WILHELM GUSTLOFF - Una tragedia dimenticata

WILHELM GUSTLOFF

UNA TRAGEDIA DIMENTICATA

 

Quando si parla di grandi naufragi si viene catturati quasi sempre da nomi famosi come: Principe de Asturias (500 vittime), Titanic (1.513), Empress of Ireland (1.024), Lusitania (1.152), Conte Rosso (1.300), Andrea Doria (54) e di altri di cui la cronaca si occupa, purtroppo, anche ai giorni nostri. Alcuni di questi “relitti d’autore”, addirittura, riemergono ciclicamente dagli abissi per approdare sugli schermi del cinema sotto forma di fiction che addomesticano la vera storia per un pubblico bisognoso di sogni per esorcizzare il nemico che sta dietro l’angolo.

 

Ancora una volta prendiamo le distanze da questo mondo virtuale e puntiamo invece il riflettore su una tragedia che, sebbene quasi nessuno conosca, detiene tuttora un tragico primato: l’altissimo numero di vittime.

 

 

Si tratta della nave passeggeri tedesca Wilhelm Gustloff (nella foto) che fu affondata da un sommergibile sovietico il 30 gennaio 1945 nel Mar Baltico durante l’ultima fase della Seconda guerra mondiale. Il naufragio causò, secondo le ultime prove documentali, la morte di oltre 10.000 persone, divenendo il più grave mai registrato nella storia navale.

 

La Wilhelm Gustloff, costruita dalla Blohm und Voss di Amburgo, fu varata nel 1937, per la compagnia Kraft durch Freude (KdF = ”Forza attraverso la gioia”) che era un'organizzazione ricreativa della Germania nazionalsocialista. Aveva la considerevole stazza di 25.893 tonnellate ed era lunga oltre 200 metri. L’inaugurazione della Wilhelm Gustloff ebbe luogo presso il cantiere n.51 della B.&V. Non si trattava di una nave passeggeri particolarmente innovativa, ma rappresentava un efficace strumento di propaganda riunendo l’ideale dell’unità  “ariana”, il sogno tedesco e l’affermazione dell’ideologia nazista.
Doveva per questo motivo chiamarsi Adolf Hitler, ma le fu imposto Wilhelm Gustloff, capo della sezione elvetica del partito nazionalsocialista che fu assassinato il 4 febbraio del 1936 a Davos dallo studente ebreo David Frankfurter. L’omicidio aveva l’obiettivo di scuotere il popolo ebraico esortandolo a combattere contro l'oppressione nazista.

 

La Gustloff era la nave ammiraglia della flotta KdF che possedeva numerose altre navi altrettanto grandi e famose, ma la Gustloff aveva un suo fascino particolare e numerose furono le crociere compiute nell'Oceano Atlantico, nel Mar Mediterraneo e nei mari del Nord, alle quali aderirono la ricca borghesia tedesca dell’epoca.

 

 

La sua storia bellica inizia come “Trasporto Truppe” (nella foto) nel maggio del 1939, quattro mesi prima dell'inizio della Seconda guerra mondiale. La Gustloff si affiancò ad altre quattro navi della KdF, la Robert Ley, la Der Deutsche, la Stuttgart, la Sierra Cordoba, ed infine la Oceana (non facente parte della KdF). Tutte queste navi avevano il compito di trasportare la Legione Condor dalla Spagna alla Germania dopo il successo ottenuto dai nazionalisti franchisti contro le forze repubblicane.

 

 

 

Nel settembre del 1939, le forze armate tedesche trasformarono ufficialmente la Gustloff in “Nave Ospedale” (Lazarettschiff D) (vedi foto) assegnandola alla Kriegsmarine. Non poteva trasportare materiale bellico ed era monitorata secondo un rigido protocollo internazionale. Era stata riverniciata di bianco, con una banda verde lungo tutta la carena su entrambi i lati e mostrava numerose croci rosse sul ponte, sul fumaiolo e sui lati. Il primo impiego della nave ospedale fu nella zona di Danzica al termine della campagna polacca. Rimase per molte settimane alla fonda in quella baia per l’imbarco e la cura di numerosi feriti supportando le operazioni di guerra contro i sovietici. Dal maggio 1940 fino al luglio dello stesso anno, la Gustloff operò nella zona di Oslo in Norvegia, come ospedale galleggiante durante la campagna di Norvegia (nome in codice “overlord”). Lasciò Oslo con 560  feriti a bordo e durante l'estate del 1940, le fu ordinato di tenersi in allerta per  l’invasione dell'Inghilterra, che fu poi cancellata. Ancora una volta salpò da Oslo con altri 414 feriti. Subito dopo il viaggio terminò il servizio di “Nave Ospedale” e si spostò a Gotenhafen (Gdynia-Polonia) e venne adattata come “Nave Caserma” al servizio della Kriegsmarine affiancando i numerosi U-boot tedeschi. La Gustloff, prima sotto il comando della 1ª Divisione Unterseeboots (sottomarini), e poi della 2ª Divisione Unterseeboots, rimase all'ancora a Gotenhafen per oltre quattro anni.

 

 

L’Epilogo. Nel gennaio del 1945 la W. Gustloff rientrò in servizio prendendo parte attiva all'Operazione Annibale che fu la più imponente evacuazione di tutta la storia: 2.000.000 di rifugiati, soldati e feriti furono salvati, trasportati e messi al sicuro dall'avanzata sovietica verso ovest. Tutte le più grandi navi della KdF: Cap Arcona, Robert Ley, Hamburg, Deutschland, Potsdam, Pretoria, Berlin, Goya ed altre vennero utilizzate per l’O.A. nei porti di Danzica e Gotenhafen. Non tutti però riuscirono a salvarsi. Dalle 25.000 alle 30.000 persone morirono, soprattutto in seguito agli affondamenti della Gustloff e del Goya per un totale di oltre 15.000 morti. Considerando il numero di persone trasportate, le condizioni climatiche e il periodo di guerra, tale operazione fu comunque un successo dimostrando l’organizzazione e la determinazione della macchina di soccorso tedesca.

 

 

L’atto finale della Wilhelm Gustloff secondo l’interpretazione del pittore Irwin J.Kappes

 

L'affondamento. Quando la Gustloff uscì dal porto di Gotenhafen il 30 gennaio 1945, il tempo era pessimo: vento molto forte, nevicava e la temperatura era –10° e molte lastre di ghiaccio consistente galleggiavano pericolosamente nel Baltico. In quelle condizioni climatiche, la sopravvivenza per un naufrago erano nulle. La Gustloff, armata solo di qualche arma antiaerea, iniziò il suo ultimo viaggio senza alcuna scorta militare e senza installazioni antisommergibili.

 

 

Alle 21,08 del 30 gennaio 1945 il sommergibile russo S-13 comandato da Alexander Marinesko, lanciò tre siluri contro la Gustloff. Il primo colpì la nave a prua sotto la linea di galleggiamento. La nave sbandò subito a dritta. Immediatamente fu lanciato l'SOS e i razzi di segnalazione. Il secondo siluro la colpì sotto la piscina facendo esplodere l’intera struttura, ed infine il terzo siluro colpì la Sala Macchine devastando l'intero scafo. In quelle condizioni, la nave resistette 40 minuti all’invasione del mare dalle numerose falle. Poi si mise in verticale e s’inabissò di prora. La Gustloff affondò nelle acque nere e fredde del Baltico portando con sé oltre 10.000 persone. La più attendibile ricerca sul numero delle vittime é quella di Heinz Schön che riassume il “quadro” delle persone imbarcate secondo il seguente schema: 8956 rifugiati, 918 tra ufficiali e membri della 2. Unterseeboot-Lehrdivision, 373 donne delle Unità Ausiliarie, 173 uomini delle forze navali, 162 soldati feriti per un totale di 10.582 persone.

 

L'affondamento della Gustloff fu il più grave e spaventoso evento nella storia navale. Nessuna tragedia ebbe perdite di vite umane così pesanti. Ad inizio secolo lo scrittore tedesco Günter Grass ha raccontato il dramma di questo transatlantico nel libro: “Il passo del gambero”. Oggi il relitto della Wilhelm Gustloff é considerato alla stregua di un cimitero di guerra. L’intera area é interdetta a qualsiasi tipo d’immersione in segno di doveroso rispetto verso la più grande tragedia del mare.

 

Carlo GATTI

Rapallo, 19 settembre 2013

 


L'URAGANO SANDY affonda il BOUNTY del cinema

L’uragano “Sandy”

affonda il Bounty del cinema

L’imbarcazione era stata utilizzata nel film I Pirati dei Caraibi

Un momento felice del Bounty

Come un film, peggio del peggior film, l’uragano Sandy, la tempesta più prevista e pubblicizzata della storia, capace di tenere in ostaggio 60 milioni di americani, ha fatto due vittime sul mare e ha affondato uno scafo simbolo, un nome storico della letteratura, del cinema e della storia della navigazione: la “replica” del Bounty.

Il Bounty sta affondando

Era una copia della fregata mercantile della Royal Navy britannica, costruita per il film del 1962: 'Gli ammutinati del Bounty', con Marlon Brando nel ruolo di Fletcher Christian, il 'secondo di bordo' che nel 1789 comandò la rivolta contro il capitano William Bligh, e poi guidò gli ammutinati fino all'isola di Pitcairn, dove si stabilirono per sfuggire alla Royal Navy che aveva iniziato a cercarli ovunque. La storia ci racconta che l’inquieto ufficiale imbarcò nel 1787  sul veliero Bounty diretto a Tahiti per un carico di "alberi del pane”. Fu nominato Secondo su raccomandazione del comandante William Bligh, diventandone poi il luogotenente durante la navigazione. Il Bounty raggiunse Tahiti il 26 ottobre 1788 dove sostò per cinque mesi prima di rientrare alla base con il carico il 17 aprile1789. Poche settimane dopo, il 28 aprile 1789, a circa 1300 miglia a ovest di Tahiti, nei pressi di Tonga, Fletcher Christian capitanò il celebre ammutinamento decidendo, tra l’altro, di abbandonare il capitano della nave e i marinai a lui fedeli su una scialuppa in mezzo al mare.

173 anni dopo, nel 1962, Lewis Milestone decide di portare sul set la vera storia dell'ammutinamento, tratta dal romanzo “Mutiny on the Bounty” di Charles Bernard Nordhoff e James Norman Hall. Il film ruota attorno ad un grande Marlon Brando, affiancato sul set da Trevor Howard, Richard Harris, Hugh Griffith e Richard Haydn. Per l'occasione, Hollywood costruì una copia praticamente esatta del Bounty originale che é sopravvissuta 50 anni, forse troppo per un veliero in legno d’epoca, sebbene motorizzato e attrezzato di moderni strumenti e di conforts.

La cronaca di questi giorni ci dice che il veliero “H.M.S. Bounty” non ha avuto scampo contro onde alte 7/8 metri, sollevate dai 50 nodi di vento furioso mentre si trovava al largo delle coste del North Carolina. Impossibilitato a governare, il veliero ha iniziato ad imbarcare acqua, le pompe di sentina sono andate rapidamente fuori uso e, dopo alcune ore, il comandante ordinò al suo equipaggio di abbandonare le nave e di lui non si seppe più nulla. I quattordici sopravvissuti ce l'hanno fatta grazie allo spericolato intervento della Guardia Costiera, prima con un Hercules C-130 da ricognizione, poi con due elicotteri intervenuti in loro soccorso a circa 90 miglia a Sud-Est da Capo Hatteras che hanno issato i naufraghi a bordo con i verricelli di bordo. Poi, nella serata un altro elicottero ha localizzato il corpo "inanimato" di Claudene Christian, 42 anni che, per ironia della sorte, aveva lo stesso cognome del protagonista degli “Ammutinati del Bounty”. Non c'é stato invece nulla da fare per il veliero. Dopo essere stato  abbandonato alla deriva, si é poi sfasciato tra le secche di un basso fondale.  “Il suo albero di maestra svetta ora tra le onde”, ha riferito l'ammiraglio della Guardia Costiera, Robert Parker.

Il Bounty aveva lasciato il Connecticut giovedì 25 ottobre con a bordo 11 uomini e 5 donne tra i 20 e i 66 anni, tutti consapevoli della pericolosità della traversata. Secondo i sopravvissuti, il comandante avrebbe cercato di aggirare l’uragano, ma dopo due giorni in balia della tempesta si è reso conto che le difficoltà aumentavano: “Credo che ci saremo dentro per parecchi giorni”, aveva scritto in un messaggio sulla pagina Facebook della nave, una sorta di diario di bordo. “Cerchiamo di uscirne prima possibile”.

Lunedì 29 ottobre, il Bounty ha cominciato a imbarcare acqua, i motori sono andati in avaria, la nave si é traversata agli elementi, é seguito il lancio del May Day-May Day, l’abbandono-nave e il si “salvi chi può” sulle scialuppe calate nel mare tempestoso. Al momento dell’arrivo del primo elicottero, una luce stroboscopica era visibile sull’albero di maestra del Bounty ormai semi affondato.

Come vedremo tra poco, la forza distruttrice della natura ha infatti paralizzato parte del Nord America, bloccando letteralmente New York. Metropolitane invase dall'acqua, strade allagate, corrente elettrica saltate, linee telefoniche mute. La Grande Mela si é piegata al passaggio di Sandy.

Una bella immagine del Bounty

Storia della tempesta

L'Uragano Sandy è stato definito un Ciclone Post-Tropicale di fine stagione che ha colpito la Giamaica, Cuba, Bahamas, Haiti, Repubblica Dominicana e la Costa Orientale degli Stati Uniti  raggiungendo la zona a sud della Regione dei Grandi Laghi  degli Stati Uniti e il Canada orientale. È il diciottesimo ciclone tropicale, la diciottesima tempesta di ‘nome’ e il decimo uragano  del 2012.


La rotta a salire dell’uragano Sandy vicino al suo picco di forza il 29.10. 2012

Formazione  ........         22 ottobre 2012

Venti più veloci ........     175 km/h

Pressione minima ........ 940 mbar

Vittime  .................      182 (110 negli USA)

Danni  ...................      50 miliardi $

Aree colpite  ..............   Giamaica, Cuba, Hispaniola, Bahamas, Florida

Sandy si è sviluppato nel Mar dei Caraibi  occidentale il 22 ottobre 2012. È diventato depressione tropicale ed è stato promosso tempesta tropicale sei ore più tardi. La vasta depressione si é mossa lentamente dalle Grandi Antille verso nord rinforzandosi. Il 24 ottobre il fenomeno Sandy, poco prima di investire la Giamaica, è stato classificato uragano. Nel suo vorticoso movimento verso nord, Sandy ha ripreso il mare e nelle prime ore della mattina del 25 ottobre ha investito Cuba come uragano di categoria 2. Durante la tarda serata del 25 ottobre, Sandy si é leggermente indebolito passando a uragano di categoria 1. Nelle prime ore del 26 ottobre, ha investito le Bahamas. Sandy brevemente indebolito a tempesta tropicale nelle prime ore del mattino del 27 ottobre, si é poi di nuovo rinforzato, classificandosi di categoria 1 durante la mattinata. Poco prima delle 8 del mattino del 29 ottobre, Sandy ha accostato a nord-nord-ovest, si é avvicinato verso la costa degli Stati Uniti, mantenendo categoria forza 1. L'impatto di Sandy si é esteso dalla Virginia al New England, con venti fortissimi che hanno raggiunto l’hinterland producendo cospicue nevicate sui monti del West Virginia.

La tempesta tropicale di proporzioni mai viste prima da quelle parti, ha colpito New York city la sera del 29 ottobre allagando subito numerose strade, scantinati tunnel a Lower Manhattan e in altre aree della città. Secondo le stime del Comune, solo nella fascia costiera degli Stati Uniti oltre 4 milioni di persone sono rimaste senza energia elettrica.

CONCLUSIONE: abbiamo riportato appositamente la storia di SANDY per sottolineare che l’emergenza nazionale era già stata dichiarata il 22 ottobre quando si cominciò a monitorare lo spostamento sempre più preoccupante di quella eccezionale massa ciclonica. Da quel momento, l’allerta generale fu diffuso in ogni angolo della terra e fu mantenuta sino al suo esaurimento finale.

Sfogliando l’album dei ricordi, notiamo che già nei primi anni ’60, ogni nave proveniente dall’Europa e destinata ad un qualsiasi porto atlantico degli USA, durante la “rottura dei tempi”, era continuamente bombardata dai “gale warning” locali (avvisi di burrasca molto precisi). Qualsiasi piccola o grande depressione era segnalata, seguita e monitorata. Dopo 50 anni, nel campo della meteorologia satellitare, la tecnologia ha fatto passi da gigante, eppure c’é sempre qualche “belinone” che ne sa una più del diavolo... Questa volta é stato il turno della “replica” del Bounty. D’accordo che era perfettamente funzionante, motorizzata e che veniva impiegata per trasportare passeggeri in cerca di emozioni... ma era pur sempre un “legno” di 50 anni. Tutto ha un limite! L’area interessata alla depressione era di ben 3200 Km. Come pensava il Comandante di aggirarla? Quella sua presenza davanti a Capo Hatteras mentre scendeva dalla Carolina del Nord verso la Florida, per sfidare Sandy nei giorni della sua massima esplosione e potenza, ci appare oggi misteriosa, inquietante, per non dire folle! A questo punto esiste il sospetto, più che fondato, che il delirio d’onnipotenza di certi comandanti della nostra epoca, probabilmente “sniffanti” e in cerca di gloria, debba essere contrastato dalle Autorità prima che un intero settore finisca in malora.

Carlo GATTI

Rapallo, 19 settembre 2013



La caduta della TORRE DI CONTROLLO DI GENOVA

LA CADUTA DELLA TORRE DI CONTROLLO DEL PORTO DI GENOVA

Una Tragedia annunciata?

La vecchia e la nuova Torre di Controllo del traffico del Porto di Genova. Un passaggio di consegne finito in tragedia.

 

PREMESSA: Le navi che approdano nel porto di Genova vanno “girate” all’arrivo oppure alla partenza. L’allungamento di molti Ponti ed il riempimento di zone portuali strategiche hanno drasticamente concentrato in avamporto questo tipo di manovra.

La cementificazione del Porto di Genova, ha cercato di dare risposte ‘moderne’ alle richieste dello shipping internazionale, ma il suo impianto é medievale, e questi limiti geografici e corografici sono, a nostro modesto avviso, tra le probabili cause della tragedia della Torre di Controllo del Traffico.

Il disegno schematico evidenzia (nella parte alta) l’allungamento dei pontili nel bacino ad anfiteatro del Porto Vecchio, da sinistra: tombamento del Passo Nuovo e Calata Sanità, modifica di  Ponte Assereto e Ponte Colombo, Andrea Doria, Ponte dei Mille ed infine la trasformazione delle Calate interne fino al Molo Vecchio. Nel disegno é anche visibile (nella parte bassa a sinistra) il riempimento di Calata Bettolo. La freccia rossa indica la zona Bacini e la T.C. scomparsa.

 

Questa bella immagine delle Stazioni Marittime del Porto Vecchio è successiva ai lavori di allungamento di Ponte dei Mille

Premetto che, nel rispetto delle indagini in corso, non mi occuperò della manovra della Jolly Nero, ma piuttosto della situazione che si é venuta a creare in porto, dopo l’operazione di trasformazione e di allungamento di molte banchine per adattarle alle nuove esigenze del mercato navale.

Pochi si sono accorti che queste ‘gettate di cemento’ hanno costretto i piloti a cambiare le “tradizionali manovre”, a causa degli spazi sempre più ridotti, anche a scapito della sicurezza.

La cementificazione iniziata più o meno nel 2001-2002 é andata progressivamente aumentando fino all’anno in corso che, come tutti sappiamo, ha visto la distruzione della Torre di Controllo dei Piloti da parte di una nave in manovra di uscita e, con molto ritardo, questa immane tragedia ha reso un po’ tutti consapevoli dei passi “imprudenti” che sono stati compiuti in oltre dieci anni di affannosa rincorsa dei traffici in fuga dall’Italia.

Come sempre succede dopo un disastro, da più parti, ogni giorno,  vengono sollevate obiezioni, supposizioni, accuse e dichiarazioni a dir poco STRANE. In effetti, si continua a trattare le persone come fossero bambini ritardati... ed anziché spiegare le verità nude e crude, si preferisce lasciare l’ultima parola al prete di turno, alla fatalità, alla pietra tombale e così via...

I lavori di ammodernamento del porto iniziati negli anni ’90, videro i primi ‘allungamenti importanti’ nel 2001-2002, e sono poi proseguiti come da note qui di seguito riportate:

Articolo del 2009 - AUTORITA’ PORTUALE

Stato di avanzamento piano delle opere.

- Presentato stamani a Palazzo San Giorgio lo stato di avanzamento del piano delle opere del porto di Genova, già cantierate o in via di cantierizzazione, avviate nel corso del 2009 e di prossimo avvio nel 2010 ...........

- L’intervento darà una risposta lungamente attesa al compendio dove proseguono peraltro i lavori per Calata Bettolo, a cui la seconda fase di dragaggio dovrebbe imprimere un’accelerazione, e dove partiranno a giorni i lavori per il riempimento Ronco-Canepa..........

- Per quanto riguarda invece l’area passeggeri è in fase di assegnazione la gara per la realizzazione grande banchina di Ponte dei Mille con un accosto di 340 metri destinato alla navi passeggeri di ultima generazione.

Articolo del 24/09/2011

Inaugurata la nuova banchina Ponte dei Mille.

Merlo: “Genova raggiungerà 1 milione di passeggeri”

Genova. Da oggi la più bella Stazione Marittima d’Europa ha una nuova banchina. Infatti, è stato inaugurato stamane, alla presenza delle autorità, l’ampliamento del lato di ponente della banchina di Ponte dei Mille.

Calata Bettolo per metà é ormai riempita.

Ampliamento del terminal container di Calata Bettolo.

L'intervento prevede la realizzazione di una nuova banchina a sud dell'esistente Calata Bettolo, a chiusura dello specchio d'acqua tra Ponte Rubattino e Calata Canzio (vedi foto n.4). Il piazzale ottenuto a seguito del tombamento dello specchio acqueo antistante Calata Bettolo costituirà il Nuovo Terminal Contenitori della capacità a regime di oltre 400.000 TEU/anno, in grado di operare su navi portacontainer della settima generazione, con lunghezze di oltre 380 metri e pescaggi di oltre 14.50 metri, grazie ad uno sviluppo di banchina di oltre 750 metri ed un tirante d'acqua di progetto di 17 metri.

E’ inoltre, prevista la costruzione di una unità funzionale, ad est di Calata Olii Minerali, denominata Darsena Tecnica, destinata ad attività di bunkeraggio navale e piattaforma ecologica (vedi foto n.2). La darsena tecnica è a levante e piccole cisterne lavoreranno nella nuova testata Calata Canzio (lungo canale).

 

Una veduta aerea del Porto di Genova dei primi anni ’90, con i suoi 22 km di lunghezza e le sue quattro imboccature. (Imbocc. di Levante-Fiera; Imbocc. Centrale–Italsider; Imbocc. Porto Petroli Multedo-Aeroporto; Imbocc. di Ponente-Porto Container di Voltri) – Nella foto si nota una nave in entrata davanti  alla Fiera, tra poco sarà all’altezza del citato Superbacino ed  entrerà in Avamporto. Poco avanti si vede un’altra nave in movimento davanti alla vecchia Torre di Controllo. Tra poco questa seconda nave entrerà nel bacino di evoluzione delle Grazie (tra Calata Gadda e i Bacini di Carenaggio). Sullo sfondo, il bacino ad anfiteatro del Porto Vecchio dove hanno girato il REX, la MICHELANGELO e le moderne navi da crociera prima dell’allungamento dei moli.

04.00 del 26 luglio del 1997 - Partenza Superbacino da Genova. Quattro piloti: Aldo Baffo, Giuseppe Fioretti, Carlo Gatti e Ottavio Lanzola presero posizione su ogni lato del Superbacino......

In questa immagine si vedono chiaramente le dimensioni del manufatto costruito in cemento armato, lungo 370 mt., largo 80 e alto una ventina di metri. Posizionato davanti all’imboccatura di levante del Porto, impediva ai Piloti la visuale del traffico navale. Questa megastruttura, nata e cresciuta  in porto, era destinata al raddobbo delle superpetroliere di 350.000 tonnellate di portata, che furono costruite dopo il blocco del Canale di Suez alla fine della Guerra dei Sei Giorni (6.6.67). La sua forma, simile ad un enorme parallelepipedo vuoto e senza copertura, era il risultato dell’assemblaggio di otto elementi che era iniziato con il varo, tutt’altro che facile, del primo pezzo nel lontano 28 aprile 1975.

Questo “ostacolo” fu all’origine della costruzione della nuova Torre di Controllo abbattuta dalla Jolly Nero.

Un po’ di Storia: Verso la metà degli anni ’80, proposi ai miei colleghi piloti ed alle Autorità dell’epoca, la necessità di poter operare da una Torre di Controllo del traffico alta e moderna, che superasse in altezza il superbacino galleggiante che impediva la visuale delle navi in avvicinamento all’imboccatura di levante. Tutti erano consapevoli che all’epoca, in certi giorni della settimana e in certi orari particolari, si doveva gestire l’approaching di 10-15 navi contemporaneamente, oltre a quelle in uscita, in movimento e in attesa di istruzioni. La direzione del traffico era diventato il problema principale per la sicurezza del porto. Il superbacino era inattivo, ed era così alto che dalla vecchia Torre di Controllo, alta quattro piani, i piloti erano completamente ciechi. Il presidente del Porto di allora, Roberto D’Alessandro ci promise la realizzazione di un prototipo di T.C. da parte dell’Italimpianti. Purtroppo, i suoi scontri con il console Batini lo videro sconfitto. Ritornai alla carica nei primi anni ’90, con il Capo Pilota Adriano Macario, sensibile al problema e con alcuni Dirigenti dell’allora CAP, i quali  capirono al volo che la realizzazione di una moderna T.C. sarebbe diventata il fiore all’occhiello di un Porto Integrato all’avanguardia, con le sue 4 imboccature (quattro piste d’atterraggio) ecc... Lo studio, la progettazione, la strumentazione, la funzionalità, la logistica ecc.... c’impegnarono per molti  anni di duro lavoro.  Tutto andò per il meglio, ma la sua “tranquillità operativa” durò solo pochi anni a causa, come si é visto, di una progressiva cementificazione che andò via via a restringere e a ridurre nel tempo il numero dei bacini d’evoluzione dislocati in tutte le zone portuali e che per anni avevano permesso ai piloti di girare le navi contemporaneamente.

Una annotazione importante

Fino ad una decina di anni fa, esisteva in porto la “Consuetudine” che obbligava tutte le navi in arrivo ad ormeggiare con la prora fuori, per essere pronte a sgomberare in caso di emergenza. Va da sé che tutte le navi in arrivo nel Porto di Genova DOVEVANO ESSERE GIRATE in determinati “slarghi”. Oggi le cose sono cambiate: il 40% delle navi in arrivo vengono ormeggiate con la “prora a terra” sia per ridurre i tempi di manovra, sia per la sparizione o diminuzione degli slarghi stessi.

Dove ‘giravano’ le navi prima della cementificazione selvaggia e dove ‘girano’ oggi?

Navi destinate al Porto Nuovo di Sampierdarena, (i cosiddetti pontili a pettine).

Fin dalla sua costruzione (tra le due guerre mondiali), le navi hanno sempre “girato” secondo queste modalità:

- lunghezza 50-100 mt. girano sul posto.

- lunghezza 100-220 mt. girano con la prua a ponente in canale, perché la distanza tra le testate dei pontili e la diga foranea é di 210 metri.

- lunghezza superiore a 220 metri (Jolly Nero), sia in entrata che in uscita (se necessario) evoluivano a CALATA BETTOLO, ormai tombata definitivamente. Questa manovra é stata fatta per circa 90 anni. Oggi queste navi girano in AVAMPORTO

Bacini di evoluzione PORTO ANTICO

AVAMPORTO, lo slargo che s’incontra entrando in porto, ha sempre avuto lo specifico scopo (direi storico), proprio per le sue dimensioni, di ‘agevolare’ gli incontri tra le navi in uscita e quelle in entrata, evitando i passaggi ravvicinati in canale e in altre zone più strette (accesso ai bacini di carenaggio, calata Sanità x grandi n. container, traghetti in transito ecc...).

Questa foto, ripresa sulla T.C. da una delle vittime, vale più di tante parole..............

Con la cementificazione in atto, l’AVAMPORTO é diventato l’unica ZONA DI EVOLUZIONE SICURA, ma di DI MASSIMO PERICOLO PER LA T.C. (vedi foto 7)

Aggiungo, inoltre, che detta pericolosità é stata anche accentuata da altre strutture e banchinamenti costruiti agli Olii Minerali - la zona diametralmente opposta a ponente, della T.C. - già descritta all’inizio.

BACINO PORTO VECCHIO, abbiamo visto che ormai é destinato a ZONA DI EVOLUZIONI SOLTANTO PER I TRAGHETTI e navi similari per l’avanzamento del cemento e la riduzione drastica dell’acqua di manovra.

BACINO CALATA GRAZIE, (vedi foto n.5). Si tratta di un’area di evoluzione che é stata dragata tra i Bacini di Carenaggio e Calata Gadda. Viene tuttora usata quando soffia forte la tramontana, ma presenta altri problemi su cui é inutile soffermarci. Durante i lavori di dragaggio a Calata Gadda, le GRANDI NAVI PASSEGGERI SONO STATE GIRATE PREFERIBILMENTE IN AVAMPORTO. Si preferisce girare queste navi in AVAMPORTO anche durante forti sciroccate e libecciate.

ZONA DI EVOLUZIONE DAVANTI A CALATA SANITA’. Si usa questa zona di evoluzione quando vi é concomitanza di manovre di navi passeggeri destinate alle Stazioni Marittime. (Vedi margine inferiore foto.n.5)

Così si presentava il Bacino Porto Vecchio prima degli allungamenti dei pontili. In rosso i terminal passeggeri di un tempo.

Davanti a Ponte dei Mille e Ponte Andrea Doria evoluì il REX (250 mt.), il CONTE DI SAVOIA e, in seguito, noi girammo la MICHELANGELO-RAFFAELLO (275 mt.) - EUGENIO C. e le grandi navi moderne (eccetto le ultime, ovviamente).

CONCLUSIONE:

All’epoca della progettazione e costruzione della T.C. crollata, nessuno tra gli addetti ai lavori, aveva conoscenza dei progetti che avrebbero  fronteggiato il gigantismo navale. Nel frattempo centinaia di Operatori Portuali di tutti i continenti vennero a Genova per studiarne l’ubicazione, l’operatività e quant’altro. Nessuno mosse mai critiche o avanzato progetti  per migliorarne la sicurezza.

Tuttavia, oggi sarebbe importante sapere come mai, una volta avviati i lavori di ammodernamento, non siano state prese in considerazione le denunce di pericolose oscillazioni della T.C. a causa del vento e della vicinanza delle navi in evoluzione.

La Torre di Controllo nacque per dare SICUREZZA ALLE NAVI, non per essere essa stessa vittima della mancanza di sicurezza. Non averla protetta dai cambiamenti delle dinamiche navali in atto nell’ultimo decennio é stata una fatale omissione. Si spera che le indagini in corso rivelino le vere cause e individuino le responsabilità di chicchessia affinché i nove giovani operatori della T.C. non siano morti invano.

Dalle dichiarazioni udite in TV subito dopo la tragedia, uno dei massimi dirigenti del porto si é così espresso:

“Quella nave non doveva girare lì, non si é mai visto una cosa del genere!”

Che tristezza! No comment!

 

Carlo GATTI

Rapallo, 18.5.2013

Riportiamo il commento di un nostro socio ing. A.B. sul crollo della Torre di Controllo dei Piloti di Genova:

 

"Grazie alle foto scattate durante la costruzione della Torre dei Piloti, la struttura di base é ben visibile.

Si trattava di una costruzione che gravava su semplici colonnine senza rinforzi che rimaneva in piedi grazie alla forza di gravità.

Con un carico di punta senza contrasti laterali é logico che sia crollata come un domino. Le solite "architettate" senza cervello.

Ribadisco: osservando il danno (o per meglio dire il NON danno) sulla nave, ne deduco senza troppo sforzo che al momento dell'urto la nave era già praticamente ferma e si è semplicemente appoggiata.

Le tracce di cemento si estendono al massimo per un paio di metri lungo lo scafo.

L'edificio era così mal concepito da andare giù praticamente con un soffio...

Dico di più, se invece della nave fosse giunto uno scossone di terremoto avrebbe fatto con tutta probabilità la stessa fine.

Continueranno a prendersela con la parte "marinara" della questione cercando errori di manovra, probabilmente per mascherare ben altro...

 

 

 


LEONARDO DA VINCI, da mito a relitto

 

 

3.7.1980

 

 

INCENDIO E PERDITA

 

 

della nave passeggeri italiana in disarmo

LEONARDO DA VINCI

Nave

Bandiera

Varo

Stazza l.

Passeggeri

Velocità

Leonardo

da Vinci

italiana

1958

33.340

1326

25.5

Luogo dell’Incendio:

La nave era ancorata nella rada del porto di La Spezia.

Un po’ di Storia:

 

Il 5 aprile 1977, la turbonave Leonardo da Vinci fu messa in disarmo, a conclusione di numerosi viaggi di linea per il Nord America. Si chiudeva così un fulgido periodo di grandi tradizioni marinare per l’Italia e la Liguria, legato ad un servizio marittimo ormai compromesso dalla concorrenza dell’aviazione civile mondiale.

 

 

Folla di curiosi assiste alla partenza della Leonardo da Vinci da Ponte Andrea Doria.

 

 

La Leonardo da Vinci in uscita dal porto di Genova per il suo viaggio inaugurale il 30.V.1960

 

 

La magnifica linea della Leonardo da Vinci, tipico esempio di Italian Style, in arrivo negli Stati Uniti.

 

Ci fu quindi una cancellazione totale dei servizi di linea, ma si aprì il grosso problema dell’utilizzo delle unità disarmate e soprattutto del numeroso personale destinato altrimenti alla disoccupazione. La riapertura del Canale di Suez offrì in quel periodo nuove opportunità turistiche e fu decisa la costituzione di una Società a partecipazione mista:

 

Statale (FINMARE) e Privata (Costa-Magliveras-Elice) per la gestione di navi in attività crocieristiche. Venne così fondata la I.C.I (Italia Crociere Internazionali).

 

La prima decisione presa dalla nuova Società fu quella di rimettere in servizio La Leonardo che venne destinata ai Caraibi, con base a Port Everglades in Florida. Ma i concetti di costruzione e di servizio delle vecchie navi di linea, erano ormai tutti superati dal nuovo vento tecnologico e manageriale, imposto da una classe emergente di Armatori che aveva previsto in tempo la svolta epocale dei traffici navali. Così che, dopo appena un anno di crociere, la Leonardo rientrò a Genova il 18.9.1978 e la trasferirono dopo pochi giorni a La Spezia in disarmo.

 

 

La Leonardo da Vinci in disarmo alla Spezia é devastata da un

improvviso incendio.

Incendio a bordo:

 

 

L’incendio é finalmente estinto, ma la Leonardo da Vinci é ormai un relitto.

 

Fu durante questa sosta forzata che il 3.7.1980 la gloriosa e bella nave genovese andò perduta, a causa di un incendio scoppiato, forse per un cortocircuito e che non fu possibile domare tempestivamente per mancanza di personale, essendo la nave in disarmo e quindi sorvegliata da un numero esiguo di personale.

 

Per ragioni di sicurezza, la nave fu allontanata a rimorchio fuori dalla diga foraneadel porto, dove  continuò a bruciare per tre giorni ed alla fine, a causa dell’acqua imbarcata in funzione antiincendio, sbandò, poi s’inclinò sempre di più sino a coricarsi su un fianco sul basso fondale della rada.

 

La Leonardo da Vinci fu in seguito recuperata ed avviata definitivamente alla demolizione.

 

La sezione prodiera della Leonardo da Vinci appoggiata su un fianco

 

 

Carlo GATTI

 

Rapallo, 3 aprile 2013

 

 

 


HELEANNA - Una ferita che brucia ancora

M/n HELEANNA - UNA FERITA CHE BRUCIA ANCORA

Il comandante Dimitrios Anthipas, un pessimo esempio di Comandante

 

Il 28 agosto 1971, a 15 miglia da Monopoli, un incendio scoppiò a bordo del traghetto greco “Heleanna”. Si trattò della più drammatica e funesta sciagura marittima accaduta in Adriatico nel dopoguerra. La tragedia costò la vita a 25 turisti imbarcati; 16 furono i dispersi, 271 feriti tra i 1089 i superstiti.

Sono trascorsi 42 anni dall’incendio della HELEANNA, ma il ricordo é sempre vivo, specialmente tra coloro che seguirono da vicino le operazioni di salvataggio, ma anche da tutti coloro che ben presto si resero conto che a bordo del traghetto viaggiavano 1174 passeggeri, quasi il doppio dei 620 consentiti, e duecento automobili. A quel punto l’apprensione si trasformò in pura rabbia e la stampa di allora definì “negrieri del mare” il comandante Antypas Dimitrios ed il suo armatore Efthymiadis.

 

Da dove uscì quel maxi-traghetto con la ciminiera a poppa come una petroliera?

 

 

Negli anni ’60 l’armatore greco Constantino S. Efthymiadis comprò quattro petroliere svedesi per convertirle in traghetti passeggeri:

la MARIA GORTHON (rinominata PHAISTOS), nel 1963;

la SOYA-MARGARETA (rinominata MINOS), nel 1964;

la SOYA-BIRGITTA (rinominata SOPHIA), nel 1965;

la MUNKEDAL (rinominata HELEANNA), nel 1966.

Nel 1954 la nave cisterna Munkedal fu costruita dai cantieri Götaverken di Göteborg-Svezia. Ma il suo destino fu segnato dalla chiusura del Canale di Suez* che costrinse le petroliere a compiere il lungo e costoso periplo dell’Africa, linea che sarebbe risultata economica soltanto con l’introduzione del  “gigantismo navale”. Così fu, e tutte le stazze minori, tra cui le petroliere svedesi sopra citate, furono messe fuori mercato. 

 

Nota: Dopo la GUERRA DEI SEI GIORNI del 1967, il canale rimase chiuso fino al 5 giugno 1975).

 

Da sempre i greci sono considerati validissimi marinai, ma anche un po’ spregiudicati. L’armatore C.S.Efthymiadis era un fedele garante di questa tradizione. La sua intuizione gli permise, infatti, di trasformare e reclamizzare la nuova unità come “il più grande traghetto del mondo”. 

Nel 1966, mantenendo il suo aspetto esteriore, la petroliera Munkedal fu ridisegnata al suo interno per la sistemazione di numerose cabine/passeggeri, mentre sulle fiancate dello scafo furono installati portelloni con rampe di nuova concezione per l’imbarco/sbarco di auto al seguito e mezzi pesanti. Rinominata Heleanna, il traghetto entrò in linea sulla rotta Patrasso–Brindisi-Ancona e ritorno. 

 

La cronaca dell’incidente

Al momento del disastro l’Heleanna si trovava 25 miglia nautiche a Nord di Brindisi, a 9 miglia al largo di Torre Canne, più verso Monopoli. Proveniva da Patrasso ed era diretta ad Ancona con 1174 passeggeri e 200 mezzi  (auto, tir e autobus). 

Tutto ebbe inizio alle 05.30 del 28 agosto 1971 quando una fuga di gas dai locali della cucina, fra la panetteria, la riposteria ed il locale ristoro provocò un  incendio a poppa. Si parlò di un corto circuito, forse una manovra errata di accensione dei polverizzatori della cucina, oppure di uno spandimento di gas liquido, ma anche di una possibile fuoriuscita di nafta dalla cassa di alimentazione della calderina.

Alcuni testimoni affermarono che l’incendio prese il sopravvento solo quando il fuoco lambì le bombole di ossigeno facendole esplodere. Poco dopo successe un fatto molto anomalo: in una cala di poppa vicino al timone, scoppiò un’altra bombola d’ossigeno che bloccò istantaneamente l’organo di governo che era, in quel momento, posizionato 15° a dritta. Il traghetto, ormai in panne, ma ancora abbrivato, compì un’ampia accostata in cui il vento  propagò l’incendio a tutta la nave. 

L’Heleanna aveva in dotazione 12 scialuppe di salvataggio sufficienti per 600 persone, la metà delle persone imbarcate. Le inchieste promosse dalle Autorità dimostrarono che metà delle lance erano inutilizzabili per via degli argani bloccati dalla ruggine. Tra quelle calate a mare, una si ribaltò e precipitò in mare probabilmente per il sovraccarico.

Gli idranti antincendio e i tutti i sistemi di soccorso non erano funzionanti. Le inchieste che seguirono dimostrarono che il traghetto, dal punto di vista della sicurezza, era da considerarsi sub-standard. 

Il disastro causò 25 morti, 16 dispersi e 271 feriti, alcuni anche in modo grave. Le vittime erano di nazionalità italiana, greca e francese. Non appena il Comandante della nave lanciò l’SOS, soccorsi aerei e navali partirono da Brindisi, Bari, Monopoli e Grottaglie.

I soccorsi aeronavali partirono da Brindisi, Bari, Monopoli, Taranto e Grottaglie, anche con la partecipazione di alcuni pescherecci privati (LauraMadonna della MadiaAngela DaneseNuova VittoriaS. Cosimo) che si attivarono con molta efficacia nella ricerca dei dispersi in mare ed al soccorso dei naufraghi.

L’incendio venne domato dopo molte ore. Il relitto fu rimorchiato verso porto di Brindisi e fu ormeggiato nei pressi del castello Alfonsino.

I feriti sarebbero stati più numerosi se non fosse scattata con grande tempestività l’opera dei soccorritori. Il personale dei rimorchiatori locali della Società Barretta dovette avvicinarsi fino a pochi metri dalla nave per rendere efficace il getto delle proprie spingarde, sfidando temperature altissime e respirando gas di scarico e fumi micidiali, ma dovettero farlo per domare le lingue di fuoco che fuoriuscivano da tutta la nave minacciando di far esplodere i serbatoi di benzina degli oltre 200 mezzi che si trovavano nel garage. Fatto che purtroppo avvenne con tutte le sue tragiche conseguenze.

Anche la città di Monopoli si prodigò per confortare i superstiti, dando una dimostrazione di grande generosità offrendo aiuto e accoglienza ai naufraghi dell’Heleanna.

 

Il 15 ottobre del 1972 il Capo dello Stato Giovanni Leone conferì alla città la Medaglia d’Argento al Merito Civile in riconoscimento dell’antica tradizione di ospitalità e di civismo della sua popolazione.

 

Quando siamo arrivati sul posto” – raccontò il proprietario di un peschereccio – “ci siamo trovati di fronte ad uno spettacolo agghiacciante. Lunghe lingue di fiamme uscivano dalla poppa impedendoci di avvicinarci troppo. Sul ponte del traghetto dilagava il panico. Centinaia di persone tentavano di calare le scialuppe senza riuscirvi, altre che scendevano con le barche liberate, rimanevano poi sospese e bloccate a mezz’aria. Altre barche ancora, arrivavano in mare ma non sapevano come governarle. I più si gettavano direttamente in mare saltando dal ponte. Su decine di corde, calate dalle fiancate, c’erano grappoli di uomini appesi, molti erano senza salvagente. Diversi battellini di gomma, sparpagliati in mare, erano difficili da raggiungere ma anche più difficile riuscire a salirvi dentro. Dalle navi che erano accorse – racconta un altro marinaio – erano state calate delle scialuppe, ma rimanevano vuote perché la gente in mare, sfinita non riusciva a raggiungerle. Allora, molti di noi, si sono buttati in acqua per aiutarli. Mai avevo visto tanta gente disperata, annientata dal dolore per aver perso, magari un attimo prima, un amico, un congiunto. Intanto, sulle banchine dei porti di Monopoli, Brindisi e Bari, viene predisposto un imponente servizio di soccorso”. 

 

Centinaia di privati misero a disposizione i loro mezzi, altri portarono in Capitaneria indumenti e coperte. L’incendio fu domato prima di notte e l’Heleanna fu tenuta prudentemente in rada mentre gli inquirenti tentarono di accertare le responsabilità dell’accaduto. 

Pare che nella confusione generale, il Comandante del traghetto sia stato il primo a perdere la testa. Alcuni testimoni, infatti, affermarono che il capitano Anthipas abbia lasciato la nave subito dopo l’allarme, mentre la moglie, che era con lui sul traghetto, sostenne il contrario. Per la verità, un’evidenza ci fu e molti la testimoniarono in diverse sedi: il comandante Dimitrios Anthipas, giovanissimo e senza esperienza, giunse “asciutto” sulla banchina di Brindisi, e il 29 agosto del 1971 cercò addirittura la fuga, ma venne arrestato al varco frontaliero del porto di Brindisi, poco prima d’imbarcarsi furtivamente con la moglie su una nave diretta in Grecia. Il comandante venne arrestato con l’accusa di omicidio colposo e per abbandono della nave. 

Dimitrios Anthipas sarà poi estradato in Grecia mentre chi ha perso tutto: auto, bagagli, valori, la stessa vita di moglie, figli, genitori e parenti non sarà neppure risarcito. Gli assicuratori si rifiuteranno di pagare per l’evidente violazione, da parte della nave, delle norme stabilite nelle polizze assicurative.

All’epoca del “sinistro”, le acque territoriali comprendevano una fascia di 6 miglia nautiche (11.112 KM), poi modificate per legge in 12 miglia dal 27 febbraio 1973), per cui il disastro avvenne in acque internazionali. Ma le Autorità italiane dichiararono la loro competenza a processare il comandante della nave poiché alcune vittime del disastro erano perite in acque territoriali italiane ed almeno una era morta in ospedale a Brindisi. Anche le autorità greche furono interessate al processo, in quanto la nave batteva bandiera ellenica.

 

L’Heleanna in fiamme

 

Notare la vicinanza del rimorchiatore che punta le spingarde antincendio sulla poppa dell’Heleanna

 

 

 

Targa commemorativa del naufragio a Monopoli

 

 

 

Dopo due anni e mezzo di sosta forzata nel porto di Brindisi, per il relitto dellHeleanna giunse il momento del congedo, dell’ultimo trasferimento verso un Cantiere di Spezia che aveva il compito di demolirne una parte e trasformarne il resto in una chiatta portuale multipurpose.

 

 

 

Il rimorchiatore  genovese ESPERO in navigazione

Rimorchiatore incaricato dell’ultimo viaggio apparteneva alla Società Rimorchiatori Riuniti di Genova, si chiamava ESPERO, era l’ultimo nato della  flotta, 5.000 CV di razza, con una strumentazione d’avanguardia: elica intubatatowing winch(troller) modernissimo, elica di manovra a prora(bowthruster) ed una elettronica up to date applicata a tutti i suoi apparati. Chi scrive, era già stato per sette anni al comando di rimorchiatori portuale d’altomare; per motivi d’anzianità toccò a lui collaudare questo moderno “fuoriclasse”. Come? Per un puro caso, si presentò una duplice occasione. 

Si trattava di rimorchiare in successione, due relitti, entrambi da Brindisi a La Spezia che all’epoca era il primo porto nazionale della demolizione navale.

Il primo era la petroliera SAN NICOLA della famosa Società Garibaldi, che aveva subito un’esplosione nella cisterna n.10 che squarciò la coperta della nave dando di sé una immagine terrificante.

La seconda era il traghetto passeggeri HELEANNA di cui ci siamo occupati in questo drammatica ricostruzione.

 

Lo squarcio in coperta della petroliera San Nicola

 

Testimonianza dell’autore:

Quando salii a bordo del “traghettone” per controllare la situazione generale e studiare gli attacchi di rimorchio, cercai invano di trovare un metro di lamiera liscia ed intatta.

In pratica, l’interno dello scafo era stato devastato completamente dalle altissime temperature provocate dall’incendio. Le lamiere dei ponti erano ondulate e bugnate come la pelle di un lebbroso. Delle 200 autovetture ancora presenti nel lunghissimo garage, erano rimasti gli scheletri deformati da un fuoco impietoso che era durato a lungo causando, purtroppo, vittime e sofferenze indescrivibili.

Avevo già compiuto un’ottantina di rimorchi in tutto il mondo, ma non mi ero mai trovato davanti a tanta devastazione, desolazione e tristezza.

 

 

Manovra d’uscita della HELEANNA da Brindisi

 

1° Problema

Quando andai sul castello di prora per approntare gli attacchi di rimorchio mi trovai di fronte ad una strana situazione: non sapevo dove attaccarmi. Il copertino deformato aveva piegato le bitte, sollevato il salpancore e indebolito ogni centimetro del castello. 
Alla fine decisi di far passare alcune grosse cravatte d’acciaio da quei due passacavi in alto che sembrano 
due occhi ai lati del tagliamare (vedi foto). Era come prendere un toro per le narici e vi assicuro che non 
c’era altro da fare. Come attacco di riserva presi al  “lazo”  tutto il castello di prora evitando  gli spigoli con coppi di gomma, legno, tanto grasso e sacchi di juta.

 

2° Problema

In precedenza ho accennato all’esplosione di una serie bombole di ossigeno sistemate vicino al timone 
della nave; fu proprio questa la causa che bloccò l’organo di governo 15° a dritta costituendo un grande problema per la navigazione a rimorchio.

La soluzione del problema era nelle mani di un’officina specializzata che avrebbe raddrizzato il timone, ma dentro un bacino di carenaggio che nessuno era disposto a pagare….. 
Mi dovetti rassegnare, pur sapendo che avevamo davanti 800 miglia di “navigazione manovrata”.

Infatti, appena allungammo il cavo e ci mettemmo in tiro, il rimorchio accostò sulla sua dritta.

Quando doppiammo Santa Maria di Leuca, il vento rinforzò e ci accompagnò fino all’arrivo.

Riuscimmo a tenere una velocità intorno alle 6 miglia, ma quando il vento aumentava nelle golfate, l’Heleanna ce la vedevamo al traverso e per rimettercela di poppa dovevamo allascare le bozze, far venire il cavo da rimorchio in bando e poi dovevamo ripartire “alla gran puta”  per andare a riprendere il toro per le corna e rimettercelo  di poppa.

Questa era la navigazione manovrata in cui si rischiava di strappare sia le bozze che il cavo da rimorchio.

 Pendolammo per 20 ore a ridosso dell’Isola di Ischia, sia per controllare l’attrezzatura, ma soprattutto per 
far scivolare verso Est una forte depressione che spingeva il rimorchio fino a sorpassarci, costringendoci 
a vere acrobazie per non farci “prendere per il c…” Un’espressione marinara che rende perfettamente
l’idea di ciò che può succedere quando il rimorchio, non essendo in assetto di navigazione, prende il sopravvento, infrangendo quelle poche ma importanti regole 
marinaresche, che si dovrebbero sempre rispettare.

 
Il 16.2.74 arrivammo finalmente a Spezia, e quando il mio amico pilota Nino Casaretto, il quale aveva subito l'esplosione nella cisterna n.10 che squarciò la coperta della nave dando di sé una immagine terrificante, venne a bordo per la manovra di consegna del relitto ai rimorchiatori locali, mi disse in dialetto: 
“Ma non ti vergogni d’andare in giro con questo accidente... attaccato al sedere” ?
“Vergogna no! – gli risposi –  A brindisi non vedevano l’ora di levarselo dal sedere  e trovarne un altro 
disposto al sacrificio. Dicono che nella vita bisogna provarle tutte! Eccomi qui, felice e contento d’essere arrivato!”

 

APPENDICE: 

Rapporto Viaggio

 

 

Mi spiace! L'immagine non è leggibile, i numeri sono lì... fidatevi! Purtroppo i morti sono altrove. Che Dio li benedica!

 

 

UNO SCAMPATO PERICOLO....

La nostra socia Marinella Gagliardi Santi, notissima scrittrice e Skipper di lungo corso, dopo aver letto questo articolo, ha voluto rilasciarci la sua ESISTENZIALE TESTIMONIANZA. per la quale non possiamo che unirci felicemente a questa fantastica coppia di “marinai” per lo scampato pericolo!

"Il ricordo di quella tragedia mi ha toccato da vicino ancora di più, perché Rinaldo ed io, allora non ancora fidanzati, avremmo dovuto imbarcarci proprio sull'Heleanna! Mi aveva invitato ad andare in Grecia insieme a lui ma gli avevano detto che non c'era posto sull'aereo: al ritorno non ci sarebbe stato alcun problema perché avremmo preso proprio quel traghetto! Così io non sono partita con lui, lui si è imbarcato su un aereo in realtà completamente vuoto, e per il ritorno ha preso nuovamente l'aereo.

Pericolo scampato per un pelo, la sorte ha voluto così!"

 

Carlo-GATTI

Rapallo, 21.3.2013 / Rielaborato nella nuova versione del sito, venerdì 17 Maggio 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


HELEANNA - Una ferita che brucia ancora

 

“HELEANNA”

Una ferita che brucia ancora

Il comandante Dimitrios Anthipas, un pessimo esempio di Comandante

Il 28 agosto 1971, a 15 miglia da Monopoli, un incendio scoppiò a bordo del traghetto greco “Heleanna”. Si trattò della più drammatica e funesta sciagura marittima accaduta in Adriatico nel dopoguerra. La tragedia costò la vita a 25 turisti imbarcati; 16 furono i dispersi, 271 feriti tra i 1089 i superstiti.

Sono trascorsi 42 anni dall’incendio della HELEANNA, ma il ricordo é sempre vivo, specialmente tra coloro che seguirono da vicino le operazioni di salvataggio, ma anche da tutti coloro che ben presto si resero conto che a bordo del traghetto viaggiavano 1174 passeggeri, quasi il doppio dei 620 consentiti, e duecento automobili. A quel punto l’apprensione si trasformò in pura rabbia e la stampa di allora definì “negrieri del mare” il comandante Antypas Dimitrios ed il suo armatore Efthymiadis.

Da dove uscì quel maxi-traghetto con la ciminiera a poppa come una petroliera?

Negli anni '60 l'armatore greco Constantino S. Efthymiadis comprò quattro petroliere svedesi per convertirle in traghetti passeggeri:

la MARIA GORTHON (rinominata PHAISTOS), nel 1963;

la SOYA-MARGARETA (rinominata MINOS), nel 1964;

la SOYA-BIRGITTA (rinominata SOPHIA), nel 1965;

la MUNKEDAL (rinominata HELEANNA), nel 1966.

Nel 1954 la nave cisterna Munkedal fu costruita dai cantieri Götaverken di Göteborg-Svezia. Ma il suo destino fu segnato dalla chiusura del Canale di Suez* che costrinse le petroliere a compiere il lungo e costoso periplo dell’Africa, linea che sarebbe risultata economica soltanto con l’introduzione del  “gigantismo navale”. Così fu, e tutte le stazze minori, tra cui le petroliere svedesi sopra citate, furono messe fuori mercato.

* Nota: Dopo la GUERRA DEI SEI GIORNI del 1967, il canale rimase chiuso fino al 5 giugno 1975).

Da sempre i greci sono considerati validissimi marinai, ma anche un po’ spregiudicati. L’armatore C.S.Efthymiadis era un fedele garante di questa tradizione. La sua intuizione gli permise, infatti, di trasformare e reclamizzare la nuova unità come “il più grande traghetto del mondo”. Nel 1966, mantenendo il suo aspetto esteriore, la petroliera Munkedal fu ridisegnata al suo interno per la sistemazione di numerose cabine/passeggeri, mentre sulle fiancate dello scafo furono installati portelloni con rampe di nuova concezione per l’imbarco/sbarco di auto al seguito e mezzi pesanti. Rinominata Heleanna, il traghetto entrò in linea sulla rotta Patrasso–Brindisi-Ancona e ritorno.

La cronaca dell’incidente

Al momento del disastro l’Heleanna si trovava 25 miglia nautiche a Nord di Brindisi, a 9 miglia al largo di Torre Canne, più verso Monopoli. Proveniva da Patrasso ed era diretta ad Ancona con 1174 passeggeri e 200 mezzi  (auto, tir e autobus).

Tutto ebbe inizio alle 05.30 del 28 agosto 1971 quando una fuga di gas dai locali della cucina, fra la panetteria, la riposteria ed il locale ristoro provocò un  incendio a poppa. Si parlò di un corto circuito, forse una manovra errata di accensione dei polverizzatori della cucina, oppure di uno spandimento di gas liquido, ma anche di una possibile fuoriuscita di nafta dalla cassa di alimentazione della calderina. Alcuni testimoni affermarono che l’incendio prese il sopravvento solo quando il fuoco lambì le bombole di ossigeno facendole esplodere. Poco dopo successe un fatto molto anomalo: in una cala di poppa vicino al timone, scoppiò un’altra bombola d’ossigeno che bloccò istantaneamente l’organo di governo che era, in quel momento, posizionato 15° a dritta. Il traghetto, ormai in panne, ma ancora abbrivato, compì un’ampia accostata in cui il vento  propagò l’incendio a tutta la nave.

L’Heleanna aveva in dotazione 12 scialuppe di salvataggio sufficienti per 600 persone, la metà delle persone imbarcate. Le inchieste promosse dalle Autorità dimostrarono che metà delle lance erano inutilizzabili per via degli argani bloccati dalla ruggine. Tra quelle calate a mare, una si ribaltò e precipitò in mare probabilmente per il sovraccarico. Gli idranti antincendio e i tutti i sistemi di soccorso non erano funzionanti. Le inchieste che seguirono dimostrarono che il traghetto, dal punto di vista della sicurezza, era da considerarsi sub-standard.

Il disastro causò 25 morti, 16 dispersi e 271 feriti, alcuni anche in modo grave. Le vittime erano di nazionalità italiana, greca e francese. Non appena il Comandante della nave lanciò l’SOS, soccorsi aerei e navali partirono da Brindisi, Bari, Monopoli e Grottaglie.

I soccorsi aeronavali partirono da Brindisi, Bari, Monopoli, Taranto e Grottaglie, anche con la partecipazione di alcuni pescherecci privati (Laura, Madonna della Madia, Angela Danese, Nuova Vittoria, S. Cosimo) che si attivarono con molta efficacia nella ricerca dei dispersi in mare ed al soccorso dei naufraghi. L'incendio venne domato dopo molte ore. Il relitto fu rimorchiato verso porto di Brindisi e fu ormeggiato nei pressi del castello Alfonsino.

I feriti sarebbero stati più numerosi se non fosse scattata con grande tempestività l’opera dei soccorritori. Il personale dei rimorchiatori locali della Società Barretta dovette avvicinarsi fino a pochi metri dalla nave per rendere efficace il getto delle proprie spingarde, sfidando temperature altissime e respirando gas di scarico e fumi micidiali, ma dovettero farlo per domare le lingue di fuoco che fuoriuscivano da tutta la nave minacciando di far esplodere i serbatoi di benzina degli oltre 200 mezzi che si trovavano nel garage. Fatto che purtroppo avvenne con tutte le sue tragiche conseguenze. Anche la città di Monopoli si prodigò per confortare i superstiti, dando una dimostrazione di grande generosità offrendo aiuto e accoglienza ai naufraghi dell'Heleanna. Il 15 ottobre del 1972 il Capo dello Stato Giovanni Leone conferì alla città la Medaglia d'Argento al Merito Civile in riconoscimento dell’antica tradizione di ospitalità e di civismo della sua popolazione.

Quando siamo arrivati sul posto” - raccontò il proprietario di un peschereccio – “ci siamo trovati di fronte ad uno spettacolo agghiacciante. Lunghe lingue di fiamme uscivano dalla poppa impedendoci di avvicinarci troppo. Sul ponte del traghetto dilagava il panico. Centinaia di persone tentavano di calare le scialuppe senza riuscirvi, altre che scendevano con le barche liberate, rimanevano poi sospese e bloccate a mezz'aria. Altre barche ancora, arrivavano in mare ma non sapevano come governarle. I più si gettavano direttamente in mare saltando dal ponte. Su decine di corde, calate dalle fiancate, c'erano grappoli di uomini appesi, molti erano senza salvagente. Diversi battellini di gomma, sparpagliati in mare, erano difficili da raggiungere ma anche più difficile riuscire a salirvi dentro. Dalle navi che erano accorse - racconta un altro marinaio - erano state calate delle scialuppe, ma rimanevano vuote perché la gente in mare, sfinita non riusciva a raggiungerle. Allora, molti di noi, si sono buttati in acqua per aiutarli. Mai avevo visto tanta gente disperata, annientata dal dolore per aver perso, magari un attimo prima, un amico, un congiunto. Intanto, sulle banchine dei porti di Monopoli, Brindisi e Bari, viene predisposto un imponente servizio di soccorso”.

Centinaia di privati misero a disposizione i loro mezzi, altri portarono in Capitaneria indumenti e coperte. L’incendio fu domato prima di notte e l'Heleanna fu tenuta prudentemente in rada mentre gli inquirenti tentarono di accertare le responsabilità dell’accaduto.

Pare che nella confusione generale, il Comandante del traghetto sia stato il primo a perdere la testa. Alcuni testimoni, infatti, affermarono che il capitano Anthipas abbia lasciato la nave subito dopo l'allarme, mentre la moglie, che era con lui sul traghetto, sostenne il contrario. Per la verità, un’evidenza ci fu e molti la testimoniarono in diverse sedi: il comandante Dimitrios Anthipas, giovanissimo e senza esperienza, giunse “asciutto” sulla banchina di Brindisi, e il 29 agosto del 1971 cercò addirittura la fuga, ma venne arrestato al varco frontaliero del porto di Brindisi, poco prima d’imbarcarsi furtivamente con la moglie su una nave diretta in Grecia. Il comandante venne arrestato con l'accusa di omicidio colposo e per abbandono della nave.

Dimitrios Anthipas sarà poi estradato in Grecia mentre chi ha perso tutto: auto, bagagli, valori, la stessa vita di moglie, figli, genitori e parenti non sarà neppure risarcito. Gli assicuratori si rifiuteranno di pagare per l'evidente violazione, da parte della nave, delle norme stabilite nelle polizze assicurative.

All’epoca del “sinistro”, le acque territoriali comprendevano una fascia di 6 miglia nautiche (11.112 KM), poi modificate per legge in 12 miglia dal 27 febbraio 1973), per cui il disastro avvenne in acque internazionali. Ma le Autorità italiane dichiararono la loro competenza a processare il comandante della nave poiché alcune vittime del disastro erano perite in acque territoriali italiane ed almeno una era morta in ospedale a Brindisi. Anche le autorità greche furono interessate al processo, in quanto la nave batteva bandiera ellenica.

L'Heleanna in fiamme

Notare la vicinanza del rimorchiatore che punta le spingarde antincendio sulla poppa dell’Heleanna

Targa commemorativa del naufragio a Monopoli




 

Dopo due anni e mezzo di sosta forzata nel porto di
Brindisi, per il relitto dell’Heleanna giunse il momento
del congedo, dell’ultimo trasferimento verso un
Cantiere di Spezia che aveva il compito di demolirne
una parte e trasformarne il resto in una chiatta
portuale multipurpose.
ESPERO in navigazione (sotto)



Rimorchiatore incaricato dell’ultimo viaggio apparteneva alla Società Rimorchiatori Riuniti di Genova, si chiamava ESPERO, era l’ultimo nato della
flotta, 5.000 CV di razza, con una strumentazione d’avanguardia: elica intubata, towing winch (troller) modernissimo, elica di manovra a prora (bowthruster) ed una elettronica up to date applicata a tutti i suoi apparati. Chi scrive, era già stato per sette anni al comando di rimorchiatori portuale d’altomare; per motivi d’anzianità toccò a lui collaudare questo moderno “fuoriclasse”. Come? Per un puro caso, si presentò una duplice occasione.

Si trattava di rimorchiare in successione, due relitti, entrambi da Brindisi a La Spezia che all’epoca era il primo porto nazionale della demolizione navale. Il primo era la petroliera SAN NICOLA della famosa Società Garibaldi, che aveva subito un’esplosione nella cisterna n.10 che squarciò la coperta della nave dando di sé una immagine terrificante. La seconda era il traghetto passeggeri HELEANNA di cui ci siamo occupati in questo drammatica ricostruzione.


Lo squarcio in coperta della petroliera San Nicola

Testimonianza dell’autore:

Quando salii a bordo del “traghettone” per controllare
la situazione generale e studiare gli attacchi di
rimorchio, cercai invano di trovare un metro di lamiera

liscia ed intatta. In pratica, l’interno dello scafo era
stato devastato completamente dalle altissime
temperature provocate dall’incendio. Le lamiere dei
ponti erano ondulate e bugnate come la pelle di un
lebbroso. Delle 200 autovetture ancora presenti nel lunghissimo garage, erano rimasti gli scheletri
deformati da un fuoco impietoso che era durato a lungo causando, purtroppo, vittime e sofferenze indescrivibili.
Avevo già compiuto un’ottantina di rimorchi in tutto
il mondo, ma non mi ero mai trovato davanti a tanta devastazione, desolazione e tristezza.



Manovra d’uscita della HELEANNA da Brindisi

1° Problema

Quando andai sul castello di prora per approntare gli
attacchi di rimorchio mi trovai di fronte ad una strana situazione: non sapevo dove attaccarmi. Il copertino deformato aveva piegato le bitte, sollevato il
salpancore e indebolito ogni centimetro del castello.
Alla fine decisi di far passare alcune grosse cravatte
d’acciaio da quei due passacavi in alto che sembrano
due occhi ai lati del tagliamare (vedi foto). Era come
prendere un toro per le narici e vi assicuro che non
c’era altro da fare. Come attacco di riserva presi al
“lazo”  tutto il castello di prora evitando  gli spigoli
con coppi di gomma, legno, tanto grasso e sacchi di
juta.


2° Problema

In precedenza ho accennato all’esplosione di una
serie bombole di ossigeno sistemate vicino al timone
della nave; fu proprio questa la causa che bloccò

l’organo di governo 15° a dritta costituendo un grande problema
per la navigazione a rimorchio. La soluzione del
problema era nelle mani di un’officina specializzata che avrebbe raddrizzato il timone, ma dentro un bacino di
carenaggio che nessuno era disposto a pagare.....
Mi dovetti rassegnare, pur sapendo che avevamo

davanti 800 miglia di “navigazione manovrata”. Infatti,
appena allungammo il cavo e ci mettemmo in tiro, il
rimorchio accostò sulla sua dritta. Quando
doppiammo Santa Maria di Leuca, il vento rinforzò e
ci accompagnò fino all’arrivo. Riuscimmo a tenere
una velocità intorno alle 6 miglia, ma quando il vento aumentava nelle golfate, l’Heleanna ce la vedevamo al traverso e per rimettercela di poppa dovevamo allascare
le bozze, far venire il cavo da rimorchio in bando e poi dovevamo ripartire “alla gran puta”  per andare a
riprendere il toro per le corna e rimettercelo  di poppa. Questa era la navigazione manovrata in cui si rischiava
di strappare sia le bozze che il cavo da rimorchio.
Pendolammo per 20 ore a ridosso dell’Isola di Ischia,
sia per controllare l’attrezzatura, ma soprattutto per
far scivolare verso Est una forte depressione che
spingeva il rimorchio fino a sorpassarci, costringendoci
a vere acrobazie per non farci “prendere per il c...”
Un’espressione marinara che rende perfettamente
l’idea di ciò che può succedere quando il rimorchio, non
essendo in assetto di navigazione, prende il sopravvento,
infrangendo quelle poche ma importanti regole
marinaresche, che si dovrebbero sempre rispettare.
Il 16.2.74 arrivammo finalmente a Spezia, e quando

il mio amico pilota Nino Casaretto che aveva subito un’esplosione nella cisterna n.10 che squarciò la
copertadella nave dando di sé una immagine
terrificante venne a bordo per la manovra di consegna
del relitto ai rimorchiatori locali, mi disse in dialetto:
“Ma non ti vergogni d’andare in giro con questo

accidente attaccato al sedere” ?
“Vergogna no! – gli risposi -  A brindisi non vedevano

l’ora di levarselo dal sedere  e trovarne un altro
disposto al sacrificio. Dicono che nella vita bisogna
provarle tutte! Eccomi qui, felice e contento d’essere arrivato!”


APPENDICE:

Rapporto Viaggio


Carlo GATTI

Rapallo, 21.3.2013

 



 

 

 

 

 

 

 

 




TRAGEDIE NAVALI DEL NOVECENTO - Breve Storia

L'azzurra linea del Mediterraneo,
 questo incantatore ed ingannatore di uomini audaci,
 manteneva il segreto del suo fascino 
e si stringeva al calmo petto le vittime di tutte le guerre,
 le calamità e le tempeste della sua storia,
 sotto la meravigliosa purezza del cielo al tramonto.

 

da L'Avventuriero di Joseph Conrad

 

Breve Storia delle più gravi Tragedie Navali del Novecento

Tratto dall'Introduzione del libro

Genova: Storie di navi e Salvataggi di Carlo Gatti

Edizione bilingue Italiano-Inglese, Nuova Edizione Genovese-2003

 

Ciò che desideriamo proporvi è un viaggio virtuale nel XX secolo, attraverso un documentario fatto di poche parole e tante immagini che spesso si commentano da sole. Se la storia dell'umanità è purtroppo cadenzata dalle guerre, la storia del “marinaio” è tuttora evocata soprattutto per le sue immancabili e ripetute tragedie navali.

 

Ogni tragedia, si sa, reca con sé morte e orrore, ma la storia non può fermarsi ed ecco l'uomo rialzarsi dalla batosta e ripartire con regole nuove. Ogni naufragio diventa così una nuova luce che si accende sul cammino tecnologico e sul progresso scientifico navale.

 

La Marina Mercantile ha dovuto registrare, fin dall'inizio del XX secolo, numerosi disastri con gravissime perdite di vite umane e di navi. Tra i più drammatici si ricorda quello dl 23 gennaio 1909, che ebbe luogo nelle stesse acque in cui colò a picco quarantasette anni dopo l' Andrea Doria. Anche allora si trattò di una collisione; affondò una nave inglese, la Republic, speronata dal piroscafo italiano Florida. Il disastro costò la vita di sei persone; per la prima volta la maggior parte dei naufraghi fu salvata grazie all'impiego della radio.

 

E' forse bene qui ricordare che Guglielmo Marconi, il genio di Pontecchio, il 12 dicembre 1901, mentre si trovava in una capanna-laboratorio a Terranova (Nuova Scozia), ricevette tre brevi suoni: la “S” in alfabeto Morse, trasmessa dalla lontana Cornovaglia. Da quel giorno ebbe inizio la telegrafia senza fili.

 

Il 1912 fu un anno disastroso. Il 5 marzo il piroscafo spagnolo Principe de Asturias finì su una scogliera presso Cabo S.Sebastian, 500 passeggeri annegarono. Un mese dopo, il 15 aprile, durante il viaggio inaugurale, il grande transatlantico Titanic, che negli anni del primo Novecento era considerata la più bella e più sicura nave del mondo, urtò contro un iceberg e colò a picco trascinando con sé 1.513 tra passeggeri e uomini dell'equipaggio.

 

Un'altra collisione avvenne nell'estuario del S.Lorenzo il 29 maggio 1914. Affondò il vapore Empress of Ireland e nella catastrofe morirono 1.024 persone. Il 7 maggio 1915 il sommergibile tedesco U-20 affondò il transatlantico inglese Lusitania. Fu questo forse, l'avvenimento che volse l'opinione pubblica mondiale contro la Germania. La grande nave apparteneva alla famosa Società inglese Cunard Line, veniva dall'America e trasportava 1916 passeggeri, di cui 146 americani. Ne morirono 1.152, solo 764 si salvarono, ma non certo ad opera del sommergibile di Schwieger, che senza intimare l'Alt , come vuole la legge di guerra, colò a picco la nave senza prima aver fatto sbarcare i passeggeri, che poi abbandonò alla loro sorte, quando il codice d'onore di ogni marinaio impone il soccorso dei naufraghi.

 

 

La tragedia del Lusitania suscitò dovunque orrore ed indignazione e contribuì alla decisione degli Stati Uniti di entrare in guerra a fianco degli Alleati. Il 24 luglio 1915, sui grandi laghi americani, altra grave perdita: l'affondamento della Estland e la morte di 811 passeggeri.

 

Tra le due guerre, il primo grande disastro navale avvenne il 25 ottobre 1927 al largo delle coste brasiliane. Andò a picco un transatlantico italiano, il Principessa Mafalda e con esso il mare ingoiò 314 persone. Il tragico fatto commosse il mondo anche per l'eroico sacrificio del comandante Simone Gulì. I suoi marinai, che si allontanavano piangendo sulle scialuppe, videro l'alta figura dell'Ufficiale, eretta sul ponte di comando, fino a quando il Mafalda s'inabissò con l'uomo che l'aveva guidata per tanti anni.

 

Un anno dopo, il 12 novembre 1928, il vapore inglese Vestris scomparve durante una burrasca al largo della Virginia con 110 persone. Altre 450 vittime si ebbero il 14 giugno 1931 davanti a Saint Nazaire, con l'affondamento di un traghetto costiero. Meno spaventoso, ma non per questo di minor gravità, un'altra catastrofe di quegli anni: l'incendio del Morro Castle al largo delle coste americane, l'8 settembre 1934, con 130 morti.

 

L'ultima grande sciagura del periodo prebellico fu l'incendio, davanti alla costa catalana, della motonave italiana Orazio. Il sinistro avvene il 22 gennaio 1940 e provocò 104 vittime. Dopo la dichiarazione di guerra di Mussolini del 10.6.1940, nel Regno Unito furono internati 4.000 italiani, un migliaio dei quali perirono nell'affondamento della Arandora Star . Erano cittadini italiani, civili, fatti deportare come “stranieri nemici”.

 

Stessa sorte toccò a 3.000 prigionieri di guerra, nella maggior parte italiani, imbarcati sulla nave trasporto inglese Laconia (20.000 T.S.L.) colata a picco dal sommergibile tedesco U-156 il 13 settembre 1942. “Il Caso Laconia” fu portato davanti al Tribunale di Norimberga. Le navi mercantili italiane, requisite e militarizzate dal governo durante il conflitto e poi affondate, catturate, alienate e distrutte dal nemico furono 2.556.

 

La Liguria pagò il suo tributo alla nazione con la perdita di oltre 500 navi mercantili. Nel conto non sono inclusi i pescherecci ed il naviglio minore. Lo storico navale Maurizio Brescia, nelle sue preziose ricerche, ci ricorda quanto segue:

 

- daCacciatorpediniere classe Navigatori” (Albertelli-Parma 1995): Il 18 settembre 1941, in posizione 33°02'N-14°42'E, il sommergibile Upholder silurava ed affondava i transatlantici Oceania e Neptunia. (Dei 5.818 uomini a bordo delle due navi, ne morirono 384 ). Il Da Recco , capo scorta, recuperò ben 2.083 naufraghi delle due navi e protesse poi il rientro a Napoli del Vulcania, unico superstite del convoglio”.

 

- da: “Cacciatorpediniere classe Freccia/Folgore/Maestrale e Oriani” (Albertelli-Parma, 1997): “…Quando la formazione si trovava ormai sulla rotta di sicurezza per l'entrata a Tripoli, alle 10.20 del 20 agosto 1941, il sommergibile inglese Inique silurò ed affondò l'Esperia ; le unità di scorta recuperarono complessivamente 1.139 naufraghi, e tra questi 417 furono salvati dallo Scirocco …”

 

- “..La 3° Divisione assicurava la protezione a distanza della formazione e, vista l'importanza della missione, a bordo del Conte Rosso si trovava il contrammiraglio Canzonieri nella veste di capoconvoglio. Le numerose unità di scorta, la cui consistenza era stata rinforzata, all'altezza di Messina, da tre ulteriori torpediniere, non poterono però impedire il siluramento del Conte Rosso avvenuto alle 20.41 dello stesso 24 maggio, da parte del sommergibile britannico Upholder…”

 

Una vasta eco ebbe la perdita del glorioso Conte Rosso, militarizzato ed adibito al trasporto truppe. L'affondamento avvenne mentre navigava in convoglio a poche miglia da Siracusa. Morirono 1.300 dei 2.729 militari che si trovavano a bordo, diretti in Libia. Durante l'ultima guerra, la Marina Mercantile subì gravi perdite, indipendentemente dalle operazioni militari, come l'esplosione nel porto di Bari, il 9 aprile 1945, di un cargo americano: 360 vittime, e l'affondamento al largo di Danzica del vapore tedesco Wilhelm Gustloff , il 18 febbraio 1945; catastrofe in cui trovarono la morte di oltre 10.000 fuggiaschi che cercavano di sottrarsi all'avanzata russa e che può pertanto essere considerata la più spaventosa di tutta la storia della Marina.

 

Nel dopoguerra si ebbero gravi sciagure specialmente nei mari orientali. Il 3 dicembre 1948 saltò in aria il piroscafo cinese Kiangya e morirono 1.000 persone. Un mese dopo un'altra nave cinese, il vapore Taiping, speronò una carboniera; entrambe colarono a picco trascinando nel mare 600 vittime.

 

Negli altri mari si registrarono le perdite del Noronic , incendiatosi al largo di Toronto e vi furono 130 morti, e del cargo Pennsylvania abbandonato il 9 gennaio 1952, 45 furono i dispersi. Gli ultimi nomi della tragica lista sono: il vapore coreano Chang Tyong Ho, affondato il 9 gennaio 1953 con 249 persone; il ferry-boat inglese Princess Victoria inabissatosi il 31 gennaio dello stesso anno con 133 passeggeri; il cargo Hobson speronato dalla portaerei Wasp il 26 aprile 1953 ( 176 dispersi); il passeggero francese Monique scomparso il 1° agosto dello stesso anno nel Pacifico con 120 passeggeri ed infine il traghetto giapponese Shinan Maru , affondato l'11 maggio 1955 con 138 passeggeri.

 

Il 25.7.1956 l'Italia e la Liguria in particolare caddero nella disperazione per l'affondamento della Andrea Doria , speronata nella nebbia dalla nave passeggeri svedese Stockholm . L'orgoglio della nostra flotta trascinò con sé verso i fondali di Nantucket 54 vittime di quel tragico disastro.

 

 

Poi ci fu la straordinaria espansione della traghettistica, dovuta in parte all'assorbimento dei traffici delle navi di linea ormai scomparse, e in parte alle tariffe favorevoli rispetto all'aviazione a corto raggio, ma soprattutto per l'aumento costante del turismo di massa. Purtroppo, a questo trend commerciale favorevole se ne contrappose uno molto negativo sul piano della sicurezza navale.

 

L'8 dicembre 1966 il traghetto Heraklion si scontrò con un rimorchiatore nel mar Egeo. I morti furono 264 . Il 28 agosto 1971 il traghetto Heleanna s'incendiò poco prima dell'arrivo a Brindisi, morirono 25 passeggeri. Lo scafo del traghetto, letteralmente devastato e deformato dal fuoco, fu preso a rimorchio dal M.re Torregrande che lo consegnò ai Cantieri della Spezia per essere demolito.

 

Il 6 marzo 1987 il traghetto Herald of free Enterprise affondò nella Manica al largo del porto belga di Zeebrugge. Le vittime furono 193 . Il 21 dicembre 1987 al largo dell'isola di Marindique, Filippine, nello scontro tra il traghetto Dona Paz ed una petroliera, morirono almeno 4.000 persone, molte divorate dagli squali. Si trattò del più recente e grave incidente nel mondo. Il 7 aprile 1990 sul traghetto Scandinavian Star scoppiarono tre incendi e morirono 186 persone.

 

Il 29 aprile 1990 il traghetto Espresso Trapani affondò al largo del porto di Trapani, morirono 13 persone. Il 10 aprile 1991, nella rada del porto di Livorno, il traghetto Moby Prince entrò in collisione con la super petroliera Agip Abruzzo che era alla fonda. I morti furono 141 . Il 14 gennaio 1993, nel mar Baltico, al largo dell'isola di Ruegen, a causa del mare tempestoso, si rovesciò il traghetto polacco Jan Heweluisz. I morti furono 54.

 

 

Il 28 settembre 1994 il traghetto Estonia (foto sotto) affondò nel mar Baltico, nei pressi dell'isola di Utoe. Morirono 852 persone. Dalla superfice degli oceani spariscono mediamente 100 navi ogni anno. Soltanto una piccola parte di loro ci viene raccontata dai media e si tratta solitamente di navi famose, sia per la loro grandezza o semplicemente per i danni ecologici procurati all'ambiente. Per qualche tempo le paure deflagrano scoppiettanti sulle cronache, poi il silenzio!

 

 

Lo stesso triste spettacolo ci accompagna ogni sera dell'anno in TV, con la conta dei morti sulle strade. Il loro numero, almeno nel nostro Paese, ha eguagliato le vittime italiane della seconda guerra mondiale. Ma c'è una specie di rassegnazione diffusa di fronte al fato che si presenta come una forza soprannaturale che non lascia scampo.

 

Noi pensiamo più semplicemente che la deregulation sia il vero nemico da combattere in mare, nei porti e sulle strade. Così come pensiamo che le parti politiche che si fronteggiano in Parlamento, dovrebbero, almeno nel nome dei morti dell'intero settore dei trasporti, trovarsi d'accordo sull'esercizio di una politica austera, che fosse in grado di colpire i moderni “corsari” senza paura di perdere, ognuno, i propri consensi elettorali.

 

 

Carlo GATTI

 

Rapallo, 21.3.2013

 


La Storia della M/n FAIRSEA

LA STORIA DELLA NAVE PASSEGGERI

FAIRSEA

SITMAR LINE

OGNI NAVE HA LA SUA STORIA. OGGI CI OCCUPIAMO DI UNA NAVE CHE NACQUE NEGLI STATI UNITI COME C-3 Class - FU TRASFORMATA IN ESCORT CARRIER – VISSE A LUNGO COME NAVE PASSEGGERI CON IL NOME FAIRSEA ED EBBE UN TRISTE EPILOGO: SUBI’ UN INCENDIO IN SALA MACCHINE, FU RIMORCHIATA - IN EMERGENZA - A PANAMA DA UNA NAVE DA CARICO. IL SUO COMANDANTE, CAP. S.L.C. CIRO CARDIA SI CARICO’ TUTTO IL PESO DELLA PERDITA DELLA SUA NAVE  E, DA VERO UOMO DI MARE DI VECCHIO STAMPO, SI TOLSE LA VITA NELLA SUA CABINA. POCO TEMPO DOPO, QUALE COMANDANTE DEL RIMORCHIATORE OCEANICO VORTICE, FUI INCARICATO DAI MIEI ARMATORI GENOVESI DI DIRIGERE VERSO LA SPONDA ATLANTICA DEL CANALE DI PANAMA PER PRENDERE A RIMORCHIO LA NAVE PASSEGGERI FAIRSEA CHE SI TROVAVA ANCORATA NELLA RADA DI COLON. IL CANTIERE LOTTI DI  SPEZIA L’ATTENDEVA PER COMPIERE L’ULTIMO ATTO DELLA SUA LUNGA E GLORIOSA CARRIERA: LA DEMOLIZIONE.

Nel primo dopoguerra, si creò negli USA un notevole surplus di navi che diede luogo ad un mercato mondiale dell’usato. Molte nazioni europee in seria difficoltà nel settore dei trasporti marittimi, tra cui l’Italia, colsero la grande opportunità per far ripartire il volano dell’economia. Nel 1938 l’armatore Alexander Vlasov fondò la SITMAR (Società Italiana Trasporti Marittimi) e nel 1947 acquistò dal Governo USA la sua prima nave: Vassar Victory (Cl. Victory) che fu trasformata per il trasporto di 1.132 emigranti e fu ribattezzata Castelbianco. La nave operò con bandiera italiana per la IRO (International Refugee Organisation). Nel 1952 fu parzialmente ricostruita e ritornò in servizio come Castelbianco (vedi foto sotto) con la stazza lorda aumentata da 7.604 a 10.139.

M/n Castelbianco

Dopo alcuni viaggi per l’Australia, prese servizio sulla linea del Brasile-Plata, poi ritornò sulla linea per l’Australia. Nel 1950 fu acquistata dalla SITMAR e fu ribatezzata Castelverde.

M/n Castelverde

Nell’ottobre del 1950 fu acquistata la  nave passeggeri Fairstone di 12.450 t.s.l.

M/n Castelfelice

ribatezzata Castel Felice (nella foto) che fu messa inizialmente sulla linea dell’Australia, poi su quella centro americana e successivamente su quella del Brasile-Plata. La SITMAR introdusse l’alternanza stagionale dei viaggi sulle rotte di maggior traffico: nel periodo invernale, dal Nord Europa per l’Australia e la Nuova Zelanda - via Suez oppure via Panama, e nel periodo estivo dal Nord Europa per il Canada e gli USA. Le due Castelbianco e Castelverde furono trasformate in moderne navi per il trasporto di un migliaio di passeggeri ciascuna e furono messe sulla linea Nord Europa-Centro America.

 


Portaerei di scorta Attacker

Sullo scafo della portaerei Attacker (foto sopra) fu costruita la Castelforte (1950-1960) che divenne Fairsky (1960-1977) che poteva trasportare, con aria condizionata, 1.462 passeggeri. La linea per l’Australia-N.Zelanda fu inaugurata nel 1958 con partenza da Southampton.

Come annunciato all’inizio, ora prendiamo in esame l’ultima nave passeggeri acquistata dalla SITMAR, la FAIRSEA, già portaerei di scorta Charger (foto sotto). Questa nave seguì lo stesso percorso iniziale della Castelbianco. Nel luglio 1958, dopo un refitting che gli consentì il trasporto di 1.412 passeggeri, inalberò la bandiera italiana ed entrò in linea fissa per l’Australia.

Portaerei di scorta HMS Charger

La nave iniziò la sua carriera con il nome: HMS Charger

M/n Fairsea
La nave FAIRSEA terminò la sua carriera con questo “shape” della metà degli anni ‘60.

Una bella immagine portuale del Fairsea a Fremantle (Perth)-Australia

La FAIRSEA nacque come nave della Classe C3, (1)* da carico-passeggeri, con il nome di RIO DE LA PLATA per la Moore-McCormack Lines. Fu costruita dal Cantiere Shipbuilding & Drydock Co, Chester USA. Fu varata il 1 marzo 1941. Aveva un piccolo record, si trattava della prima (con tre gemelle) ad essere propulsa da un potente motore Diesel costruito in USA. Nella sua veste di cargo-passengers ship, era destinata a trasportare merce varia e 70 passeggeri da New York al Sud America. Ma prima di essere completata, fu rilevata dal Governo USA e trasformata in Portaerei di scorta per la US Navy e, infine fu rinominata HMS CHARGER e fu ceduta alla Royal Navy inglese. Entrò in servizio il 3 marzo 1942. La nave fu adibita alla scorta dei convogli in Nord Atlantico e dovette superare numerosi momenti critici, ma ne uscì sempre indenne. Più tardi la nave fu restituita alla US Navy cambiando la sigla iniziale HMS in USS CHARGER e fu impiegata in Pacifico servendo gli S.U. con valore.

La Charger concluse il suo periodo di militarizzazione il 15 marzo 1946 e ritornò presso il Cantiere Moore-McCormack che la costruì. Fu rimosso il ponte di volo e fu convertita in trasporto truppe. Questo servizio fu breve e presto fu inserita nella RESERVE FLEET (Mothball) insieme a molte altre navi della sua stessa classe sul James River e fu messa in vendita sul mercato che in quegli anni era molto attivo a causa delle perdite belliche subite dalle nazioni belligeranti.

La FAIRSEA iniziò la sua carriera con un noleggio di tre viaggi per la IRO (International Refugee Organisation), da Napoli a Melbourne (Australia) via Suez a partire dall’11 maggio 1949. La nave ritornò sempre vuota dall’Australia per questioni contrattuali, quindi, in quel periodo, non era ancora un SITMAR Liner.

Dalla cruda e semplice descrizione di quei tre viaggi della salvezza non emerse mai nulla, almeno in Italia, delle tragedie umane di quei 6.000 profughi europei che si lasciarono alle spalle storie di campi di concentramento, di bombardamenti, di violenze, di fame e miseria. Tutto finì nell’oblio della liberazione per favorire la ripartenza verso una nuova vita ispirata, finalmente, a valori di civiltà e libertà.

L’11 maggio la FAIRSEA partì con 1.896 persone a bordo, inclusi 457 bambini che erano stati liberati da diversi campi europei. La nave passò il Canale di Suez il 18 maggio e dopo una breve sosta a Fremantle diresse a Merlbourne dove attraccò l’8 giugno al Prince’s Pier. Ritornò vuota a Napoli, ripartì nuovamente per l’Australia il 21 luglio con 1.896 persone a bordo. Sebbene sei nazioni fossero rappresentate a bordo, ben 660 erano profughi polacchi. La nave sostò a Fremantle e continuò gli sbarchi a Newcastle (Aust.) il 19 agosto 1949. Il terzo viaggio della FAIRSEA ebbe inizio il 23 settembre a Napoli e si concluse il 19 ottobre a Merlbourne con lo sbarco di 1.890 profughi.

La M/n FAIRSEA, finalmente sotto il controllo della SITMAR e, al comando del Comandante rivierasco Stagnaro, partì il 3 dicembre, arrivò a Sydney il 31 dicembre ed ormeggiò alla banchina N°13 Pyrmont. Ma questa volta la nave potè finalmente imbarcare passeggeri anche per il ritorno in Italia.   Pur restando immutata la destinazione finale: l'Australia, cambiò l’itinerario. Il porto di partenza diventò Bremerhaven.

Lo Stemma sociale riporta la V dell’armatore Vlasov

 


31 dicembre 1949. La M/n FAIRSEA durante il suo viaggio inaugurale come “nave passeggeri di linea” (2)*


Questa cartolina fu stampata nel gennaio 1954

Nel novembre del 1953, mentre si trovava ormeggiata a Merlbourne, scoppio un incendio in sala macchine che presto fu domato con il completo allagamento del locale. Fu svuotata e ripulita e la nave continuò i suoi viaggi.

La FAIRSEA fotografata nel 1954 con una nuova ciminiera ed un nuovo albero (tripode) sul ponte di comando.

Nel dicembre 1953, la FAIRSEA subì alcuni ritocchi estetici alla ciminiera e nell’albero. Avendo navigato regolarmente intorno all’Australia, fu soltanto nel febbraio 1957 che essa intraprese the home voyage navigando, per la prima volta, verso Est compiendo il suo viaggio inaugurale verso la Nuova Zelanda e proseguendo la traversata dell’Oceano Pacifico fino a Panama, che attraversò per la prima volta.

Manifesto Pubblicitario

Nel 1957, la FAIRSEA subì altre trasformazioni nel Cantiere di Trieste. Fu aggiunto un ponte sul deck promenade, una stiva diventò piscina e fu installata l’aria condizionata, furono migliorate le cabine che furono in grado di ospitare 1.460 passeggeri. La stazza lorda fu portata a 13.432 GRT. Gli interni assunsero l’Italian Style e, al suo completamento, risultò un’elegante unità.

Sopra e sotto: La FAIRSEA dopo l’ultimo refitting del 1957. Sebbene lo shape dello scafo ricordasse ancora la Classe C3, le sue linee erano molto migliorate.


La M/n FAIRSEA nel 1961

Essendo ancora sotto 'contratto governativo', la FAIRSEA continuò il trasporto dei passeggeri inglesi verso l’Australia e la Nuova Zelanda. Nel 1961 si sottopose ad un ulteriore refitting per migliorare l’accoglienza dei passeggeri. Nel nuovo progetto di ristrutturazione, la capacità passeggeri diminuì fino a 1.212. Facendo leva sulla popolarità acquisita negli anni da questa nave italiana, la Sitmar decise di impiegarla - in anteprima - come nave da crociera. La FAIRSEA partì da Sydney il 7 luglio 1966, visitando Cairns, la Grande Barriera Corallina (Hayman Island) e Merlbourne. Anche in seguito, nell’intervallo tra due viaggi di linea, era impiegata in crociere occasionali.

Dati Nave:

Costruito dal:       Sun Shipbuilding & Dry Dock Co, Chester USA

Yard Nr:              188

Tonnellaggio:       11,678 GRT (di costruz.)-13,432 GRT come Fairsea dopo refit-1958

Lunghezza:          492ft / 150 mt.

Larghezza:           69.2ft / 21.1 mt.

Pescaggio:            24.ft / 7,20 mt.

Motore:                Doxford Geared Diesels by the builder - 9,000 CV

Screws:               Una Elica

Velocità:              16 nodi – 17 max

Passeggeri:          1,800 Classe Unica

40 in 1° classe e 1400 in Classe Turistica

Fully air-conditioned

La FAIRSEA fotografata a Wellington-New Zealand – 1967

Il 14 gennaio 1969, la FAIRSEA partì da Sydney con 986 passeggeri diretti a Southampton (UK). Il 23 gennaio, quando si trovava 900 miglia a Ovest del Canale di Panama scoppiò un incendio nel locale macchine. La nave rimase in panne, cessò di funzionare la maggior parte dei servizi e degli impianti: motori ausiliari-elettrogeni, cucina, aria condizionata, bagni, acqua distillata ed altro.

SS Louis Lykes vista dal lato dritto della FAIRSEA

Photograph © Peter Bradford

Il primo tentativo di salvataggio fu operato da un rimorchiatore oceanico, ma fallì perché il mezzo rimase senza carburante. Il travaso di nafta (non appropriata) dalla nave mandò definitivamente in avaria il rimorchiatore. Passarono ben sei giorni prima che giungesse la nave da carico SS Louise Lykes che rispose alla chiamata di soccorso e che la rimorchiò felicemente a Balboa. Durante la lunga attesa, il Comandante Ciro Cardia ed il suo equipaggio dovettero fronteggiare la comprensibile reazione di 1000 passeggeri che sentendosi abbandonati dal mondo, reclamavano l’essenziale per sopravvivere in un ambiente per loro diventato ostile e incerto. Le condizioni meteo, per fortuna, si mantennero buone, ma non si può ignorare che la paura fosse ormai diventata la vera responsabile della pesante tensione psicologica che il comandante Cardia dovette fronteggiare con un grande dispendio di energie nervose. Dopo essere entrato in contatto con la nave soccorritrice ebbe, infine, la certezza che tutto si sarebbe risolto per il meglio. Ma l’uomo aveva ormai dato tutto ciò che gli era rimasto dentro per la sua nave, i suoi passeggeri e per il suo amato equipaggio. Al termine di quei sei giorni di grande pena, sentì d’aver assolto il suo compito di uomo di mare e per scusarsi di colpe a lui non imputabili, donò la propria vita pensando di salvare il proprio onore di “antico” capitano.

A questo punto possiamo aggiungere ancora alcuni particolari che mi sono stati descritti da un socio-Comandante di Mare Nostrum che navigò, poco dopo, con un ufficiale del comandante Ciro Cardia. Dalla descrizione di quello sfortunato uomo di mare, emerge la figura di un Capitano molto preparato, coscienzioso, prudente e molto amato dal suo equipaggio. Era un uomo all’antica, di grande prestigio e onore, più simile ai Comandanti di una volta che battevano tutti i mari preferendo rispondere direttamente a Dio del proprio operato, piuttosto che scendere a compromessi con assicurazioni, armatori, banche, autorità varie, raccontando storie più o meno vere tendenti a vendere soltanto la propria dignità. Attenzione quindi ad emettere giudizi o, ancor peggio, sentenze che siano in sintonia soltanto con i noti disvalori di quest’epoca, in cui si muovono tanti marinai “da tempo buono” .... e pochi uomini d’onore!

I danni subiti dalla FAIRSEA, specialmente in macchina, furono giudicati molto gravi; all’armatore non rimase che l’unica scelta possibile, la più triste, venderla ad un demolitore italiano.

RIENTRO ALLA BASE

M/R Vortice - 8.000 CV

Il ritorno in Italia della FAIRSEA a rimorchio del VORTICE fu inondato di sole e di bonaccia, dalla partenza da Colon, avvenuta il 9 luglio 1969, fino all’arrivo a Spezia. La potenza del rimorchiatore oceanico, tra i più “mastini” al mondo di quell’epoca, era di poco inferiore a quella della nave in esercizio, pertanto La velocità fu molto alta, intorno alla 8 miglia di media, con punte di nove miglia/h evitando sforzi inutili. (4)* Il viaggio durò 27 giorni e fu caratterizzato da un’anomala atmosfera di mestizia che toccò ognuno di noi nel profondo del cuore. All’arrivo del convoglio a Spezia, il dott. Lotti, titolare dell’omonimo Cantiere di demolizione e ultimo proprietario della FAIRSEA, mi chiese se poteva omaggiarmi di un ricordo della nave. Insieme ci recammo a bordo e lo condussi nella cabina del Comandante. Aprii un armadio dove avevo messo al sicuro la strumentazione della nave, indicai il SESTANTE di bordo e gli dissi: quello strumento é il simbolo della nave e del suo Capitano, lo vorrei custodire come una reliquia alla memoria di un vero uomo di mare. Sono passati quasi 45 anni e ogni mese ancora lo pulisco come se dovessimo usarlo insieme.

Note:

1*- Nel 1936, con il “Merchant Marine Act”, il Congresso approvò l’istituzione della United States Maritime Commission (USMC), con l’incarico di creare una nuova flotta mercantile moderna ed efficiente, da costruirsi negli Stati Uniti per assicurare i commerci americani via mare. Inoltre, le nuove navi dovevano risultare idonee all’impiego per compiti militari e ausiliari in caso di guerra; al vertice dell’USMC fu nominato l’ammiraglio Emory S.Land. I mercantili progettati dall’USMC vennero contraddistinti dalle sigle C-1, C-2, e C-3, ove “C” indicava il tipo “Cargo” mentre i numeri 1, 2, 3 ne indicavano la lunghezza (rispettivamente inferiore a 400 piedi, tra 400 e 450 piedi e superiore a 450 piedi - < 120m, tra 120 e 135 m, > 135 m. I progetti di altri tipidi unità erano identificati da ulteriori prefissi: T/”Tanker”) per le petroliere, P (“Personnel”) per i trasporti truppa ecc; tutte le nuove costruzioni erano propulse da apparati motore a vapore, in grado di imprimere velocità tra i 14 e i 16 nodi.

2* - La SITMAR (Soc.Italiana Trasp.Marittimi) fu fondata da un emigrato di nazionalità russa, tale Alexandre Vlasov. Egli lavorò nel settore marittimo con navi di diversa nazionalità, da quelle italiane a quelle inglesi e greche, prima, durante e dopo la 2^ guerra mondiale, da non confondere con l'altra Sitmar fondata a Roma nel 1913.

La Sitmar di Vlasov aveva una grande V sui lati dei fumaioli così come la bandiera sociale.

3* - Un discreto numero di navi USA, della classe C-3, furono convertite in navi-trasporto emigranti, inclusa la Mormacma, gemella della FAIRSEA che diventò la German Seven Seas, noleggiata dalla Holland America Line. Essa operò in Canada, US, Australia ed anche in Nuova Zelanda, anche come nave da crociera. Altre diventarono: Flaminia (Cogedar), Roma e Sydney (Flotta Lauro) anch’esse impiegate sulla rotta della Australia e Nuova Zelanda.

4* - Il Vortice disponeva di un cavo da rimorchio da 56 m/m sul winch automatico (troller) della lunghezza di 2.000 metri. Sulla prua della nave approntammo una "patta d’oca di catena" di grande diametro data volta alle bitte. I due penzoli scendevano dai due passacavi fino ad un paio di metri sull’acqua. Tra il cavo del ‘troller’ e la patta d’oca venne ingrillato un gherlino di Perlon (nylon) da 120 m/m per dare elasticità al convoglio. I runners di bordo (personale del Cantiere italiano) provvedevano a ingrassare le parti di frizione dei componenti del rimorchio e controllavano eventuali usure e sforzi anomali. La nave aveva i  fanali di navigazione regolamentari alimentati da bombole di gas provviste di cellule solari che venivano sostituite dai runners permanentemente collegati al Vortice via Walkye-Talkye. Numerose sono state le visite a bordo, tramite lo ‘zodiac’ per il controllo generale dello scafo e delle attrezzature in lavoro.

-  L’intento principale della nostra Associazione é la divulgazione della Storia Navale il più possibile aderente alla verità. Per questo motivo, la storia della FAIRSEA é stata (in parte) liberamente tradotta dal sito ufficiale della SITMAR LINE dal sottoscritto webmaster Carlo Gatti, autore dell’articolo. Ringrazio pertanto la Società per la concessione.

- Ringrazio infine il socio comandante Nunzio Catena per le ricerche storiche effettuate e per i contatti avuti con i testimonials dell’epoca.

Carlo GATTI

Rapallo, 8.1.2013

 


UN CICLONE DA LIBECCIO devastò il Porto di GENOVA (19.2.1955)

Genova, 19.2.1955

UN INFERNALE CICLONE DA LIBECCIO

Frantumò oltre 400 metri di diga, irruppe nello scalo genovese e fece strage di moli e di   navi.

Dalla Relazione sui Pilotaggi effettuati nel Porto di Genova

durante il Ciclone del 19 febbraio 1955.

Notizie meteorologiche.

Fin dalle prime ore del venerdì 18 febbraio 1955 si prospettava maltempo; una fortissima depressione gravava sul Golfo di Genova estendendosi alle due Riviere. Al mattino del sabato 19 febbraio 1955 il mare era gonfio. Grosse ondate investivano paurosamente la diga foranea di protezione al nostro porto.

Mare e vento fortissimo di libeccio avevano già aperto delle piccole brecce nella diga stessa; con l’alzata del sole, il tempo si faceva sempre più minaccioso; verso le 14.00 il tempo era ciclonico con onde altissime che frangevano tanto violentemente contro la diga da causarne – tra le 14 e le 15 – la rottura e lo sfondamento all’estremità del Bacino di Sampierdarena per circa 400 metri. In tal modo grosse ondate investivano l’ormeggio al Pormolio, e alle calate viciniori, provocando ingentissimi danni alle opere portuali, alle navi e ai natanti situati nella zona. Fortunatamente nessuna vittima umana.

Alle 15.00 si avvertivano, via radio, tutte le navi dirette a Genova che, data la forza del mare, la pilotina attendeva a ridosso, all’imboccatura di levante del Porto, non potendo fare servizio fuori, essendo pericoloso per le navi fermarsi per l’imbarco del pilota stesso, si davano istruzioni sulla manovra da seguire.

Quanto esposto é cosa più unica che rara per il Porto di Genova; una cosa normalissima per i porti del Mare del Nord. Nessuna nave, per ovvii motivi di prudenza, si é avvicinata al porto; solo alle 17.00, la nave Città di Catania, si é presentata ed é stata abbordata dalla pilotina con le norme sopra citate.

I Fatti:

Già da alcuni giorni, forti mareggiate avevano martellato Genova e le due riviere con estrema violenza. Verso le 15 la diga foranea del porto (zona di ponente) crollò come sotto i colpi di un maglio. Da quel momento il mare vivo trovò via libera, e nella zona tra ponte Canepa, molo N.Ronco e calata Derna successe l’inferno.

I Danni:

La petroliera Camas Meadows, posizionata di punta (due ancore a mare, poppa a terra) a calata Derna, ruppe tutti gli ormeggi e trovatasi in balia delle onde, andò a colpire ripetutamente le navi vicine e le opere portuali. Infine s’inclinò paurosamente fino a capovolgersi per poi apparire come una grossa balena morente.

L’altra petroliera presente in zona, la Atlantic Lord che era posizionata tra i due denti del molo N.Ronco, rotti gli ormeggi e danneggiate le banchine, cominciò a brandeggiare sulle ancore e a colpire con la poppa  calata Derna e la Camas Meadows. Urti fragorosi produssero falle e fuoriuscita di carburante. I rimorchiatori riuscirono ad agganciare la nave ma poi strapparono i cavi. La lotta ingaggiata dai piloti, rimorchiatori, ormeggiatori e vigili del fuoco contro le forze scatenate della natura durarono a lungo, mentre a non troppa distanza si andava consumando un’altra catastrofe.

Ormeggiato a ponte Eritrea ponente, il cargo svedese Nordanland, sospinto dal mare vivo e dalla fortissima risacca, urtò e si lesionò lentamente contro la banchina d’ormeggio. Dalle numerose falle penetrò acqua di mare che lentamente entrò in contatto con le 400 tonnellate di acetilene (carburo), contenuto in barilotti nelle stive centrali della nave.

Quando la nave cominciò a sbandare, il comandante svedese fece evacuare l’equipaggio e subito si udirono i primi colpi sordi, secchi e staccati come colpi di tamburo che annunciavano una tragica esecuzione. Presto quei rulli nefasti diventarono esplosioni sempre più forti, mentre tutta l’area portuale fu investita dal fumo nero e acre.

Alle 19.20 la Nordanland esplose con un terrificante fragore. Lo scoppio, come una bomba, fu avvertito in tutta la città e molti vetri delle case vicine  andarono in frantumi.

Alle 21 cessarono le esplosioni ed i Vigili del fuoco si aprirono la strada attraverso il fumo dell’incendio mentre le fiamme continuarono a distruggere lo scafo. Anche la nafta cominciò a defluire in mare e distendersi sulle onde. Poi una scintilla del rogo cadde sull’acqua, sulla nafta. Una lingua di fuoco corse veloce sulle onde diffondendosi  in mare tra i ponti Eritrea e Somalia e cominciò così a divampare su centinaia di metri quadrati di mare. I Vigili del fuoco con le loro attrezzature si misero così ad estremo baluardo dei capannoni stivati di juta ed altro materiale infiammabile. Alle 23,  ripresero più ovattate le esplosioni all’interno della Nordanland ridotta ad un rottame incandescente. Poi le spingarde dei pompieri con i loro poderosi getti ebbero la meglio su quelle strisce di fuoco che presto apparvero come tanti lumini in un camposanto spettrale.

Un fascio di luce accecante e sinistra s’incunea sulla scena del disastro. Sulla destra in alto si nota la spaccatura della diga e l’entrata del mare vivo che spazza il Ponte Canepa. La Atlantic Lord resiste sulle ancore con la prora al mare mentre la sua poppa é loibera, senza cavi a terra, pronta per colpire la Camas Meadows rovesciata e chiusa nell’angolo.

Una significativa istantanea del fotografo F.Leoni che é riuscito a cogliere l’azione del salvataggio di un marittimo per opera dei Vigili del Fuoco, nell’attimo del massimo sforzo di trazione sul va-e-vieni.

A sinistra notare l’incavo profondo dell’onda di risacca nel chiaroscuro di questa foto eccezionale di F.Leone. I segni evidenti dei ripetuti urti sono visibili sullo scafo rovesciato della CAMAS MEADOWS.

Il mare vivo ha sfondato la diga anche all’altezza di Samperdarena, e la risacca ha ripetutamente scagliato contro Ponte Eritrea la NORDANLAND che é sbandata per effetto dell’acqua imbarcata dalle falle nella parte sommersa dello scafo. I testimoni oculari, presenti nell’istantanea di F.Leoni, non sanno ancora che la nave ha 400 tonnellate di acetilene nelle stive.

 

L’equipaggio ha evacuato la NORDANLAND. Soltanto i pompieri stanno stanno cercando di raddrizzare la nave pompando acqua fuoribordo. A causa della risacca, le falle  sono ormai numerose ed il destino della nave svedese é segnato.

 

Sono le 19.20. Francesco Leone ha colto il tragico attimo dell’esplosione della nave svedese Nordanland. In breve tempo le strutture della nave si deformeranno a causa delle alte temperature dei roghi alimentati dall’acetilene nelle stive. La Nordanland é esplosa, ed é scesa sul fondo piegandosi verso la banchina mentre l’albero si appoggia pateticamente ai ruderi sconnessi di Ponte Eritrea.

Per tutta la notte la nave svedese  ha continuato a sprigionare fiamme  che il vento trasformava in lugubri fantasmi e, come si vede da questa foto, il relitto ha continuato a emanare fumo e odore acre anche il giorno dopo.

Il ciclone é passato. I segni della devastazione sono ancora più evidenti il giorno dopo, sia in mare che in banchina. La petroliera Camas Medows” ormeggiata di punta a calata Derna, ruppe tutti gli ormeggi e trovatasi in balia delle onde, andò a colpire ripetutamente le navi vicine e le opere portuali. Infine s’inclinò paurosamente fino a capovolgersi per poi apparire come una grossa balena morente.

Da questa veduta aerea scattata il giorno dopo la devastazione, tra Ponte Nino Ronco e Ponte Canepa, si nota la decapitazione della diga e di altre opere portuali come gli ormeggi resi inagibili per molto tempo dal passaggio del ciclone.

Carlo GATTI

"Genova, Storie di Navi e salvataggi".

Le foto del grande maestro Francesco Leone appartengono all'archivio dell'autore.

Rapallo, 20.11.2012

 

 

 


ESPRESSO SARDEGNA. Operazione recupero e rimorchio

 

ESPRESSO SARDEGNA

Il traghetto Ro-Ro  si capovolge e cola a picco a levante dell’isola Gorgona

 

 

24.2.1973

Nave

Bandiera

Armatore

Stazza L.

Capacità carico

Espresso

Sardegna

italiana

Traghetti del

Mediterraneo

1995

60 semirim.

da 40 piedi

Espresso Sardegna in navigazione

 

I FATTI

Il 24 febbraio 1973, il traghetto di linea Espresso Sardegna del gruppo Magliveras faceva rotta da Genova, suo porto compartimentale, verso Palermo con un carico di 60 autocarri pesanti. Nel Nord Tirreno era in corso una violentissima libecciata. Quando la nave era ormai prossima al ridosso della Gorgona, improvvisamente sbandò su un fianco ed il Comandante Antonio Bracco ebbe soltanto il tempo di ordinare l'abbandono nave all'equipaggio. La tempestività dell'ordine fu pari alla velocità della messa in mare delle lance di salvataggio. La nave diede il tempo all'equipaggio di mettersi in salvo, quindi, dallo sbandamento passò rapidamente al capovolgimento, mostrò la chiglia e colò a picco nello specchio di mare a levante dell'isola Gorgona.

LA CAUSA

Non è da escludersi la rottura di alcune rizze che tenevano bloccati gli autocarri al ponte garage. Lo sbandamento della nave potrebbe essersi verificato a causa dello scorrimento laterale dei mezzi pesanti  verso la murata di sottovento della nave.

IL RECUPERO

Il servizio fotografico che vi proponiamo, si riferisce al recupero dell’Espresso Sardegna effettuato da una Impresa francese di SalvataggiMarittimi e del rimorchio della stessa ad opera della Società Rimorchiatori Riuniti di Genova.

Il M/r Torregrande in navigazione

La nave, trainata dal Torregrande, arrivò a Genova in quella strana posizione, galleggiante ma perfettamente capovolta, fu quindi ormeggiata provvisoriamente alla diga interna dell’Aeroporto, all’altezza dell’entrata al Porto Petroli di Multedo. Successivamente fu raddrizzata e riparata. LEspresso Sardegna riprese il mare nel dicembre 1976.

 

Il Torregrande si avvicina al relitto capovolto dell’Espresso Sardegna per prenderlo a rimorchio

 

Il relitto dell’Espresso Sardegna é stabilizzato con dei cilindri laterali

 

Iniziano le operazioni di rimorchio

Sopra: la nave è recuperata e trasferita in una cala ridossata della Gorgona. Sotto: notare i componenti dell'attacco da rimorchio: patta d'oca di catena, il gherlino di nylon ed il cavo d'acciaio del troller.

 

Lo sbandamento della nave potrebbe essersi verificato a causa dello scorrimento laterale dei mezzi pesanti verso la murata di sottovento della nave.
 Il servizio fotografico che vi proponiamo si riferisce al recupero effettuato dall'impresa francese  di Salvataggi Marittimi e del rimorchio della nave stessa ad opera della società Rimorchiatori Riuniti di Genova.

L’attacco é completato, il rimorchio si avvia alla corta

 

La nave, trainata dal Torregrande, arrivò a Genova perfettamente galleggiante, ma in quella strana posizione, completamente capovolta. Il "traghetto verde" fu subito ormeggiato alla diga interna dell'aeroporto, presso l'imboccatura Ovest del porto petroli di Multedo.
 Successivamente, la nave fu raddrizzata e riparata e riprese il mare nel dicembre del 1976.

 

 

Il rimorchio é arrivato a Genova e viene ormeggiato alla diga foranea del Porto Petroli di Multedo in attesa del raddrizzamento e del recupero totale.

 

 

Testo e foto di Carlo GATTI

Rapallo, 20.11.2012

 

Tratto dal libro: "Genova, storie di navi e salvataggi" - Edizione 2003, Casa Editice Genovese - Autore: Carlo Gatti

RETTIFICA: Il Comandante della ESPRESSO SARDEGNA al momento dell'affondamento era il C.L.C. Antonio BRACCO e, non il Comandante Calabrò, come erronemente riportato in precedenza, basandoci su informazioni ritenute affidabili, ma "purtroppo" imprecise. Nel chiedere scusa agli interessati ed ai lettori, colgo l'occasione per  ringraziare il dott. Pino Pesce, ex marittimo della Compagnia Marittima Magliveras, per averci dettagliatamente  descritto la situazione di quel tragico 24.2.1973.