Nave a Palo ITALIA- C. CONCORDIA, due naufragi a confronto

IL NAUFRAGIO DELLA NAVE A PALO ITALIA

La perdita del più grande veliero italiano di tutti i tempi fu un duro colpo per la marineria ligure.

Alcune analogie con il naufragio della Costa Concordia

Siamo nel 1908. Gli affari più redditizi stanno passando ai piroscafi, concorrenti che i velieri non riescono più a contrastare perché sono sempre più affidabili e, non dipendendo dai capricci del vento, assicurano consegne più regolari secondo precisi impegni di noleggio. Insomma, all’orizzonte c’é più fumo che vele e la gente di mare sente sulla propria pelle che il progresso sta voltando le spalle ai silenziosi bastimenti a vela. Il commercio marittimo riguarda prevalentemente il guano cileno, il salnitro peruviano, il carbone europeo o australiano, il grano americano, i minerali di nickel neocaledonesi, la lana australiana, il petrolio in cassette, il legname e il pesce dei mari nordici. Ma é anche il tempo della corsa all’oro californiano. S’inaugura il flusso di migranti dalla costa orientale a quella occidentale degli USA in cerca di fortuna, sempre via Capo Horn, ma l’apertura del Canale di Panama é imminente (1914) e provoca alla vela ulteriori perdite operative e cali di noli.

In questo quadro marcato dai forti colori del tramonto, si muovono ancora con grande fierezza le famose  navi a palo oceaniche; sono grandi, famose e veloci, sono l'orgoglio della nostra cantieristica navale e dei loro armatori che credono fermamente nell’economicità del vento rispetto al costoso carburante dei piroscafi. Sono costruiti in ferro ed hanno quattro alberi. In tutto sono una decina. Questi ultimi splendidi velieri  hanno svolto un buon servizio regalando prestigio alla nostra Marina. Sette di loro sono stati costruiti in Liguria.

L’Emanuele Accame, varata a La Spezia nel 1891, attiva su tutti gli oceani, fu la nave a palo forse più famosa e longeva. L’Edilio Raggio, varata a La Spezia nel 1903 dal cantiere Pertusola, fu la prima nave a palo realizzata con un progetto nostrano. Le gemelle Gabriele D’Ali’ (1901) e Principessa Mafalda (1903) furono varate nel Cantiere Nicolò Dodero della Foce di Genova. L’Erasmo fu varata a Riva Trigoso nel 1903 per conto degli armatori Raffo e Bacigalupo di Chiavari. Unità veloce, guadagnò primati malgrado le molte tempeste oceaniche nelle quali ha avuto la ventura d’incappare. La Regina Elena - Armata da Casa Milesi di Genova, fu varata a Riva Trigoso nel 1903. La settima fu la nave a palo Italia, della quale stiamo per raccontarvi il triste epilogo.

Con la portata di 4.200 tonn. fu il più grande veliero costruito dai cantieri nazionali ed anche l’ultimo di quella breve stagione. La nave a palo fu varata al Muggiano (La Spezia) nel 1903 per conto degli armatori Cavalieri Becchi e Sturlese di Genova. Fu una nave splendida ma sfortunata. La sua vita durò soltanto 3 anni, e fu divisa in altrettante campagne. La prima di circumnavigazione del globo; la seconda tra Europa, Australia e ritorno via Capo Horn; infine nel 1908, partì per la sua terza campagna dall’Australia diretta al porto cileno di Iquique. Dopo una veloce traversata di 43 giorni dell’Oceano Pacifico, l’Italia arrivò verso sera in vista delle colline di Antofagasta, ma improvvisamente le venne a mancare il vento lasciando le vele inerti e la nave in balia della corrente. La nave era in forte anticipo sulla data prevista, ma i rimorchiatori cileni non lo sapevano e non si fecero trovare pronti “al gancio”. Il mare lungo da Sud-Ovest che arrivava dagli sconfinati spazi oceanici, spinse il veliero contro la costa a picco sul mare. La perdita della nave fu inevitabile, complice il profondo fondale e l’inesorabile corrente che fu impossibile contrastare con le ancore di bordo. Il comandante Marchese tentò all’ultimo momento una manovra disperata ruotando la nave, ma troppo tardi. La poppa si sfasciò contro le rocce che aprirono una falla che le fu fatale. All’equipaggio non rimase che allontanarsi con le lance di salvataggio, che vennero poco dopo soccorse da alcuni pescherecci locali.


Venerdì 1° Maggio. Due eccezionali fotogrammi che testimoniano il naufragio della nave a palo “Italia”. L’albero di contromezzana (o palo) é crollato a seguito del contraccolpo nella zona poppiera, dovuto all’impatto col fondo roccioso. Queste immagini sono state rinvenute nel libretto del Capitano Emilio Marchese soltanto nel 1975. (Archivio Museo Navale Internazionale – Imperia)

Dal PROCESSO VERBALE riportiamo alcuni stralci della drammatica relazione del Comandante riguardante il naufragio della nave a palo ITALIA.

Io sottoscritto Emilio Marchese, Capitano del veliero Italia della matricola del Comp. Marittimo di Genova....omissis....Si Partì da Newcastle (Australia) il 17 marzo 1908 con carico di carbone destinato per Iquique (Cile); felicemente dopo una favorevole navigazione e sollecita, si avvista la costa del Chilì (Cile) alle alture circa di Antofagasta. Da qui segue rotta al Nord per la destinazione succitata. La mattina del venerdì 1° maggio, fatto giorno, la posizione della nave era al traverso di Punta Petache, alla distanza di 10 o 12 miglia con quasi calma di vento e variabile e mare gonfio da Sud Ovest. Si effettuano durante il giorno varie manovre onde allontanarci dalla costa, cambiando le mure, ma a causa altresì di una corrente abbastanza considerevole portante verso il Nord o Nord-Nord Est, nonostante tutti gli sforzi fatti, ci avvicinammo alla punta Cuchumetta in sì breve lasso di tempo; cosa da rimanere stupefatti; vedendo che non si poteva più oltrepassare detta punta per l’assoluta mancanza di vento, immediatamente si scandaglia trovando 35 braccia di fondo, si ancora subito, senza indugiare un istante, l’ancora di sinistra filando circa 60 braccia di catena fuori, ciò essendo verso le ore 04,30 p.m., ma vedendo che la nave non veniva trattenuta, derivando sempre alla via di terra, si ancora anche quella di destra immediatamente, filando catena circa 40 braccia. Fatto ciò, il bastimento cominciò a presentare la prua fuori all’Ovest, ma disgraziatamente esso toccò ripetutamente la poppa battendo fortemente sul fondo di scoglio. Sondata la sentina, si trovarono sei piedi d’acqua nella stiva, da cui si deduce che lo scafo ha portato forti avarie nel fondo sott’acqua. Immediatamente si mettono fuori in mare le due imbarcazioni di poppa, perché queste erano le più pronte ed alla mano guarnite con le grue con lo scopo di salvare le vite dell’equipaggio (in questo frattempo un urto violento causò completamente rottura e disarmo del timone) che colle guide di due pescatori poi fummo a terra tutti. Prima di lasciare la nave, più o meno le ore 6 p.m. potemmo convincerci come la falla andava prendendo proporzioni sempre maggiori, perché l’immersione della linea d’acqua fuori bordo raggiungeva il livello pressapoco alla coperta. Trovandosi in deplorevoli condizioni, risolvemmo prender la via di terra, dirigendosi in un ridosso, piccola Caleta, ove il mare era molto più camo, colle guide di due pescatori pratici del luogo, che poterono assisterci nel momento fatale e che tutto presenziarono.....

Descrizione del bastimento Italia: Armatori: Bechi & Sturlese di Genova

Misure dello scafo: Lunghezza: mt.100 – Larghezza: mt. 14.54 - Pescaggio: piedi 22,5 - Stazza Tonn. Registro: 3.030 - Portata massima: Tonn. 4.200 - Nominativo: PWNK Velatura: mq 3.000 - Attrezzato a nave a palo con i ritrovati più recenti, con 18 vele quadre, randa e 12 vele triangolari, albero maestro di 50 m d’altezza.

La campagna nell’oceano Pacifico della nave a palo “Italia”. Passato il Capo Horn, la nave raggiunse Seattle poi si diresse in Australia, a Melbourne, quindi attraversò ancora il Pacifico per due volte facendo scali nel Cile, a Junin e Pisagua, fino al tragico naufragio del 1° Maggio 1908.

Alcune analogie con il naufragio della Costa Concordia

1 - Le due navi sono state tra le più grandi della loro epoca e nessuno avrebbe immaginato che potessero naufragare per una causa diversa da un incendio, da una tempesta, da una collisione, dalla rottura di un albero, nel caso del veliero; oppure per il blackout dei motori, perdita delle eliche e timone nel caso della nave passeggeri.

2 - Il veliero ITALIA naufragò per una causa davvero remota: blackout del vento, come se una nave di oggi si schiantasse sugli scogli per mancanza di carburante.

3 - La nave passeggeri Costa Concordia é naufragata per un causa altrettanto impensabile: imprudenza grave del suo capitano nel scegliere una rotta troppo vicina alla costa.

4 - In entrambi i casi, il destino é stato crudele ed efficientissimo nel programmare e realizzare due naufragi da manuale, nonostante le condizioni meteo fossero ottime.

5 – Il veliero italiano era sprovvisto di stazione radio.* Per questo motivo non fu emesso alcun segnale di soccorso, pur trovandosi la nave in acque “quasi” portuali.

6 – Allo stesso modo, dopo 104 anni di progresso tecnologico, si deve parlare di carenza nei contatti radio nave-terra-nave anche per la Costa Concordia. 32 sono state le vittime della tragedia e si ritiene, da più parti, che si debba imputarne la causa all’inefficienza delle comunicazioni interne ed esterne alla nave.

7 – Il naufragio delle due unità non é stato immediato. Nel caso del veliero, l’affondamento fu ipotizzato con largo anticipo, e l’abbandono nave fu preparato secondo la prassi. Nel caso della nave passeggeri, lo scafo s’é adagiato con il fianco destro su un provvidenziale gradone roccioso che lo accoglie a tutt’oggi (Maggio-2012) con una certa stabilità.

8 - Sia l’Italia che la Concordia sono naufragate cozzando contro la terraferma e non in mare aperto. In entrambi i casi, i naufraghi si sono salvati con i mezzi di bordo e di terra evitando di morire assiderati nelle fredde acque del Pacifico in aprile, o davanti all’Isola del Giglio in gennaio.

9 – In entrambi i casi, si può “marinarescamente” parlare di evento straordinario, degno di essere ricordato con molti ex voto per grazia ricevuta. L’Italia si trovò, infatti, “senza governo” in balia della corrente e l’impatto contro la costa avvenne non distante dal porto di Iquique (Perù), per questa fortunosa circostanza, il recupero dell’equipaggio fu quasi immediato.

La Costa Concordia, subito dopo l’urto contro le “Scole”, si é trovata “senza governo”, in balia di deboli elementi meteo e di un forte sbandamento compiendo, con l’abbrivo residuo, una curva magica verso terra e non verso il largo. Questo miracoloso sentiero della salvezza l’ha portata a posarsi dolcemente sulla riva e a consegnare i suoi “ospiti” tra le braccia di quei fantastici gigliesi che oggi tutti applaudiamo.

10 - Chiuderei questa serie di coincidenze con un pensiero sul Gigantismo Navale di cui, probabilmente, le due navi sono state vittime. Per secoli e secoli i velieri fecero uso delle scialuppe di bordo per togliersi dai guai a forza di remi: nelle manovre portuali, per evitare i bassifondi, per superare le calme equatoriali, per scappare dalle rade pericolose ecc... La scialuppa é sempre stata l’arma segreta, una risorsa indispensabile del Comandante di un tempo, non solo come forza trainante, ma anche come vedetta, esploratore, procacciatore di acqua, di viveri, per trasbordare personale, autorità, feriti, merci di scambio ecc... Ma il comandante Emilio Marchese dell’ITALIA, a causa del peso eccessivo della nave e del suo carico, non prese neppure in considerazione l’idea di servirsi delle scialuppe per vincere la corrente a forza di braccia. Per quanto riguarda l’impatto della Costa Concordia contro gli scogli, diversi esperti del settore hanno affermato che la nave, qualora fosse stata di poco più corta, avrebbe scapolato con la poppa gli scogli delle ‘Scole’ e, nonostante i numerosi errori del suo comandante Francesco Schettino, si sarebbe salvata.

Note: * Il primo uso della radio a bordo di una nave con relativa richiesta di soccorso si ebbe nel Marzo 1899 da parte della nave faro Goodwin che navigava a sud delle coste inglesi immersa in una fitta nebbia. Il messaggio di richiesta di soccorso fu ricevuto da una stazione costiera che mando' la nave S. Matteo in aiuto alla Goodwin. Nel 1904 molti transatlantici furono equipaggiati con stazioni radio ricetrasmittenti a bordo, con operatori che conoscevano la telegrafia provenienti dalle ferrovie o dagli uffici telegrafici postali.

Ringrazio il comandante Flavio Serafini, per aver riportato alla luce, con il suo libro: “NAUFRAGIO NEL PACIFICO”, (da cui ho tratto le fotografie), la drammatica storia della nave a palo ITALIA. Flavio lo ha fatto con la passione del vero ricercatore di razza, in un Paese che certamente non brilla nella salvaguardia delle memorie storiche.

Carlo GATTI

Rapallo, 18.04.12


Mario T. PALOMBO un Comandante nella "tempesta" mediatica

Mario Terenzio PALOMBO

un Comandante nella “tempesta” mediatica

Nel novembre 2010 Mare Nostrum organizzò la Mostra: “La famiglia Costa, un pianeta che parla rapallino”. L’evento ebbe come testimonial il comandante Mario Terenzio Palombo che lasciò un’impronta indelebile con un’avvincente conferenza sulla marineria del nuovo millennio. Fu proprio in quella circostanza che i nostri lettori conobbero il “Personaggio Palombo”, Comandante carismatico della Costa Crociere, protagonista di una storia ormai rara che parte dai segreti della vela, raccontati dal nonno Biagio, armatore di un pinco-goletta, ed arriva all’assoluta padronanza delle moderne tecnologie installate sulle grandi navi da crociera che lui stesso ha allestito e poi comandato.

Il comandante Mario Terenzio Palombo

Le poche righe che seguono, fanno parte della presentazione di Mario Terenzio Palombo che lessi al pubblico di MARE NOSTRUM RAPALLO nel novembre 2010:

"Nel primo dopoguerra, prima di partire con il bastimento “Nettuno”, mio padre che mi sembrava un gigante, un vero “lupo di mare”, ci ordinava di andare a prendere le gallette e i fichi secchi presso il panificio. Questa era la loro provvista di base. Durante la navigazione pescavano e mangiavano il pesce arrosto. Nelle cale della Sardegna si ancoravano, andavano nell’entroterra e dai contadini  scambiavano il  pesce con delle belle forme di formaggio di vari tipi e salumi. A quei tempi con le lenze si prendevano molti pesci. Lungo la costa calavano il tramaglio che in poco tempo era già stracolmo. Mentre il bastimento usciva dal porto di Camogli  lo guardavamo sbalorditi, mentre spiegavano le vele. Stavamo a guardarlo a lungo, sino a che diventava un puntino invisibile all’orizzonte. Sono immagini che restano impresse nelle mente, di tanto in tanto è bello ricordare".

Mario Terenzio Palombo é da qualche anno in pensione e si può tranquillamente sostenere che molti  degli attuali comandanti ed ufficiali di Costa Crociere sono cresciuti alla sua Scuola. Anche il comandante F. Schettino, al primo imbarco da Comandante in seconda, proveniente da altra Compagnia fu suo sottordine per circa 5 mesi nel 2002/3, a bordo della Costa Victoria, in crociera ai Caraibi. In questo periodo, Il comandante Palombo ebbe modo di poter valutare le capacità professionali di Schettino, che riportò in  una scheda  datata 18 maggio 2003, (già pubblicata da vari quotidiani) dove scrive:

< omissis….Posso dire che, mentre professionalmente è valido, tuttavia, ha manifestato alcune lacune relative alla gestione del Personale e  Disciplina di bordo. Ho notato, sin dall’inizio, un suo notevole impegno nel conoscere la nave e nel dedicarsi alla manutenzione della stessa. Non c’è stato inizialmente con me un buon rapporto in quanto, per orgoglio professionale o per suoi motivi caratteriali, il Sig. Schettino, in molti casi, preferiva mentirmi piuttosto che ammettere di aver sbagliato. Questo fatto naturalmente ha causato una perdita della mia fiducia sino a quando, dopo il nostro terzo serio colloquio, cominciava a capire come doveva comportarsi. Gli ho dato molti insegnamenti che mi auguro ne faccia tesoro specialmente per quanto concerne i rapporti con il Personale ………omissis……..Ha un buon carattere, come uomo è umile e buono d’animo, per questo ho voluto aiutarlo a superare le difficoltà incontrate a bordo ed a cambiare il suo comportamento, facendogli così acquisire più personalità, capacità di gestione del personale ed esperienza sulla conduzione nave per quanto concerne le sue mansioni >.

Mario Terenzio Palombo durante l’inverno e per 9 mesi all’anno vive a Grosseto. La sera del 13 gennaio 2013, 15/20 minuti circa prima dell’impatto della Costa Concordia contro “Le Scole”, mentre stava guardando la TV, veniva chiamato al cellulare dal Maitre d’Hotel della nave, Antonello Tievoli, originario dell’isola del Giglio. I due sono legati da buoni rapporti di famiglia ma il Comandante non sapeva dove si trovasse la nave in quel momento. Tievoli, nel salutare rapidamente Palombo, riferiva di trovarsi sul Ponte di Comando e che il comandante Schettino stava deviando dalla rotta per mostrare più da vicino l’isola del Giglio ai passeggeri e allo stesso Tievoli, i cui genitori abitano di fronte al mare. Palombo rimase indispettito da quell’inaspettata telefonata, in quanto il Maitre sapeva che lui si trovava  a Grosseto e rimase ancor più indispettito quando gli passò al cellulare, senza averlo chiesto, il comandante Schettino che non sentiva da anni, nemmeno quando andò in pensione per motivi di salute, ma soprattutto perché non erano rimasti in rapporti di amicizia.  (M.Palombo sbarcò dalla Costa Fortuna nel porto di Napoli nel 2006 per infarto. N.d.r.) Lo colpì ancora di più quando Schettino gli chiese informazioni sui fondali adiacenti alla zona del porto dell’isola, specificandogli che voleva passare ad una distanza di 0,4 miglia dal molo (circa 750 metri). Molto stupito da questa domanda, e pur sapendo che la nave era ben fornita di tutti gli strumenti nautici e dei dati per la  navigazione, Palombo riferiva che i fondali in quella zona erano buoni, ma tenuto conto della stagione invernale, non vi era assolutamente motivo di avvicinarsi e lo invitava a fare un rapido saluto suonando la sirena e di rimanere al largo.


Detto questo, soltanto l’apertura della “Scatola Nera” potrà spiegare il movente che spinse il comandante della Costa Concordia a pianificare  tanta scelleratezza... Comunque sia, la tragedia della COSTA CONCORDIA, avvenuta il 13 gennaio di quest’anno, ha cambiato la vita del Comandante Mario Terenzio Palombo che é diventato, suo malgrado, il personaggio più corteggiato, ma anche travisato e screditato dai media nazionali e stranieri. Questa diffusa pratica che si chiama “diffamazione”, ha suscitato la reazione degli abitanti dell’Isola del Giglio che, conoscendo a fondo il valore del loro figlio prediletto, hanno voluto esternare la loro amarezza con un “appello” apparso in versione murale nel paese, ma anche sul sito di GiglioNews.it che ora vi proponiamo insieme alla risposta del protagonista, vittima di una cinica quanto ingiustificata campagna denigratoria.

Di questo scambio di lettere, ci colpisce soprattutto la distanza siderale che esiste tra la sensibilità di chi conosce profondamente il mare ed il “personaggio Palombo” e  coloro che osano scrivere di navi e di gente di mare senza appartenere a questo mondo tanto difficile da capire quanto  affascinante da vivere. “I Vivi, i Morti e i Naviganti” é forse la più sintetica definizione di come é stato visto e diviso il mondo da un grande saggio che la sapeva lunga sull’animo umano.

"Giù le mani dal comandante Palombo"

Lo urla a gran forza il popolo gigliese e lo fa attraverso un eloquente striscione comparso nella notte su un balcone del porto, proprio di fronte al relitto della Concordia. Non piace agli isolani la gogna mediatica a cui viene sottoposto il loro concittadino Mario Palombo, ex Comandante di massimo prestigio della Costa Crociere.

"Quale sarebbe la colpa di Mario? - ci dicono infuriati gli isolani - Non è possibile vederlo additato su tutti i giornali e le trasmissioni televisive per il solo fatto che attraverso il suo libro ha descritto con passione l'amore per la sua gente espresso a volte attraverso passaggi ravvicinati alla sua isola!" 

"Prima di tutto non chiamateli inchini, che sono un'altra cosa - continuano i gigliesi - Gli sporadici passaggi ravvicinati del comandante Palombo ed alcuni suoi colleghi avvenivano sempre a distanza di sicurezza (almeno mezzo miglio) e ad una velocità minima che non creava pericolo né disturbo ai fondali"

In effetti i passaggi ravvicinati a cui abbiamo assistito nelle estati passate non avevano nulla di illegale e la distanza di mezzo miglio era ben oltre il limite di 100 metri stabilito dalle Ordinanze balneari. In più c'è da aggiungere che a mezzo miglio dall'isola i fondali raggiungono profondità importanti tanto da garantire la sicurezza per ogni genere di imbarcazione.

 "Il passaggio di quelle navi è sempre stato uno spettacolo unico - conclude stizzita la gente dell'isola - che piaceva a tutti noi gigliesi (nessuno escluso), ai nostri turisti ma anche ai passeggeri a bordo delle navi che potevano godere di uno scenario da favola. Nessuna necessità di farsi pubblicità, né dell'isola né tantomeno di Costa, solo omaggi tra gente di mare fatti, lo ripetiamo, in massima sicurezza e trasparenza. "

Per tutti questi motivi si è alzata, per la prima volta, la voce dell'isola che si è prodigata silenziosa e senza clamore quella tragica notte in una straordinaria azione umanitaria e che in cambio non ha chiesto nulla ma pretende adesso almeno il rispetto per la sua gente difendendo con forza e determinazione uno tra i suoi più stimati concittadini.

Segue la risposta del comandante Mario Palombo.

Cari Gigliesi,

non potete immaginare la mia sorpresa quando venerdì mattina un giornalista dell’Ansa mi ha chiamato comunicandomi che nella notte sulla mia isola era comparso uno striscione in mio onore su un balcone del porto.

Subito dopo, attraverso GiglioNews, ho potuto vederlo e leggere i pensieri e le parole della gente isolana in mia difesa che mi hanno riempito di gioia concedendomi una boccata di ossigeno in un momento per me veramente difficile.

Mi vedo ogni giorno attaccato e denigrato senza motivo da giornalisti cinici e senza scrupoli alla ricerca spesso di processi alle intenzioni piuttosto che alla verità dei fatti, senza nessuno di essi che riesca a spiegarmi quale sarebbe la mia colpa e quale relazione avrebbe la mia persona con questa tragedia della Costa Concordia.

Vedo spesso il mio libro spulciato con morbosità, con l’intento di trasformare parole di amore verso il Giglio e Camogli in assurde profezie di sventura! Ridicoli e goffi tentativi di trovare in quelle righe, scritte con il cuore e dense di emozioni vissute, chissà quali verità e ricostruzioni fantasiose.

Il mio pensiero è fisso verso quella nave tristemente adagiata sul fondale della Gabbianara, i suoi passeggeri morti durante una vacanza ed i parenti disperati in attesa alcuni di ritrovare i dispersi; l’orgoglio mio e dei miei colleghi comandanti e l’immagine di una società rispettabile come la Costa feriti, per un’assurda coincidenza, dagli scogli granitici della mia isola.

Ho sempre agito negli anni del mio lavoro con massima trasparenza e professionalità, con un grande senso di responsabilità nei confronti dei passeggeri delle mie navi e soprattutto forte di un infinito rispetto del mare. Non ho mai messo a rischio la vita di nessuno con manovre spericolate ed i miei passaggi  sono sempre avvenuti mettendo in atto tutte le misure di  sicurezza, rallentando sensibilmente la velocità, avvicinandomi in prossimità del porto sia al Giglio che a Camogli, dove salutavo i vecchi marinai  ospitati nella Casa di Riposo Gente di Mare.  Non sono stati assolutamente una consuetudine come i media hanno scritto, ma sporadiche e felici  occasioni che ho avuto nel corso della mia carriera.

Questo i miei concittadini lo sanno bene e me ne hanno dato conferma alzando la voce e prendendo le mie difese di fronte a bieche speculazioni giornalistiche. Proprio loro che del silenzio e dell’anonima operosità hanno dato prova in quella tragica notte e che adesso sono l’orgoglio mio, della Costa Crociere e di tutta Italia!

Finché la Concordia rimarrà lì, non me ne vogliate, non riuscirò a metter piede sull’isola. Il mio cuore è ferito proprio come quella nave e come le anime di tutte le persone che in quel tragico venerdì notte hanno perso i propri cari.

Mario Terenzio Palombo

CSLC Mario Terenzio PALOMBO

Sono nato a Savona il 30 agosto 1942 da famiglia di tradizioni marinare. Mio padre Francesco, autentico “lupo di mare”, era originario di Porto Santo Stefano (Monte Argentario), mia madre Renata Mattera, era dell’Isola del Giglio. La mia famiglia nel 1935, per esigenze di lavoro, si trasferì in Liguria, nella pittoresca cittadina di Camogli. Mio nonno Biagio, già armatore del pinco-goletta ”Nettuno”, comandato da mio padre, si  mise in società con una famiglia camogliese ed iniziò i trasporti e la vendita a Camogli e Santa Margherita Ligure, di carbone e legna proveniente dalla Sardegna.

Dopo 58 anni vissuti felicemente a Camogli, per esigenze familiari, mi sono trasferito con la famiglia a Grosseto dove vivo per 9 mesi all’anno trascorrendo l’estate all’Isola del Giglio. Non manco mai  di ritornare a  Camogli almeno  una volta all’anno.

Mi sono diplomato nel 1963 all’Istituto Nautico “Cristoforo Colombo” di Camogli. Dopo 9 anni di esperienze su navi da carico e petroliere, nel 1972 iniziai la mia carriera su navi passeggeri con la società di navigazione Home Lines imbarcando sulla T/n HOMERIC e, subito dopo, sulla T/n DORIC. Raggiunsi il grado di Com.te in 2nda, nel 1979 sulla T/n OCEANIC e, il mio primo comando nel 1982 sulla M/N ATLANTIC, di cui avevo seguito l’allestimento, in Francia, da Com.te in 2nda.

Seguii anche l’allestimento in Germania della nuova M/N HOMERIC. Nel novembre del 1988  questa società fu venduta e venni, nello stesso mese, assunto dalla società Costa Crociere, imbarcando da Com.te in 2nda sulla T/n EUGENIO COSTA e, pochi mesi dopo, ripresi il grado di comandante  sulla  CARLA COSTA.

Con la società COSTA CROCIERE  ho maturato sempre più la mia esperienza professionale partecipando a vari allestimenti di nuove navi, con l’affidamento del comando di navi prestigiose.

Con la Costa Crociere ho comandato: CARLA COSTA – COSTA ROMANTICA - COSTA CLASSICA- COSTA VICTORIA- COSTA ALLEGRA - COSTA ATLANTICA – COSTA FORTUNA.

Allestimenti : COSTA ROMANTICA – COSTA VICTORIA – COSTA FORTUNA

Sono rimasto a ruolo con la Costa Crociere sino al giugno 2007, ritirandomi in pensione.

Carlo GATTI

Rapallo, 13.04.12


PIBIMARE PRIMA, Un Rimorchio pericoloso sulla Rotta della Costa CONCORDIA

PIBIMARE PRIMA

UNA ROTTA SCONSIGLIATA

Il vecchio e saggio Portolano di bordo suggerisce ai comandanti di navi di passare  al largo dell’arcipelago toscano.....

Canale tra il promontorio dell'Argentario e le isole del Giglio e di Giannutri

Era l’alba del 27 febbraio del 1970 quando il comandante della Pibimare Prima, Attilio Ruggeri segnalò al suo armatore problemi al propulsore. La petroliera italiana, 15.000 tonnellate di stazza lorda, stava eseguendo “prove di macchina” nel medio Tirreno dopo importanti lavori al motore principale eseguiti presso un Cantiere nazionale. Raggiunto l’accordo per il contratto di rimorchio tra le rispettive Società, il Torregrande lasciò Genova alle 16 e poco dopo i due comandanti entrarono in contatto per scambiarsi i rispettivi punti-nave e gli orari dei successivi appuntamenti-radio. La Pibimare Prima si trovava in panne al largo delle spiagge romane e con pochi giri di macchina  lottava per rimanere alla cappa (con la prua al mare) contro una forte burrasca da libeccio. Il punto d’incontro fu raggiunto dal rimorchiatore genovese dopo una dura cavalcata di 17h 30m con il mare al mascone di dritta. L’operazione d’aggancio delle due unità avvenne tra onde alte 5-6 metri e non mancarono le difficoltà, tuttavia, dopo circa mezz’ora il convoglio era disteso con 600 metri di cavo alla via verso Genova. Alle 10h 00m del 28.2 Charly fece il punto nave con il radiogoniometro e s’accorse che il convoglio scarrocciava verso terra e decise , insieme al Comandante della Pibimare Prima Attilio Ruggeri, di risalire verso Genova sulla rotta più breve a ridosso dell’Arcipelago Toscano. Gli sforzi sofferti dall’attrezzatura di rimorchio erano stati notevoli e il giovane comandante voleva fare un accurato controllo degli attacchi prima d’affrontare la notte e il mare aperto. Lasciato verso le 23h lo scoglio di Giannutri a sinistra, il convoglio stava ormai imboccando il Canale tra L’Argentario e l’Isola del Giglio. Charly fece accorciare il cavo da rimorchio per non toccare con la catenaria (curva formata dal cavo sott’acqua) la Secca di Mezzo Canale (-24 metri). Il convoglio ridotto alla corta volava alla splendida velocità di 8 nodi. Nel frattempo la depressione era slittata a levante esaurendo la libecciata, ma innescando un fresco vento di grecale (da terra). Il mare da SW era ancora lungo e fastidioso, ma la bonaccia era lì davanti, a poca distanza.  La frittura di triglie fresche che il peschereccio di Papetto aveva regalato al Torregrande per antica amicizia, era quasi pronta per il primo assalto...

La Pibimare Prima a rimorchio

Poco dopo, improvvisamente, il potente motore del Torregrande si piantò di colpo senza alcun preavviso, e per l’effetto combinato del peso del cavo d’acciaio e della sua forma tozza, perse subito l’abbrivo nello spazio di qualche decina di metri. Fortunatamente lo scafo piegò a dritta proprio nel momento in cui la Pibimare Prima gli piombò addosso velocissima come un falco. Charly ebbe solo il tempo di attaccarsi alla sirena di bordo per avvisare l’equipaggio di mettersi in salvo. Era quasi mezzanotte e sul Torregrande c’era il cambio di guardia, in pratica l’equipaggio era tutto in servizio e pronto a gettarsi in mare come ultima soluzione per salvarsi. Solo il Direttore di macchina Guido Bianchi, agendo d’istinto, si precipitò in sala macchine ignorando gli urli di Charly di mettersi in salvo. Il rimorchio senza governo sfiorò letteralmente la poppa del rimorchiatore e scivolò via silenzioso nel buio. Quando il cavo di rimorchio venne in forza con uno schianto pauroso, vi fu un’esplosione di  scintille e ripetuti scossoni. Sembrava che le vibrazioni spaccassero ogni paratia del Torregrande che, sbandando in una vorticosa rotazione, fu alla fine trascinato per la poppa dalla Pibimare Prima che a sua volta ruotò intorno alla propria prora. Rimorchiatore e rimorchio, attratti da una forza assassina erano di nuovo in rotta di collisione. Charly ebbe in quei lunghi attimi di terrore la percezione di un’impotenza infinita. La costa era lì ad un passo, buia, spettrale e pronta ad inghiottire quel convoglio impazzito tra i suoi scogli. Li separavano forse 30 metri dalla collisione ormai inevitabile. Un’angoscia interminabile pervase  l’equipaggio che con molta freddezza si preparava ad assorbire il colpo. Quando nessuno pensava più al motore, questi ripartì sornione mugugnando qualcosa come per scusarsi. Charly lo prese per le corna urlando “AVANTI TUTTA” con la forza residua che aveva nei polmoni. La “collisione di ritorno” fu evitata con una potentissima smacchinata all’ultimo metro. Il convoglio ritornò lentamente ad allungarsi sull’asse del canale. Il peggio svanì d’incanto con la stessa velocità con cui quel pugno di uomini vide poco prima il ghigno beffardo della morte colpire, sparire e lasciare per sempre una profonda ferita in “Quelli del Torregrande”. Guido compì un atto d’eroismo riattivando una valvola bloccata da un improvviso “arresto cardiaco”... a lui andò il  perenne ringraziamento dell’equipaggio.

Tratto dal libro “QUELLI DEL TORREGRANDE” – di Carlo Gatti – Nuova Editrice Genovese - 2001

Ho inteso riproporvi il racconto di questa disavventura per un semplice motivo: anche il sottoscritto sfiorò la tragedia nel 1970, proprio in quelle acque divenute tristemente famose dopo la tragedia della Costa Concordia. Per quanto mi riguarda, ho già spiegato che tutto ebbe origine da un’improvvisa avaria e che dovetti scegliere la rotta più interna per necessità nautiche e di controllo dell’attrezzatura di rimorchio fortemente compromessa. Già! Ma le avarie sono come certe malattie, arrivano quando meno te le aspetti e si riciclano con nomi sempre nuovi, ma il risultato é sempre lo stesso: dalla fine della Seconda guerra mondiale, ogni anno spariscono 360 navi, una al giorno. Le cause sono molteplici, ma il punto scatenante é sempre lo stesso: l’imprudenza umana.

Com’é potuto accadere questo disastro ad un gigante del mare così moderno, attrezzato e sicuro com’era la Costa Concordia? La motivazione “ufficiale” sarà data dal processo in corso. Noi possiamo solo ricordare che la rotta “ufficiale” Civitavecchia-Savona, passa a ponente dell'Isola del Giglio, ciò significa che nella normale navigazione commerciale l'Isola del Giglio viene lasciata a dritta.

La nave aveva scelto invece di passare (di notte) per il Canale dell’Argentario, nello stretto braccio di mare che separa l’Isola del Giglio dalla costa continentale (Argentario).
L’antico e benemerito amico dei naviganti: il Portolano, presente su tutti i ponti di comando delle navi in circolazione, indica due rotte vicine e parallele per navigare da Civitavecchia a Savona. La prima sale verso nord al largo della costa Est della Sardegna e della Corsica, ed una seconda più interna che si lascia anch’essa l’Arcipelago Toscano sulla propria destra mentre naviga verso la Liguria.


L'Arcipelago Toscano

In questa cartina, entrambe le rotte consigliate dal Portolano Italiano passano lungo il passaggio rappresentato, per l’occasione, dalla scritta Arcipelago Toscano.

Una volta lasciata l’isola di Giannutri a sinistra, la Costa Concordia decise di proseguire lasciandosi anche il Giglio a sinistra. Si potrebbe disquisire a lungo sulle distanze, le batimetriche, le correnti e le secche, ma alla fine, le linee guida per la navigazione costiera di grandi navi da crociera dovrebbero consigliare margini di sicurezza tali da poter affrontare accostate d’emergenza ed avarie del tipo sofferto di recente dalla Costa Allegra nell’Oceano Indiano. Eppure, già da tempo, le grandi navi da crociera percorrevano la rotta più suggestiva ed economica che passa internamente tra il continente e le isole toscane. Come mai nessuno se n’é accorto?

ALBUM FOTOGRAFICO

Dedicato all'amico Comandante Attilio Ruggeri mancato nel 2014

Comandante Attilio Ruggeri

M/n PIBIMARE PRIMA

M/N PIBIMARE PRIMA

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, 04.04.12


COSTA CONCORDIA - In mare non ci sono Taverne

L’IRRAZIONALE MANOVRA DELLA

COSTA CONCORDIA

“ IN MARE NON CI SONO TAVERNE “

 

L'inchino si può fare nel rispetto di poche ma ferree regole marinare

Settembre 2003. La Costa Fortuna saluta l’Isola del Giglio all’altezza dello scoglio Gabbianara. Il tempo é ottimo. La visibilità è molto chiara. La nave si trova a distanza di sicurezza (1 miglio). A giudicare dalla scia, la nave sta viaggiando a 6-7 nodi di velocità. Si tratta quindi di un "passaggio"  in sicurezza e di una navigazione parallela alla costa. In questo caso, anche un’improvvisa avaria consentirebbe alla nave di procedere verso il largo senza alcun pericolo per se stessa e per l'ambiente. La tecnologia moderna  consente peraltro a questo tipo di nave di poter dar fondo l'ancora dal ponte di comando in qualsiasi momento, ciò significa che in caso d'avaria e di vento verso terra, l'impatto sarebbe evitato con l'uso appropriato delle ancore.

IL SALUTO

E' stata fatta un po' di confusione tra i vari termini marinareschi. Occorre quindi precisare cosa s'intende ad esempio per Navigazione Turistica: con questo termine si intende informare i passeggeri sulle coste o isole VISIBILI  che la nave incontra sul percorso che fa da porto a porto, riportandone anche ora e distanza. Non sono passaggi fatti appositamente. Ci si deve passare per raggiungere il prossimo porto. Il Comandante stabilisce, a seconda delle condizioni meteo, la rotta più appropriata. Il rito del Saluto, impropriamente chiamato anche Inchino, ha un senso se é eseguito di giorno e in sicurezza, quando i passeggeri possono immortalarlo tra i ricordi più belli della crociera. L'omaggio della nave alla località costiera é una vecchia consuetudine accettata da tutti se praticata con prudenza, ma in quella notte buia non aveva alcun senso, perché in gennaio l’isola del Giglio é deserta, una parte dei passeggeri della nave stava cenando, mentre l’altra si preparava per la programmata festa di bordo. Mi sento quindi di sostenere che quella ‘strana manovra’ sia stata decisa dal comandante Schettino per motivi personali e di ciò dovrà renderne conto agli inquirenti.

Costa Crociere e gli altri Comandanti della Compagnia, che sono stati tirati forzatamente in causa, non hanno alcuna responsabilità in questa scelta  funesta. Così com’é deplorevole l’assalto concentrato dei media alla COSTA-CARNIVAL, il miglior Armamento al mondo sotto tutti i punti di vista.

UN ERRORE DI CONCETTO

In questa carta nautica "rubata" su internet, la linea gialla rappresenta la “rotta turistica” adottata da molte navi, e quella verde la rotta ipotetica seguita dalla Costa Concordia. Ma sappiamo con certezza che le navi di Costa Crociere lasciano l'Isola di Giannutri (in basso a destra) sulla dritta  per meglio allinearsi alla costa del Giglio.

Quando il comandante decide di deviare dalla rotta ufficiale Civitavecchia-Savona per passare vicino al Giglio, cambia il quadro operativo. La nave passa di fatto dalla navigazione strumentale alla navigazione manuale di manovra. Il Comandante rileva il comando di guardia ed egli stesso manovra la nave. Le registrazioni delle conversazioni e l’intera dinamica saranno rese note dalla magistratura nel mese di marzo.


La Costa Concordia é andata ad urtare gli scogli come poteva capitare soltanto ad uno sfortunato veliero di qualche  secolo fa, e lo ha fatto, per di più, ad una altissima velocità (17 nodi) che cozza terribilmente contro tutte le leggi marinare scritte e non scritte. C’é modo e modo di sbagliare. L’errore appartiene di diritto a tutti gli umani. Chi scrive ha compiuto più di 30.000 manovre di navi e sa che l’errore può capitare in qualsiasi momento, ma quando alla base c’é un errore concettuale: “sfiorare la costa ad altissima velocità”, allora non ci sono attenuanti e il Comandante diventa indifendibile perché si tratta di una SCELTA premeditata che nasconde una profonda ignoranza dei problemi del mare. Sorge anche il dubbio sulla sua preparazione professionale e di colui che gli ha affidato quell’immeritato incarico di grande responsabilità.

C’E’ STATO UN MIRACOLO

Nel momento in cui la nave é stata “segata” longitudinalmente dagli scogli affioranti delle Scole, tonnellate di acqua di mare sono penetrate nello scafo all’altezza della lunga Sala Macchine. Ne é seguito il black-out, l’immediato spegnimento dei motori e lo sbandamento a dritta che ha permesso alla nave di compiere, con l’abbrivo residuo, una curva miracolosa sulla sinistraAl termine della curva la nave é andata ad appoggiarsi dolcemente su una lunga spalliera del fondale dove giace a tutt’oggi e, come dicono, in buona sicurezza. Quella curva della salvezza é peraltro nota alle scienze idrodinamiche: un’imbarcazione sbandata, abbrivata e senza governo accosta sul lato dove incontra meno resistenza.

Se la nave fosse rimasta dritta, oppure avesse accusato uno sbandamento a sinistra, sarebbe scivolata verso gli alti fondali e la tragedia avrebbe assunto proporzioni apocalittiche. Il miracolo c’é stato comunque ed il mio riferimento al Cristo degli Abissi nel finale non sarà casuale.

IL COMANDANTE  HA ABBANDONATO LA NAVE

La manovra sbagliata che ha prodotto lo squarcio nello scafo della nave passeggeri, ed il suo naufragio all’Isola del Giglio, cadrà presto nell’oblio, così come tutti gli altri incidenti stradali e aerei (Cermis compreso) che sono legati al nostro quotidiano operare sotto stress. Dopo la naturale sedimentazione delle emozioni, tutto sarà archiviato, ma un fatto, purtroppo, rimarrà nella memoria collettiva e sarà scritto con inchiostro indelebile: l’abbandono della nave Costa Concordia da parte del suo Comandante, quando centinaia di persone erano ancora bloccate a bordo. Tale comportamento non ha riscontri  nelle testimonianze orali e scritte riportate dagli annali dei disastri navali e getta un’ombra d’infamia sulla nostra antica marineria civile e militare che annovera esempi di coraggio, onore e sacrificio della vita tra i più tramandati al mondo.

I passeggeri della Costa Concordia hanno trovato una via di fuga per abbandonare la nave e mettersi in salvo.

C’é qualcosa che va oltre le sentenze giudiziarie, gli interessi di parte e le “sparate” dei vari protagonisti per caso... Il giudice più severo ed imparziale si chiama: storia, il suo giudizio si fa attendere, ma non delude mai. L’esempio più significativo é quello del comandante Calamai dell’Andrea Doria che ottenne giustizia “post mortem” e  la sua memoria fu salvata per sempre.

Tralascio quindi di commentare l’assurdo comportamento del comandante Schettino nelle fasi successive all’urto. Per il momento mi vergogno persino a parlarne, e ancora oggi preferisco pensare che  il ritardo nel dichiarare l’abbandono nave sia il  risultato di un totale quanto comprensibile cedimento di nervi.

IL PROBLEMA DELLA SICUREZZA E’ SEMPRE D’ATTUALITA’

Si pensava che il problema dell’ammainare le lance sotto sbandamento fosse ormai risolto. I fatti, purtroppo, hanno dimostrato che molto c’é ancora da studiare sull’argomento. Un importante ripensamento dovrà essere inoltre rivolto alla gestione del gigantismo navale, sia all’interno delle navi stesse che all’esterno (spazi di manovra nei porti sempre più insufficienti), revisione e aggiornamento della SICUREZZA alla luce di quanto accaduto. Costruzione del doppio scafo per tutte le navi passeggeri. Occorre limitare i danni da collisioni e da urti contro le banchine portuali o scogli, evitando fuoriuscite e inquinamenti di carburante in mare.  Un’adeguata sistemazione delle paratie stagne che tenga conto degli effetti “apriscatola” avvenuti in questi ultimi incidenti a navi italiane.

A sinistra il Capitano di Fregata Gregorio De Falco, Capo Sezione Operativa della Capitaneria di Livorno, a destra il Comandante della Costa Concordia Francesco Schettino.

Ma l’autocritica ce l’aspettiamo anche da quegli ambienti autoritari che si sono messi in cattedra attaccando un unico obiettivo e sono poi rientrati dietro le quinte senza aver ottenuto alcun risultato pratico, se non quello di averci fatto criticare pesantemente all’estero. C’é qualcuno che controlla gli spazi marittimi di casa nostra? O siamo rimasti al tempo di Dragut che giungeva a Rapallo nottetempo e  rapiva le “rapalline”.... senza grossi problemi?

Si sa che i nostri porti sono dotati di moderni sistemi AIS-VTS, ma a questo punto dubitiamo del loro funzionamento. Nel frattempo, abbiamo saputo che nella vicinissima Francia, tutte le navi di passaggio sono monitorate come gli aerei; vengono prese in consegna dai semafori  costieri con il sistema VTS (vessel traffic system) e sono contattate strumentalmente, visivamente e telefonicamente. Basiti abbiamo anche ascoltato in TV la dichiarazione di un giornalista che asseriva che sul Registro della Capitaneria di Livorno, alle 22.00 di venerdì 17 gennaio (quando la C.Concordia era già sugli scogli) risultava scritto: “Nessuna annotazione di rilievo”.

Abbiamo sentito con le nostre orecchie l’ex ministro della difesa on. Crosetto denunciare l’esistenza di due costosissime e identiche commesse (per la Guardia di Finanza e la Guardia Costiera) per "radarizzare" le coste italiane: un DOPPIONE da milioni di euro.

UN DATO INTERESSANTE

Da più parti sono piovute feroci critiche all’equipaggio della C. Concordia per la disordinata evacuazione dei passeggeri. Riporto una piccola tabella che dovrebbe far riflettere. Si tratta del rapporto equipaggio-passeggeri nel quale si evidenzia quanto sia cresciuto nel tempo l’impegno di ogni membro dell’equipaggio per ogni passeggero.

1952 - ANDREA DORIA Equipaggio     572     passeggeri   1.134 R= 1,98
1960 - MICHELANGEL0 -“-                 725           -“-        1.775 R= 2,45
2008 - C.CONCORDIA       -“-           1100           -“-        3.780 R= 3,44

Purtroppo anche la “sicurezza” ha un costo. Quando il prezzo del biglietto é popolare non ci si può aspettare un servizio principesco.

Qualcuno mi ha chiesto: CHE IDEA SI E’ FATTO DEL COMANDANTE SCHETTINO?

L’idea che mi sono fatto del comandante Schettino é che non sia un uomo di mare, e fin dall’inizio mi é venuto in mente quel vecchio adagio:

“IN MARE NON CI SONO TAVERNE”
in cui si nasconde un mondo di considerazioni filosofiche di grande spessore.
- Pochi sono gli uomini che possano dare del tu al mare, ma non lo fanno mai!

- In mare non ci sono certezze – Non ti puoi rilassare – Il mare non ascolta le tue debolezze – Il mare non accetta le tue bugie perché ti legge dentro - Il mare non sopporta le sfide.

C’é poi un altro proverbio che si attaglia perfettamente al personaggio Schettino e suona come una tremenda sentenza:
CHI CASCA IN MARE E NON SI BAGNA, PAGA LA PENA”

UN RINGRAZIAMENTO AI GIGLIESI

Sono pieno d’ammirazione per gli abitanti del Giglio che si sono dimostrati all’altezza della loro antica tradizione marinara. Non avevo dubbi, molti di loro e della vicina Porto S.Stefano mi sono stati colleghi e amici in tante avventure di mare ed anche in questa occasione li ho visti reagire da grandi marinai, tutti insieme, dal vicesindaco al più umile pescatore della calata.

Il Comandante della Bianca C. Francesco Crevato, lambito dalle fiamme, dirige stoicamente le operazioni di salvataggio.

La disavventura del Giglio mi ricorda, purtroppo, un’altra tragedia, quella della Bianca C. a Grenada nei Caraibi nel 1961. Ma in quella circostanza, il comandante Francesco Crevato fu davvero l’ultimo a lasciare la nave e salvò l’onore della nostra bandiera. (Sul sito di Mare Nostrum Rapallo, nella sezione Navi e Marinai, si può leggere una mia rievocazione).

Il 23.10.1961 i grenadini si comportarono eroicamente fornendo aiuto, assistenza e persino le proprie case ai naufraghi. L’Armamento Costa di allora ringraziò gli isolani offrendo ai loro rappresentanti il simbolo del mare più caro a noi rivieraschi: la statua del Cristo degli Abissi. Mi auguro che anche i gigliesi possano un giorno ospitare quel Cristo misericordioso che accoglie tra le sue braccia le vittime innocenti di questa tragedia. I gigliesi, come i granadini lo hanno meritato per averci messo un grande cuore marinaro, prima ancora delle loro case.

UN AUGURIO

Ogni tragedia, si sa, reca con sé morte e orrore, ma la vita non può fermarsi ed ecco l’uomo rialzarsi dalla batosta e ripartire con regole nuove. Ogni naufragio diventa così una nuova luce che si accende sul cammino tecnologico e sul progresso scientifico navale. Questa é la speranza che deve animare ognuno di noi.

Carlo GATTI

Rapallo, 12.03.12


La MAREA NERA del Golfo del Messico

La Marea nera del Golfo del Messico

Una Catastrofe annunciata

Il disastro ambientale della Piattaforma petrolifera Deepwater Horizon é stato uno sversamento massivo di petrolio nelle acque del Golfo del Messico in seguito a un incidente riguardante il Pozzo Macondo, posto a oltre 1.500 mt. di profondità. Lo sversamento é iniziato il 20 aprile 2010 ed é terminato 106 giorni più tardi, il 4 agosto 2010, con milioni di barili di petrolio che ancora galleggiano sulle acque di fronte alla Louisiana, Mississipi, Alabama e Florida. E’ il disastro ambientale più grave della storia americana, avendo superato di oltre dieci volte pèer entità quello della petroliera EXXON VALDEZ nel 1989.

E’ difficile per chi è estraneo all’ambiente delle Piattaforme e del mondo delle estrazioni petrolifere, farsi un’idea dell’accaduto nel Golfo del Messico. Ma noi di Mare Nostrum, nel caso specifico, abbiamo la chance di poter scambiare quattro chiacchiere con il nostro socio, Pino Sorio, Direttore di macchina, (perito e supervisore di una importante Società genovese di costruzioni navali) che ha nel suo curriculum ben 25 anni d’esperienza nel settore delle Piattaforme Petrolifere.

Partiamo dalle possibili cause dell’immane incidente. Pino, a te la parola.

Per quanto riguarda le possibili cause, sicuramente l'incendio è stato causato da una perdita della valvola sulla testa del pozzo, chiamata "christmas tree". Durante i miei 25 anni passati nella costruzione di piattaforme petrolifere abbiamo avuto due casi di incendi causati dalla perdita della valvola di testa del pozzo, una nel Golfo Persico (1973) ed una seconda in Brasile (1988). I sistemi usati per lo spegnimento sono un po’ lunghi da descrivere, semmai ci ritorneremo in seguito.

Che tipo di piattaforma è la Deepwater Horizon 11?

In questa bella immagine é visibile la piattaforma Deepwater Horizon nei dettagli costruttivi  mentre é trasportata da un mezzo speciale.


Guardando le foto di questa ptf prima dell'incidente, ti posso confermare che appartiene alla classe <Scarabeo 5> della Saipem, ossia di tipo galleggiante, con due scafi e 4 o 6 colonne. A conferma delle inesattezze che si leggono, questa mattina il Corriere della Sera riporta che la piattaforma, al momento dell'incidente, conteneva 2,6 milioni di litri di petrolio. Questi 2600 mc sono il combustibile per far funzionare le macchine della ptf e non sono quelli che stanno bruciando, la piccola quantità descritta si sarebbe esaurita in brevissimo tempo . Quello che brucia è il petrolio greggio che fuoriesce dal pozzo. Anche qui i giornalisti non usano mai i metri cubi ma i milioni di litri perchè fanno più effetto sulle persone non del mestiere. All'interno dei due galleggianti ci sono i locali pompe, le casse di zavorra, i locali macchina, ecc. e non certo i depositi del petrolio che sta bruciando. Un'altra fesseria che ho sentito è che la piattaforma posa su un fondale di 5000 metri. Ma dove vanno a trovare delle strutture di piattaforme di tale altezza? Queste ptf, che lavorano in alti fondali (non per niente si chiamano "deep water"), lavorano in DP (dinamic position) a meno che non vadano a perforare in bassi fondali dove posizionano le ancore (8 o 12 o in alcuni casi anche 16)

Hai accenato alla piattaforma SCARABEO 5. E’ stata costruita a Genova a partire dal 1990 e proprio io, insieme al collega A. Maccario la mettemmo in uscita dai Cantieri di Sestri Ponente con sei rimorchiatori. (vedi foto precedente) La ricordo ancora come una manovra “difficile”. Pur essendo auto-propulsa, la ptf scarrocciava in canale per effetto di un leggero  vento di scirocco che faceva leva sull’alta struttura e sullo scarso pescaggio. Abbiamo letto e ascoltato da autorevoli fonti altre inesattezze. Quale di queste ti ha dato più fastidio?

La Deepwater Horizon in fiamme

Continuando nella lettura degli articoli sulla ptf del Golfo del Messico, che ormai vengono fuori come i funghi perchè tutti si sentono esperti in questo campo. Una in particolare mi ha fatto sorridere, quella del Sig. Alessandro Gianni, direttore delle “campagne” di Greenpeace: “L'unica soluzione è smetterla con le esplorazioni offshore ed avviare una decisa rivoluzione energetica così da poterci liberare dalla schiavitù del petrolio e dal pericolo del trasporto degli idrocarburi”.

A questo signore vorrei chiedere cosa intende per “rivoluzione energetica”, visto che di energia nucleare non ne vogliono sentire parlare in Italia. Pensa forse che con il sistema solare si possa eliminare il petrolio? Lo sa quel signore che ricoprendo tutta l'Italia di pannelli fotovoltaici, isole comprese, l'energia prodotta non basterebbe per alimentare la sola città di Milano? Per poter eliminare l'uso del petrolio, non dico al 100% ma almeno al 70%, il sistema più sicuro e pulito è il nucleare, però i signori Ambientalisti, Verdi e di Greenpeace dovrebbero capire e convincersi che nucleare non significa Chernobyl. Le centrali nucleari vanno costruite con tutte le sicurezze del caso senza risparmiare sui materiali per ridurre i costi.

Ci fu un referendum che bloccò il nucleare in Italia, sull’onda emozionale di Chernobyl.

Esatto! e fece chiudere l’Ansaldo Nucleare che era all'avanguardia in queste progettazioni. Oggi stiamo comprando dalla Francia e dalla Svizzera l'energia prodotta dalle loro centrali nucleari pagandola almeno il doppio. Proprio questa mattina ho sentito dal GR Rai che le nostre future centrali nucleari saranno molto sicure e sfrutteranno la tecnologia della francese AREVA, quindi ci costeranno di più in quanto la nostra ANSALDO è rimasta indietro in questi anni di bocciatura del nucleare in Italia

Conclusione.

3.858 è il numero delle piattaforme petrolifere presenti (2006) nel Golfo del Messico secondo la National Oceanic Atmospheric Administration. Non c’è granché da meravigliarsi se qualche valvola o tubo, prima o dopo, faccia avaria e mandi all’aria l’intero sistema produttivo, ma soprattutto l’ecosistema di una vastissima area geografica. Nel caso specifico, il petrolio fuoriuscito pare destinato a penetrare negli aquitrini e nelle paludi della Louisiana-Missisipi-Alabama. Se il fiume nero non sarà bloccato o deviato in tempo, le conseguenze saranno davvero catastrofiche. Ma per favore, che non ci si venga a dire, che questo è il prezzo che si deve pagare al progresso…

Ringraziamo il nostro socio Pino Sorio per questa “speciale” intervista.

Carlo GATTI

Rapallo, 21.02.12


Naufragio del SIRIO

Cento anni fa - il 4 agosto 1906

IL PIROSCAFO SIRIO

naufragò sugli scogli di Capo Palos-Spagna.

Lo chiamarono il Titanic dei poveri.

Il piroscafo italiano Sirio scese in mare dal Cantiere Napier di Glasgow il 24 marzo 1883. Lo scafo era in ferro, stazzava 3.635 tonn. ed aveva una macchina alternativa da 3.900 cav. capace d’imprimergli una velocità di 15 nodi. La sua linea snella e affilata rappresentava uno stile innovativo nell’architettura navale del tempo, quando sugli oceani andava in scena lo scontro duro tra due epopee: quella della tradizione velica giunta al suo apice, e quella nascente del vapore.

I due fumaioli sottili e ravvicinati esprimevano la nuova potenza meccanica, i tre alberi a goletta ricordavano le attrezzature dei velieri e in qualche modo rassicuravano i passeggeri dalle eventuali avarie della macchina alternativa. Il Sirio disponeva a poppa di 48 posti di prima classe, un ampio salone da pranzo, un auditorio e sala per signore con fumatoio. La seconda classe era situata a proravia del ponte di comando e disponeva di 80 posti. Gli altri, la suburra della terza classe, i poveri che avevano venduto tutto per pagarsi il viaggio, erano invece sistemati in grandi cameroni ricavati nei corridoi delle stive per un totale di 1290 posti.

Il piroscafo “Sirio” come appariva in navigazione nella sua snella silhoutte.

Il Sirio lasciò Glasgow il 19 giugno 1883, comandato dal cap. Sebastiano Rosasco, arrivò a Genova il 27 giugno e ripartì il 15 luglio 1883 per il suo viaggio inaugurale al Plata. Quel maiden voyage fu il primo di una lunghissima serie di viaggi legati per lo più alla storia della nostra emigrazione, che terminarono, purtroppo, su quella famigerata scogliera di Capo Palos.

Quanto segue, è la deposizione rilasciata all’Autorità competente dall’unico testimone della sciagura, il Cap. Vranich, comandante del piroscafo austro-ungarico Buda che si trovava a poca distanza dal Sirio.

“Alle 16.00 del 4 agosto 1906, al traverso delle Grandi Hormigas, (presso Capo Palos-Spagna Mediterranea) avvistai il Sirio e giudicai subito che passasse troppo vicino alla costa. Poco dopo, incrociatesi le rotte, vidi sollevarsi la prora del Sirio fortemente sull’acqua, sbandarsi a sinistra ed abbassarsi di poppa…Lo giudicai incagliato e feci rotta verso di lui ordinando le lance in mare. Il Sirio camminava a tutta forza e l’urto fu così violento che le lance di sottovento, smosse, furono poste fuori servizio. La parte poppiera era tutta allagata e sommersa. Di conseguenza molti passeggeri non ebbero il tempo di risalire in coperta. Il locale macchine fu allagato e parte del personale vi perì. Calammo due lance che effettuarono molti salvataggi….”

Rara foto del piroscafo “Sirio” incagliato e semisommerso. La nave rimase in questa posizione sedici giorni, poi si spaccò in due tronconi ed affondò.

Il naufragio ebbe dell’incredibile e le critiche furono a dir poco aspre, perché la giornata era bella, il mare in bonaccia e buona la visibilità. La nave, proveniente da Genova e diretta verso lo Stretto di Gibilterra, correva a tutta velocità quando andò a schiantarsi su una delle secche più note del Mediterraneo.

Il Sirio era rimasto come un cavallo mentre salta l’ostacolo, con la prua che guarda il cielo e la poppa poggiata sugli scogli a tre metri di profondità. Aveva a bordo 120 passeggeri di prima e seconda classe e oltre 1200 emigranti che durante il giorno prendevano il sole a proravia. Gran parte di loro, a causa dell’urto improvviso, fu scagliata in mare e morì annegata.

All’epoca si disse: “Avrebbero potuto salvarsi quasi tutti, perchè il Sirio non andò subito a fondo, ma rimase in agonia ben sedici giorni, prima di spaccarsi in due ed affondare. Purtroppo le operazioni di salvataggio furono così caotiche e disperate che ci furono 293 morti, (riconosciuti ufficialmente secondo i Registri del Lloyd’s di Londra) ma secondo la stampa, e non fu mai smentita, le vittime superarono le 500 unità, gran parte delle quali fu pietosamente composta lungo il molo del porto di Cartagena e poi tumulata nei cimiteri della zona. Le lapidi sono ancora leggibili e portano nomi e cognomi italiani “.

Nel piccolo museo di Capo Palos dedicato al Sirio, sono tuttora conservati i volantini che pubblicizzavano anche le soste “fuori programma” per caricare i clandestini. La questione non fu mai chiarita, ma si vociferò che senza quelle tappe sottocosta, la nave sarebbe passata al largo della micidiale scogliera denominata Bajo de Fuera.

Fu chiaramente un errore di rotta e siccome furono tante le vittime, tra cui il Vescovo di San Paolo del Brasile, la marineria italiana si fece in quella disavventura una cattiva propaganda che fu subito sfruttata dall’accesa concorrenza straniera.

Si aprirono le inchieste di rito, ma emerse, contrariamente alle tante accuse rivolte contro lo stato maggiore della nave, che il comandante del Sirio Giuseppe Piccone, insieme ai suoi ufficiali, diresse con calma le operazioni d’abbandono nave e fu l’ultimo a porsi in salvo. Fu stabilito, tuttavia, che l’erronea valutazione della posizione della nave e della distanza dalle secche fu causa del grave incidente e delle tragiche conseguenze che ne derivarono.

Il capitano Giuseppe Piccone che aveva 62 anni ed era al comando del Sirio da 27 anni, fu rinviato a giudizio, ma chiuso nel suo dolore, morì a Genova due mesi dopo l’evento descritto.

Un tragico precedente.

La nave passeggeri Nord America della Soc. genovese “Veloce” era naufragata su quelle secche ventitrè anni prima. Purtroppo quella pagina nera, scritta col sangue di tanta gente, fu troppo presto dimenticata!

A cavallo del ‘900, con la corsa alla “Merica”, ebbe inizio il secondo esodo di massa e con esso nacquero le prime vere canzoni della nostalgia del paese natio: Ma se ghe pensu, Santa Lucia luntana, Partono ‘e bastimenti, Quando saremo in Merica, Mamma mia dammi cento lire.

Edmondo De amicis, a seguito dell’esperienza “sofferta” durante una traversata a bordo del Sirio, affrontò il tema dell’emigrazione con la sua opera letteraria Sull’oceano.

Il tragico naufragio della nave Sirio colpì molto la fantasia popolare che ispirò questa stupenda e drammatica canzone, tratta dal repertorio dei cantastorie, che diceva:

E da Genova il Sirio partiva

Per l’America al suo destin

Ed a bordo cantar si sentivano

Ma tutti allegri a varcare il confin

Il quattro agosto, alle cinque di sera

Nessun sapeva del triste destin

Urtò il Sirio un terribile scoglio

Di tanta gente la misera fin

Si sentivano le grida strazianti

Padri e madri con le onde lottar

Abbracciavano i cari lor figli ma,

ma poi sparivano tra le onde del mar

Fra i passeggeri un vescovo c’era

Con nel cuore l’angoscia ed il duol

Porgeva a tutti aiuto amoroso

E dava a tutti la benedizion!

Nel 2001 il cantautore Francesco De Gregori inserì nel suo album “Il fischio del vapore” questa ballata che era conosciuta soltanto nel nord Italia, tra quelle vallate da cui partirono gli sfortunati emigranti del Sirio in cerca di fortuna.

Alla domanda di un giornalista: “Concorda che ci sia una similitudine drammatica con la situazione attuale dove le bagnarole affondano”?

Il cantautore rispose: “Questo è proprio il motivo per cui noi la cantiamo, perché la nave Sirio, questa Titanic della povera gente, era una bagnarola di 23 anni, piena di disperati alla ricerca di una nuova vita.

Per la verità, il Sirio non era una pericolosa carretta dei mari. La sua fama di vecchio transatlantico, adattato al trasporto degli emigranti e destinato ad operare su una rotta piuttosto agevole come quella del Sud America, non ha nulla a che vedere con il tragico incaglio sulle Hormigas.

Il Sirio apparteneva ad una grande Società: la Navigazione Generale Italiana (N.G.I), nata nel 1881 all’atto della fusione delle Società Riunite Florio-Rubattino. La gloriosa N.G.I. risultò composta di 81 vapori e detenne il monopolio (quasi incontrastato) del trasporto passeggeri e merci della nostra Marina sino al 1936 quando nacque, per volontà di Mussolini, il gruppo FINMARE.

Storie che si ripetono oggi in direzione opposta…

A cento anni di distanza, purtroppo, la tragedia del Sirio è terribilmente attuale, se pensiamo al traghetto Al Salam-Boccaccio (ex Tirrenia) che affondò il 3 febbraio scorso nel Mar Rosso, trascinando con sé un migliaio di pellegrini islamici diretti alla Mecca.

A questo punto, possiamo chiudere la rievocazione del Sirio con un’amara riflessione: ogni epoca è una pagina di storia dove l’uomo riesce a risolvere tanti problemi tecnologici, ma spesso ripete gli stessi errori del passato perché, nel frattempo, il concetto di sicurezza è stato violato. Tanti enfatizzano la sicurezza, ma nessuno vuole pagarla; tutti parlano dei nuovi “allarmi” del secolo: terrorismo, inquinamento, ecosistema, che tuttavia, per chi conta, non sono ancora motivi d’insonnia.

 

Carlo GATTI

Rapallo, 16.02.12


Affondamento DERNA

14 dicembre 1912

AFFONDAMENTO

Del piroscafo genovese

“DERNA”

 

Nave

Ship

Armatore

Owner

Stazza Lorda

Gross Tonnage

Equipaggio

Crew

Com.te

Captain

DERNA

L.Mezzano

3.400

23

Schiaffino

 

E’ passato quasi un secolo dall’affondamento del P/fo DERNA, e ormai, quasi sicuramente, soltanto i figli ed i nipoti di quel povero equipaggio ricorderanno il tragico avvenimento. Ma noi, come Società Capitani e Macchinisti Navali di Camogli abbiamo il dovere di continuare a ricordare quei nomi insieme al loro sacrificio.

Il piroscafo DERNA era iscritto al Compartimento Marittimo di Genova e solo di recente era stato acquistato in Germania dall’Armatore Luigi Mezzano di Sori.

I FATTI

Alla fine di novembre la nave era partita da un porto del Baltico per l’Inghilterra, da dove avrebbe dovuto proseguire per Genova con un carico di carbone.

Purtroppo la spedizione vide la sua tragica conclusione dopo alcuni giorni di navigazione, quando il DERNA si trovava in mezzo al Canale della Manica, completamente ovattata di nebbia e fu speronata dalla corazzata inglese Centurion, che era stata varata da meno di un anno e costituiva insieme ad altre quattro gemelle la squadra delle possenti Dreadnaughts.

La corazzata inglese Centurion.

 

AFFONDAMENTO

Il DERNA affondò in pochi minuti e trascinò con sé 23 uomini d’equipaggio. Vani furono gli sforzi compiuti dagli uomini dell’unità inglese che prontamente avevano calato in mare le scialuppe di salvataggio. Tutto fu inutile, quel canale maledetto aveva inghiottito ogni cosa con la voracità di un mostro.

LE VITTIME

L’equipaggio era composto di marinai liguri-rivieraschi:

Il comandante Schiaffino ed il 1° ufficiale di coperta Maggiolo erano di Camogli. Il direttore di macchina Mezzano era di Sori.

Cinque marinai erano di Quinto al Mare, altri di Camogli di Bogliasco e di Sori.

Il Derna in navigazione. Sotto la cartina mostra a destra la posizione della collisione.

THE SINKING OF S/VDERNA

The S/v Derna was registered with the Genoese Maritime Registry and only recently has been bought in Germany by Ship Owner Luigi Mezzano of Sori.

FACTS

At the end of Novembre had sailed from a port in the Baltic sea for England, from where she loaded coal for Genoa. Ufortunately, the trip came to a tragic conclusion a few days later, when the Derna was sailing in the English Channel which was completely engulfed by fog and was RAMMED by the battle ship Centurion.

THE SINKING

The Derna sunk within a few minutes and brought down with her 23 crew. All efforts on the part of the battleships’ crew were in vain, who had lowered launches straights away trying to save them.

Every effort was useless in that cursed channel which suched everything as would a monster.

THE VICTIMS

The whole crew was composed of Ligurian seamen.

Captain Schiaffino and the Chief Officer Maggiolo came from Camogli, the Chief Engineer Mezzano came from Sori.

Five seamen from Quinto al Mare, others from Camogli, Sori and Bogliasco.

Carlo GATTI

Rapallo, 16.02.12


Disincaglio della carretta PASQUALE VOLPE a Alistro

Incaglio

PASQUALE VOLPE

Ricordando Paolo Fontana: Da una cronaca di 40 anni fa…..

Il Pasquale Volpe di 1.537 tonnellate di stazza lorda, costruita nel 1930 e appartenente all’armatore A. Volpe di Napoli era partita da Genova il 29 aprile 1968 diretta a Cagliari al comando del capitano Giacomo De Martino di Procida, con sedici uomini d’equipaggio. A Cagliari imbarcò 2.300 tonnellate di sale e il quattro maggio fece rotta nuovamente per Genova. Il mare era burrascoso e il vento da Sud-Est, soffiava teso. Nelle ore serali, sul mare, si distese la foschia, tanto che la visibilità impedì all’equipaggio di vedere il fanale del porto vecchio di Cagliari.

Il giorno successivo, con mare da scirocco sempre burrascoso, la foschia si fece più greve.

Il Pasquale Volpe, che navigava a circa nove miglia da Capo Alistro, in Corsica, beccheggiando e rollando, procedeva cautamente; ma, poco dopo la mezzanotte, finì su un banco sabbioso e irto di scogli alla foce del fiume Tavignano.

Il mercantile dopo l’urto piuttosto violento, rimase immobilizzato. Il capitano De Martino ordinò: “Macchine Indietro”. Tuttavia, il piroscafo non si mosse. Il capitano si mise in contatto radio con Civitavecchia, che inviò sul posto i pescherecci “Perla del Tirreno” e “Marma”.

Quando la foschia si diradò (erano le sei del mattino) tentarono di disincagliare il piroscafo; i cavi, però si ruppero.

La situazione del “Pasquale Volpe” divenne precaria: Il mare lo aveva traversato sul basso fondo.

A quel punto l’armatore si è rivolto alla Società Rimorchiatori Riuniti di Genova per il recupero della nave.

In cronaca diretta…….

“Rimorchiatore Brasile all’ormeggio per ordini!”

Riflessioni di Charly durante il trasferimento dalla Torretta di guardia del Molo Giano all’ormeggio di Ponte Parodi.

“Quel c…. di ordine urlato, quasi con gioia dall’altoparlante della Torretta-RR, è un pugno nello stomaco! E’ sicuramente il segnale di partenza! Tra poco dovrò telefonare a casa per dire che stasera non tornerò, perchè andrò a rompermi le corna in qualche strana parte del Mediterraneo.

Già! Succede spesso! Quando stai per smontare di guardia e già pensi ai ravioli della Rina a Carpenissone, s’apre il clic del microfono e subito sfili le antenne dell’intuizione, ti specchi negli occhi dell’equipaggio e leggi la tua stessa inquietudine, allora ti metti in guardia pugilistica, a testuggine, e mentre aspetti la voce di Manna, guardi la diga e vedi il mare montare da libeccio. Qui scatta l’inquietante presagio: si parte!

“Brasile all’ormeggio”! Gli ingredienti ci sono tutti! E’ il nostro turno. Tra poco dovrò pensare alle provviste, alle carte nautiche, al rinforzo dell’equipaggio, a togliere il paglietto di prua, alle spedizioni, agli attacchi di rimorchio, al controllo dell’attrezzatura .

La nuova missione, caro Charly, è lì! Pronta per te. Fatti coraggio! Tra qualche ora sarai in mare aperto a pestare!

Che strano! Radiocucina questa volta non ha funzionato. Allora si tratta di un’emergenza!”

L’ormeggio di Ponte Parodi brulica dei soliti personaggi che s’avvicendano intorno al Casteldoria come fosse un paziente del Galliera. Il più potente rimorchiatore portuale sembra pronto per la partenza, è ormeggiato con la prora fuori ed hanno già tolto il paglietto. La coperta è invasa di provviste. Paolo, il comandante, sta controllando il gancio, la stivetta è aperta e fuoriesce un cavo di nylon bianco.

Charly sbarca dal Brasile e va a curiosare. Sente un urlo:

- “Charly! E’ tutto il giorno che ti sto cercando!”

- “Ciao Paolo! Ho già fatto cinque rimorchi! Non mi sono mica mi nascosto!”

- “Ho capito! Fino all’ultimo ti hanno tenuto sull’imboccatura. Hanno gli equipaggi in franchigia e non riescono a coprire il servizio. Senti Charly! Mi manca il primo ufficiale ed ho pensato a te! Sai, questa volta si tratta di un disincaglio ed ho pensato che magari ti manca…nel bagaglio!”

- “Ti ringrazio per il pensiero….il disincaglio m’interessa parecchio, ma lasciami almeno fare un salto a casa a prendermi il baule del marinaio….!”

- “Ti do solo il tempo di telefonare a Guny e poi partiamo. Il Pasquale Volpe è incagliato su Punta Alistro in Corsica e si è messo di traverso al mare. L’equipaggio è ancora a bordo e se il mare gira a scirocco sarà un casino…. Dobbiamo toglierli al più presto di là. Speriamo di non trovare il Pasquale messo a 90°!”

-“Paolo! Peggio sarebbe trovarlo alla pecorina….!”

Il padre di Paolo è stato per molti anni il Comandante della Capitaneria di Camogli e con Charly si conoscono dai tempi del Nautico. Paolo ha tre anni più di Charly e, come spesso succede tra naviganti, si sono ritrovati dopo alcuni anni, nella Soc. Rimorchiatori Riuniti, all’inizio di quest’anno. Charly è stato assunto con la patente di cap. l.c. dopo aver navigato, con i vari gradi, su n. passeggeri, petroliere e l’ultimo anno anche con Martini, facendosi una buona esperienza in Mediterraneo.

Paolo invece è entrato con la RR molto presto, ed ha già accumulato molti anni di comando e d’ esperienza sia di lavoro portuale che in altura. Paolo è l’unico capitano diplomato della Società che si è adattato perfettamente non solo a questo specialissimo lavoro, ma anche all’ambiente peculiare della “barcacce”.

Detto tra noi, i “barcaccianti” non sono favorevoli ai diplomati di coperta, ne temono la leadership….

Non mancano tuttavia le “eccezioni” alla regola. Paolo è tra queste e Charly lo sarà tra breve.

LA PARTENZA

“Molla tutto a prua e poppa.”

– Urla Paolo –

“Ragazzi! Non usciamo dal porto se non avete prima rizzato tutto. Fuori c’è mare forza sette e l’avremo sul muso fino a Capo Corso. Ci aspettano 90 miglia di dura battaglia. Ad Alistro, quaranta miglia sotto Bastia, c’è un equipaggio in pericolo che ci aspetta. Quindi dovremo tenere un’andatura adeguata all’emergenza.”

Paolo ha ragione. Appena messo il muso fuori della diga, comincia una cavalcata selvaggia. La libecciata è di quelle che entrano di diritto nelle statistiche… e i 28 mt. di lunghezza del Casteldoria denunciano tutta la sua inadeguatezza a quella urgente missione. Il rimorchiatore sale di dieci metri e poi precipita sparendo tra le onde, emerge a pallone per poi rituffarsi a precipizio. L’equipaggio è tutto stretto sul ponte ed aggrappato a qualcosa di rigido e solido per non sbattere, negli sbandamenti fuori controllo, contro le gelide paratie.

Charly è appena all’inizio di quel duro mestiere ed è ben lontano dal possedere il cosiddetto “piede marino” e, suo malgrado, è costretto a sparire quasi subito dalla scena, senza tuttavia aversi fatto l’idea che Paolo ed il suo equipaggio sono marinai di un calibro raffinatissimo, come mai prima gli è capitato di vedere sui “bordi” nazionali. In quella tremenda tempesta sono capaci di ridere, scherzare, mangiare e chiamare festosi gli amici dei pescherecci:

“Papetto! Papetto! Preparaci le triglie per domani! Andiamo a dare una strappata…. e poi c’incontriamo!”

Raccontano barzellette e tutti, compreso il d.m. Schiano, si alternano al timone e tengono la rotta con forza e precisione. La tuga è chiusa, senz’aria e quella scarsa che si respira, sale dalla macchina, mista a vapori di diesel e fumi di scarico. Sono uomini eccezionali che fanno blocco tra loro e con il rimorchiatore.

Quella notte in cuccetta Charly si sente sconfitto ed umiliato al punto che pensa di non essere adatto a quel mestiere…di duri!

Poi…appena doppiato Capo Corso, il Casteldoria passa dall’inferno del mare aperto, al paradiso del ridosso della Corsica. Charly, ripresosi improvvisamente dal KO, salta dalla cuccetta come un leone e sale sul ponte. Incassa e ignora qualche battuta salace, poi manda tutti a dormire. Soltanto Paolo rimane qualche minuto sul ponte:

“Non ti preoccupare Charly! Alla prima uscita con la burrasca, siamo tutti crollati come birilli al bowling. Ma c’è sempre una ragione: bisogna uscire in mare a stomaco vuoto e riposati! Stai tranquillo che se prendi queste due semplici precauzioni, non ti succederà più! A me, invece, il mare picchia in testa. Ora vado in cuccetta, mi sistemo il “cranio”, poi giro la chiavetta e faccio una dormita… Al chiaro daremo una scrollatina a Pasquale e poi tutti a casa! Paolo è di statura media, ha un viso squadrato e baffuto alla Paolo Conte, ma è biondo, un po’ riccioluto, ha due grandi occhi azzurri e le spalle molto larghe! Un giorno Charly gli chiese:

Paolo, a nessuno è mai venuto in mente di chiamarti Platone?”

“Dai Charly non prendermi per il c…!”

“Davvero Paolo, in greco (Platis) Platone significa: spalle larghe!”

Paolo è nato “comandante” e sebbene fosse portato per il dialogo, è un tipo deciso che ha nella calma ragionata la sua arma migliore. Nel complesso Paolo sembra un nordico ed è molto stimato nell’ambiente del porto, del quale conosce ormai tutti i segreti antropologici, tecnici ed anche politico-sindacali. Già! Avete capito bene! Paolo Fontana, già da anni è impegnato a difendere la sua categoria, e lo fa come pochi altri, da vero interprete e conoscitore di tutti i problemi che si trovano sul piatto delle trattative a livello nazionale. Il suo impegno sindacale gli ha impedito, fino ad oggi di dare l’ultimo esame: la necessaria Patente di capitano di lungo corso, che gli consentirebbe di prendere il comando di qualsiasi nave anche fuori degli Stretti di Gibilterra e Suez.

Il suo regno è il porto, ma nell’attività d’altura a corto raggio, dà il massimo di sé stesso, con grande abilità di manovratore e competenza tecnica.

Charly, punto nel più profondo del suo orgoglio, ha tutto il tempo di ripensare ai propri errori e da quel momento dà inizio alla sua personale riscossa.

Quando apre la porta di sottovento, sul ponte di comando ritorna il respiro, la vita ed anche il profumo di cafè.

Il rimorchiatore riprende il suo moto rettilineo, aprendosi varchi spumeggianti sotto la spinta di 1500 cavalli che ora lo spingono al massimo della velocità.

Charly rassetta come può la tavola del carteggio, fa il punto nave e traccia una rotta che si ferma ad un miglio fuori Punta Alistro, sulla costa orientale della Corsica.

IL DISINCAGLIO

Paolo, nella lunga cavalcata nell’Alto Tirreno in tempesta, non è stato affatto disarcionato dal suo destriero, tuttavia quando sale sul ponte, dopo una breve guardia di riposo, porta ancora sul viso i segni della lotta e dell’insufficiente recupero….

Paolo, ti ho preparato mezzo litro di cafè…non fartelo fregare! Ora tocca a te dirigere l’orchestra!”

Il trentenne comandante si siede barcollante vicino al telegrafo e pare che voglia girare di nuovo la chiavetta….del sonno.

Ma alla prima sorsata di quel magico cafè gli torna in mente, per incanto, lo scopo della missione.

Fa un balzo felino verso i binocoli, li afferra e comincia a ruotare le spalle a dritta e sinistra.

“Eccolo!”

Dice Paolo con un filo di voce rauca e poi riflette a voce alta:

L’onda lunga della vecchia sciroccata lo ha messo di traverso alla costa! Mi sembra che non sia tanto sbandato.”

“Paolo, ho controllato i fondali qui in giro. Sarà un casino avvicinarsi! Noi peschiamo quasi sei metri, quasi come la nave che si è incagliata.

Bofonchia Charly tenendo in mano il piano della zona.

Paolo è pensieroso, indugia sul colore del mare e poi si gira verso levante. Sembra rapito dal rosso sanguigno del cielo, che si alza lento ed esplosivo dalla costa italiana e copre le nere nuvolaglie di una burrasca che sta sfogando le sue ire sulla Toscana. S’avvicina al barometro, gli dà una ditata e l’indice scatta lievemente verso l’alto, indicando con una leggera vibrazione una timida alta pressione!

Il mare in quel punto è verde smeraldo e Paolo fa calare il gommone in mare e lo posiziona di prora al Casteldoria, che ora si muove al minimo verso la nave. Pasquino guida lo zodiaco, Mirto misura l’altezza, poi si gira e urla i fondali.

Ogni metro guadagnato in direzione della nave, apre zone bianche di sabbia che sono appena velate dalla purezza e trasparenza dell’acqua che non è più mare, ma acqua di casa.

Quando Paolo individua la “sua zona operativa”, dà fondo l’ancora e gira la poppa al Pasquale Volpe. La distanza che li separa è di circa 150-200 metri.

Troppa! Per un lancio di heaving line.

Troppa! Per dare istruzioni all’equipaggio della nave sprovvista di VHF.

Troppa! Per ottenere dal comandante le informazioni circa eventuali infiltrazioni e avarie.

Paolo prende il megafono e lascia il ponte, fa un balzo sul gommone e con molta prudenza s’avvicina al ponte di comando della nave. Parla con il comandante, e dai gesti s’intuisce che sta tranquillizzando l’equipaggio. Dopo circa 15 minuti ritorna a bordo. Le forti braccia di Cisco lo aiutano a scavalcare il bordo e Paolo non tradisce emozioni particolari:

La nave si è arenata su un banco di sabbia. Non dovrebbe avere squarci nella carena. L’equipaggio è incolume, credo che non sarà un lavoro lungo.”

Duga è il più esperto sommozzatore della Società. Il suo duro e glorioso passato bellico non l’ha ancora scalfito nel fisico, e dal suo poderoso portamento emana un grande senso di sicurezza ed efficienza. Duga, il guerriero in muta, è pronto in coperta, ha un gigantesco pugnale sulla coscia destra e maneggia il grande flash come una clava; non sembra avvertire il peso delle bombole sulla schiena ed è palese a tutti la sua impazienza d’entrare in azione.

Duga, tocca a te! Fatti un bagno in questa conca d’acqua pulita…. e fammi un bel rapporto!”

- Si raccomanda sorridendo Paolo. -

Duga si lascia scivolare in acqua e pinneggiando veloce come un ragazzino, si porta sotto la poppa della nave e infine sparisce. Compie almeno tre giri lungo lo scafo, poi riemerge e rivolto verso il Casteldoria, fa un segno inequivocabile con il pollice della mano destra. E’ un ottimistico O.K.!

Il nostromo Cisco Emmaus ha preparato in coperta il materiale per turare le falle: legname, iuta, sevo, cemento a pronta-presa ecc…e sorride all’idea che il suo ciarpame - forse - non servirà.

“Meggiu nasce fortunee che ricchi!”

- Urla sorridendo Duga dal gommone che l’ha recuperato –

“Fai attenzione Paolo! Ci sono scogli solitari lungo i fianchi della nave. Uno è molto grosso e appuntito, deve essere proprio quello che gli ha tranciato il dritto di poppa e gli ha spezzato il timone. La carena è intatta e pulita come se fosse appena uscita dal bacino. Ora salgo sul ponte e ti faccio il disegno della situazione. Credo che possiamo disincagliarlo senza danni, soltanto se lo sfiliamo di poppa, lungo il letto che si è fatto durante l’arenamento, fortunosamente, senza squarciarsi.”

Con il levar del sole si alza un po’ di vento, che purtroppo rinvigorisce l’onda lunga e fastidiosa da scirocco. La zona è aperta al vento di SE e pullula di pescherecci e altri gozzi variopinti che iniziano una strana danza di sali e scendi intorno al rimorchiatore genovese. Non si capisce bene! Forse studiano le mosse di Paolo, oppure vogliono rendersi utili per guadagnarsi la giornata, in ogni caso, se rimangono in zona rischiano di venirci addosso….e farsi male.

Paolo se n’accorge, prende il megafono e urla:

Fate attenzione! Ora stenderemo dei cavi! Abbiamo bisogno di spazio per lavorare! Se abbiamo bisogno vi chiameremo! A lavoro finito, se avete del pesce ve lo compriamo! Grazie.”

L’equipaggio del Casteldoria ha preparato due cavi lunghi di nylon-perlon, di quelli che affondano e sono pesanti da tirare per il piccolo gommone (Zodiaco) di bordo. Il problema si pone subito, e viene affrontato sul ponte del rimorchiatore, dove circa metà dell’equipaggio è chiuso in conclave.

I marinai delle imbarcazioni locali non sono degli sprovveduti e sanno che prima o dopo, qualcuno dovrà portare i cavi del rimorchiatore sottobordo al Pasquale Volpe.

Paolo sa di avere una giornata scarsa per disincagliare la nave, ma teme il peggioramento del tempo. Prende anche in considerazione l’idea di farsi aiutare dai locali e parlotta di proporgli una cifra…ma improvvisamente gli viene un’idea e rivolto a Charly gli chiede:

“Abbiamo un barile metallico vuoto da qualche parte?”

“Te lo procuro subito, ma che vuoi farne?

Chiese incredulo Charly –

“Lo scirocchetto che si sta levando ci romperà i c….., ma sembra l’ideale per spingere verso la nave un barile vuoto, al quale possiamo annodare l’ heaving- line; a questo aggiungiamo una ghia più grossa e più lunga, alla quale colleghiamo il primo cavo da rimorchio. Se l’operazione va bene, la ripeteremo per il secondo cavo.”

L’idea di Paolo sembra estemporanea, poco usata e fantasiosa, ma forse è più pratica e semplice del previsto. Per verificarne la fattibilità si deve solo provare ….

“Pensiero e Azione” è il motto mazziniano dell’equipaggio e, in “men che non si dica”, il goffo congegno, appena varato in mare, scivola via come una grossa papera, proprio verso il centro della nave con il suo fardello di cavi. Il piano di Paolo ha funzionato perfettamente.

Dalla vecchia biscaglina che pende storta e penzola dalla murata del Pasquale Volpe, si cala un acrobatico mozzo, al quale viene passato un’asta provvista di gancio. Il giovane incoccia qualcosa, e da bordo cominciano a virare. Il contatto è avvenuto. Il resto è routine!

“Salpiamo l’ancora! Tutti pronti a manovrare!”

Paolo dà il via alle operazioni di disincaglio.

I due cavi di rimorchio, su istruzione di Paolo, sono stati voltati alle bitte, ai due lati della poppa del Pasquale Volpe, per avere più angolo di tiro.

“Ogni disincaglio ha la sua storia!”

– Spiega Paolo, mentre distende progressivamente l’attrezzatura in tutta la loro lunghezza –

Ora pareggiamo i cavi e assaggiamo il peso di Pasquale…”

Il Casteldoria si è posto quasi in fil di poppa alla nave, in una posizione che definire pericolosa non rende bene l’idea. Paolo non batte ciglio ed aumenta lentamente il tiro sino a tre quarti della sua potenza. La nave sembra non avvertire alcuna sollecitazione. Ciò significa che si è infilata con tutto il suo peso nella sabbia e molto in profondità. Paolo diminuisce i giri e quando i cavi accennano all’imbando, aumenta e porta il motore a pieno regime per provocare uno “strappo”. Per oltre un’ora prova e riprova questa tattica senza il minimo risultato.

Poi, il giovane comandante annuncia la tattica successiva:

Ora useremo le maniere forti, ma con prudenza e senza fretta! Ci sposteremo da una parte all’altra fin dove ci è consentito dagli scogli e lavoreremo su un cavo per volta. In questo modo agiremo particolarmente sulla poppa. La obbligheremo a farsi un letto laterale sul quale sculettare... Avvertiamo il comandante di spostare tutti i “pesi possibili” verso prora. Se riusciremo ad alleggerire la parte più pesante, cioè la poppa, il resto gli verrà dietro.”

Paolo è molto sicuro di sé, e racconta d’altri disincagli realizzati, che si sono dimostrati ben più difficili del Pasquale Volpe, quando, per esempio, la presenza di squarci nella carena avevano imposto tattiche e soluzioni ben più sofisticate e lunghe di quella attuale.

Charly! Mi dovresti calcolare l’ora esatta del crepuscolo. Devo provare altre soluzioni, ma devo farlo nel tempo che ho a disposizione, prima che venga scuro. In caso contrario, tra qualche ora, nel buio e in mezzo agli scogli chiuderemo baracca e riprenderemo domattina, tempo permettendo.”

“Conoscendolo a fondo,”

– Riflette Charly –

Paolo, prima di rinviare il lavoro al giorno dopo e lasciare gli uomini di quello ‘scavafango’ ancora una notte sulle spine, farà i salti mortali…”

Ragazzi sgombrate la coperta! Ora il gioco si fa duro!”

- Gridò Paolo uscendo per un attimo dalla tuga –

Scattata la quinta ora di tiro. Paolo prende il timone del Casteldoria, leva qualche giro al motore ed accosta velocemente di venti gradi a dritta verso la costa, aumenta la macchina a tutta forza e va a sfiorare il bassofondo. Rientra poi a sinistra con un’altra curva secca, rapida e micidiale. In mezzo, tra le due accostate, lo scafo del Casteldoria aggiunge il suo peso “traversato” agli strappi dei cavi che ora vibrano e s’assottigliano fino a rischiare la rottura.

Al termine dello spericolato doppio slalom, il Pasquale Volpe accusa il colpo! Si piega prima da un lato e poi dall’altro. La poppa si sposta di almeno un metro sulle scivolate a corpo morto del rimorchiatore.

“Bravo Paolo!”

- Urla l’equipaggio -

“Dai che viene!”

Tutto l’equipaggio si alterna nella manovra disegnata dal suo comandante ed infine, alla settima ora di tiro continuato, quando la luce sta per trasformare gli umani e le cose in ombre senza volto e senza nome, avviene la liberazione. Il Casteldoria, dopo aver staccato centimetro per centimetro di nave, agli scogli e alla sabbia cui sembra incollata, appare stremato e frustrato nei nervi e nel materiale, ma riesce nella sua missione:

ha disincagliato il Pasquale Volpe!

Duga è pronto, da tempo, per l’immersione, ma per non tradire la scaramanzia marinara… si nasconde nella saletta, e quando Paolo porta la nave all’ancora su fondali decenti, s’immerge e inizia la sua ultima ispezione alla carena, per verificarne sia la galleggiabilità che la navigabilità.

Mentre Charly tiene puntato il proiettore da 1000 watt sulla posizione del sommozzatore, segnata da un galleggiante colorato, Paolo si avvicina con il Casteldoria a 20 metri dalla nave e prende accordi con il comandante.

Quando Duga finisce l’ispezione e dichiara che la nave può essere rimorchiata, i comandanti, sentiti i bollettini, che non promettono niente di buono, rinviano gli attacchi di rimorchio al giorno dopo.

UN RIMORCHIO DIFFICILE

Il bollettino Meteo ha ragione! Il convoglio, risalendo all’indomani la costa orientale della Corsica, è tormentato e schiaffeggiato dal forte libeccio che scivola giù dalle alte colline, sprofonda lungo le gole e quando arriva sulle spiagge solleva e polverizza nuvole di sabbia, crea mulinelli e vortici d’aria che danzano senza sosta, come leggeri fantasmi senza meta.

“Chissà cosa c’è dall’altra parte!!”

Si chiede l’equipaggio! Ed è ancora Paolo a dire l’ultima parola. –

Ragazzi, a Capo Corso faremo le vele secondo il vento. Noi abbiamo la pazienza di pendolare anche una settimana nell’attesa di uno stacco del tempo. A procurarci il pane fresco ci penserà il cuoco del Pasquale V. e per le triglie ci penserà Papetto, il peschereccio di Porto S. Stefano. Se invece ci troviamo alle strette con i viveri, mangeremo caponata e gallette. A proposito Charly, chiama Papetto sulla 1182 del radiotelefono!”

Papetto, Papetto dove sei! Rispondi!”….

Nell’attesa che il libeccio sfoghi la sua rabbia, Paolo accorcia il cavo di rimorchio e si tiene sottocosta, programmando una velocità che ci consentirà d’arrivare all’alba a Capo Corso, per sbirciare la situazione e decidere se proseguire o pendolare.

Forse è bene ricordarlo; dalla partenza da Alistro, Paolo è il comandante responsabile del convoglio; a lui spetta decidere la rotta, la velocità, le eventuali soste ecc…Sempre, naturalmente, informando il comandante della nave rimorchiata.

Ma c’è un problema: il comandante del Pasquale Volpe, su preciso invito di Paolo, non è riuscito o non ha voluto appoppare la nave, che ora risulta, al contrario, appruata di tre o quattro piedi. Il fatto puramente tecnico, è sottovalutato dal comandante che ignaro di rimorchi, non immagina le difficoltà che incontrerà il convoglio in navigazione.

Il traino procede fino alla Giraglia, praticamente in bonaccia, alla corta e quindi a briglia stretta. Ciò significa che la nave rimorchiata sente la forza del rimorchiatore direttamente sul collo, cioè a prua, e quindi lo segue docilmente senza imbizzarrirsi.

Quando poi si apre – finalmente - alla vista l’alto Tirreno, pare a tutti che sia possibile lanciarsi verso Nord, anche in quelle condizioni non proprio ideali.

Paolo decide allora di allungare il cavo, fissando la misura più idonea a contrastare l’onda montagnosa di libeccio, forza 4/5. Il bollettino meteo lo dà in calo. La speranza è di perderla sulla rotta per Genova.

Il difficile governo del convoglio appare – purtroppo - quasi subito evidente, ma non dipende dal fatto che la nave è senza timone, perché è bene ricordare che, una qualsiasi nave rimorchiata mette il timone in centro, lo blocca e se lo dimentica.

Il vero problema è il mare, che picchia ora al giardino (poppiero) di sinistra della nave, che è la parte più leggera del rimorchio e cede sottovento, questa forza viva fa ruotare la prua a sinistra, verso il vento e il mare.

In questa situazione dinamica, alla velocità di 6/7 nodi, il Pasquale Volpe assume la “sua” rotta orziera e la difende con la stessa forza impressa dal Casteldoria.

Situazione pericolosa. Il rimorchiatore sbanda sotto il tiro della nave al traverso.

E’ difficile crederlo, ma ad un certo punto il rimorchiatore viene raggiunto, al traverso sinistro, dal rimorchio che prosegue la sua corsa divergente e tenta di superarlo, cioè prenderlo per il culo** , e se Paolo viene sorpreso all’improvviso, nella migliore delle ipotesi può essere trascinato, oppure, qualora si strappassero le bozze, che trattengono il cavo da rimorchio assuccato (trattenuto) sulla zona poppiera, (vedi disegno) lo scafo del Casteldoria si traverserebbe al cavo, sbanderebbe, imbarcherebbe acqua e affonderebbe nel giro di pochi minuti. (vedi foto sopra)

**(mi sia consentito l’uso di questa volgarità, ma si tratta dell’unica espressione aderente al caso specifico che io conosca)

Notare a sinistra il cavo d’acciaio del rimorchiatore che è trattenuto da un maniglione e da una cima (bozza) data volta al tamburo del verricello.

L’assetto appruato della nave costringe il Casteldoria ed il suo equipaggio ad una navigazione manovrata, sia sul ponte di comando che in coperta, dove i marinai, sbattuti a paratia dai marosi, devono essere sempre pronti ad “allascare le bozze” per consentire al timoniere del rimorchiatore di poter inseguire il rimorchio, richiamarlo in rotta, portarselo dritto di poppa e prevenire le pazze fughe che abbiamo visto.

C’è solo da aggiungere che le famose “inverinate” del Pasquale Volpe avvengono alternativamente sia a sinistra che a dritta e con la stessa meccanica. Possiamo cercare di analizzare un po’ meglio nel dettaglio:

quando il Casteldoria allasca le bozze, gli si apre (in coperta) un angolo di cavo sufficiente per accostare a sinistra e rimontare velocemente, con il cavo venuto nel frattempo in bando, la posizione ideale, di prora alla nave, per richiamarla sulla rotta di casa.

In questa fase il rimorchiatore deve diminuire e regolare la velocità per non strappare il cavo che sciabica sull’acqua e poi l’aumenta subito per non perdere il controllo sulla nave.

Quando finalmente la prora è richiamata, la nave non si ferma sulla rotta del rimorchiatore, ma continua l’accosta esageratamente a dritta, perché ormai prende il vento a poppavia a dritta e tende a poggiare, sino a portare la poppa al vento.

CONCLUSIONE

Questa navigazione pericolosa e massacrante durò per novanta miglia fino all’arrivo Genova. Charly, da quel giorno dimenticò letteralmente il mal di mare e fu grato a Paolo, per tutta la vita, d’averlo imbarcato sul Casteldoria all’ultimo momento. E’ stata un’esperienza ricchissima di “specialità marinare” che gli è stata molto utile nel corso della sua carriera, specialmente quando gli toccò di vedersela con altri numerosi “ossi duri da spolpare”.

 

Giunti così all’epilogo di quest’avventura, nella realtà, ci rimane soltanto da precisare un concetto: quando si parla di un pugile che ha terminato un match impegnativo, non si parla mai di “buona esperienza fatta”, ma di cazzotti presi e dati…..e che hanno lasciato il segno!

Ecco! Per gli equipaggi dei rimorchi d’altura, più o meno è la stessa cosa!

Paolo è mancato in questi giorni. Io non l’ho pianto! Ho preferito ricordarlo come un grande marinaio!

 

Carlo GATTI

Rapallo, 16.02.12

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Collisione tra la MIRAFLORES e la ABADESA

Collisione tra due petroliere

MIRAFLORES (Ita) - ABADESA (UK)

L’Avventura di un recchese scampato all’esplosione della nave italiana

FU SALVATO DA UN ANGELO: LA MOGLIE

25 febbraio 1963

Tra le tante storie che hanno visto protagonisti i nostri uomini di mare,  quella che oggi vi raccontiamo è alquanto atipica, per il semplice fatto che il protagonista non è un marittimo di professione, ma una giovane donna di Recco, Luigia, moglie di Vittorio Massone,  Direttore di Macchina della petroliera italiana Miraflores.

Il recchese Vittorio Massone, nella foto con la moglie, sarebbe morto nelle gelide acque del fiume Schelda, come altri nove membri dell’equipaggio se a soccorrerlo non fosse intervenuta Luigia a tenerlo a galla sino all’arrivo di un peschereccio.

Luigia e Vittorio erano sposati da pochi anni e non si vedevano ormai da molti mesi.

Ma l’occasione di rubare qualche giorno alla loro dura lontananza, si presentò quando la nave, rientrando da Bandar Mashur (Golfo Persico), captò l’ordine d’andare a scaricare il crude-oil ad Anversa (Belgio). Luigia non ebbe il minimo dubbio e decise di partire. Per sfruttare al massimo il poco tempo disponibile, chiese un passaggio al pilota di Flushing (situato alla foce del fiume Schelda) che era destinato sulla Miraflores.

A mezzogiorno arrivò un rimorchiatore che ci portò a bordo il pilota, il suo aiutante, la moglie del comandante e mia moglie”. – Racconta lo stesso V. Massone – “L’entrata e l’uscita da quel grande porto, è possibile soltanto con l’alta marea, quando cioè vengono aperte le “chiuse” ed allora lungo l’estuario avviene un intenso via-vai di navi di tutti i tipi.

Da quel momento doveva cominciare una seconda luna di miele per Luigia e Vittorio: risalire insieme il fiume per circa 70 miglia e rimanere ancora insieme durante la discarica programmata ad Anversa, per poi ridiscendere il fiume e sbarcare nello stesso porto dov’era imbarcata. Lasciato il marito, sarebbe  ritornata a Recco col treno.

“Per noi si trattava davvero di una seconda luna di miele, che ci avrebbe dato una riserva di felicità  per chissà quanti altri mesi ancora. In quei tempi ormai lontani, gli imbarchi duravano anni”. Ci racconta la signora Luigia con gli occhi velati di commozione.

La T/N Miraflores dell’Armatore Cameli, era una moderna unità di disegno italiano, orgoglio della cantieristica genovese che aveva già costruito, della stessa classe, le velocissime gemelle: Argea 1°, Polinice,  Fina Canada e  Fina Italia, sulla quale, proprio in quel periodo, l’autore era imbarcato.

 

Nave

ABADESA

Bandiera

Inglese

 

 

Stazza Lorda

20.000

Lungh.x Largh.

 

Varo

Vel.

MIRAFLORES

Panama

20.776

200 x 26    mt

1958

16,5

 

I Fatti

Era il 25 febbraio 1963. Le due petroliere, l’italiana Miraflores e l’inglese Abadesa, navigavano con rotte opposte sul fiume Schelda. La prima risaliva il fiume, la seconda scendeva con la corrente in poppa. Ma lasciamo al direttore di macchina della Miraflores, Vittorio Massone di Recco, sopravvissuto miracolosamente a quel tragico incidente, il racconto di questa eccezionale quanto “agghiacciante” testimonianza:

“Era una giornata fredda ma chiara. Il fiume era cosparso qua e là di ghiaccio e la sua temperatura era -2°.

Sicuramente anche la Abadesa, di stazza simile alla nostra, era assistita dal personale specializzato del fiume. La nostra navigazione procedeva con difficoltà tra le anse del fiume a causa di una forte corrente di marea.

Mia moglie era vicina all’oblò del mio studio e stava osservando il piatto panorama che scorreva sulla nostra destra, ad un tratto disse: “ Ma lì c’è una nave che ci viene addosso!”

Ovviamente diedi importanza a quelle parole, anche se pronunciate da una donna senza esperienza specifica e corsi subito all’oblò dove arrivai in tempo per vedere una grossa petroliera che, con discreta velocità, ci stava abbordando al traverso.

Sentii il tipico rumore dell’ancora e della catena “sparata”  in acqua d’emergenza.

Il Comandante ed il Pilota avevano tentato disperatamente d’accostare a dritta per vincere la corrente contraria. Niente da fare, la manovra d’emergenza fu inutile!

La fortissima corrente proveniente dalla curva a gomito del fiume ci teneva inesorabilmente traversati sulla rotta discendente della Abedesa. La nostra nave era carica e per meglio tenersi in  rotta doveva mantenere un certo abbrivo.

Peso e velocità  hanno probabilmente impedito alla Miraflores d’accostare a dritta facendo perno sull’ancora. L’impossibile manovra aveva lo scopo di presentarsi prora contro prora, onde evitare danni estremi, come il possibile affondamento”.

- Direttore cosa ha provato in quei momenti ?

“Non ci sono parole per descrivere il terrore che ti assale quando vedi la morte negli occhi e non hai nulla da fare e da dire. Ti senti paralizzato dalla tua stessa impotenza”.

- Dove vi colpì l’Abadesa?

“La Abadesa ci colpì all’altezza del ponte di comando e ci fu subito una grande esplosione. Vidi la lancia di salvataggio volare tra le fiamme a decine di metri”.

- Come reagì sua moglie?

Presi mia moglie per un braccio, e di corsa l’accompagnai a poppa, all’esterno fuori del cassero e le dissi: “rimani qui, io vado in macchina ed appena posso torno”. Lei mi rispose: “Vitto non mi abbandonare!” Nello scendere in macchina incontrai il terzo macchinista, un giovane ragazzo di Camogli, e lo mandai a poppa raccomandandogli di pensare anche a mia moglie.

- Il vero pericolo non fu l’affondamento, ma forse l’incendio e le esplosioni a ripetizione?

Sicuramente! Infatti tentammo con ogni mezzo di bloccare l’incendio a centro nave, ma tutto fu inutile, come pure fu vano il tentativo di ammainare la lancia di sinistra, anch’essa avvolta ormai dal fumo e dalle fiamme. Fu proprio allora che il Comandante, dopo aver fatto sistemare due biscagline fuori bordo, una per lato a poppa, disse che dovevamo gettarci in mare.

- L’incendio a bordo di una nave è il sinistro peggiore che possa capitare e quando capisci che l’aria che respiri è veleno che ti sta soffocando, allora scegli di buttarti mare come una liberazione!

Infatti, quando arrivò il mio turno dissi a mia moglie di scendere alcuni scalini e poi di saltare in mare. Ci buttammo allora in quelle acque gelide dove alcuni sparirono tra le fiamme, altri annegarono intossicati oppure rimasero incastrati e morirono assiderati tra le formazioni di ghiaccio che scendevano veloci e taglienti verso l’estuario del fiume.

- Riuscì a mantenere il contatto con sua moglie?

Luigia aveva indossato il giubbotto-salvagente; io invece indossavo un semplice maglione ed il gelo presto mi bloccò i movimenti. Con altri naufraghi eravamo vicini in quella zona, ma qualcuno, privo di salvagente era già scomparso …Stavo alla sinistra di mia moglie ed  il mio naso era appena  fuori dell’acqua, respiravo a fatica e mi sentivo paralizzato. Fu allora che mi accorsi che era mia moglie a tenermi a galla. Luigia, con una mano  aveva afferrato il girocollo del mio maglione, non so chi le dava tanta forza, ma riusciva a tenermi con grande calma al suo fianco.

- L’eccezionale coraggio di sua moglie non solo la salvò fisicamente, ma forse gli diede anche la forza di reagire con la giusta determinazione e lucidità fino all’arrivo dei soccorritori?

Quando mi resi conto che il suo salvagente ci faceva galleggiare tutti e due, le misi una mano sulla spalla e sentii ritornare la vita, la forza, il coraggio di reagire in mezzo alle lingue di fuoco che ci lambivano e le lastre di ghiaccio tagliente che minacciavano d’investirci. Infatti  il nostro recupero fu lungo e difficile perché il vento cambiava continuamente direzione ci allontanava e ci avvicinava continuamente alle fiamme.

Fummo salvati da un peschereccio che nel recupero rischiò d’incendiarsi……e di esplodere anche lui. Io devo la vita a mia moglie Luigia che, con grande freddezza e raziocinio, non mi perse mai di vista e nuotò per trovarsi sempre nel punto giusto al momento giusto e continuò ad incoraggiarmi parlandomi ed impedendomi di perdere i sensi.

- Ci racconti l’epilogo di questo drammatico salvataggio.

Fummo sbarcati sul litorale più vicino, quello di Rilland-Bath un piccolo paese sulla costa olandese, e quindi trasportati di peso nel loro centro sociale, dove la Croce Rossa e gli stessi abitanti avevano già portato mucchi d’indumenti. A me toccò una calda tenuta da pescatore, completa dei caratteristici zoccoli di legno. Potemmo anche fare la doccia e liberarci del petrolio dei capelli aveva fatto un unico e del viso una maschera nera. Lì cominciammo a contarci ed a scambiarci notizie ed informazioni e presto ci prese una grande angoscia: non erano più tra noi il comandante, il primo ufficiale, il terzo macchinista, il caporale di macchina, l’operaio meccanico, il cameriere del comandante, due fuochisti ed il garzone di cucina. Dell’equipaggio mancavano nove persone.

I liguri mancanti all’appello furono: il Comandante Giacomo Verardo, il 3° Macchinista G.B. Rovegno di Camogli, A. Passeri di La Spezia, A. Africano di Genova, E. Grandi di Lerici.

La nave non affondò, ma subì un disastroso incendio. In seguito fu rimorchiata presso un cantiere dove rimase per molti mesi per una necessaria ricostruzione.

Siamo giunti alla fine del racconto e un forte dubbio ci assale: siamo stati all’altezza di questo fantastico esempio di “virilità femminile”?

ALBUM FOTOGRAFICO

La T/n MIRAFLORES assistita dai rimorchiatori dopo la collisione con la cisterna ABEDESA.

T/n MIRAFLORES subito dopo la collisione sul fiume Schelda parzialmente ghiacciato

MIRAFLORES dopo la collisione

M/c ABADESA In bacino

M/c ABADESA In navigazione

 

 

Carlo GATTI

Rapallo, 11.02.12

 



Naufragio m/n FIDUCIA

Naufragio della piccola nave

“FIDUCIA”

Storia di un brillante salvataggio e del suo amaro epilogo

Il 20 dicembre del 1962 alle ore 03.15, durante una notte di burrasca forte, al Comandante Giovanni Assereto della nave passeggeri Vulcania della Società Italia, fu comunicato che al largo della minuscola isola di Ustica c’era una nave in difficoltà. L’imbarcazione, con otto persone d’equipaggio e dal nome falsamente ottimista, Fiducia, aveva lanciato ripetuti e concitati segnali di soccorso: “mayday! - mayday!” che giungevano flebili, a causa di un’avaria alla trasmittente, o forse per il vento burrascoso che fischiando a raffiche, copriva le voci. Ci fu un immediato cambio di rotta. Le due navi si trovavano a circa 30 miglia di distanza tra loro. Sul Ponte di Comando della Vulcania si udirono le rincuoranti promesse d’assistenza. Dall’esperto Comandante partirono a raffica le prime istruzioni alla sala macchine per l’imminente manovra d’emergenza ed alla coperta per il recupero dei naufraghi.

Era il mio terzo imbarco da Allievo ufficiale di coperta e si trattava del primo salvataggio della mia carriera.

Come richiamati da un magico tam-tam, i passeggeri affluirono in massa ad occupare tutti i ponti liberi sul lato destro della nave per assistere ad un eccezionale evento marinaro. Il Comandante Assereto ed i suoi ufficiali, dopo aver localizzato la Fiducia sul radar, iniziarono a compiere la “curva di rito” che ci avrebbe portato, come una diga mobile di quasi 200 metri, sopravvento alla nave senza governo, per fornirle un provvidenziale ridosso.

La piccola M/n FIDUCIA è finalmente a ridosso della M/n Vulcania. Tutto è pronto per il recupero dei naufraghi.

Ancora oggi sono colpito dal ricordo di quella successione di manovre impartite dal Comandante e che furono compiute in modo silenzioso e millimetrico.

Innanzitutto ci fu il calibrato rallentamento della nostra nave - (slow down) - che riuscì a portarsi ad un centinaio di metri dalla Fiducia. Da questa posizione, il Comandante Assereto diede ordine di accendere i pastorali, che erano lampioni navali, girabili lateralmente verso l’esterno della fiancata, mentre i potentissimi proiettori di bordo illuminarono improvvisamente dall’alto il tragico scenario, dentro il quale, la piccola nave, ridotta ormai allo stremo, spariva tra le bianche e sferzanti creste d’onde e poi riemergeva lentamente, ululando e vomitando tonnellate d’acqua e schiuma e aveva gli alberi inclinati come un naufrago in cerca d’aiuto.

Il comandante Assereto con il Cardinale da Costa Nunez.

Il nostro Comandante manovrò le due macchine riuscendo a farsi scarrocciare dal vento, molto lentamente, verso la Fiducia che sbandata a sinistra sussultava riemergendo a fatica. In quella notte di tregenda il quadro si fece ancora più drammatico, quando si distinsero chiaramente sette sagome umane, che sparse sul ponte di coperta, si tenevano aggrappate alle attrezzature di bordo. Presto ci fu il contatto tra le due navi; il caso volle che la testa d’albero prodiero della Fiducia sfondasse l’oblò di una cabina e rimanesse incastrato alla nostra nave per qualche minuto. Paradossalmente fu quello il momento ideale che permise il recupero dell’equipaggio il quale, simile ad una ciurma di pirati si lanciò all’arrembaggio e si arrampicò agilmente sulle “giapponesi” (ampie reti usate per imbracare i colli di stiva) che erano state gettate fuori bordo dal nostromo e dai marinai, forse nel ricordo di una prassi molto usata durante la seconda guerra mondiale.

 

I naufraghi raggiungono la salvezza.

Il Comandante Assereto manovrò ancora le macchine con molta abilità, riuscendo a sfilarsi dal Fiducia senza il minimo danno. La piccola nave apparve ormai come un relitto sbandato, semisommerso e alla deriva. L’equipaggio fu totalmente recuperato, ogni naufrago fu asciugato, avvolto in una coperta calda e fu assistito dal personale medico di bordo.

Ci fu, purtroppo, una vittima di cui non abbiamo ancora fatto cenno. Su quella coperta inclinata e flagellata dai marosi, scivolava da paratia a paratia, abbaiava e piangeva un lupo bianco giapponese, che nessuno poteva più aiutare.

L’equipaggio stremato ed ancora impaurito, ma ormai al sicuro sul ponte passeggiata del grande transatlantico, volle seguire con lo sguardo il drammatico epilogo della sua nave. I naufraghi si schierarono l’uno accanto all’altro, s’appoggiarono tristemente al parabordo del ponte e fissarono a lungo, con gli occhi sbarrati, l’ultimo comandante di bordo che, abbandonato per sempre dagli uomini, s’allontanava incredulo nel buio più profondo. Lo salutarono sbracciando i loro baschi fradici tra le lacrime e gettando nell’angoscia, non solo i passeggeri, ma anche il collaudato equipaggio dell’anziana Vulcania. A bordo, tutto si fermò per un attimo, il nostro Comandante, stagliato come una sfinge sull’aletta della plancia, salutò con tre fischi lunghi e mesti la coraggiosa Fiducia che si apprestava a compiere la sua ultima traversata verso gli abissi, con il suo indomito nocchiero bianco.

La nave poco dopo sparì, trascinando con sé il suo ultimo compagno di viaggio, il più fedele. Se ben ricordo, il suo nome era Dock e come un vecchio lupo di mare d’altri tempi, decise di seguire la sua nave….

 

Carlo GATTI

Rapallo, 10.02.12