costruzione che gravava su semplici colonnine senza rinforzi che rimaneva in piedi grazie alla forza di gravità.
Con un carico di punta senza contrasti laterali é logico che sia crollata come un domino. Le solite "architettate" senza cervello.
Ribadisco: osservando il danno (o per meglio dire il NON danno) sulla nave, ne deduco senza troppo sforzo che al momento dell'urto la nave era già praticamente ferma e si è semplicemente appoggiata.
Le tracce di cemento si estendono al massimo per un paio di metri lungo lo scafo.
L'edificio era così mal concepito da andare giù praticamente con un soffio...
Dico di più, se invece della nave fosse giunto uno scossone di terremoto avrebbe fatto con tutta probabilità la stessa fine.
Continueranno a prendersela con la parte "marinara" della questione cercando errori di manovra, probabilmente per mascherare ben altro...
LEONARDO DA VINCI, da mito a relitto
3.7.1980
INCENDIO E PERDITA
della nave passeggeri italiana in disarmo
“LEONARDO DA VINCI “
Nave |
Bandiera |
Varo |
Stazza l. |
Passeggeri |
Velocità |
|
Leonardoda Vinci |
italiana |
1958 |
33.340 |
1326 |
25.5 |
|
Luogo dell’Incendio:
La nave era ancorata nella rada del porto di La Spezia.
Un po’ di Storia:
Il 5 aprile 1977, la turbonave Leonardo da Vinci fu messa in disarmo, a conclusione di numerosi viaggi di linea per il Nord America. Si chiudeva così un fulgido periodo di grandi tradizioni marinare per l’Italia e la Liguria, legato ad un servizio marittimo ormai compromesso dalla concorrenza dell’aviazione civile mondiale.
Folla di curiosi assiste alla partenza della Leonardo da Vinci da Ponte Andrea Doria.
La Leonardo da Vinci in uscita dal porto di Genova per il suo viaggio inaugurale il 30.V.1960
La magnifica linea della Leonardo da Vinci, tipico esempio di Italian Style, in arrivo negli Stati Uniti.
Ci fu quindi una cancellazione totale dei servizi di linea, ma si aprì il grosso problema dell’utilizzo delle unità disarmate e soprattutto del numeroso personale destinato altrimenti alla disoccupazione. La riapertura del Canale di Suez offrì in quel periodo nuove opportunità turistiche e fu decisa la costituzione di una Società a partecipazione mista:
Statale (FINMARE) e Privata (Costa-Magliveras-Elice) per la gestione di navi in attività crocieristiche. Venne così fondata la I.C.I (Italia Crociere Internazionali).
La prima decisione presa dalla nuova Società fu quella di rimettere in servizio La Leonardo che venne destinata ai Caraibi, con base a Port Everglades in Florida. Ma i concetti di costruzione e di servizio delle vecchie navi di linea, erano ormai tutti superati dal nuovo vento tecnologico e manageriale, imposto da una classe emergente di Armatori che aveva previsto in tempo la svolta epocale dei traffici navali. Così che, dopo appena un anno di crociere, la Leonardo rientrò a Genova il 18.9.1978 e la trasferirono dopo pochi giorni a La Spezia in disarmo.
La Leonardo da Vinci in disarmo alla Spezia é devastata da un
improvviso incendio.
Incendio a bordo:
L’incendio é finalmente estinto, ma la Leonardo da Vinci é ormai un relitto.
Fu durante questa sosta forzata che il 3.7.1980 la gloriosa e bella nave genovese andò perduta, a causa di un incendio scoppiato, forse per un cortocircuito e che non fu possibile domare tempestivamente per mancanza di personale, essendo la nave in disarmo e quindi sorvegliata da un numero esiguo di personale.
Per ragioni di sicurezza, la nave fu allontanata a rimorchio fuori dalla diga foraneadel porto, dove continuò a bruciare per tre giorni ed alla fine, a causa dell’acqua imbarcata in funzione antiincendio, sbandò, poi s’inclinò sempre di più sino a coricarsi su un fianco sul basso fondale della rada.
La Leonardo da Vinci fu in seguito recuperata ed avviata definitivamente alla demolizione.
La sezione prodiera della Leonardo da Vinci appoggiata su un fianco
Carlo GATTI
Rapallo, 3 aprile 2013
HELEANNA - Una ferita che brucia ancora
M/n HELEANNA - UNA FERITA CHE BRUCIA ANCORA
Il comandante Dimitrios Anthipas, un pessimo esempio di Comandante
Il 28 agosto 1971, a 15 miglia da Monopoli, un incendio scoppiò a bordo del traghetto greco “Heleanna”. Si trattò della più drammatica e funesta sciagura marittima accaduta in Adriatico nel dopoguerra. La tragedia costò la vita a 25 turisti imbarcati; 16 furono i dispersi, 271 feriti tra i 1089 i superstiti.
Sono trascorsi 42 anni dall’incendio della HELEANNA, ma il ricordo é sempre vivo, specialmente tra coloro che seguirono da vicino le operazioni di salvataggio, ma anche da tutti coloro che ben presto si resero conto che a bordo del traghetto viaggiavano 1174 passeggeri, quasi il doppio dei 620 consentiti, e duecento automobili. A quel punto l’apprensione si trasformò in pura rabbia e la stampa di allora definì “negrieri del mare” il comandante Antypas Dimitrios ed il suo armatore Efthymiadis.
Da dove uscì quel maxi-traghetto con la ciminiera a poppa come una petroliera?
Negli anni ’60 l’armatore greco Constantino S. Efthymiadis comprò quattro petroliere svedesi per convertirle in traghetti passeggeri:
la MARIA GORTHON (rinominata PHAISTOS), nel 1963;
la SOYA-MARGARETA (rinominata MINOS), nel 1964;
la SOYA-BIRGITTA (rinominata SOPHIA), nel 1965;
la MUNKEDAL (rinominata HELEANNA), nel 1966.
Nel 1954 la nave cisterna Munkedal fu costruita dai cantieri Götaverken di Göteborg-Svezia. Ma il suo destino fu segnato dalla chiusura del Canale di Suez* che costrinse le petroliere a compiere il lungo e costoso periplo dell’Africa, linea che sarebbe risultata economica soltanto con l’introduzione del “gigantismo navale”. Così fu, e tutte le stazze minori, tra cui le petroliere svedesi sopra citate, furono messe fuori mercato.
* Nota: Dopo la GUERRA DEI SEI GIORNI del 1967, il canale rimase chiuso fino al 5 giugno 1975).
Da sempre i greci sono considerati validissimi marinai, ma anche un po’ spregiudicati. L’armatore C.S.Efthymiadis era un fedele garante di questa tradizione. La sua intuizione gli permise, infatti, di trasformare e reclamizzare la nuova unità come “il più grande traghetto del mondo”.
Nel 1966, mantenendo il suo aspetto esteriore, la petroliera Munkedal fu ridisegnata al suo interno per la sistemazione di numerose cabine/passeggeri, mentre sulle fiancate dello scafo furono installati portelloni con rampe di nuova concezione per l’imbarco/sbarco di auto al seguito e mezzi pesanti. Rinominata Heleanna, il traghetto entrò in linea sulla rotta Patrasso–Brindisi-Ancona e ritorno.
La cronaca dell’incidente
Al momento del disastro l’Heleanna si trovava 25 miglia nautiche a Nord di Brindisi, a 9 miglia al largo di Torre Canne, più verso Monopoli. Proveniva da Patrasso ed era diretta ad Ancona con 1174 passeggeri e 200 mezzi (auto, tir e autobus).
Tutto ebbe inizio alle 05.30 del 28 agosto 1971 quando una fuga di gas dai locali della cucina, fra la panetteria, la riposteria ed il locale ristoro provocò un incendio a poppa. Si parlò di un corto circuito, forse una manovra errata di accensione dei polverizzatori della cucina, oppure di uno spandimento di gas liquido, ma anche di una possibile fuoriuscita di nafta dalla cassa di alimentazione della calderina.
Alcuni testimoni affermarono che l’incendio prese il sopravvento solo quando il fuoco lambì le bombole di ossigeno facendole esplodere. Poco dopo successe un fatto molto anomalo: in una cala di poppa vicino al timone, scoppiò un’altra bombola d’ossigeno che bloccò istantaneamente l’organo di governo che era, in quel momento, posizionato 15° a dritta. Il traghetto, ormai in panne, ma ancora abbrivato, compì un’ampia accostata in cui il vento propagò l’incendio a tutta la nave.
L’Heleanna aveva in dotazione 12 scialuppe di salvataggio sufficienti per 600 persone, la metà delle persone imbarcate. Le inchieste promosse dalle Autorità dimostrarono che metà delle lance erano inutilizzabili per via degli argani bloccati dalla ruggine. Tra quelle calate a mare, una si ribaltò e precipitò in mare probabilmente per il sovraccarico.
Gli idranti antincendio e i tutti i sistemi di soccorso non erano funzionanti. Le inchieste che seguirono dimostrarono che il traghetto, dal punto di vista della sicurezza, era da considerarsi sub-standard.
Il disastro causò 25 morti, 16 dispersi e 271 feriti, alcuni anche in modo grave. Le vittime erano di nazionalità italiana, greca e francese. Non appena il Comandante della nave lanciò l’SOS, soccorsi aerei e navali partirono da Brindisi, Bari, Monopoli e Grottaglie.
I soccorsi aeronavali partirono da Brindisi, Bari, Monopoli, Taranto e Grottaglie, anche con la partecipazione di alcuni pescherecci privati (Laura, Madonna della Madia, Angela Danese, Nuova Vittoria, S. Cosimo) che si attivarono con molta efficacia nella ricerca dei dispersi in mare ed al soccorso dei naufraghi.
L’incendio venne domato dopo molte ore. Il relitto fu rimorchiato verso porto di Brindisi e fu ormeggiato nei pressi del castello Alfonsino.
I feriti sarebbero stati più numerosi se non fosse scattata con grande tempestività l’opera dei soccorritori. Il personale dei rimorchiatori locali della Società Barretta dovette avvicinarsi fino a pochi metri dalla nave per rendere efficace il getto delle proprie spingarde, sfidando temperature altissime e respirando gas di scarico e fumi micidiali, ma dovettero farlo per domare le lingue di fuoco che fuoriuscivano da tutta la nave minacciando di far esplodere i serbatoi di benzina degli oltre 200 mezzi che si trovavano nel garage. Fatto che purtroppo avvenne con tutte le sue tragiche conseguenze.
Anche la città di Monopoli si prodigò per confortare i superstiti, dando una dimostrazione di grande generosità offrendo aiuto e accoglienza ai naufraghi dell’Heleanna.
Il 15 ottobre del 1972 il Capo dello Stato Giovanni Leone conferì alla città la Medaglia d’Argento al Merito Civile in riconoscimento dell’antica tradizione di ospitalità e di civismo della sua popolazione.
“Quando siamo arrivati sul posto” – raccontò il proprietario di un peschereccio – “ci siamo trovati di fronte ad uno spettacolo agghiacciante. Lunghe lingue di fiamme uscivano dalla poppa impedendoci di avvicinarci troppo. Sul ponte del traghetto dilagava il panico. Centinaia di persone tentavano di calare le scialuppe senza riuscirvi, altre che scendevano con le barche liberate, rimanevano poi sospese e bloccate a mezz’aria. Altre barche ancora, arrivavano in mare ma non sapevano come governarle. I più si gettavano direttamente in mare saltando dal ponte. Su decine di corde, calate dalle fiancate, c’erano grappoli di uomini appesi, molti erano senza salvagente. Diversi battellini di gomma, sparpagliati in mare, erano difficili da raggiungere ma anche più difficile riuscire a salirvi dentro. Dalle navi che erano accorse – racconta un altro marinaio – erano state calate delle scialuppe, ma rimanevano vuote perché la gente in mare, sfinita non riusciva a raggiungerle. Allora, molti di noi, si sono buttati in acqua per aiutarli. Mai avevo visto tanta gente disperata, annientata dal dolore per aver perso, magari un attimo prima, un amico, un congiunto. Intanto, sulle banchine dei porti di Monopoli, Brindisi e Bari, viene predisposto un imponente servizio di soccorso”.
Centinaia di privati misero a disposizione i loro mezzi, altri portarono in Capitaneria indumenti e coperte. L’incendio fu domato prima di notte e l’Heleanna fu tenuta prudentemente in rada mentre gli inquirenti tentarono di accertare le responsabilità dell’accaduto.
Pare che nella confusione generale, il Comandante del traghetto sia stato il primo a perdere la testa. Alcuni testimoni, infatti, affermarono che il capitano Anthipas abbia lasciato la nave subito dopo l’allarme, mentre la moglie, che era con lui sul traghetto, sostenne il contrario. Per la verità, un’evidenza ci fu e molti la testimoniarono in diverse sedi: il comandante Dimitrios Anthipas, giovanissimo e senza esperienza, giunse “asciutto” sulla banchina di Brindisi, e il 29 agosto del 1971 cercò addirittura la fuga, ma venne arrestato al varco frontaliero del porto di Brindisi, poco prima d’imbarcarsi furtivamente con la moglie su una nave diretta in Grecia. Il comandante venne arrestato con l’accusa di omicidio colposo e per abbandono della nave.
Dimitrios Anthipas sarà poi estradato in Grecia mentre chi ha perso tutto: auto, bagagli, valori, la stessa vita di moglie, figli, genitori e parenti non sarà neppure risarcito. Gli assicuratori si rifiuteranno di pagare per l’evidente violazione, da parte della nave, delle norme stabilite nelle polizze assicurative.
All’epoca del “sinistro”, le acque territoriali comprendevano una fascia di 6 miglia nautiche (11.112 KM), poi modificate per legge in 12 miglia dal 27 febbraio 1973), per cui il disastro avvenne in acque internazionali. Ma le Autorità italiane dichiararono la loro competenza a processare il comandante della nave poiché alcune vittime del disastro erano perite in acque territoriali italiane ed almeno una era morta in ospedale a Brindisi. Anche le autorità greche furono interessate al processo, in quanto la nave batteva bandiera ellenica.
L’Heleanna in fiamme
Notare la vicinanza del rimorchiatore che punta le spingarde antincendio sulla poppa dell’Heleanna
Targa commemorativa del naufragio a Monopoli
Dopo due anni e mezzo di sosta forzata nel porto di Brindisi, per il relitto dell’Heleanna giunse il momento del congedo, dell’ultimo trasferimento verso un Cantiere di Spezia che aveva il compito di demolirne una parte e trasformarne il resto in una chiatta portuale multipurpose.
Il rimorchiatore genovese ESPERO in navigazione
Rimorchiatore incaricato dell’ultimo viaggio apparteneva alla Società Rimorchiatori Riuniti di Genova, si chiamava ESPERO, era l’ultimo nato della flotta, 5.000 CV di razza, con una strumentazione d’avanguardia: elica intubata, towing winch(troller) modernissimo, elica di manovra a prora(bowthruster) ed una elettronica up to date applicata a tutti i suoi apparati. Chi scrive, era già stato per sette anni al comando di rimorchiatori portuale d’altomare; per motivi d’anzianità toccò a lui collaudare questo moderno “fuoriclasse”. Come? Per un puro caso, si presentò una duplice occasione.
Si trattava di rimorchiare in successione, due relitti, entrambi da Brindisi a La Spezia che all’epoca era il primo porto nazionale della demolizione navale.
Il primo era la petroliera SAN NICOLA della famosa Società Garibaldi, che aveva subito un’esplosione nella cisterna n.10 che squarciò la coperta della nave dando di sé una immagine terrificante.
La seconda era il traghetto passeggeri HELEANNA di cui ci siamo occupati in questo drammatica ricostruzione.
Lo squarcio in coperta della petroliera San Nicola
Testimonianza dell’autore:
Quando salii a bordo del “traghettone” per controllare la situazione generale e studiare gli attacchi di rimorchio, cercai invano di trovare un metro di lamiera liscia ed intatta.
In pratica, l’interno dello scafo era stato devastato completamente dalle altissime temperature provocate dall’incendio. Le lamiere dei ponti erano ondulate e bugnate come la pelle di un lebbroso. Delle 200 autovetture ancora presenti nel lunghissimo garage, erano rimasti gli scheletri deformati da un fuoco impietoso che era durato a lungo causando, purtroppo, vittime e sofferenze indescrivibili.
Avevo già compiuto un’ottantina di rimorchi in tutto il mondo, ma non mi ero mai trovato davanti a tanta devastazione, desolazione e tristezza.
Manovra d’uscita della HELEANNA da Brindisi
1° Problema
Quando andai sul castello di prora per approntare gli attacchi di rimorchio mi trovai di fronte ad una strana situazione: non sapevo dove attaccarmi. Il copertino deformato aveva piegato le bitte, sollevato il salpancore e indebolito ogni centimetro del castello.
Alla fine decisi di far passare alcune grosse cravatte d’acciaio da quei due passacavi in alto che sembrano
due occhi ai lati del tagliamare (vedi foto). Era come prendere un toro per le narici e vi assicuro che non
c’era altro da fare. Come attacco di riserva presi al “lazo” tutto il castello di prora evitando gli spigoli con coppi di gomma, legno, tanto grasso e sacchi di juta.
2° Problema
In precedenza ho accennato all’esplosione di una serie bombole di ossigeno sistemate vicino al timone
della nave; fu proprio questa la causa che bloccò l’organo di governo 15° a dritta costituendo un grande problema per la navigazione a rimorchio.
La soluzione del problema era nelle mani di un’officina specializzata che avrebbe raddrizzato il timone, ma dentro un bacino di carenaggio che nessuno era disposto a pagare…..
Mi dovetti rassegnare, pur sapendo che avevamo davanti 800 miglia di “navigazione manovrata”.
Infatti, appena allungammo il cavo e ci mettemmo in tiro, il rimorchio accostò sulla sua dritta.
Quando doppiammo Santa Maria di Leuca, il vento rinforzò e ci accompagnò fino all’arrivo.
Riuscimmo a tenere una velocità intorno alle 6 miglia, ma quando il vento aumentava nelle golfate, l’Heleanna ce la vedevamo al traverso e per rimettercela di poppa dovevamo allascare le bozze, far venire il cavo da rimorchio in bando e poi dovevamo ripartire “alla gran puta” per andare a riprendere il toro per le corna e rimettercelo di poppa.
Questa era la navigazione manovrata in cui si rischiava di strappare sia le bozze che il cavo da rimorchio.
Pendolammo per 20 ore a ridosso dell’Isola di Ischia, sia per controllare l’attrezzatura, ma soprattutto per
far scivolare verso Est una forte depressione che spingeva il rimorchio fino a sorpassarci, costringendoci
a vere acrobazie per non farci “prendere per il c…” Un’espressione marinara che rende perfettamente
l’idea di ciò che può succedere quando il rimorchio, non essendo in assetto di navigazione, prende il sopravvento, infrangendo quelle poche ma importanti regole
marinaresche, che si dovrebbero sempre rispettare.
Il 16.2.74 arrivammo finalmente a Spezia, e quando il mio amico pilota Nino Casaretto, il quale aveva subito l'esplosione nella cisterna n.10 che squarciò la coperta della nave dando di sé una immagine terrificante, venne a bordo per la manovra di consegna del relitto ai rimorchiatori locali, mi disse in dialetto:
“Ma non ti vergogni d’andare in giro con questo accidente... attaccato al sedere” ?
“Vergogna no! – gli risposi – A brindisi non vedevano l’ora di levarselo dal sedere e trovarne un altro
disposto al sacrificio. Dicono che nella vita bisogna provarle tutte! Eccomi qui, felice e contento d’essere arrivato!”
APPENDICE:
Rapporto Viaggio
Mi spiace! L'immagine non è leggibile, i numeri sono lì... fidatevi! Purtroppo i morti sono altrove. Che Dio li benedica!
UNO SCAMPATO PERICOLO....
La nostra socia Marinella Gagliardi Santi, notissima scrittrice e Skipper di lungo corso, dopo aver letto questo articolo, ha voluto rilasciarci la sua ESISTENZIALE TESTIMONIANZA. per la quale non possiamo che unirci felicemente a questa fantastica coppia di “marinai” per lo scampato pericolo!
"Il ricordo di quella tragedia mi ha toccato da vicino ancora di più, perché Rinaldo ed io, allora non ancora fidanzati, avremmo dovuto imbarcarci proprio sull'Heleanna! Mi aveva invitato ad andare in Grecia insieme a lui ma gli avevano detto che non c'era posto sull'aereo: al ritorno non ci sarebbe stato alcun problema perché avremmo preso proprio quel traghetto! Così io non sono partita con lui, lui si è imbarcato su un aereo in realtà completamente vuoto, e per il ritorno ha preso nuovamente l'aereo.
Pericolo scampato per un pelo, la sorte ha voluto così!"
Carlo-GATTI
Rapallo, 21.3.2013 / Rielaborato nella nuova versione del sito, venerdì 17 Maggio 2024
HELEANNA - Una ferita che brucia ancora
“HELEANNA”
Una ferita che brucia ancora
Il comandante Dimitrios Anthipas, un pessimo esempio di Comandante
Il 28 agosto 1971, a 15 miglia da Monopoli, un incendio scoppiò a bordo del traghetto greco “Heleanna”. Si trattò della più drammatica e funesta sciagura marittima accaduta in Adriatico nel dopoguerra. La tragedia costò la vita a 25 turisti imbarcati; 16 furono i dispersi, 271 feriti tra i 1089 i superstiti.
Sono trascorsi 42 anni dall’incendio della HELEANNA, ma il ricordo é sempre vivo, specialmente tra coloro che seguirono da vicino le operazioni di salvataggio, ma anche da tutti coloro che ben presto si resero conto che a bordo del traghetto viaggiavano 1174 passeggeri, quasi il doppio dei 620 consentiti, e duecento automobili. A quel punto l’apprensione si trasformò in pura rabbia e la stampa di allora definì “negrieri del mare” il comandante Antypas Dimitrios ed il suo armatore Efthymiadis.
Da dove uscì quel maxi-traghetto con la ciminiera a poppa come una petroliera?
Negli anni '60 l'armatore greco Constantino S. Efthymiadis comprò quattro petroliere svedesi per convertirle in traghetti passeggeri:
la MARIA GORTHON (rinominata PHAISTOS), nel 1963;
la SOYA-MARGARETA (rinominata MINOS), nel 1964;
la SOYA-BIRGITTA (rinominata SOPHIA), nel 1965;
la MUNKEDAL (rinominata HELEANNA), nel 1966.
Nel 1954 la nave cisterna Munkedal fu costruita dai cantieri Götaverken di Göteborg-Svezia. Ma il suo destino fu segnato dalla chiusura del Canale di Suez* che costrinse le petroliere a compiere il lungo e costoso periplo dell’Africa, linea che sarebbe risultata economica soltanto con l’introduzione del “gigantismo navale”. Così fu, e tutte le stazze minori, tra cui le petroliere svedesi sopra citate, furono messe fuori mercato.
* Nota: Dopo la GUERRA DEI SEI GIORNI del 1967, il canale rimase chiuso fino al 5 giugno 1975).
Da sempre i greci sono considerati validissimi marinai, ma anche un po’ spregiudicati. L’armatore C.S.Efthymiadis era un fedele garante di questa tradizione. La sua intuizione gli permise, infatti, di trasformare e reclamizzare la nuova unità come “il più grande traghetto del mondo”. Nel 1966, mantenendo il suo aspetto esteriore, la petroliera Munkedal fu ridisegnata al suo interno per la sistemazione di numerose cabine/passeggeri, mentre sulle fiancate dello scafo furono installati portelloni con rampe di nuova concezione per l’imbarco/sbarco di auto al seguito e mezzi pesanti. Rinominata Heleanna, il traghetto entrò in linea sulla rotta Patrasso–Brindisi-Ancona e ritorno.
La cronaca dell’incidente
Al momento del disastro l’Heleanna si trovava 25 miglia nautiche a Nord di Brindisi, a 9 miglia al largo di Torre Canne, più verso Monopoli. Proveniva da Patrasso ed era diretta ad Ancona con 1174 passeggeri e 200 mezzi (auto, tir e autobus).
Tutto ebbe inizio alle 05.30 del 28 agosto 1971 quando una fuga di gas dai locali della cucina, fra la panetteria, la riposteria ed il locale ristoro provocò un incendio a poppa. Si parlò di un corto circuito, forse una manovra errata di accensione dei polverizzatori della cucina, oppure di uno spandimento di gas liquido, ma anche di una possibile fuoriuscita di nafta dalla cassa di alimentazione della calderina. Alcuni testimoni affermarono che l’incendio prese il sopravvento solo quando il fuoco lambì le bombole di ossigeno facendole esplodere. Poco dopo successe un fatto molto anomalo: in una cala di poppa vicino al timone, scoppiò un’altra bombola d’ossigeno che bloccò istantaneamente l’organo di governo che era, in quel momento, posizionato 15° a dritta. Il traghetto, ormai in panne, ma ancora abbrivato, compì un’ampia accostata in cui il vento propagò l’incendio a tutta la nave.
L’Heleanna aveva in dotazione 12 scialuppe di salvataggio sufficienti per 600 persone, la metà delle persone imbarcate. Le inchieste promosse dalle Autorità dimostrarono che metà delle lance erano inutilizzabili per via degli argani bloccati dalla ruggine. Tra quelle calate a mare, una si ribaltò e precipitò in mare probabilmente per il sovraccarico. Gli idranti antincendio e i tutti i sistemi di soccorso non erano funzionanti. Le inchieste che seguirono dimostrarono che il traghetto, dal punto di vista della sicurezza, era da considerarsi sub-standard.
Il disastro causò 25 morti, 16 dispersi e 271 feriti, alcuni anche in modo grave. Le vittime erano di nazionalità italiana, greca e francese. Non appena il Comandante della nave lanciò l’SOS, soccorsi aerei e navali partirono da Brindisi, Bari, Monopoli e Grottaglie.
I soccorsi aeronavali partirono da Brindisi, Bari, Monopoli, Taranto e Grottaglie, anche con la partecipazione di alcuni pescherecci privati (Laura, Madonna della Madia, Angela Danese, Nuova Vittoria, S. Cosimo) che si attivarono con molta efficacia nella ricerca dei dispersi in mare ed al soccorso dei naufraghi. L'incendio venne domato dopo molte ore. Il relitto fu rimorchiato verso porto di Brindisi e fu ormeggiato nei pressi del castello Alfonsino.
I feriti sarebbero stati più numerosi se non fosse scattata con grande tempestività l’opera dei soccorritori. Il personale dei rimorchiatori locali della Società Barretta dovette avvicinarsi fino a pochi metri dalla nave per rendere efficace il getto delle proprie spingarde, sfidando temperature altissime e respirando gas di scarico e fumi micidiali, ma dovettero farlo per domare le lingue di fuoco che fuoriuscivano da tutta la nave minacciando di far esplodere i serbatoi di benzina degli oltre 200 mezzi che si trovavano nel garage. Fatto che purtroppo avvenne con tutte le sue tragiche conseguenze. Anche la città di Monopoli si prodigò per confortare i superstiti, dando una dimostrazione di grande generosità offrendo aiuto e accoglienza ai naufraghi dell'Heleanna. Il 15 ottobre del 1972 il Capo dello Stato Giovanni Leone conferì alla città la Medaglia d'Argento al Merito Civile in riconoscimento dell’antica tradizione di ospitalità e di civismo della sua popolazione.
“Quando siamo arrivati sul posto” - raccontò il proprietario di un peschereccio – “ci siamo trovati di fronte ad uno spettacolo agghiacciante. Lunghe lingue di fiamme uscivano dalla poppa impedendoci di avvicinarci troppo. Sul ponte del traghetto dilagava il panico. Centinaia di persone tentavano di calare le scialuppe senza riuscirvi, altre che scendevano con le barche liberate, rimanevano poi sospese e bloccate a mezz'aria. Altre barche ancora, arrivavano in mare ma non sapevano come governarle. I più si gettavano direttamente in mare saltando dal ponte. Su decine di corde, calate dalle fiancate, c'erano grappoli di uomini appesi, molti erano senza salvagente. Diversi battellini di gomma, sparpagliati in mare, erano difficili da raggiungere ma anche più difficile riuscire a salirvi dentro. Dalle navi che erano accorse - racconta un altro marinaio - erano state calate delle scialuppe, ma rimanevano vuote perché la gente in mare, sfinita non riusciva a raggiungerle. Allora, molti di noi, si sono buttati in acqua per aiutarli. Mai avevo visto tanta gente disperata, annientata dal dolore per aver perso, magari un attimo prima, un amico, un congiunto. Intanto, sulle banchine dei porti di Monopoli, Brindisi e Bari, viene predisposto un imponente servizio di soccorso”.
Centinaia di privati misero a disposizione i loro mezzi, altri portarono in Capitaneria indumenti e coperte. L’incendio fu domato prima di notte e l'Heleanna fu tenuta prudentemente in rada mentre gli inquirenti tentarono di accertare le responsabilità dell’accaduto.
Pare che nella confusione generale, il Comandante del traghetto sia stato il primo a perdere la testa. Alcuni testimoni, infatti, affermarono che il capitano Anthipas abbia lasciato la nave subito dopo l'allarme, mentre la moglie, che era con lui sul traghetto, sostenne il contrario. Per la verità, un’evidenza ci fu e molti la testimoniarono in diverse sedi: il comandante Dimitrios Anthipas, giovanissimo e senza esperienza, giunse “asciutto” sulla banchina di Brindisi, e il 29 agosto del 1971 cercò addirittura la fuga, ma venne arrestato al varco frontaliero del porto di Brindisi, poco prima d’imbarcarsi furtivamente con la moglie su una nave diretta in Grecia. Il comandante venne arrestato con l'accusa di omicidio colposo e per abbandono della nave.
Dimitrios Anthipas sarà poi estradato in Grecia mentre chi ha perso tutto: auto, bagagli, valori, la stessa vita di moglie, figli, genitori e parenti non sarà neppure risarcito. Gli assicuratori si rifiuteranno di pagare per l'evidente violazione, da parte della nave, delle norme stabilite nelle polizze assicurative.
All’epoca del “sinistro”, le acque territoriali comprendevano una fascia di 6 miglia nautiche (11.112 KM), poi modificate per legge in 12 miglia dal 27 febbraio 1973), per cui il disastro avvenne in acque internazionali. Ma le Autorità italiane dichiararono la loro competenza a processare il comandante della nave poiché alcune vittime del disastro erano perite in acque territoriali italiane ed almeno una era morta in ospedale a Brindisi. Anche le autorità greche furono interessate al processo, in quanto la nave batteva bandiera ellenica.
L'Heleanna in fiamme
Notare la vicinanza del rimorchiatore che punta le spingarde antincendio sulla poppa dell’Heleanna
Targa commemorativa del naufragio a Monopoli
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Dopo due anni e mezzo di sosta forzata nel porto di
Rimorchiatore incaricato dell’ultimo viaggio apparteneva alla Società Rimorchiatori Riuniti di Genova, si chiamava ESPERO, era l’ultimo nato della Si trattava di rimorchiare in successione, due relitti, entrambi da Brindisi a La Spezia che all’epoca era il primo porto nazionale della demolizione navale. Il primo era la petroliera SAN NICOLA della famosa Società Garibaldi, che aveva subito un’esplosione nella cisterna n.10 che squarciò la coperta della nave dando di sé una immagine terrificante. La seconda era il traghetto passeggeri HELEANNA di cui ci siamo occupati in questo drammatica ricostruzione. Testimonianza dell’autore:Quando salii a bordo del “traghettone” per controllare liscia ed intatta. In pratica, l’interno dello scafo era Quando andai sul castello di prora per approntare gli 2° Problema In precedenza ho accennato all’esplosione di una l’organo di governo 15° a dritta costituendo un grande problema APPENDICE: Rapporto Viaggio
Carlo GATTI
Rapallo, 21.3.2013
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TRAGEDIE NAVALI DEL NOVECENTO - Breve Storia
L'azzurra linea del Mediterraneo, questo incantatore ed ingannatore di uomini audaci, manteneva il segreto del suo fascino e si stringeva al calmo petto le vittime di tutte le guerre, le calamità e le tempeste della sua storia, sotto la meravigliosa purezza del cielo al tramonto.
da L'Avventuriero di Joseph Conrad
Breve Storia delle più gravi Tragedie Navali del Novecento
Tratto dall'Introduzione del libro
Genova: Storie di navi e Salvataggi di Carlo Gatti
Edizione bilingue Italiano-Inglese, Nuova Edizione Genovese-2003
Ciò che desideriamo proporvi è un viaggio virtuale nel XX secolo, attraverso un documentario fatto di poche parole e tante immagini che spesso si commentano da sole. Se la storia dell'umanità è purtroppo cadenzata dalle guerre, la storia del “marinaio” è tuttora evocata soprattutto per le sue immancabili e ripetute tragedie navali.
Ogni tragedia, si sa, reca con sé morte e orrore, ma la storia non può fermarsi ed ecco l'uomo rialzarsi dalla batosta e ripartire con regole nuove. Ogni naufragio diventa così una nuova luce che si accende sul cammino tecnologico e sul progresso scientifico navale.
La Marina Mercantile ha dovuto registrare, fin dall'inizio del XX secolo, numerosi disastri con gravissime perdite di vite umane e di navi. Tra i più drammatici si ricorda quello dl 23 gennaio 1909, che ebbe luogo nelle stesse acque in cui colò a picco quarantasette anni dopo l' Andrea Doria. Anche allora si trattò di una collisione; affondò una nave inglese, la Republic, speronata dal piroscafo italiano Florida. Il disastro costò la vita di sei persone; per la prima volta la maggior parte dei naufraghi fu salvata grazie all'impiego della radio.
E' forse bene qui ricordare che Guglielmo Marconi, il genio di Pontecchio, il 12 dicembre 1901, mentre si trovava in una capanna-laboratorio a Terranova (Nuova Scozia), ricevette tre brevi suoni: la “S” in alfabeto Morse, trasmessa dalla lontana Cornovaglia. Da quel giorno ebbe inizio la telegrafia senza fili.
Il 1912 fu un anno disastroso. Il 5 marzo il piroscafo spagnolo Principe de Asturias finì su una scogliera presso Cabo S.Sebastian, 500 passeggeri annegarono. Un mese dopo, il 15 aprile, durante il viaggio inaugurale, il grande transatlantico Titanic, che negli anni del primo Novecento era considerata la più bella e più sicura nave del mondo, urtò contro un iceberg e colò a picco trascinando con sé 1.513 tra passeggeri e uomini dell'equipaggio.
Un'altra collisione avvenne nell'estuario del S.Lorenzo il 29 maggio 1914. Affondò il vapore Empress of Ireland e nella catastrofe morirono 1.024 persone. Il 7 maggio 1915 il sommergibile tedesco U-20 affondò il transatlantico inglese Lusitania. Fu questo forse, l'avvenimento che volse l'opinione pubblica mondiale contro la Germania. La grande nave apparteneva alla famosa Società inglese Cunard Line, veniva dall'America e trasportava 1916 passeggeri, di cui 146 americani. Ne morirono 1.152, solo 764 si salvarono, ma non certo ad opera del sommergibile di Schwieger, che senza intimare l'Alt , come vuole la legge di guerra, colò a picco la nave senza prima aver fatto sbarcare i passeggeri, che poi abbandonò alla loro sorte, quando il codice d'onore di ogni marinaio impone il soccorso dei naufraghi.
La tragedia del Lusitania suscitò dovunque orrore ed indignazione e contribuì alla decisione degli Stati Uniti di entrare in guerra a fianco degli Alleati. Il 24 luglio 1915, sui grandi laghi americani, altra grave perdita: l'affondamento della Estland e la morte di 811 passeggeri.
Tra le due guerre, il primo grande disastro navale avvenne il 25 ottobre 1927 al largo delle coste brasiliane. Andò a picco un transatlantico italiano, il Principessa Mafalda e con esso il mare ingoiò 314 persone. Il tragico fatto commosse il mondo anche per l'eroico sacrificio del comandante Simone Gulì. I suoi marinai, che si allontanavano piangendo sulle scialuppe, videro l'alta figura dell'Ufficiale, eretta sul ponte di comando, fino a quando il Mafalda s'inabissò con l'uomo che l'aveva guidata per tanti anni.
Un anno dopo, il 12 novembre 1928, il vapore inglese Vestris scomparve durante una burrasca al largo della Virginia con 110 persone. Altre 450 vittime si ebbero il 14 giugno 1931 davanti a Saint Nazaire, con l'affondamento di un traghetto costiero. Meno spaventoso, ma non per questo di minor gravità, un'altra catastrofe di quegli anni: l'incendio del Morro Castle al largo delle coste americane, l'8 settembre 1934, con 130 morti.
L'ultima grande sciagura del periodo prebellico fu l'incendio, davanti alla costa catalana, della motonave italiana Orazio. Il sinistro avvene il 22 gennaio 1940 e provocò 104 vittime. Dopo la dichiarazione di guerra di Mussolini del 10.6.1940, nel Regno Unito furono internati 4.000 italiani, un migliaio dei quali perirono nell'affondamento della Arandora Star . Erano cittadini italiani, civili, fatti deportare come “stranieri nemici”.
Stessa sorte toccò a 3.000 prigionieri di guerra, nella maggior parte italiani, imbarcati sulla nave trasporto inglese Laconia (20.000 T.S.L.) colata a picco dal sommergibile tedesco U-156 il 13 settembre 1942. “Il Caso Laconia” fu portato davanti al Tribunale di Norimberga. Le navi mercantili italiane, requisite e militarizzate dal governo durante il conflitto e poi affondate, catturate, alienate e distrutte dal nemico furono 2.556.
La Liguria pagò il suo tributo alla nazione con la perdita di oltre 500 navi mercantili. Nel conto non sono inclusi i pescherecci ed il naviglio minore. Lo storico navale Maurizio Brescia, nelle sue preziose ricerche, ci ricorda quanto segue:
- da “ Cacciatorpediniere classe Navigatori” (Albertelli-Parma 1995): Il 18 settembre 1941, in posizione 33°02'N-14°42'E, il sommergibile Upholder silurava ed affondava i transatlantici Oceania e Neptunia. (Dei 5.818 uomini a bordo delle due navi, ne morirono 384 ). Il Da Recco , capo scorta, recuperò ben 2.083 naufraghi delle due navi e protesse poi il rientro a Napoli del Vulcania, unico superstite del convoglio”.
- da: “Cacciatorpediniere classe Freccia/Folgore/Maestrale e Oriani” (Albertelli-Parma, 1997): “…Quando la formazione si trovava ormai sulla rotta di sicurezza per l'entrata a Tripoli, alle 10.20 del 20 agosto 1941, il sommergibile inglese Inique silurò ed affondò l'Esperia ; le unità di scorta recuperarono complessivamente 1.139 naufraghi, e tra questi 417 furono salvati dallo Scirocco …”
- “..La 3° Divisione assicurava la protezione a distanza della formazione e, vista l'importanza della missione, a bordo del Conte Rosso si trovava il contrammiraglio Canzonieri nella veste di capoconvoglio. Le numerose unità di scorta, la cui consistenza era stata rinforzata, all'altezza di Messina, da tre ulteriori torpediniere, non poterono però impedire il siluramento del Conte Rosso avvenuto alle 20.41 dello stesso 24 maggio, da parte del sommergibile britannico Upholder…”
Una vasta eco ebbe la perdita del glorioso Conte Rosso, militarizzato ed adibito al trasporto truppe. L'affondamento avvenne mentre navigava in convoglio a poche miglia da Siracusa. Morirono 1.300 dei 2.729 militari che si trovavano a bordo, diretti in Libia. Durante l'ultima guerra, la Marina Mercantile subì gravi perdite, indipendentemente dalle operazioni militari, come l'esplosione nel porto di Bari, il 9 aprile 1945, di un cargo americano: 360 vittime, e l'affondamento al largo di Danzica del vapore tedesco Wilhelm Gustloff , il 18 febbraio 1945; catastrofe in cui trovarono la morte di oltre 10.000 fuggiaschi che cercavano di sottrarsi all'avanzata russa e che può pertanto essere considerata la più spaventosa di tutta la storia della Marina.
Nel dopoguerra si ebbero gravi sciagure specialmente nei mari orientali. Il 3 dicembre 1948 saltò in aria il piroscafo cinese Kiangya e morirono 1.000 persone. Un mese dopo un'altra nave cinese, il vapore Taiping, speronò una carboniera; entrambe colarono a picco trascinando nel mare 600 vittime.
Negli altri mari si registrarono le perdite del Noronic , incendiatosi al largo di Toronto e vi furono 130 morti, e del cargo Pennsylvania abbandonato il 9 gennaio 1952, 45 furono i dispersi. Gli ultimi nomi della tragica lista sono: il vapore coreano Chang Tyong Ho, affondato il 9 gennaio 1953 con 249 persone; il ferry-boat inglese Princess Victoria inabissatosi il 31 gennaio dello stesso anno con 133 passeggeri; il cargo Hobson speronato dalla portaerei Wasp il 26 aprile 1953 ( 176 dispersi); il passeggero francese Monique scomparso il 1° agosto dello stesso anno nel Pacifico con 120 passeggeri ed infine il traghetto giapponese Shinan Maru , affondato l'11 maggio 1955 con 138 passeggeri.
Il 25.7.1956 l'Italia e la Liguria in particolare caddero nella disperazione per l'affondamento della Andrea Doria , speronata nella nebbia dalla nave passeggeri svedese Stockholm . L'orgoglio della nostra flotta trascinò con sé verso i fondali di Nantucket 54 vittime di quel tragico disastro.
Poi ci fu la straordinaria espansione della traghettistica, dovuta in parte all'assorbimento dei traffici delle navi di linea ormai scomparse, e in parte alle tariffe favorevoli rispetto all'aviazione a corto raggio, ma soprattutto per l'aumento costante del turismo di massa. Purtroppo, a questo trend commerciale favorevole se ne contrappose uno molto negativo sul piano della sicurezza navale.
L'8 dicembre 1966 il traghetto Heraklion si scontrò con un rimorchiatore nel mar Egeo. I morti furono 264 . Il 28 agosto 1971 il traghetto Heleanna s'incendiò poco prima dell'arrivo a Brindisi, morirono 25 passeggeri. Lo scafo del traghetto, letteralmente devastato e deformato dal fuoco, fu preso a rimorchio dal M.re Torregrande che lo consegnò ai Cantieri della Spezia per essere demolito.
Il 6 marzo 1987 il traghetto Herald of free Enterprise affondò nella Manica al largo del porto belga di Zeebrugge. Le vittime furono 193 . Il 21 dicembre 1987 al largo dell'isola di Marindique, Filippine, nello scontro tra il traghetto Dona Paz ed una petroliera, morirono almeno 4.000 persone, molte divorate dagli squali. Si trattò del più recente e grave incidente nel mondo. Il 7 aprile 1990 sul traghetto Scandinavian Star scoppiarono tre incendi e morirono 186 persone.
Il 29 aprile 1990 il traghetto Espresso Trapani affondò al largo del porto di Trapani, morirono 13 persone. Il 10 aprile 1991, nella rada del porto di Livorno, il traghetto Moby Prince entrò in collisione con la super petroliera Agip Abruzzo che era alla fonda. I morti furono 141 . Il 14 gennaio 1993, nel mar Baltico, al largo dell'isola di Ruegen, a causa del mare tempestoso, si rovesciò il traghetto polacco Jan Heweluisz. I morti furono 54.
Il 28 settembre 1994 il traghetto Estonia (foto sotto) affondò nel mar Baltico, nei pressi dell'isola di Utoe. Morirono 852 persone. Dalla superfice degli oceani spariscono mediamente 100 navi ogni anno. Soltanto una piccola parte di loro ci viene raccontata dai media e si tratta solitamente di navi famose, sia per la loro grandezza o semplicemente per i danni ecologici procurati all'ambiente. Per qualche tempo le paure deflagrano scoppiettanti sulle cronache, poi il silenzio!
Lo stesso triste spettacolo ci accompagna ogni sera dell'anno in TV, con la conta dei morti sulle strade. Il loro numero, almeno nel nostro Paese, ha eguagliato le vittime italiane della seconda guerra mondiale. Ma c'è una specie di rassegnazione diffusa di fronte al fato che si presenta come una forza soprannaturale che non lascia scampo.
Noi pensiamo più semplicemente che la deregulation sia il vero nemico da combattere in mare, nei porti e sulle strade. Così come pensiamo che le parti politiche che si fronteggiano in Parlamento, dovrebbero, almeno nel nome dei morti dell'intero settore dei trasporti, trovarsi d'accordo sull'esercizio di una politica austera, che fosse in grado di colpire i moderni “corsari” senza paura di perdere, ognuno, i propri consensi elettorali.
Carlo GATTI
Rapallo, 21.3.2013
La Storia della M/n FAIRSEA
LA STORIA DELLA NAVE PASSEGGERI
FAIRSEA
SITMAR LINE
OGNI NAVE HA LA SUA STORIA. OGGI CI OCCUPIAMO DI UNA NAVE CHE NACQUE NEGLI STATI UNITI COME C-3 Class - FU TRASFORMATA IN ESCORT CARRIER – VISSE A LUNGO COME NAVE PASSEGGERI CON IL NOME FAIRSEA ED EBBE UN TRISTE EPILOGO: SUBI’ UN INCENDIO IN SALA MACCHINE, FU RIMORCHIATA - IN EMERGENZA - A PANAMA DA UNA NAVE DA CARICO. IL SUO COMANDANTE, CAP. S.L.C. CIRO CARDIA SI CARICO’ TUTTO IL PESO DELLA PERDITA DELLA SUA NAVE E, DA VERO UOMO DI MARE DI VECCHIO STAMPO, SI TOLSE LA VITA NELLA SUA CABINA. POCO TEMPO DOPO, QUALE COMANDANTE DEL RIMORCHIATORE OCEANICO VORTICE, FUI INCARICATO DAI MIEI ARMATORI GENOVESI DI DIRIGERE VERSO LA SPONDA ATLANTICA DEL CANALE DI PANAMA PER PRENDERE A RIMORCHIO LA NAVE PASSEGGERI FAIRSEA CHE SI TROVAVA ANCORATA NELLA RADA DI COLON. IL CANTIERE LOTTI DI SPEZIA L’ATTENDEVA PER COMPIERE L’ULTIMO ATTO DELLA SUA LUNGA E GLORIOSA CARRIERA: LA DEMOLIZIONE.
Nel primo dopoguerra, si creò negli USA un notevole surplus di navi che diede luogo ad un mercato mondiale dell’usato. Molte nazioni europee in seria difficoltà nel settore dei trasporti marittimi, tra cui l’Italia, colsero la grande opportunità per far ripartire il volano dell’economia. Nel 1938 l’armatore Alexander Vlasov fondò la SITMAR (Società Italiana Trasporti Marittimi) e nel 1947 acquistò dal Governo USA la sua prima nave: Vassar Victory (Cl. Victory) che fu trasformata per il trasporto di 1.132 emigranti e fu ribattezzata Castelbianco. La nave operò con bandiera italiana per la IRO (International Refugee Organisation). Nel 1952 fu parzialmente ricostruita e ritornò in servizio come Castelbianco (vedi foto sotto) con la stazza lorda aumentata da 7.604 a 10.139.
M/n Castelbianco
Dopo alcuni viaggi per l’Australia, prese servizio sulla linea del Brasile-Plata, poi ritornò sulla linea per l’Australia. Nel 1950 fu acquistata dalla SITMAR e fu ribatezzata Castelverde.
M/n Castelverde
Nell’ottobre del 1950 fu acquistata la nave passeggeri Fairstone di 12.450 t.s.l.
M/n Castelfelice
ribatezzata Castel Felice (nella foto) che fu messa inizialmente sulla linea dell’Australia, poi su quella centro americana e successivamente su quella del Brasile-Plata. La SITMAR introdusse l’alternanza stagionale dei viaggi sulle rotte di maggior traffico: nel periodo invernale, dal Nord Europa per l’Australia e la Nuova Zelanda - via Suez oppure via Panama, e nel periodo estivo dal Nord Europa per il Canada e gli USA. Le due Castelbianco e Castelverde furono trasformate in moderne navi per il trasporto di un migliaio di passeggeri ciascuna e furono messe sulla linea Nord Europa-Centro America.
Portaerei di scorta Attacker
Sullo scafo della portaerei Attacker (foto sopra) fu costruita la Castelforte (1950-1960) che divenne Fairsky (1960-1977) che poteva trasportare, con aria condizionata, 1.462 passeggeri. La linea per l’Australia-N.Zelanda fu inaugurata nel 1958 con partenza da Southampton.
Come annunciato all’inizio, ora prendiamo in esame l’ultima nave passeggeri acquistata dalla SITMAR, la FAIRSEA, già portaerei di scorta Charger (foto sotto). Questa nave seguì lo stesso percorso iniziale della Castelbianco. Nel luglio 1958, dopo un refitting che gli consentì il trasporto di 1.412 passeggeri, inalberò la bandiera italiana ed entrò in linea fissa per l’Australia.
Portaerei di scorta HMS Charger
La nave iniziò la sua carriera con il nome: HMS Charger
M/n Fairsea
La nave FAIRSEA terminò la sua carriera con questo “shape” della metà degli anni ‘60.
Una bella immagine portuale del Fairsea a Fremantle (Perth)-Australia
La FAIRSEA nacque come nave della Classe C3, (1)* da carico-passeggeri, con il nome di RIO DE LA PLATA per la Moore-McCormack Lines. Fu costruita dal Cantiere Shipbuilding & Drydock Co, Chester USA. Fu varata il 1 marzo 1941. Aveva un piccolo record, si trattava della prima (con tre gemelle) ad essere propulsa da un potente motore Diesel costruito in USA. Nella sua veste di cargo-passengers ship, era destinata a trasportare merce varia e 70 passeggeri da New York al Sud America. Ma prima di essere completata, fu rilevata dal Governo USA e trasformata in Portaerei di scorta per la US Navy e, infine fu rinominata HMS CHARGER e fu ceduta alla Royal Navy inglese. Entrò in servizio il 3 marzo 1942. La nave fu adibita alla scorta dei convogli in Nord Atlantico e dovette superare numerosi momenti critici, ma ne uscì sempre indenne. Più tardi la nave fu restituita alla US Navy cambiando la sigla iniziale HMS in USS CHARGER e fu impiegata in Pacifico servendo gli S.U. con valore.
La Charger concluse il suo periodo di militarizzazione il 15 marzo 1946 e ritornò presso il Cantiere Moore-McCormack che la costruì. Fu rimosso il ponte di volo e fu convertita in trasporto truppe. Questo servizio fu breve e presto fu inserita nella RESERVE FLEET (Mothball) insieme a molte altre navi della sua stessa classe sul James River e fu messa in vendita sul mercato che in quegli anni era molto attivo a causa delle perdite belliche subite dalle nazioni belligeranti.
La FAIRSEA iniziò la sua carriera con un noleggio di tre viaggi per la IRO (International Refugee Organisation), da Napoli a Melbourne (Australia) via Suez a partire dall’11 maggio 1949. La nave ritornò sempre vuota dall’Australia per questioni contrattuali, quindi, in quel periodo, non era ancora un SITMAR Liner.
Dalla cruda e semplice descrizione di quei tre viaggi della salvezza non emerse mai nulla, almeno in Italia, delle tragedie umane di quei 6.000 profughi europei che si lasciarono alle spalle storie di campi di concentramento, di bombardamenti, di violenze, di fame e miseria. Tutto finì nell’oblio della liberazione per favorire la ripartenza verso una nuova vita ispirata, finalmente, a valori di civiltà e libertà.
L’11 maggio la FAIRSEA partì con 1.896 persone a bordo, inclusi 457 bambini che erano stati liberati da diversi campi europei. La nave passò il Canale di Suez il 18 maggio e dopo una breve sosta a Fremantle diresse a Merlbourne dove attraccò l’8 giugno al Prince’s Pier. Ritornò vuota a Napoli, ripartì nuovamente per l’Australia il 21 luglio con 1.896 persone a bordo. Sebbene sei nazioni fossero rappresentate a bordo, ben 660 erano profughi polacchi. La nave sostò a Fremantle e continuò gli sbarchi a Newcastle (Aust.) il 19 agosto 1949. Il terzo viaggio della FAIRSEA ebbe inizio il 23 settembre a Napoli e si concluse il 19 ottobre a Merlbourne con lo sbarco di 1.890 profughi.
La M/n FAIRSEA, finalmente sotto il controllo della SITMAR e, al comando del Comandante rivierasco Stagnaro, partì il 3 dicembre, arrivò a Sydney il 31 dicembre ed ormeggiò alla banchina N°13 Pyrmont. Ma questa volta la nave potè finalmente imbarcare passeggeri anche per il ritorno in Italia. Pur restando immutata la destinazione finale: l'Australia, cambiò l’itinerario. Il porto di partenza diventò Bremerhaven.
Lo Stemma sociale riporta la V dell’armatore Vlasov
31 dicembre 1949. La M/n FAIRSEA durante il suo viaggio inaugurale come “nave passeggeri di linea” (2)*
Questa cartolina fu stampata nel gennaio 1954
Nel novembre del 1953, mentre si trovava ormeggiata a Merlbourne, scoppio un incendio in sala macchine che presto fu domato con il completo allagamento del locale. Fu svuotata e ripulita e la nave continuò i suoi viaggi.
La FAIRSEA fotografata nel 1954 con una nuova ciminiera ed un nuovo albero (tripode) sul ponte di comando.
Nel dicembre 1953, la FAIRSEA subì alcuni ritocchi estetici alla ciminiera e nell’albero. Avendo navigato regolarmente intorno all’Australia, fu soltanto nel febbraio 1957 che essa intraprese the home voyage navigando, per la prima volta, verso Est compiendo il suo viaggio inaugurale verso la Nuova Zelanda e proseguendo la traversata dell’Oceano Pacifico fino a Panama, che attraversò per la prima volta.
Manifesto Pubblicitario
Nel 1957, la FAIRSEA subì altre trasformazioni nel Cantiere di Trieste. Fu aggiunto un ponte sul deck promenade, una stiva diventò piscina e fu installata l’aria condizionata, furono migliorate le cabine che furono in grado di ospitare 1.460 passeggeri. La stazza lorda fu portata a 13.432 GRT. Gli interni assunsero l’Italian Style e, al suo completamento, risultò un’elegante unità.
Sopra e sotto: La FAIRSEA dopo l’ultimo refitting del 1957. Sebbene lo shape dello scafo ricordasse ancora la Classe C3, le sue linee erano molto migliorate.
La M/n FAIRSEA nel 1961
Essendo ancora sotto 'contratto governativo', la FAIRSEA continuò il trasporto dei passeggeri inglesi verso l’Australia e la Nuova Zelanda. Nel 1961 si sottopose ad un ulteriore refitting per migliorare l’accoglienza dei passeggeri. Nel nuovo progetto di ristrutturazione, la capacità passeggeri diminuì fino a 1.212. Facendo leva sulla popolarità acquisita negli anni da questa nave italiana, la Sitmar decise di impiegarla - in anteprima - come nave da crociera. La FAIRSEA partì da Sydney il 7 luglio 1966, visitando Cairns, la Grande Barriera Corallina (Hayman Island) e Merlbourne. Anche in seguito, nell’intervallo tra due viaggi di linea, era impiegata in crociere occasionali.
Dati Nave:
Costruito dal: Sun Shipbuilding & Dry Dock Co, Chester USA
Yard Nr: 188
Tonnellaggio: 11,678 GRT (di costruz.)-13,432 GRT come Fairsea dopo refit-1958
Lunghezza: 492ft / 150 mt.
Larghezza: 69.2ft / 21.1 mt.
Pescaggio: 24.ft / 7,20 mt.
Motore: Doxford Geared Diesels by the builder - 9,000 CV
Screws: Una Elica
Velocità: 16 nodi – 17 max
Passeggeri: 1,800 Classe Unica
40 in 1° classe e 1400 in Classe Turistica
Fully air-conditioned
La FAIRSEA fotografata a Wellington-New Zealand – 1967
Il 14 gennaio 1969, la FAIRSEA partì da Sydney con 986 passeggeri diretti a Southampton (UK). Il 23 gennaio, quando si trovava 900 miglia a Ovest del Canale di Panama scoppiò un incendio nel locale macchine. La nave rimase in panne, cessò di funzionare la maggior parte dei servizi e degli impianti: motori ausiliari-elettrogeni, cucina, aria condizionata, bagni, acqua distillata ed altro.
SS Louis Lykes vista dal lato dritto della FAIRSEA
Photograph © Peter Bradford
Il primo tentativo di salvataggio fu operato da un rimorchiatore oceanico, ma fallì perché il mezzo rimase senza carburante. Il travaso di nafta (non appropriata) dalla nave mandò definitivamente in avaria il rimorchiatore. Passarono ben sei giorni prima che giungesse la nave da carico SS Louise Lykes che rispose alla chiamata di soccorso e che la rimorchiò felicemente a Balboa. Durante la lunga attesa, il Comandante Ciro Cardia ed il suo equipaggio dovettero fronteggiare la comprensibile reazione di 1000 passeggeri che sentendosi abbandonati dal mondo, reclamavano l’essenziale per sopravvivere in un ambiente per loro diventato ostile e incerto. Le condizioni meteo, per fortuna, si mantennero buone, ma non si può ignorare che la paura fosse ormai diventata la vera responsabile della pesante tensione psicologica che il comandante Cardia dovette fronteggiare con un grande dispendio di energie nervose. Dopo essere entrato in contatto con la nave soccorritrice ebbe, infine, la certezza che tutto si sarebbe risolto per il meglio. Ma l’uomo aveva ormai dato tutto ciò che gli era rimasto dentro per la sua nave, i suoi passeggeri e per il suo amato equipaggio. Al termine di quei sei giorni di grande pena, sentì d’aver assolto il suo compito di uomo di mare e per scusarsi di colpe a lui non imputabili, donò la propria vita pensando di salvare il proprio onore di “antico” capitano.
A questo punto possiamo aggiungere ancora alcuni particolari che mi sono stati descritti da un socio-Comandante di Mare Nostrum che navigò, poco dopo, con un ufficiale del comandante Ciro Cardia. Dalla descrizione di quello sfortunato uomo di mare, emerge la figura di un Capitano molto preparato, coscienzioso, prudente e molto amato dal suo equipaggio. Era un uomo all’antica, di grande prestigio e onore, più simile ai Comandanti di una volta che battevano tutti i mari preferendo rispondere direttamente a Dio del proprio operato, piuttosto che scendere a compromessi con assicurazioni, armatori, banche, autorità varie, raccontando storie più o meno vere tendenti a vendere soltanto la propria dignità. Attenzione quindi ad emettere giudizi o, ancor peggio, sentenze che siano in sintonia soltanto con i noti disvalori di quest’epoca, in cui si muovono tanti marinai “da tempo buono” .... e pochi uomini d’onore!
I danni subiti dalla FAIRSEA, specialmente in macchina, furono giudicati molto gravi; all’armatore non rimase che l’unica scelta possibile, la più triste, venderla ad un demolitore italiano.
RIENTRO ALLA BASE
M/R Vortice - 8.000 CV
Il ritorno in Italia della FAIRSEA a rimorchio del VORTICE fu inondato di sole e di bonaccia, dalla partenza da Colon, avvenuta il 9 luglio 1969, fino all’arrivo a Spezia. La potenza del rimorchiatore oceanico, tra i più “mastini” al mondo di quell’epoca, era di poco inferiore a quella della nave in esercizio, pertanto La velocità fu molto alta, intorno alla 8 miglia di media, con punte di nove miglia/h evitando sforzi inutili. (4)* Il viaggio durò 27 giorni e fu caratterizzato da un’anomala atmosfera di mestizia che toccò ognuno di noi nel profondo del cuore. All’arrivo del convoglio a Spezia, il dott. Lotti, titolare dell’omonimo Cantiere di demolizione e ultimo proprietario della FAIRSEA, mi chiese se poteva omaggiarmi di un ricordo della nave. Insieme ci recammo a bordo e lo condussi nella cabina del Comandante. Aprii un armadio dove avevo messo al sicuro la strumentazione della nave, indicai il SESTANTE di bordo e gli dissi: quello strumento é il simbolo della nave e del suo Capitano, lo vorrei custodire come una reliquia alla memoria di un vero uomo di mare. Sono passati quasi 45 anni e ogni mese ancora lo pulisco come se dovessimo usarlo insieme.
Note:
1*- Nel 1936, con il “Merchant Marine Act”, il Congresso approvò l’istituzione della United States Maritime Commission (USMC), con l’incarico di creare una nuova flotta mercantile moderna ed efficiente, da costruirsi negli Stati Uniti per assicurare i commerci americani via mare. Inoltre, le nuove navi dovevano risultare idonee all’impiego per compiti militari e ausiliari in caso di guerra; al vertice dell’USMC fu nominato l’ammiraglio Emory S.Land. I mercantili progettati dall’USMC vennero contraddistinti dalle sigle C-1, C-2, e C-3, ove “C” indicava il tipo “Cargo” mentre i numeri 1, 2, 3 ne indicavano la lunghezza (rispettivamente inferiore a 400 piedi, tra 400 e 450 piedi e superiore a 450 piedi - < 120m, tra 120 e 135 m, > 135 m. I progetti di altri tipidi unità erano identificati da ulteriori prefissi: T/”Tanker”) per le petroliere, P (“Personnel”) per i trasporti truppa ecc; tutte le nuove costruzioni erano propulse da apparati motore a vapore, in grado di imprimere velocità tra i 14 e i 16 nodi.
2* - La SITMAR (Soc.Italiana Trasp.Marittimi) fu fondata da un emigrato di nazionalità russa, tale Alexandre Vlasov. Egli lavorò nel settore marittimo con navi di diversa nazionalità, da quelle italiane a quelle inglesi e greche, prima, durante e dopo la 2^ guerra mondiale, da non confondere con l'altra Sitmar fondata a Roma nel 1913.
La Sitmar di Vlasov aveva una grande V sui lati dei fumaioli così come la bandiera sociale.
3* - Un discreto numero di navi USA, della classe C-3, furono convertite in navi-trasporto emigranti, inclusa la Mormacma, gemella della FAIRSEA che diventò la German Seven Seas, noleggiata dalla Holland America Line. Essa operò in Canada, US, Australia ed anche in Nuova Zelanda, anche come nave da crociera. Altre diventarono: Flaminia (Cogedar), Roma e Sydney (Flotta Lauro) anch’esse impiegate sulla rotta della Australia e Nuova Zelanda.
4* - Il Vortice disponeva di un cavo da rimorchio da 56 m/m sul winch automatico (troller) della lunghezza di 2.000 metri. Sulla prua della nave approntammo una "patta d’oca di catena" di grande diametro data volta alle bitte. I due penzoli scendevano dai due passacavi fino ad un paio di metri sull’acqua. Tra il cavo del ‘troller’ e la patta d’oca venne ingrillato un gherlino di Perlon (nylon) da 120 m/m per dare elasticità al convoglio. I runners di bordo (personale del Cantiere italiano) provvedevano a ingrassare le parti di frizione dei componenti del rimorchio e controllavano eventuali usure e sforzi anomali. La nave aveva i fanali di navigazione regolamentari alimentati da bombole di gas provviste di cellule solari che venivano sostituite dai runners permanentemente collegati al Vortice via Walkye-Talkye. Numerose sono state le visite a bordo, tramite lo ‘zodiac’ per il controllo generale dello scafo e delle attrezzature in lavoro.
- L’intento principale della nostra Associazione é la divulgazione della Storia Navale il più possibile aderente alla verità. Per questo motivo, la storia della FAIRSEA é stata (in parte) liberamente tradotta dal sito ufficiale della SITMAR LINE dal sottoscritto webmaster Carlo Gatti, autore dell’articolo. Ringrazio pertanto la Società per la concessione.
- Ringrazio infine il socio comandante Nunzio Catena per le ricerche storiche effettuate e per i contatti avuti con i testimonials dell’epoca.
Carlo GATTI
Rapallo, 8.1.2013
UN CICLONE DA LIBECCIO devastò il Porto di GENOVA (19.2.1955)
Genova, 19.2.1955
UN INFERNALE CICLONE DA LIBECCIO
Frantumò oltre 400 metri di diga, irruppe nello scalo genovese e fece strage di moli e di navi.
Dalla Relazione sui Pilotaggi effettuati nel Porto di Genova
durante il Ciclone del 19 febbraio 1955.
Notizie meteorologiche.
Fin dalle prime ore del venerdì 18 febbraio 1955 si prospettava maltempo; una fortissima depressione gravava sul Golfo di Genova estendendosi alle due Riviere. Al mattino del sabato 19 febbraio 1955 il mare era gonfio. Grosse ondate investivano paurosamente la diga foranea di protezione al nostro porto.
Mare e vento fortissimo di libeccio avevano già aperto delle piccole brecce nella diga stessa; con l’alzata del sole, il tempo si faceva sempre più minaccioso; verso le 14.00 il tempo era ciclonico con onde altissime che frangevano tanto violentemente contro la diga da causarne – tra le 14 e le 15 – la rottura e lo sfondamento all’estremità del Bacino di Sampierdarena per circa 400 metri. In tal modo grosse ondate investivano l’ormeggio al Pormolio, e alle calate viciniori, provocando ingentissimi danni alle opere portuali, alle navi e ai natanti situati nella zona. Fortunatamente nessuna vittima umana.
Alle 15.00 si avvertivano, via radio, tutte le navi dirette a Genova che, data la forza del mare, la pilotina attendeva a ridosso, all’imboccatura di levante del Porto, non potendo fare servizio fuori, essendo pericoloso per le navi fermarsi per l’imbarco del pilota stesso, si davano istruzioni sulla manovra da seguire.
Quanto esposto é cosa più unica che rara per il Porto di Genova; una cosa normalissima per i porti del Mare del Nord. Nessuna nave, per ovvii motivi di prudenza, si é avvicinata al porto; solo alle 17.00, la nave Città di Catania, si é presentata ed é stata abbordata dalla pilotina con le norme sopra citate.
I Fatti:
Già da alcuni giorni, forti mareggiate avevano martellato Genova e le due riviere con estrema violenza. Verso le 15 la diga foranea del porto (zona di ponente) crollò come sotto i colpi di un maglio. Da quel momento il mare vivo trovò via libera, e nella zona tra ponte Canepa, molo N.Ronco e calata Derna successe l’inferno.
I Danni:
La petroliera Camas Meadows, posizionata di punta (due ancore a mare, poppa a terra) a calata Derna, ruppe tutti gli ormeggi e trovatasi in balia delle onde, andò a colpire ripetutamente le navi vicine e le opere portuali. Infine s’inclinò paurosamente fino a capovolgersi per poi apparire come una grossa balena morente.
L’altra petroliera presente in zona, la Atlantic Lord che era posizionata tra i due denti del molo N.Ronco, rotti gli ormeggi e danneggiate le banchine, cominciò a brandeggiare sulle ancore e a colpire con la poppa calata Derna e la Camas Meadows. Urti fragorosi produssero falle e fuoriuscita di carburante. I rimorchiatori riuscirono ad agganciare la nave ma poi strapparono i cavi. La lotta ingaggiata dai piloti, rimorchiatori, ormeggiatori e vigili del fuoco contro le forze scatenate della natura durarono a lungo, mentre a non troppa distanza si andava consumando un’altra catastrofe.
Ormeggiato a ponte Eritrea ponente, il cargo svedese Nordanland, sospinto dal mare vivo e dalla fortissima risacca, urtò e si lesionò lentamente contro la banchina d’ormeggio. Dalle numerose falle penetrò acqua di mare che lentamente entrò in contatto con le 400 tonnellate di acetilene (carburo), contenuto in barilotti nelle stive centrali della nave.
Quando la nave cominciò a sbandare, il comandante svedese fece evacuare l’equipaggio e subito si udirono i primi colpi sordi, secchi e staccati come colpi di tamburo che annunciavano una tragica esecuzione. Presto quei rulli nefasti diventarono esplosioni sempre più forti, mentre tutta l’area portuale fu investita dal fumo nero e acre.
Alle 19.20 la Nordanland esplose con un terrificante fragore. Lo scoppio, come una bomba, fu avvertito in tutta la città e molti vetri delle case vicine andarono in frantumi.
Alle 21 cessarono le esplosioni ed i Vigili del fuoco si aprirono la strada attraverso il fumo dell’incendio mentre le fiamme continuarono a distruggere lo scafo. Anche la nafta cominciò a defluire in mare e distendersi sulle onde. Poi una scintilla del rogo cadde sull’acqua, sulla nafta. Una lingua di fuoco corse veloce sulle onde diffondendosi in mare tra i ponti Eritrea e Somalia e cominciò così a divampare su centinaia di metri quadrati di mare. I Vigili del fuoco con le loro attrezzature si misero così ad estremo baluardo dei capannoni stivati di juta ed altro materiale infiammabile. Alle 23, ripresero più ovattate le esplosioni all’interno della Nordanland ridotta ad un rottame incandescente. Poi le spingarde dei pompieri con i loro poderosi getti ebbero la meglio su quelle strisce di fuoco che presto apparvero come tanti lumini in un camposanto spettrale.
Un fascio di luce accecante e sinistra s’incunea sulla scena del disastro. Sulla destra in alto si nota la spaccatura della diga e l’entrata del mare vivo che spazza il Ponte Canepa. La Atlantic Lord resiste sulle ancore con la prora al mare mentre la sua poppa é loibera, senza cavi a terra, pronta per colpire la Camas Meadows rovesciata e chiusa nell’angolo.
Una significativa istantanea del fotografo F.Leoni che é riuscito a cogliere l’azione del salvataggio di un marittimo per opera dei Vigili del Fuoco, nell’attimo del massimo sforzo di trazione sul va-e-vieni.
A sinistra notare l’incavo profondo dell’onda di risacca nel chiaroscuro di questa foto eccezionale di F.Leone. I segni evidenti dei ripetuti urti sono visibili sullo scafo rovesciato della CAMAS MEADOWS.
Il mare vivo ha sfondato la diga anche all’altezza di Samperdarena, e la risacca ha ripetutamente scagliato contro Ponte Eritrea la NORDANLAND che é sbandata per effetto dell’acqua imbarcata dalle falle nella parte sommersa dello scafo. I testimoni oculari, presenti nell’istantanea di F.Leoni, non sanno ancora che la nave ha 400 tonnellate di acetilene nelle stive.
L’equipaggio ha evacuato la NORDANLAND. Soltanto i pompieri stanno stanno cercando di raddrizzare la nave pompando acqua fuoribordo. A causa della risacca, le falle sono ormai numerose ed il destino della nave svedese é segnato.
Sono le 19.20. Francesco Leone ha colto il tragico attimo dell’esplosione della nave svedese Nordanland. In breve tempo le strutture della nave si deformeranno a causa delle alte temperature dei roghi alimentati dall’acetilene nelle stive. La Nordanland é esplosa, ed é scesa sul fondo piegandosi verso la banchina mentre l’albero si appoggia pateticamente ai ruderi sconnessi di Ponte Eritrea.
Per tutta la notte la nave svedese ha continuato a sprigionare fiamme che il vento trasformava in lugubri fantasmi e, come si vede da questa foto, il relitto ha continuato a emanare fumo e odore acre anche il giorno dopo.
Il ciclone é passato. I segni della devastazione sono ancora più evidenti il giorno dopo, sia in mare che in banchina. La petroliera “Camas Medows” ormeggiata di punta a calata Derna, ruppe tutti gli ormeggi e trovatasi in balia delle onde, andò a colpire ripetutamente le navi vicine e le opere portuali. Infine s’inclinò paurosamente fino a capovolgersi per poi apparire come una grossa balena morente.
Da questa veduta aerea scattata il giorno dopo la devastazione, tra Ponte Nino Ronco e Ponte Canepa, si nota la decapitazione della diga e di altre opere portuali come gli ormeggi resi inagibili per molto tempo dal passaggio del ciclone.
Carlo GATTI
"Genova, Storie di Navi e salvataggi".
Le foto del grande maestro Francesco Leone appartengono all'archivio dell'autore.
Rapallo, 20.11.2012
ESPRESSO SARDEGNA. Operazione recupero e rimorchio
“ESPRESSO SARDEGNA”
Il traghetto Ro-Ro si capovolge e cola a picco a levante dell’isola Gorgona
24.2.1973
Nave |
Bandiera |
Armatore |
Stazza L. |
Capacità carico |
EspressoSardegna |
italiana |
Traghetti delMediterraneo |
1995 |
60 semirim. da 40 piedi |
Espresso Sardegna in navigazione
I FATTI
Il 24 febbraio 1973, il traghetto di linea Espresso Sardegna del gruppo Magliveras faceva rotta da Genova, suo porto compartimentale, verso Palermo con un carico di 60 autocarri pesanti. Nel Nord Tirreno era in corso una violentissima libecciata. Quando la nave era ormai prossima al ridosso della Gorgona, improvvisamente sbandò su un fianco ed il Comandante Antonio Bracco ebbe soltanto il tempo di ordinare l'abbandono nave all'equipaggio. La tempestività dell'ordine fu pari alla velocità della messa in mare delle lance di salvataggio. La nave diede il tempo all'equipaggio di mettersi in salvo, quindi, dallo sbandamento passò rapidamente al capovolgimento, mostrò la chiglia e colò a picco nello specchio di mare a levante dell'isola Gorgona.
LA CAUSA
Non è da escludersi la rottura di alcune rizze che tenevano bloccati gli autocarri al ponte garage. Lo sbandamento della nave potrebbe essersi verificato a causa dello scorrimento laterale dei mezzi pesanti verso la murata di sottovento della nave.
IL RECUPERO
Il servizio fotografico che vi proponiamo, si riferisce al recupero dell’Espresso Sardegna effettuato da una Impresa francese di SalvataggiMarittimi e del rimorchio della stessa ad opera della Società Rimorchiatori Riuniti di Genova.
Il M/r Torregrande in navigazione
La nave, trainata dal Torregrande, arrivò a Genova in quella strana posizione, galleggiante ma perfettamente capovolta, fu quindi ormeggiata provvisoriamente alla diga interna dell’Aeroporto, all’altezza dell’entrata al Porto Petroli di Multedo. Successivamente fu raddrizzata e riparata. L’Espresso Sardegna riprese il mare nel dicembre 1976.
Il Torregrande si avvicina al relitto capovolto dell’Espresso Sardegna per prenderlo a rimorchio
Il relitto dell’Espresso Sardegna é stabilizzato con dei cilindri laterali
Iniziano le operazioni di rimorchio
Sopra: la nave è recuperata e trasferita in una cala ridossata della Gorgona. Sotto: notare i componenti dell'attacco da rimorchio: patta d'oca di catena, il gherlino di nylon ed il cavo d'acciaio del troller.
Lo sbandamento della nave potrebbe essersi verificato a causa dello scorrimento laterale dei mezzi pesanti verso la murata di sottovento della nave. Il servizio fotografico che vi proponiamo si riferisce al recupero effettuato dall'impresa francese di Salvataggi Marittimi e del rimorchio della nave stessa ad opera della società Rimorchiatori Riuniti di Genova.
L’attacco é completato, il rimorchio si avvia alla corta
La nave, trainata dal Torregrande, arrivò a Genova perfettamente galleggiante, ma in quella strana posizione, completamente capovolta. Il "traghetto verde" fu subito ormeggiato alla diga interna dell'aeroporto, presso l'imboccatura Ovest del porto petroli di Multedo. Successivamente, la nave fu raddrizzata e riparata e riprese il mare nel dicembre del 1976.
Il rimorchio é arrivato a Genova e viene ormeggiato alla diga foranea del Porto Petroli di Multedo in attesa del raddrizzamento e del recupero totale.
Testo e foto di Carlo GATTI
Rapallo, 20.11.2012
Tratto dal libro: "Genova, storie di navi e salvataggi" - Edizione 2003, Casa Editice Genovese - Autore: Carlo Gatti
RETTIFICA: Il Comandante della ESPRESSO SARDEGNA al momento dell'affondamento era il C.L.C. Antonio BRACCO e, non il Comandante Calabrò, come erronemente riportato in precedenza, basandoci su informazioni ritenute affidabili, ma "purtroppo" imprecise. Nel chiedere scusa agli interessati ed ai lettori, colgo l'occasione per ringraziare il dott. Pino Pesce, ex marittimo della Compagnia Marittima Magliveras, per averci dettagliatamente descritto la situazione di quel tragico 24.2.1973.
Il Difficile DISINCAGLIO della M/N ANTINOUS
IL LABORIOSO DISINCAGLIO DELLA
M/N ANTINOUS
NEL GOLFO DI PALMAS (Cagliari)
PREMESSA: Il disincaglio dell’ANTINOUS é la rievocazione d’un avvenimento che era finito in soffitta da oltre quarant’anni. Per puro caso sono ritornato sulle sue tracce trovandomi tra le mani persino la documentazione del viaggio. Sono passati tanti anni e, nel frattempo le navi hanno preso le sembianze di superbe astronavi che si sono chiuse in se stesse ed hanno chiuso le porte al mare. Oggi gli equipaggi non portano più il tipico marchio salmastro sulla pelle, ed il volo dei gabbiani non avverte più nessuno che la terra é vicina con le sue antiche scogliere. Il mondo navale é cambiato. Il mare invece non cambia mai, ed esige sempre lo stesso rispetto, oggi come al tempo del TITANIC. Ecco allora che l’incaglio dell’Antinous si avvicina a quello più recente della Costa Concordia che, insieme ad altre navi sfortunate del passato, rappresentano le pagine di un vecchio libro di storia che va letto e riletto per conservare l’umiltà che il marinaio qualche volta dimentica.
Nel ripercorrere le tappe di questa avventura, sono riemersi ricordi personali e qualche volta mi sono lasciato andare all’uso del gergo marinaresco dell’epoca, ben sapendo che i miei lettori amano lavarsi nell’acqua salata ed entrare in punta di piedi nell’affascinante mondo dei rimorchiatori e sentirsi oggi, come tredici anni fa, imbarcati con “Quelli del Torregrande”.
Posso solo aggiungere, non certo per consolarvi, che la vera “relazione tecnica” del disincaglio avrebbe riempito molte pagine di noiosi calcoli matematici per ogni fase dell’operazione: visitare lo scafo e constatare i danni, alleggerire la nave, individuare le strategie di tiro per liberarla dagli scogli, tamponare le falle esterne, esaurire l’acqua presente nelle sentine, nei doppi fondi, nel gavone di prua, chiudere alla meglio i locali sinistrati con casse di cemento di vario tipo per rendere la nave rimorchiabile fino al porto di Genova e immetterla in bacino. Ho pensato di risparmiarvi questa “puddinga” tecnica che é materia per pochi disgraziati-specialisti, ed ho cercato, al contrario, di salvarne lo spirito marinaro, che é tutto ciò che conta ancora oggi e che sopravvive - con altri mezzi - sulle navi migliori in circolazione. Il mio tempo é ormai scaduto, ma ai giovani naviganti suggerisco di non confondere l’alta tecnologia che é una grande risorsa del nostro tempo, con lo spirito marinaro che é un fluido che viene da lontano e diventa ARTE solo quando si sposa e si unisce con il mare.
Buona lettura.
Il Golfo di Palmas si trova tra l’isola di S.Antioco e la sponda Sud-Occidentale della Sardegna
La tramontana scendeva fredda e rabbiosa sull’anfiteatro portuale genovese. Era il 20 marzo 1970 quando l’altoparlante di Molo Giano gracchiò: “Torregrande a Ponte Parodi per istruzioni”. L’ordine di fare bunker e provviste per una settimana ci giunse come un pugno nello stomaco. La gita sulle alture di Genova che avevo promesso all’equipaggio con i familiari al seguito, era rimandata sine die.
Tratto di costa rocciosa del Golfo di Palmas
Radio-cucina aveva intercettato nella notte la notizia di una nave incagliata nel Golfo di Palmas (Cagliari), ma il destinatario del viaggio pareva essere il Ciclone (4.000 CV), da tempo in stand-by sull’ormeggio di Ponte Parodi a far “denti di cane”. (1) Invece, la mia convocazione ‘urgente’ a Ponte Reale, sede degli armatori, mi tolse ogni dubbio ed anche il diritto di farmi inutili domande. La decisione era stata presa ai vertici! Toccava al Torregrande. Mi sentii così catapultato nel nuovo ruolo e feci la prima riflessione: “se la nave incagliata é pane per i nostri denti da 2.500 CV, spero abbia le dimensioni di un Liberty, perché se fosse più grande si andrebbe solo a frullare schiuma... e a rimediare brutte figure davanti a quei caproni che pascolano intorno ai nuraghi.”
Tipico fondale del Golfo di Palmas
Mi consultai con Zeppin, e il mio nostromo di Carloforte mi diede la conferma che da quelle parti le scogliere squartano le navi anche con lo sguardo. Mi precipitai in ufficio cercando d’immaginare i danni subiti da una nave finita tra le ganasce di quelle rocce e mi preparai una sequenza di domande per saperne di più. Le prime perplessità mi giunsero quando il responsabile dell’Altura mi disse, con gran nonchalance, di non sapere nulla di quella nave e dei danni subiti. Da buon ‘amministrativo’ si era preoccupato del nolo e con estremo garbo insistette per rendermi partecipe di una postilla aggiunta sul contratto di cui, sinceramente, non mi fregava un c...
- “Sa, i tempi sono stretti. Il nostro cliente, l’armatore greco Papadopulos, ha prenotato l’ingresso in bacino a Genova per il 31 marzo. Pertanto le operazioni da compiere sono due: il disincaglio della M/n Antinous ed il suo rimorchio da S. Antioco alla rada di Genova. Qualora i tempi non fossero rispettati, la nostra Società (Rimorchiatori Riuniti) dovrà pagare una cospicua penale”.
Mi rassegnai con difficoltà a quel surreale nulla di fatto e dissi:
- “OK Giorgio! Mentre il Torregrande si toglie i ‘panni portuali’ e si prepara alla partenza, mettimi in contatto con il Comandante della nave, oppure con il Capitano d’armamento greco. Prima di partire per la battaglia vorrei sapere che armi portare... ”.
- “OK! Proviamo subito con l’Ufficio del Pireo” –
La Antinous in navigazione sotto bandiera tedesca
La telefonata fu breve ma densa di utili informazioni. La ANTINOUS (14.000 stazza l. - 160 mt. lungh.) era un carrettone ben più grande e moderno di una liberty. La nave era partita dal Pireo per Marsiglia, ma quando giunse a Capo Teulada, il Comandante prese atto che il Mar di Sardegna era impraticabile. La forte libecciata stava girando a NW e, nel giro di qualche ora, il vento di Mistral l’avrebbe colpita sul muso con tutto il suo variegato repertorio di colpi. La nave era in zavorra ed il motore zoppicava già da tempo per problemi alle fasce elastiche di alcuni pistoni e aveva perso potenza. La decisione finale fu quella d’invertire la rotta per evitare guai maggiori, ma il Comandante era incerto se risalire la costa orientale della Sardegna fino a Capo Corso, oppure se passare la notte pendolando al minimo della velocità nel vicino “rifugio” del Golfo di Palmas. Optò per la seconda soluzione che avrebbe consentito ai macchinisti di metter mano al cilindro più malandato. Ma qualcosa andò storto ... e in piena notte l’Antinous fu spinta sugli scogli da improvvise raffiche di vento, o forse per un inconfessabile colpo di sonno del timoniere...Quién sabe? La nave e il suo equipaggio non correvano pericoli imminenti perché lo scafo si era incastrato con la prora in un invaso naturale di scogli e non presentava alcun sbandamento, era ridossato e non accusava alcuna sollecitazione dal moto ondoso. La voce chiuse la conversazione dicendo che era in partenza per Cagliari e che ci saremmo incontrati sul posto. La descrizione del Capitano d’armamento greco fu così realistica e meticolosa che mi parve d’aver assistito al film dell’incaglio in prima visione.
Entrato ormai con scienza e coscienza nel merito dell’operazione ‘disincaglio’, avanzai alcune ipotesi in direzione del mio interlocutore genovese:
–“Se l’Antinous navigava in circolo all’interno del Golfo di Palmas, al momento dell’impatto aveva, come minimo, una velocità di 6 nodi per poter governare e, a quella andatura, gli squarci sotto la parte prodiera dello scafo ci sono di sicuro.
- Se l’Antinous si trova incagliato su un vasto bassofondo, magari circondato da scogli affioranti, sarà un problema avvicinarsi, stendere i cavi e disporre di un ampio settore di tiro. Il Torregrande pesca 6 metri e se ci sono altri spuntoni nelle vicinanze i nostri limiti di manovra e di sfruttamento della potenza saranno ridotti. A questo punto, fare previsioni mi sembra alquanto azzardato”.
L’amico Giorgio si alzò di scatto, sbiancò in volto, ma rimase concentrato ed in silenzio come un centometrista sul blocco di partenza. Non gli permisi di compiere il balzo... e continuai imperterrito:
– “Se la nave ha premura di entrare in bacino a Genova, sarà meglio allertare anche il Casteldoria che pesca un metro abbondante meno di noi, ha 1.000 CV in meno ma è più manovriero, ha un ottimo Comandante, Marietto Di Bartolomeo, ed un equipaggio di grande esperienza portuale e d’altura. Con il Casteldoria ho già disincagliato il Pasquale Volpe ad Alistro in Corsica, e so come lavora. Due rimorchiatori con diverse caratteristiche possono combinare, in coppia, manovre di notevole effetto”.
A quel punto presi un foglio A/4, scarabocchiai una nave sugli scogli e dissi:
- “Il Torregrande lo posizioniamo ‘poppa contro poppa’. La sua potenza va usata per scavare un letto a due piazze, una specie di scalo su cui la nave dovrebbe scivolare al momento della liberazione. Per raggiungere lo scopo dovrò brandeggiare lo scafo a dritta e a sinistra. Sarà un lavoro di potenza e pazienza che alla fine darà i suoi frutti.
- Il Casteldoria lo mettiamo a ‘spring’ sul lato libero della prora. Sono certo che Marietto darà dei formidabili scrolloni... Per entrambi sarà una manovra divertente e pericolosa allo stesso tempo.
Il vantaggio dell’azione congiunta dei due ‘mastini’ consiste nel creare una coppia di forze parallele, a volte anche sguardate, ma sempre sincronizzate nel disegnare una piattaforma geometrica variabile che sia in grado di sollecitare la nave in più direzioni.”
Il manager genovese sapeva che ero giunto al 5° disincaglio della mia carriera e la mia esperienza in materia non era in discussione ma, in quell’oretta trascorsa insieme, aveva percepito la mia preoccupazione convincendosi, forse, che l’intera operazione poteva riservare sorprese. Alla fine mi guardò fisso negli occhi, mi mise una mano sulla spalla e disse:
“Senti Comandante, ritorna a bordo e fai del tuo meglio per partire il più presto possibile. Io cercherò di convincere gli Armatori a spedire anche il Casteldoria.”
Mi sentii gratificato! Durante l’illustrazione del mio piano, Giorgio non aveva pensato solo ‘ai noli suoi’. Quindi, non avevo perso tempo. All’epoca avevo già imparato a mie spese che per vincere nella vita occorre avere poche idee, ma chiare e supportate da una strategia convincente. A questo servì il mio disegno: ad architettare una soluzione.
Vinsi forse il primo round, ma la strada era ancora lunga e tutta in salita.
“Ho ancora tre richieste!”
Dissi con tono sommesso, quasi per ricordarlo a me stesso.
- “Mi serve il PIANO aggiornato del Golfo di Palmas.
Ma poi alzai il volume e aggiunsi:
- Duga, il più esperto sommozzatore della Società, verrà con noi.”
Infine, guardai con espressione decisa, quasi minacciosa, il mio interlocutore che sapevo essere azionista di minoranza della Società e dissi:
– “Ho un’ultima richiesta. Il Casteldoria deve imbarcare quel giovane sommozzatore alto due metri. Credo si chiami Barbieri. Noi disincaglieremo la nave, ma non potremo partire finché i due sub non avranno tamponato gli squarci sotto lo scafo. Anche per loro sarà un lavoro lungo e difficile”.
Il sorriso di Giorgio mi confermò il suo appoggio incondizionato.
Ogni volta, uscendo dalla Sancta Sanctorum, mi ritrovavo nello stesso Bar di Piazza Caricamento a sorseggiare il solito caffé schiumato e a riflettere sullo stesso argomento:
“Porca della puttanona! Com’é possibile che ogni partenza sia sempre “urgente e improvvisa”, con decine e decine di problemi d’affrontare senza aver il tempo di programmare un viaggio decente? Com’é possibile pensare, decidere e lavorare con il fiato sul collo dei principali che ti coprono di stress?
Eppure, cari lettori, tutto ciò si verificava ad ogni partenza! Infatti, la prassi ormai consolidata, prevedeva che ogni comandante giungesse sfinito alla vigilia della partenza e pronunciasse in pubblico la fatidica frase:
“ Non vedo l’ora di partire per togliermi da questa massacrante rottura di c...”
Poi, mentre mi catapultavo verso Ponte Parodi per raggiungere il bordo, elencavo mentalmente le cose da fare: controllare le provviste, mandare un ufficiale a comprare le carte nautiche all’Idrografico, accertarmi che i ‘rinforzi’ di macchina e coperta erano quelli giusti, imbarcare il marconista ‘aggiornato’ sulle frequenze... Per i problemi della coperta la soluzione era più facile, ci pensava Zeppin: togliere il paglietto di prua (2), controllare accuratamente l’attrezzatura di rimorchio (catene-cravatte d’acciaio, grilli, redance, bozze), i cavi di perlon e gli altri di poliprop presenti in stiva. Zeppin vedeva lungo e non perse tempo per raccattare merce preziosa per l’imminente operazione: quel miracoloso grasso animale chiamato sebo/sevo *– tavole di legno – tela olona - sacchi di iuta – cemento a pronta presa – gomma d’ogni tipo e altri accidenti richiesti dai sub per tamponare le falle esterne. Zeppin ne veniva dalla vela, fiutava le trappole e di casini in mare n’aveva visti e risolti tanti. All’inizio, il rustico nostromo si rivolgeva ai magazzinieri di Ponte Parodi per procurarsi ciò che gli serviva, ma se gli andava buca, chiedeva aiuto a quei pochi nostromi-amici che gli erano rimasti in porto dopo aver mandato a scaricare tutti gli altri... Ma se non riusciva ancora nel suo intento, allora perdeva la pazienza e non chiedeva più niente a nessuno. I suoi occhi si facevano piccoli e con un ghigno poco raccomandabile continuava le sue ricerche di notte improvvisandosi ‘guardiano della calata’. In questa nuova veste si aggirava per i bordi, apriva i ‘tabernacoli’ (stive) e, con il mandato né scritto né dichiarato, del suo comandante e dell’armatore, trasferiva le sue prede preferite dalle barcacce portuali al prestigioso Torregrande in partenza per avventure ben più importanti... La ‘sua’ stiva si riempiva a tappo, ma solo lui e il suo delfino Stefano Mora, sapevano dove cercare il maltolto che non era mai in vista, perché si trovava imboscato sotto cumuli di cime che scoraggiavano l’eventuale recupero da parte delle vittime.
Al marconista erano affidati i bollettini del tempo, il ritiro delle ‘Spedizioni’ in Capitaneria, e poi il controllo delle fatture e provviste.
SI PARTE PER UN’ALTRA AVVENTURA
Uscimmo dall’imboccatura del porto alle 18.00 del 21 marzo 1970. Il preannunciato Mistral ci diede dei formidabili cazzotti sul fianco destro fino a Capo Corso, ma poi lo perdemmo di vista fino all’arrivo. Entrammo nel Golfo di Palmas alle 04.00 del 23.3. dopo aver compiuto 380 miglia, alla velocità di 11.18 nodi, in 34 ore di moto. In mattinata prendemmo la Libera Pratica (3) a S. Antioco dove ritrovai un caro amico, Capo Pistis comandante dell’Ufficio Circondariale Marittimo della locale Capitaneria di porto. Da lui ebbi altre preziose informazioni sulla nave incagliata e sui fondali. Nel frattempo il cuoco andò per pesce fresco e pane caldo. Poco dopo salpammo per la nostra improrogabile missione.
Tra poco sarà l’alba del 23.3.70 - I colori di questa immagine e le luci di bordo ci ricordano il primo impatto con la nave incagliata.
Lasciai il Torregrande alla fonda nelle mani dell’esperto 1° uff.le G.Ghigliotti e mi feci portare con lo zodiac verso la biscaglina appesa fuoribordo della Antinous. Il Comandante della nave incagliata mi salutò da lontano mettendosi sull’attenti e poi sbracciando euforico dall’aletta del ponte di comando come per dirmi: “belin! sei arrivato finalmente”! Dopo l’arrampicata mi trovai tra le braccia nerborute di un marinaio di colore e la mano tesa di tre eleganti ufficiali greci, evidentemente disoccupati. Quando il Comandante scese in coperta, notai che la bassa forza indietreggiò, come se il Padreterno in persona stesse scendendo dal cielo. L’uomo era un cinquantenne che indossava la divisa militare e lucidi stivali neri, era in perfetta forma fisica, ma esibiva qualcosa di ridicolo: impomatato di brillantina Linetti, era immerso in una nuvola di dolciastra Eau de Cologne. Il foulard bianco, sotto il giubbotto nero di pelle stile Gestapo, era un vezzo che nascondeva forse il collo flaccido.
Sotto i baffetti macchiati di nero ed un sorriso levantino, faceva capolino l’incontenibile incazzatura per quanto era successo alla sua nave. Si girò per farmi strada e notai il manico di un frustino di pelle nera fuoriuscire dalla cintola sul fianco sinistro. Avevo già visto usare quell’arnese nel porto di Durban in Sud Africa. Un boero aveva l’incarico d’imbarcare un grosso quantitativo di pittura sulla mia nave: Naess Companion. I negretti venivano frustati ogni volta che posavano diverse latte in coperta per riprendere fiato. Era l’epoca della bieca Apartheid (A).
Dopo dieci anni sentii gli stessi brividi nella schiena ed un forte impulso a lasciare quella belina sugli scogli insieme ai suoi sgherri dopo aver liberato quei giovani africani. Ma scelsi, per ragioni di stipendio, una tattica meno invasiva, quella di rivolgermi a lui solo per servizio, senza un sorriso, senza quella atavica complicità che per millenni aveva unito i nostri popoli: una faccia una razza.
Ad essere sincero non vidi mai usare quella frusta sull’Antinous, ma la vidi sfilare ogni volta che il greco urlava un ordine alla ciurma composta solo d’africani.
Non tardai a collegare quello sceneggiato alla storia greca di quegli anni, ovvero con la dittatura dei colonnelli, nota anche come La Giunta.(B)
Come tutti i greci di una certa età, il bel fustigatore, che chiamai da quel momento Zorba il greco (C), parlava un italiano marinaresco di tutto rispetto e la strada per capirsi bene e subito, fu tracciata in un baleno. Rifiutai la colazione e mi limitai a sorseggiare un caffé turco fino al limite della bratta densa. Salimmo sul ponte della bussola normale (4) per calcolare gli spazi disponibili e per osservare dall’alto gli scogli circostanti: un vero incubo per le nostre future evoluzioni. Il comandante aveva alleggerito la prua scaricando in mare l’acqua del gavone di prua (5), ma non aveva fatto alcun tentativo con la macchina per disincagliarsi, e neppure il sistema più consigliato dalla teoria marinaresca di virarsi sulle ancore spostate a poppavia. Non avendo la possibilità d’ispezionare la parte esterna incagliata, Zorba si limitò a registrare numerose infiltrazioni e allagamenti nei doppifondi prodieri. Concertammo di decidere il da farsi dopo aver letto la relazione del sub Duga.
Estrassi il mio A/4 dal borsello di juta, gli mostrai lo schizzo di come avrei disposto i due rimorchiatori, e gli illustrai la tattica di tiro accoppiato. Andammo a poppa per vedere dove e come attaccare l’attrezzatura da rimorchio del Torregrande, e sulla prua gli anticipai il sistema d’attacco del Casteldoria che conoscevo altrettanto bene.
Duga era impaziente che gli dessi il via per la prima ispezione subacquea, ne parlai con Zorba ed ottenni anche un battello di supporto comandato da un ufficiale e due marinai. A fine mattinata Zeppin aveva già sistemato sulla poppa della nave una briglia chiamata in gergo patta d’oca di catena,(6) uno spezzone di cavo d’acciaio di grosso diametro chiamato bragotto ed uno spezzone cavo di nylon intrecciato, chiamato gherlino, che era impiegato per dare elasticità ed assorbire gli inevitabili strappi.
Mentre ero a bordo, avevo incaricato il 2° uff.le Aldin Capurro di sondare i fondali nel giro di 200 metri di mare intorno alla nave e di posizionare alcune boette in corrispondenza dei vicini bassifondi e scogli pericolosi. Tramite il marconista ero in contatto con il Casteldoria in navigazione, e informavo Marietto su tutto ciò che poteva interessare il suo utilizzo, in modo da non perdere altro tempo al suo arrivo.
Il m/r Casteldoria (nella foto) era una buona macchina della sua epoca.
Gli armatori lo avevano programmato per un uso allargato: lavoro portuale e viaggi d’Altura in Mediterraneo. Il rimorchiatore aveva uno shape più elegante dei suoi ‘fratelli portuali’ che avevano la prora più bassa e rincagnata che ricordavano la postura di certi lottatori antichi. Sul suo unico albero svettava l’antenna del radar che gli conferiva un portamento nobile e suscitava una certa invidia tra le altre barcacce del porto che erano destinate allo stesso impiego, ma non potevano mai uscire di casa...
Tuttavia, il suo compito principale era pur sempre il servizio portuale che era alle prese, in quegli anni di boom economico, con il gigantismo crescente delle petroliere e dei primi containers transoceanici. Per questa ragione, i suoi 1.535 cavalli di razza erano sempre molto richiesti sulle imboccature del porto di Genova.
Il concetto d’impiego del Torregrande era invece diametralmente opposto. Il rimorchiatore disponeva di un’ottima strumentazione per la sua epoca: radar, radiogoniometro, ecoscandaglio, girobussola, una potente stazione radio, pompe antincendio a grandi masse e altrettante spingarde. Disponeva di un moderno telecomando Ka.Me.Wa (elica a passo variabile) in plancia che lo rendeva particolarmente manovriero. Il suo compito principale era il Servizio d’Altura, ed aveva un buon motivo per tirarsela un po’... disponeva, infatti, di un ottimo Automatic Tow Winch, chiamato troller/trolley dagli equipaggi. Tramite questo potente verricello poteva filare il rimorchio in navigazione con tempo cattivo, e recuperarlo con tempo buono. Il cavo del troller del Torregrande aveva un diametro di 40 m/m, ed una lunghezza di 800 metri. Questo apparato lo poneva sopra la media del tempo classificandolo: Rimorchiatore d’Altomare. Quando imbarcava palombari/sommozzatori e determinati apparati (polmone d’acciao) diventava automaticamente Rimorchiatore di Salvataggio.
Tuttavia, quando era disoccupato, il mastino entrava in una squadra portuale ed era utilizzato per l’ormeggio e disormeggio delle grandi petroliere nel porto Petroli di Multedo, ma anche presso la discharging oil platform in mare aperto, ed anche all’Italsider per gli arrivi delle pesanti bulkcarriers. A chi scrive capitò d’attaccare con il Torregrande, nei giorni ventosi e in altre emergenze, anche i traghetti della Tirrenia, gli Espressi ei Canguri nelle anguste calate del Porto Vecchio. Questa eclettica unità, ogni tanto, salpava per il Nord Europa, attraversava l’Atlantico, giungeva in Canada, rientrava in Italia e ripartiva per il Congo. Il suo nome diventò presto un mito nel settore mondiale dell’altura.
In realtà, fuori dell’ambiente mercantile, ancora oggi, pochi conoscono la differenza tra il servizio portuale e quello d’altura che, in qualche modo, pur partendo da una radice comune, sono ben presto destinati a differenziarsi già sull’imboccatura del porto. Il Comandante di un rimorchiatore d’altomare ha gli stessi doveri e diritti di un qualsiasi Comandante di nave. Il suo Comando si esercita, ovviamente, anche sul rimorchio, sia che abbia il suo equipaggio, sia che viaggi come un relitto. Come si può ben intuire, a volte il suo Comando può estendersi anche per oltre duemila metri di convoglio e su più Comandanti (rimorchi in tandem). Un Capitano di rimorchiatore portuale, quando é sotto rimorchio in porto, esegue gli ordini del Pilota portuale e lavora sotto la responsabilità della nave. Le rispettive funzioni sono quindi ben distinte anche sotto il profilo delle responsabilità oggettive.
Marietto di Bartolomeo era il comandante del Casteldoria fin dal suo varo avvenuto nel 1961. I due ‘soggetti’ si erano capiti al volo e dopo 10 anni, il loro matrimonio era ancora fortissimo. Marietto era un Padrone Marittimo che in Mediterraneo non temeva il confronto con i Capitani di lungo corso perché sapeva navigare. In porto era un artista che parlava poco ma sapeva ricamare, e come i veri marinai osava, ma rispettava il mare.
ARRIVA IL CASTELDORIA
Il Casteldoria (nella foto) partì da Genova mezza giornata dopo di noi e giunse a destinazione con la Libera Pratica intorno alle 14, mentre Duga mi consegnava la bozza dei danni subiti dalla nave.
** Torello
Prima di mostrare la lista dei danni a capitan Zorba, la discutemmo con Marietto e Duga per metterne a fuoco sia l’entità che la pericolosità per la navigazione. Poco dopo allargai la riunione anche agli altri ufficiali per decidere una strategia condivisa di tiro, ma anche per fissare alcune regole: orari di lavoro, soste, controlli e sicurezza. In buona sostanza era mia intenzione ritornare a bordo dell’Antinous con un programma già studiato, discusso e approvato.
Zorba, come tutti i marinai greci, aveva molta dimestichezza con i problemi navali e lo si capiva dalle domande che poneva per scoprire le vere caratteristiche dei nostri rimorchiatori. Tuttavia, essendo a digiuno della problematica in corso, accettò il nostro planning senza obiezioni rimettendosi alla nostra professionalità. Per la verità, si preoccupò soltanto dei contatti radio ed insistette per volerci prestare un walkie-talkie per rimorchiatore.
Anche i due telegrafisti fissarono appuntamenti radio per eventuali contatti di servizio tra i comandanti.
Era l’alba del 23.3. Appena fece chiaro ci avvicinammo alla nave con molta prudenza per non toccare il fondale e diedi fondo l’ancora alla distanza di circa 25 metri dalla poppa della nave. Dal suo passacavi centrale pendeva la nostra briglia di catena che, mossa da una leggera brezza di terra, ‘scampanava’ sulla parte emergente del timone. Il gommone di Stea evoluiva rumoroso rompendo il silenzio della baia che stentava a risvegliarsi. Appena l’equipaggio dell’Antinous raggiunse i posti di manovra, il gommone lasciò la poppa del Torregrande e raggiunse la nave rimorchiando i pesanti attacchi da collegare con un grosso maniglione (grillo)(7). La stessa operazione fu compiuta dal Casteldoria sotto la prua.
Il sole più meridionale del nostro era appena sorto, ed appariva più grande del solito. Con timore riverenziale iniziammo a tirare lentamente per scaldare i motori, stendere l’attrezzatura e sentirci accomunati, uomini e mezzi, allo stesso destino. Nessuno di noi aveva azzardato pronostici, era presto per capire se il carattere della nave ferita era docile e rassegnata, oppure orgogliosa e dura da domare. Per capirci qualcosa, fin dall’inizio, ‘si auscultava’ la paziente in cerca di battiti e vibrazioni che correvano sul cavo portando preziose informazioni ed interrogativi: cedeva oppure resisteva? Eravamo vicini oppure lontani dal disincaglio? La mattinata trascorse nello studio delle reciproche mosse, come certi pugili usano fare nei primi round di un match importante e pieno di rischi. Nel pomeriggio ci prendemmo una pausa per leggere i pescaggi e rilevare eventuali segni di sforzi sull’attrezzatura. Zorba era impaziente, forse era deluso che due rimorchiatori venuti da lontano non l’avessero ancora liberato. Ogni mezz’ora s’attaccava al walkye talkie e urlava:
“State tirando al massimo? Dalla scia non si direbbe! – Avete ancora extra potenza da aggiungere? – La nave non si muove - Skatà! ”
Quando ero concentrato al timone rispondevo per educazione alle sue domande con un fischio breve, se insisteva emettevo invece un fischio lungo per dirgli che mi aveva rotto.... quando poi esagerava lo facevo contento e lo prendevo un po’ in giro:
“Stai tranquillo comandante, stiamo lavorando per te, ma noi usiamo il cervello e non il frustino... A proposito di fruste, fai togliere i marinai dalla poppa perché ora ti farò vedere qualcosa che non hai mai visto. Attenzione! Se il cavo si spezza... si comporta proprio come una lunghissima e micidiale frusta che si può ritorcere contro i fustigatori come te. Cazzo!”
Dopo una breve pausa di consultazione, Zorba rispondeva concitato:
“Cosa dici? Io non capisco niente. Ho capito solo l’ultima parola... Ripeti per favore!”
Rispondevo con un fischio lungo e facevo sculettare la poppa del Torregrande per farlo contento.
Fin dall’inizio delle operazioni, anche il mozzo più inesperto aveva capito che il cetaceo era indifferente alle carezze. Gia! Noi del ponte l’avevamo capito ancora prima, esattamente dopo aver letto il rapporto di Duga e sapevamo che per tirarla fuori dalla sua alcova occorreva tanta cattiveria. La rabbia che aumentava in noi andava trasferita progressivamente alla nave. Il rischio di un trattamento brutale era quello di aumentare gli squarci sotto lo scafo, ma la priorità era il disincaglio, a suturare le ferite ci avrebbero pensato i chirurghi del Cantiere Navale.
Dopo una serie di bordate terrificanti, ci fermammo per un controllo. La nave aveva ceduto lateralmente, l’avevamo liberata sui fianchi, ma la balena dormiva ancora più comoda nel suo letto ormai a due piazze. Zorba se n’era accorto, ma dalle sue parole si capiva che non tiravamo abbastanza. Allora feci in modo di tenerlo impegnato con alcune richieste formali:
“Ora manderò i miei sub a controllare gli squarci sotto la prora. Non vorrei che dopo averla liberata, la nave affondasse in qualche metro d’acqua.” Presi i binocoli e notai con interesse ”antropologico” che anche i greci usavano i nostri gesti scaramantici!
Nel tardo pomeriggio, d’accordo con il mio partner di tiro, decidemmo di passare alle maniere forti mettendo in atto una serie di potenti scrolloni per “vedere l’effetto che fa...”.
Con Marietto avevamo già sperimentato la manovra con successo e, forse per vanità professionale e mania d’esibizione, decidemmo che era arrivato il momento d’entrare in azione mostrando a Zorba i nostri attributi.
Il nostromo Zeppin l’avrebbe fatto prima, e ce lo comunicò a suo modo storpiando i nomi:
“Nu semmo mìga vegnûi fin chì pe fäselu menâ da-ö Zembo! Femmöghe vedde chi semmo e poi portemmo via ö belin!”
(“Non siamo mica venuti fin qui per farci prendere in giro dallo Zembo! Facciamogli vedere chi siamo e poi ce n’andiamo via spediti”.
“Zeppin, ma chi ö l’é ö Zembo?”
(“Zeppin, ma chi é Zembo? “)
– Gli chiese Stea che in genere faceva da traduttore –
“Mi sò ûn belin cömme ö se ciamma ö cömandante greco. Ma a veddilu da chì, ö me pâ zembo e anche un pô buliccio...”
(“Non so un accidente di come si chiama il comandante. Ma a vederlo da qui, mi sembra gobbo e anche un po’ effeminato”.)
Era difficile trattenere le risate, ma Stea sapeva come fare!
“Ooh Zeppin, ma ö nostro comandante ö l’ha battezôu Zorba e no Zembo che in zeneize vêu di ghêubbo.”
(“Ooh Zeppin, ma il nostro comandante l’ha battezzato Zorba, no Zembo che vuol dire gobbo in genovese”.)
“Oa ho capìo! “Zembo il greco”, cömme quellu cìne döve i l’ean tûtti bulicci...”
(Adesso ho capito! “Zembo il greco”, come quel film dove erano tutti effeminati”)
Rispose Zeppin senza batter ciglio.
Fu imposto a tutti lo sgombero dai posti di manovra per evitare che impreviste rotture generassero incidenti che mai, in questi casi, sarebbero stati di lieve entità. I più preoccupati erano i direttori di macchina dei due mastini. Sapevano, infatti, che presto i loro gioielli sarebbero passati (ripetutamente) dal minimo al massimo dei giri in pochi secondi, con sbalzi di temperatura dei gas di scarico da far accapponare la pelle. Purtroppo, dopo aver usato invano la normalità di tiro, non rimaneva che sperimentare la brutalità, oltre la quale non restava che il CICLONE, con i suoi poderosi 5.000 CV di potenza, ma con la penale da pagare per il ritardo accumulato.
Il Casteldoria cominciò le danze quando si trovava sul limite interno del suo settore. Marietto fermò Improvvisamente il motore e, mentre il cavo veniva rapidamente imbando sull’acqua, ripartì a tutta forza lavorando di timone, prima un po’ a dritta (vicino alla nave) e poi tutto a sinistra, in modo tale da far coincidere lo strappo del cavo (venuto in forza) con il peso dello scafo al traverso. Il risultato fu un’azione violentissima e devastante, che fece vibrare la nave, pendolare i bighi dei derrick, fuggire il personale di bordo in tutte le direzioni come animali impauriti, ed infine fece urlare il tesissimo Zorba: “Kalos! Kalos! (bello! bello!) Ma ora fermatevi! Devo controllare se ci sono danni alla nave e agli attacchi di rimorchio a prora.”
Poco dopo entrammo in azione con il Torregrande seguendo la stessa tattica nel far venire il cavo imbando per poi ripartire alla ‘gran puta’ giocando di timone per far sentire il peso dello scafo. Il nostro settore di tiro era ben più ampio di quello del Casteldoria ed esercitai la nuova ‘manovra a strappo’ su ambo i lati del settore. Decisi quindi di raddoppiare l’effetto ad ogni ripartenza.
Se il rimorchiatore di prora aveva prodotto un notevole sbandamento a dritta dell’Antinous durante l’aggressione, il Torregrande lo aveva riprodotto sul lato di terra insieme ad uno “sculettamento” a poppa che faceva ben sperare per il futuro.
Ci accordammo con Marietto di terminare la giornata con una manovra congiunta ‘molto cattiva’ per studiare la reazione dell’Antinous. Era urgente capire i nostri limiti e quelli di sopportazione della nave. Chiamai a rapporto Zorba e l’informai che il Casteldoria e il Torregrande avrebbero congiunto le loro potenze disponibili in una manovra molto pericolosa. Mi raccomandai pertanto di sgombrare l’equipaggio dalle zone pericolose.
Partimmo entrambi alla velocità di 10 nodi e rifacemmo la stessa manovra ‘risolutiva’ per cui ci eravamo allenati per anni. Il risultato fu quello di produrre devastanti effetti basculanti e sbandanti quando entrambi eravamo nei punti più lontani dei rispettivi settori; mentre si ottennero effetti di forte sradicamento quando eravamo quasi affiancati. Durante la creazione di queste coppie di forze, la nave ricevette forti sollecitazioni da prua a poppa. I derrick (8) sembravano sollevarsi e ricadere per effetto delle vibrazioni. Le sovrastrutture scrollavano e sputavano pittura mista a ruggine. La nave sbandava a dritta e a sinistra e sembrava che si liberasse da un momento all’altro. L’effetto perfettamente coordinato fu talmente invasivo che, ad ogni colpo, gli equipaggi urlavano: OLE’! OLE’! Ed era veramente come assistere ad un’appassionante corrida! Ma la “bestia” sembrava immortale e non voleva arrendersi! La sua prora era attaccata alla scogliera, e questa alla montagna, e questa all’intera Sardegna. Incazzato come una iena, diedi l’ordine di chiudere la giornata e di andare alla fonda.
Il test era stato importante, gli ultimi rilevamenti avevano evidenziato qualche cedimento, ma la nave era ancora fortemente incagliata. Ne parlai con Marietto alla radio e mi disse: “Mìa Charly, ti vediae che döman s’aportemmo via”.
(“Vedrai Charly che domani l’arranchiamo!”)
Il suo ottimismo riportò in equilibrio il mio malumore e programmammo di ripartire alla carica, il giorno dopo, con una nuova e più sicura attrezzatura. Quella sera notai che tra il mio l’equipaggio iniziava a serpeggiare un certo pessimismo. La tensione era alta. Eravamo al quinto disincaglio riuscito in pochi anni, i miei uomini erano tutti esperti della materia della materia e avevano capito che le cartucce più potenti le avevamo già sparate senza grandi risultati.
I rispettivi Armamenti, nonché le Autorità di terra e di mare esigevano spiegazioni e previsioni che regolarmente evitavo di dare per non creare false aspettative. Il motto da usare nelle varie circostanze era sempre lo stesso: “Ci vuole il suo tempo!”
La giornata del 24 iniziò sotto la pioggia battente con un calo indecente della temperatura. Il nostro D.M. Guido Bianchi profetizzò che il freddo avrebbe consentito di aumentare i giri del motore principale e quindi di compiere l’impresa. Per una questione di scaramanzia, la parola ‘disincaglio’ era bandita dal vocabolario di bordo, al suo posto si usavano solo parolacce da postribolo...
La giornata fu massacrante per tutti, per chi manovrava e per chi sorvegliava la scena. Pioggia e freddo la fecero da padrone. Stabilimmo dei turni di manovra al timone per garantire almeno 10 ore di tentativi sempre più aggressivi e risolutivi. Continuammo a usare le derapate di scafo inaugurate il giorno prima rasentando ogni volta la nave e gli scogli. Non avendo nulla da perdere, ci sfogammo con rabbia infliggendo alla povera nave punizioni violente d’ogni tipo. Dovevamo dimostrare lo stesso coraggio dei vecchi gladiatori che non lasciavano l’arena ad altri lottatori più giovani e forti senza combattere fino alla fine. Il Torregrande non aveva mai fallito una missione e Il nostro orgoglio si sentiva ferito.
L’unica interruzione giornaliera avvenne quando l’ing. Canepa, che era anche un sub del R.I.N.A (Registro Italiano Navale), andò a visitare la carena dell’Antinous insieme ad altri tecnici di una Ditta incaricata dalle Assicurazioni dell’Armatore greco di effettuare le riparazioni necessarie. Dopo l’incaglio, la Antinous aveva perso il Certificato di Navigabilità (9), e per il trasferimento a Genova era richiesta la Classe Provvisoria (10), che solo la Capitaneria avrebbe rilasciato dopo le relative ispezioni con esiti positivi dei periti.
I programmi proseguivano in tutte le sedi, ma la nave era sempre incagliata e aggrappata alla Sardegna. Zorba aveva a bordo le sue gatte da pelare per giustificare i suoi errori e rimediare a tutte le magagne del bordo sotto inchiesta. Mi fece pena e pensai alla solitudine del Comandante sottoposto all’aggressione degli implacabili giudizi dei ‘terrestri’.
I nostri guai cominciavano ad incrociarsi: Zorba si era incagliato ed io non riuscivo a liberarlo. Nel nostro intimo sentivamo, forse, la stessa amarezza che da sempre attanaglia i perdenti di turno.
I suoi impegni contingenti, ci permisero di escogitare altre variazioni di tiro senza dover dare necessariamente spiegazioni. Il nostro impegno fu totale e nessuno avrebbe potuto accusarci di risparmiare energie meccaniche, nervose e di qualsiasi altro tipo.
Durante un’esibizione di forza particolarmente robusta, la nave urlò come un paziente operato senza anestesia... Cominciò a vibrare e a scrollarsi di dosso tutto ciò che le pesava. Avevamo procurato un fortissimo terremoto. Zorba mi chiamò chiedendo una tregua pietosa non riuscendo neppure a bere un caffé con i suoi importanti ospiti. La giornata finì com’era cominciata: incolore, fredda e senza risultati apparenti.
Prima di cena chiamai Zorba e gli dissi che sarei salito a bordo per fare due calcoli.
Meditò a lungo una risposta, infine capì che mi sarei arrampicato sull’Antinous anche senza la sua approvazione. L’idea che mi frullava in testa era troppo semplice per essere vera. Una soluzione semplice ad un problema apparentemente impossibile che mi ricordava ”la scoperta dell’uovo di Colombo”. Ma dopo gli insuccessi di quei giorni, non volevo sputtanarmi con altri coupe de theatre fallimentari anche dal punto di vista dei calcoli matematici.
Chiamai nella mia cabina l’unico vero marinaio che avevo a bordo e gli chiesi:
“Zeppin, secondo il tuo istinto, quanto possono pesare le due ancore della nave con 20 lunghezze di catena (500 metri in tutto)?”
A Zeppin gli si illuminarono gli occhi, scattò in piedi e disse:
“Minimo 50 tunnei. Comandante, sci-â ghe fasse mollâ tutto in mâ. Son segûo ca vegne sûbito quella bagascia.”
(Come minimo 50 tonnellate. Comandante, gli faccia mollare tutto in mare. Sono sicuro viene subito quella benedetta nave!)
“OK Zeppin, sci-â no digghe ninte in gìo, çerchiôu de cönvinçe u Zembo”.
(“OK Zeppin, non dica niente a nessuno. Cercherò di convincere Zembo”.)
“Ma ö no se ciamma Garbo?” –
(“Ma non si chiama Garbo? –
“Ma no, ormai ô ciamemo Zembu cöscì ö ne portiâ förtnnû-a.”
(“Ma no, ormai lo chiamiamo Zembo (gobbo), così ci porta anche fortuna”)
“Oh belin, se ghe n'emmu de bêzêugno!”
(“Accidenti se ne abbiamo bisogno”)
Con Zorba ci chiudemmo in plancia, cenammo in Sala Nautica e finimmo i calcoli intorno a mezzanotte.
Dai certificati in suo possesso risalimmo al peso delle ancore e delle catene. Sulla Scala delle Solidità calcolammo di quanto si sarebbe alzata la prora se avessimo filato in mare quel fardello di 85 tonnellate dall’estrema prua. Nonostante il “gettito” delle ancore e catene, calcolammo che l’Antinous non sarebbe riuscita a disincagliarsi con i propri mezzi. Per l’auto-disincaglio era necessario un gettito di circa 320 tonnellate. Spiegai a Zorba che eravamo lì proprio per superare la differenza di peso mancante con la nostra potenza, ma che avremmo dovuto spostare il Casteldoria a poppa per sommare i nostri bollard-pull.(11)
Zorba non era del tutto convinto, ma interpretai la sua reticenza come un senso di colpa per non aver pensato lui stesso, con largo anticipo, a questa soluzione... Arrivò a dire che sarebbe stato un lavoro inutile e gravoso per il suo equipaggio e che si sarebbe risolto il problema chiamando un terzo rimorchiatore della Compagnia Sarda di Cagliari che era già in rada, smanioso di mostrare i propri muscoli, in attesa della nostra resa.
Capii che la decisione era già maturata negli ambienti che Zorba aveva alle spalle: Assicurazioni, Broker, Bacini, lo stesso Armatore greco ed anche le Autorità locali per le pressioni del turismo estivo ormai imminente. Zorba era passato dalla loro parte! L’ordine di rimescolare le carte sarebbe giunto intorno alle 09, il giorno successivo.
Non mi rassegnai e tentai una ‘colombella o palombella’ pallanuotistica:
“Ascoltami Comandante! A mollare tutto in mare ci metti un attimo, e se riesco a disincagliarti puoi prenderti il merito dell’operazione e rimediare un bel po’ di punti con il tuo armatore. Se invece l’operazione gettito delle ancore non producesse alcun effetto, avresti comunque operato un estremo tentativo per il bene della nave e del tuo armatore. Cos’hai da perdere? Forse un’ora per virarti a bordo le ancore, ma non credo sia un problema insormontabile. E allora dov’é il problema?”
Come dicevo poc’anzi, gli amici greci sono innanzitutto marinai ‘dentro’, Zorba non faceva eccezione e finì per capire che l’ultima manovra da compiere, forse la più importante, doveva essere firmata soltanto con il suo nome e cognome.
Non so se la notte gli portò consiglio, ma all’alba del 25 marzo mentre stavamo facendo colazione, sentimmo un fragoroso rumore di catene. Mi affacciai e vidi un’immensa nuvola di polvere rugginosa avvolgere tutta la nave.
Zorba aveva mollato ancore e catene in mare proprio come gli avevo suggerito, e lo fece astutamente, come se l’idea gli fosse venuta dopo una notte insonne di calcoli solitari......
Marietto mi chiamò e mi disse: “ieri sera ti volevo chiamare e suggerirti l’idea che invece é venuta a Zorba”.
“Grazie Marietto, l’importante adesso é verificare se l’idea é quella buona....”
Ci mettemmo in tiro lento e progressivo con le solite cautele ormai collaudate. Entrammo a regime di giri intorno alle 09. Dopo circa mezz’ora di tiro decidemmo con Marietto di dare il primo scrollone. La Antinous assorbì il tiro senza sbandare o sussultare. Era la prima volta che succedeva e un brivido mi attraversò completamente. La nave si sfilò docilmente ed un triplice fischio di sirene invase l’intero Golfo di Palmas.
La nave era libera e galleggiava!
Il Casteldoria rientrò subito a Genova. L’Antinous recuperò le sue ancore e fu portata alla fonda dal pilota. Il sub Barbieri si trasferì sul Torregrande per compiere i lavori di riparazione subacquei insieme a Duga. I lavori di riparazione provvisori nel Golfo di Palmas terminarono il 27.3 ed in serata la nave salpò per Genova a rimorchio del Torregrande. Il convoglio arrivò il giorno 30.3 ed entrò in bacino nella data prevista dal contratto.
L’Antinous a rimorchio corto del Torregrande in avvicinamento a Genova
L’Antinous é finalmente in bacino a Genova. Le riparazioni sono state realizzate e presto riprenderà il mare. (Foto-enciclopedia IL MARE Vol. 1°)
ALLEGATO n.1
Rapportino Nautico del Viaggio
ALLEGATO n.2
Estratto Giornale Nautico Parte 1° dal quale si ricava l’usura del materiale sottoposto a sforzi eccezionali per disincagliare l’ANTINOUS.
“Torregrande”
Dati Nave: Anno Costruz. 1962 - S.L. 361 T. Lunghezza 37 Mt. - Potenza 2.500 CV – Velocità: 13.4 nodi – Tiro 25 T.
Equipaggio:
Com.te Carlo Gatti - D.M.: Guido Bianchi - 1° Uff.le cop: Giorgio Ghigliotti-
1° Macch. Giacomo Carena - 2° Uff.le cop. Aldo Capurro - 2° Macch. Giorgio Lo Turco
Nostromo Giuseppe Luxoro - Marò Stefano Mora - Marò: Egidio Rizzo - Marò-Cuoco Luigi Gastaldo - Radiotelegrafista: Vincenzo Rocchino - Sub: Giacomo Duga
“Casteldoria”
Dati Nave: Anno Costr. 1961 - S.L. 185 T. Lunghezza: 29 Mt. - Potenza 1.535 CV – Velocità: 12 nodi - Tiro 15 T.
Equipaggio:
Com.te Mario Di Bartolomeo - D.M. Osvaldo Schiano - 1°Uff.le cop. Luigi Gabrielli
1°Macch. Angelo Angius - Marò Maiulo (senior) - Marò Giovanni Bottino
Marò Antonio Mazza - Cuoco Angelo Parodi - Sub Francesco Barbieri
Piccolo Glossario:
1 - Denti di cane: Durante la sosta prolungata della nave in acque portuali, si formano incrostazioni sulle lamiere dell’opera viva a causa dei balani, che sono un superordine di crostacei maxillopodi. I balani sono anche chiamati "denti di cane" per via della loro forma aguzza che risulta essere molto tagliente.
2 - Paglietto di prua: Parabordo di gomma massiccia a forma di grande baffo che ripara e attutisce la parte più sporgente del rimorchiatore (a prora), da urti durante le manovre portuali. Esiste anche il paglietto di poppa e quelli laterali. Un tempo il paglietto era composto di cavi di canapa/nylon intrecciati ma anche di copertoni di camion.
3 - Libera Pratica: Atto dell’Autorità che concede il nulla-osta alla nave per avviare operazioni commerciali
4 - Bussola Normale (ponte): Bussola magnetica posta in luogo elevato per non essere influenzata dal magnetismo di bordo.
5 - Gavone di prua o di poppa: Locali adibiti allo stivaggio della zavorra (acqua).
6 - Patta d’oca di catena: Sulla prora del rimorchio sono voltati alle bitte due spezzoni di catena collaudata di circa 5-6 metri, che lavorano sui passacavi. Fuoriescono e si congiungono in una piastra triangolare (oppure un maniglione o grillo) alla quale si collega il cavo di rimorchio (troller-trolley se sul winch automatico).
7 - Maniglione/Grillo: Ferro a U con due fori per il passaggio di un perno. Serve ad unire due anelli
8 – Derrick: Mezzo si sollevamento del carico di bordo.
9 - Certificato di Navigabilità: Viene rilasciato dall'ispettorato compartimentale, se sono navi a propulsione meccanica. Quando la propulsione è a vapore la nave deve essere provvista anche del certificato d'idoneità della caldaia, rilasciato dall'ispettorato compartimentale.
10 - Certificato di Classe: Tutte le unità della flotta sono munite di Certificato di Classe rilasciato dal R.I.N.A. Che attesta la bontà di scafo ed apparato motore.
11 - Bollard-pull: Tiro al dinamometro. Il rimorchiatore tira un cavo di 100 metri messo sulla bitta di una banchina o diga. In perito, tramite uno strumento chiamato dinamometro misura la potenza in tonnellate del rimorchiatore
* Sevo/Sego - Grasso giallastro ricavato da bovini ed equini. Era usato sin dall’epoca della marineria velica come oggi si usa il pongo. Essendo impermeabile e morbido al punto giusto, serviva per amalgamare stracci, canapa, iuta, legname e sughero per formare tappi e chiudere falle, vie d’acqua. Ma sui rimorchiatori era anche spalmato sugli archi e sul bordo per eliminare gli attriti del materiale da rimorchio (cavo del troller, catene, cavi d’acciaio, bragotti, coppi, bozze, ecc...) Si usa ancora nei vari tradizionali per far scivolare la nave in mare.
da (
** Torello – E’ il primo corso di fasciame lavorato in modo da poter essere unito alla chiglia.
Note:
A - Apartheid (separazione) era la politica di segregazione razziale istituita dal governo di etnia bianca del Sudafrica nel dopoguerra e rimasta in vigore fino al 1990.
L'apartheid fu applicato dal governo sudafricano anche alla Namibia , fino al 1990 amministrata dal Sudafrica. L'apartheid è stato proclamato cimine internazionale da una convenzione delle Nazioni Unite, votata dall'assemblea generale nel 1973 ed è entrata in vigore nel 1976 (International Convention on the Suppression and Punishment of the Crime of Apartheid), e quindi successivamente inserito nella lista dei crimini contro contro l'umanità che la Corte Penale internazionale.
B - La Giunta. Con questo nome s’indica tuttora il periodo compreso negli anni dal 1967 al 1974, quando la Grecia fu governata da una serie di governi militari anticomunisti saliti al potere il 21 aprile 1967 con un colpo di Stato.
C - Zorba il greco è un film del 1964, diretto da Michael Cacoyannis e basato sull'omonimo romanzo di Nikos Kazantzakis. La parte del protagonista fu recitata da Anthony Quinn che si produsse in una delle sue migliori (e più famose) interpretazioni, nelle vesti di un personaggio ottimista che sa sempre come superare le difficoltà del momento. La musica, soprattutto il brano di Mikis Theodorakis (chiamato ballo di Zorba o Sirtaki), rimane tutt'oggi una delle musiche più famose della Grecia, al punto da esser diventato un ballo tradizionale. Il film fu girato nell'isola greca di Creta. In particolare, la scena in cui Antony Quinn balla il Sirtaki è stata girata sulla spiaggia di Stavros.
Carlo GATTI
Rapallo, 06.06.12