NAVI MILITARI-SANTA MARGHERITA LIGURE
NAVI MILITARI
SANTA MARGHERITA LIGURE
Avevamo già scritto: Da più di un secolo, la presenza di navi militari nelle acque del Tigullio – è un elemento costante dell’orizzonte marittimo della nostra riviera, da sempre legata al mare nei suoi molteplici aspetti, a partire per l’appunto dalle unità navali e mercantili, da quelle da pesca o da diporto, di Rapallo ce ne siamo già più volte ampiamente perché nel tempo ha ospitato numerosissime navi da guerra appartenenti alle Marine delle nazioni più disparate, a testimonianza non soltanto di un fascino più propriamente turistico, ma anche della conoscenza e della valenza internazionale di una città nota e apprezzata in Italia e all’estero sin dalla fine del secolo XIX. Al tempo stesso, tra il 1890 e i primi anni Cinquanta del secolo XX, veniva pubblicato a Rapallo un periodico settimanale indipendente, il cui titolo – “Il Mare” – ben rappresentava l’intimo legame tra la città, il Mar Ligure e tutto il Mediterraneo. Preciso e puntuale nel citare e commentare gli eventi che vedevano coinvolti Rapallo e i suoi abitanti, “Il Mare” non mancò mai di riportare la presenza di unità militari nelle acque del Tigullio, segnalandone con buon anticipo l’arrivo e informando i lettori sugli incontri di ufficiali ed equipaggi con la popolazione e le autorità locali.
Oggi ci occupiamo delle navi italiane che sono state ospiti di Santa Margherita Ligure il cui fondale ha permesso l’ormeggio di navi importanti prima, durante e dopo le due guerre mondiale.
CAPITANERIA DI PORTO - SANTA MARGHERITA LIGURE
Ufficio Circondariale Marittimo
Il Corpo delle Capitanerie di porto nasce ufficialmente con un Regio Decreto del 20 luglio 1865. La Guardia Costiera, così come noi la intendiamo, tuttavia, appartiene a un’epoca più recente. Un embrione lo possiamo ritrovare già nel 1877 quando venne promulgato il Codice della Marina Mercantile che all’art. 122 affidava il soccorso in mare ai Comandanti di porto.
Sarà solo con un Decreto interministeriale dell’8 giugno 1989 che verrà attribuita ufficialmente la denominazione di “Guardia Costiera” ai reparti tecnico-operativi del Corpo, attribuzione alla quale negli anni successivi farà seguito l’adozione della tradizionale livrea bianca e del logo, ormai noto, raffigurante una fascia tricolore – in omaggio alla bandiera italiana – con un’estensione maggiore della banda rossa per poter accogliere al centro un’àncora nera su campo circolare bianco.
Con la Legge n°147 del 03 aprile 1989 l’Italia ratifica la Convenzione di Amburgo del 1979 sul soccorso marittimo che, trovando attuazione in un Regolamento emanato con il D.P.R. n°662 del 1994, individua nell’attuale Ministero delle infrastrutture e dei trasporti l’Autorità nazionale responsabile dell’esecuzione della Convenzione, affidando al Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di porto – Guardia Costiera la responsabilità e il coordinamento dei servizi di ricerca e salvataggio in mare nell’ambito dell’intera regione di interesse, che si estende ben oltre i confini delle acque territoriali, per un’area ampia circa 500 mila km².
COMANDI TERRITORIALI - GUARDIA COSTIERA - RIVIERA DI LEVANTE
GENOVA - Direzione Marittima
Il litorale del territorio italiano è ripartito in 15 Direzioni Marittime (zone) e 54 capitanerie di porto (compartimenti).
· LIGURIA (4 Direzioni Marittime)
· Genova (GE)
· Imperia (IM)
· La Spezia (SP)
· Savona (SV)
SANTA MARGHERITA LIGURE - Ufficio circondariale Marittimo
Circondario marittimo. ... Il Circondario marittimo è retto da un Capo del circondario che è un ufficiale superiore di porto facente parte del corpo delle capitanerie di porto e l'ufficio dove risiede si chiama ufficio circondariale marittimo.
Camogli ………. Ufficio Locale Marittimo (dipende da Compamare Genova)
Chiavari ………. Ufficio Locale Marittimo (dipende da Circomare Santa Margherita Ligure)
Lavagna…………. Ufficio Locale Marittimo (dipende da Circomare Santa Margherita)
Rapallo…………… Ufficio Locale Marittimo (dipende da Circomare Santa Margherita Ligure)
Portofino………….Ufficio Locale Marittimo (dipende da Circomare Santa Margherita Ligure)
Sestri Levante….Ufficio Locale Marittimo (dipende da Circomare Santa Margherita Ligure)
Ufficio locale marittimo. Gli uffici locali marittimi (LOCAMARE) sono uffici locali minori degli organi periferici dell'amministrazione della marina mercantile italiana. Il capo dell'Ufficio locale marittimo ha carica e titolo di comandante del porto o dell'approdo in cui ha sede.
Parlando del golfo Tigullio, non é un caso che Santa Margherita Ligure sia sede di Capitaneria di porto, mentre Rapallo, insieme alle città citate sopra siano sede di “Circomare”. Lo scopriremo da soli cammin facendo...
CASTELFIDARDO (pirofregata corazzata)
Progettata e costruita nei cantieri francesi di Saint Nazaire dietro ordinazione della Regia Marina, la nave, impostata nel 1862, venne varata nel 1863 e completata un anno dopo. Appartenente ad una classe di quattro unità, la Castelfidardo era una pirofregata a corazza completa (che si estendeva due metri al disopra della linea di galleggiamento, sino al ponte di coperta, ed un metro e mezzo al disotto di essa) e ridotta centrale, munita, oltre che di un poderoso armamento di 26 cannoni da 164 e 200 mm, di un massiccio sperone di tre metri di lunghezza. Alla prova dei fatti le navi della classe Regina Maria Pia si rivelarono delle buone unità, le uniche, nella Regia Marina, in grado di misurarsi con le corazzate austroungariche.
Unità più longeva della sua classe, la Castelfidardo negli ultimi anni venne usata come nave scuola torpedinieri. Radiata il 4 dicembre 1910, dopo oltre 46 anni e mezzo di servizio, venne avviata alla demolizione.
1900 – Corazzata SICILIA in rada
Nave Sicilia è stata una nave da battaglia policalibro della Regia Marina italiana della classe Re Umberto. Come per le altre unità della classe, il lungo periodo di costruzione l'ha resa superata al momento dell'entrata in servizio. La nave, della quale inizialmente erano state finanziate solo due unità, andò a risentire dei lunghissimi tempi di allestimento, dieci anni, che la fecero entrare in servizio parzialmente obsoleta.
L'armamento principale, che aveva largo campo di tiro, era costituito da quattro cannoni da 343/30 in due impianti montati in barbetta e situati a circa 10 metri dal galleggiamento e sparava proiettili da 567 kg in grado di perforare 870 mm di ferro dolce. Una caratteristica condivisa con la classe erano i fumaioli anteriori affiancati, invece che uno dietro l'altro.
La sua costruzione avvenne presso l’Arsenale di Venezia dove la sua chiglia venne impostata il 2 dicembre 1886 e varata il 6 luglio 1891 alla presenza di re Umberto e della Regina Margherita.
L'anello rituale realizzato per il varo della nave esposto a Palazzo Marina a Roma
La nave ebbe come madrina del varo la regina Margherita che, dopo la benedizione, appose un anello consacrato sulla poppa della nave secondo la tradizione veneziana dello Sposalizio del mare. L'anello, insieme alla bandiera di guerra e al cofano portabandiera sono oggi conservati a Palazzo Marina a Roma.
Dopo l'entrata in servizio la nave il 15 febbraio 1897, la nave, con l’insegna del viceammiraglio Felice Napoleone Canevaro al comando della 1ª Divisione della 1ª Squadra, che includeva anche le gemelle Sardegna e Re Umberto, l’incrociatore protetto Vesuvio e l’incrociatore torpediniere Euridice, giunse a Creta, durante un periodo di tensione tra la Grecia e l’Impero ottomano in seguito alla rivolta scoppiata nell’isola, che culminò nella guerra greco-turca.
il cofano in cui è conservata la bandiera di guerra a Palazzo Marina a Roma
Al ritorno della spedizione, nel 1899 la nave venne assegnata alla 2ª Divisione, che includeva anche l’ariete corazzato Affondatore la pirofregata corazzata Castelfidardo e gli incrociatori torpedinieri Partenope e Urania.
Nell'ottobre 1911 la nave, all'epoca inquadrata nella Divisione Navi Scuola, prese parte alla guerra italo-turca quale nave insegna del contrammiraglio Raffaele Borea Ricci D’olmo insieme alle gemelle della classe Re Umberto, Sardegna e Re Umberto appoggiando le operazioni di sbarco a Tripoli. Nel dicembre 1911, le tre navi furono sostituite dalle vecchie corazzate Italia e Lepanto. le navi della classe Re Umberto fecero ritorno nelle acque della Libia nel maggio del 1912 prendendo parte a tutto il ciclo di operazioni lungo le coste libiche fino alla resa degli ottomani nell'ottobre 1912.
Il 9 luglio 1914 la nave venne posta in disarmo, ma con lo scoppio della Prima guerra mondiale, venne deciso il suo mantenimento in servizio fino al termine del conflitto e così il 16 agosto 1914 la nave fece il suo rientro in servizio ed utilizzata a Taranto come nave deposito e come nave caserma per la nuova corazzata Giulio Cesare che stava completando il suo allestimento. Inizialmente l’Italia, che faceva parte della Triplice Alleanza, aveva dichiarato la sua neutralità, per poi entrare in guerra nel maggio 1915 a fianco dell’Intesa, contro gli Imperi centrali. Nel corso del conflitto la nave venne poi utilizzata a Taranto come deposito munizioni, successivamente come pontone ed infine come nave officina, prima di essere radiata il 4 marzo 1923 e successivamente demolita.
1917 – Tre sommergibili della classe H
nel Porto di Santa Margherita Ligure
Inprepido-Impavido-Cattaro
Incrociatore ANCONA (ex GAUDENZ) dopo la trasformazione del 1929
Palmaria
Visite a bordo...
Quattro dragamine ormeggiate ...
Con la fine del conflitto, la mutata situazione strategica internazionale fece del Mediterraneo un crocevia dei movimenti navali delle flotte dell’Alleanza Atlantica e, già a marzo del 1947, erano presenti nel Tigullio due unità inglesi, la portaerei Ocean e il cacciatorpediniere Raider, facenti parte di un gruppo operativo al comando dell’amm. Sir Cecil Harcourt.
A partire da questi anni - e clntinuando sino al termine della "guerra fredda" nei primi anni Novanta - la presenza navale più consistente e significativa nel "Mare Nostrum" sarebbe però stata quella delle unità della Sesta Flotta della Marina degli Stati Uniti.
Dalle origini...
allo scoppio della I Guerra Mondiale
L'idea di realizzare un veicolo in grado di muoversi negli abissi marini é antichissima: si hanno notizie di progetti risalenti ai tempi degli Antichi Greci e di Alessandro Magno. Il primo attacco bellico di un mezzo subacqueo documentabile é avvenuto
nel 1776 durante la Guerra di Indipendenza Americana, compiuto da un battellino chiamato American Turtle.
Era solo l'inizio: trascorsero molti anni prima che venisse realizzato un mezzo subacqeotale da poter fornire adeguate prestazioni belliche
I primi sommergibili italiani e la preparazione alla Grande Guerra
In Italia i progetti dei primi sommergibili per la Regia Marina vennero affidati al Maggiore del Genio Navale Cesare Laurenti.
Questi giudico’ importanti le caratteristiche di velocitá, autonomia e qualitá nautiche, mentre ritenne trascurabile l'elevata quota operativa. Reputava sufficiente che l'unitá potesse scomparire dalla superficie del mare e fosse in grado di raggiungere la quota necessaria per non essere speronata da altre navi. Per questo giudico’ non necessario lo scafo resistente a sezioni circolari.
Divenuto affidabile il motore Diesel molto piú del motore a benzina nel 1910 venne impostata la classe Medusa.
Fra inizio secolo e I Guerra Mondiale oltre al Laurenti si misero in luce anche altri due ufficiali del Genio Navale: il Maggiore Bernardis e il Capitano Cavallini.
Progettarono rispettivamente i due sommergibili classe Nautilus e i due della classe Pullino.
Allo scoppio della I Guerra Mondiale era da poco terminata la guerra italo-turca, che era stata per la Regia Marina un' eccellente occasione di addestramento.
L'Italia disponeva perció di equipaggi dotati di elevata capacitá professionale ma con una flotta notevolmente logorata. Inoltre, solo alla vigilia della guerra, l' Italia si era staccata dalla Triplice Alleanza e si era alleata con le potenze dell' Intesa.
Questo creó gravissimi problemi alla Regia Marina che, per molti anni, si era preparata a una guerra contro Francia e Gran Bretagna.
Considerando alleate l'Austria e la Germania, per esempio, tutto il litorale adriatico era rimasto privo di fortificazioni difensive.
OSTRO cacciatorpediniere seconda guerra mondiale in rada a Santa Margherita
Nell'estate 1939 il cacciatorpediniere prese parte alle operazioni per l’occupazione dell’Albania. Nel corso dello stesso anno l'Ostro fu dislocato a Taranto. Oltre che in Albania, poco prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale l'unità operò anche in Africa settentrionale.
Alla data dell'ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, il 10 giugno 1940, l'Ostro aveva base a Taranto ed apparteneva alla II Squadriglia Cacciatorpediniere, di cui facevano parte i gemelli Espero, Borea e Zeffiro.
L'Ostro al traverso.
Nella serata del 27 giugno 1940, alle 22.45, l'Ostro (Capitano di corvetta Luigi Monterisi) partì da Taranto per la sua prima missione di guerra, ovvero il trasporto a Bengasi (secondo altre fonti a Tobruk, o a Tripoli, unitamente all’Espero (Capitano di Vascello Enrico Baroni, caposquadriglia) ed allo Zeffiro (Capitano di Corvetta Giovanni Dessy), di due batterie contraeree (o anticarro) della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale per un totale di 10 bocche da fuoco, 120 tonnellate di munizioni ed i relativi serventi, 162 camicie nere.
Intorno a mezzogiorno del 28 giugno le tre unità della II Squadriglia, che procedevano in linea di fila (Espero in testa, Zeffiro al centro ed Ostro in coda) furono avvistate una cinquantina di miglia ad ovest di Zante da due ricognitori Short Sunderland: ad intercettare il convoglio venne inviato il 7th Cruiser Squadron della Royal Navy, costituito dagli incrociatori leggeri Sydney, australiano, ed Orion, Liverpool, Neptune, e Gloucester, britannici, che avvistarono la formazione italiana intorno alle 18 (o alle 18.30) a sud di Malta ed un centinaio di miglia a nord di Tobruk, nonché 75 miglia ad ovest/sudovest da Capo Matapam. Alle 18.59 gli incrociatori britannici, non ancora notati dalle unità italiane, aprirono il fuoco da distanza compresa tra i 16.000 ed i 18.000 metri. La velocità superiore che in teoria i tre cacciatorpediniere italiani avrebbero dovuto avere era annullata dall'appesantimento rappresentato dal carico imbarcato. Il capitano di vascello Baroni, caposquadriglia, prese dunque la decisione di sacrificare la propria nave, l’Espero, nel tentativo di trattenere gli incrociatori inglesi, ordinando al contempo ad Ostro e Zeffiro di dirigere per Bengasi alla massima velocità, disimpegnandosi verso sudovest mentre l’Espero li avrebbe coperti con cortine fumogene: entrambi i cacciatorpediniere scamparono così alla distruzione e giunsero in porto indenni il giorno seguente, mentre l'Espero fu affondato dopo un impari combattimento.
Dopo aver raggiunto Bengasi, l'Ostro e lo Zeffiro proseguirono alla volta di Tobruk, dove giunsero il 1º luglio, ormeggiandosi quindi in rada. I due cacciatorpediniere avrebbero dovuto rinforzare i quattro gemelli della I Squadriglia (Euro, Turbine, Nembo, Aquilone) nelle operazioni di bombardamento delle installazioni militari britanniche nei pressi di Sollum, intese ad indebolire le difese britanniche in tale zona prima dell'offensiva italiana che si sarebbe dovuta tenere di lì a poco.
Il 5 luglio, durante un'incursione di aerosiluranti Fairey Swordfish, vennero affondati lo Zeffiro ed il piroscafo Manzoni e danneggiati gravemente il cacciatorpediniere Euro ed i piroscafi Liguria e Serenitas (l'Ostro, che si trovava ormeggiato nella medesima posizione alla boa C4, non era invece stato attaccato). Essendosi dissolta, con la perdita di Espero e Zeffiro, la II Squadriglia, l'Ostro venne aggregato alla I.
Il 19 luglio 1940 l'Ostro, al comando del capitano doi fregata Giuseppe Zarpellon, si trovava a Tobruk, ormeggiato alla boa C4, sul lato meridionale della baia, a proravia del gemello Aquilone ed a poppavia del gemello Nembo. A bordo del cacciatorpediniere, così come delle altre unità militari, vigevano i servizi di difesa e di sicurezza: le mitragliere da 40/39 e da 13,2 mm erano armate e pronte al fuoco, i locali presidiati e portelleria e porte stagne chiuse. Si trattava delle procedure regolamentari per gli attacchi aerei all'ormeggio. Il personale non necessario a tali servizi era stato trasferito sui piroscafi Sabbia e Liguria.
Alle 21.54 del 19 luglio la base libica fu messa in allarme in seguito all'arrivo di sei aerosiluranti Fairey Swordfish dell'824th Squadron della Fleet Air, Arm decollati da Sidi el Barrani: i velivoli erano stati inviati sulla base con lo specifico scopo di attaccare le navi ormeggiate in rada e giunsero sui cieli di Tobruk alle 22.30. Dopo aver dovuto compiere diversi passaggi sulla rada per evitare il forte tiro contraereo delle difese di terra, per localizzare i bersagli e per prepararsi ad attaccare, gli aerosiluranti passarono all'attacco verso l'1.30 del 20 luglio, mentre anche le navi all'ormeggio aprivano il fuoco con le rispettive armi contraeree. L’incrociatore corazzato San Giorgio aprì il fuoco verso sud con alzo molto ridotto, spostando celermente il tiro verso ovest, e sull'Ostro ci si rese conto che gli aerei attaccanti erano aerosiluranti. La prima nave ad essere silurata, all'1.32, fu il piroscafo Sereno, che affondò lentamente di poppa.
L'Ostro ed il gemello e sezionario Borea alla fonda nelle acque di Bardia, nella primavera del 1940.
Poco dopo l'Ostro avvistò tre aerei, che volavano a bassa quota ed in formazione serrata, provenienti dalla direzione della caserma per sommergibilisti: mentre i velivoli, arrivati sul porto, si separavano, il cacciatorpediniere aprì il fuoco contro di essi con 2 mitragliere da 40 mm ed una da 13,2 mm (quella di dritta, che sparò una cinquantina di colpi), ma all'1.34 uno degli Swordfish mise a segno il suo siluro: l'arma esplose all'altezza del deposito munizioni poppiero, che deflagrò in maniera devastante e provocò lo sbandamento e l'affondamento dell'Ostro in dieci minuti, all'1.44. Numerose schegge infuocate prodotte dalla deflagrazione furono lanciate anche sul Nembo (che si preparò soccorrere l'unità gemella, ma venne poco dopo a sua volta aerosilurato ed affondato) e sull'Aquilone, e il furioso incendio sviluppatosi a poppa dell'Ostro, un'alta fiammata rossastra, proseguì a lungo, illuminando il porto.
Le ricerche dei dispersi, iniziate prima ancora della conclusione dell'attacco, continuarono sino al mattino successivo. Tra l'equipaggio dell'Ostro si registrarono 42 vittime (due morti accertati e 40 dispersi tra cui due ufficiali) e 20 feriti (tra i quali il comandante Zarpellon). Ad evitare perdite ancora più pesanti contribuì il fatto che parte degli equipaggi dei cacciatorpediniere fossero stati alloggiati non a bordo delle rispettive unità, ma sul Sabbia e sul Liguria.
L’Ostro aveva svolto in tutto 8 missioni di guerra (3 di caccia antisommergibile, 3 di scorta e 2 di trasferimento), percorrendo complessivamente 2723 miglia. Le artiglierie dell'Ostro e del Nembo, rimosse dai relitti dei due cacciatorpediniere, vennero portate in postazioni di terra ed utilizzate nella difesa di Bardia.
LA STORIA DEL CATTARO
IL CATTARO AUTOAFFONDATO L’8 SETTEMBRE A SANTA MARGHERITA NON ERA L’ EX DALMACIJA, MA L’INCROCIATORE AUSILIARIO EX JUGOSLAVIJA
https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=293%3Acattaro&catid=36%3Astoria&Itemid=142
Carlo GATTI
Rapallo, 3 Giugno 2020
SCIOPERO !!!
SCIOPERO !!!
GENOVA - I transatlantici VULCANIA (sn) e SATURNIA (ds), con le insegne della Società ITALIA, sono ormeggiati a Ponte dei Mille.
La M/n VULCANIA in navigazione
Committente: Cosulich Line, Trieste.
Cantiere: Cantiere Navale Triestino (Cantieri Riuniti dell’Adriatico) di Monfalcone, Co. 161
Impostato: 30 gennaio 1926.
Varato: 18 dicembre 1926.
Viaggio inaugurale: 19 dicembre 1928.
Data fine: affondata nella baia di Kaohsiung il 20 luglio 1974.
Dati tecnici.
Lunghezza: 192,05 mt.
Larghezza: 24,31 mt.
Immersione: 7,46 mt.
Stazza lorda: 24.469 tsl.
Propulsione: due Diesel 8 cilindri Burmeister & Wain - CRDA (Fabbrica Macchine Sant'Andrea, Trieste); 24000 hp; due eliche.
Velocità di servizio: 19,25 nodi.
Velocità massima alle prove: 21,07 nodi.
Capacità d’imbarco: 1.665 passeggeri in quattro classi.
Prima classe: 370 passeggeri.
Seconda classe: 412 passeggeri.
Classe Turistica: 319 passeggeri.
Terza classe: 564 passeggeri.
Equipaggio: 510 persone.
LA M/N VULCANIA IN VERSIONE MILITARIZZATA/Nave ospedale
Nel 1942-’43, in accordo con le forze alleate iniziò il servizio di rimpatrio di civili internati (specialmente donne e bambini) e di soldati italiani feriti dall’Africa Orientale Italiana, con la protezione della Croce Rossa Internazionale.
Nel 1941 la guerra ormai rese il normale servizio di linea pericoloso ed inaffidabile e il Vulcania così come il Saturnia fu trasformato in modo da sostenere il nuovo servizio di trasporto truppe ed armi. Fu infatti requisito nel 1941 dallo Stato Italiano per svolgere i suoi nuovi servizi verso il nord Africa. Tra il 1942 e il 1943 l’Italia in accordo con gli alleati adibì il Vulcania al rimpatrio di civili e soldati feriti dall’africa orientale, e anch’esso prese parte allo stesso convoglio della nave gemella Saturnia.
I due transatlantici furono molto fortunati in quanto riuscirono entrambi a scampare al bombardamento di Trieste che come già detto affondò numerose navi nel porto. Ma la frenesia della guerra era ancora nel vivo e il Vulcania fu ancora una volta modificato e requisito dalla US Navy nel 1943 che non solo lo utilizzò per il trasporto di soldati tra l’America e l’Europa ma lo equipaggiò anche di armi di difesa antisommergibili e antiaerei. Fu inoltre noleggiato nel 1946 dalla compagnia America Export Line per il trasporto merci sulla rotta New York - Napoli - Alessandria d'Egitto, per poi tornare in mani italiane.
Alla fine del 1946 il Vulcania giunse a Genova dove la Società Italia lo fece ristrutturare totalmente e riallestire per tornare al servizio di trasporto di passeggeri. Il transatlantico riprese la navigazione nel luglio 1947 e dopo alcuni viaggi verso il sud America con partenza da Genova, il Vulcania tornò a prestare servizio sulla linea verso New York. Dopo numerosi viaggi il 5 aprile 1965 il transatlantico intraprese il suo ultimo viaggio sotto il nome di Vulcania in quanto al suo rientro in Italia fu venduto alla compagnia Siosa Grimaldi Line che lo rinominò Caribia. Il nuovo Caribia navigò fino al 1973 quando ormai vecchio e tecnologicamente obsoleto e superato fu radiato. Lo scafo fu trainato a Barcellona il 18 settembre 1973 da dove ebbe inizio il suo ultimo viaggio. Sempre a rimorchio, infatti, la nave fu portata a Kaoshiung, città dell’isola di Taiwan dove fu demolita definitivamente nel 1974.
Una bella fotografia della Vulcania vista dal ponte Lido di Prima classe dell'Andrea Doria nel 1954.
UNA SOSTA IMPREVISTA
Il 16 gennaio 1963 la nave passeggeri “VULCANIA”, a causa della fitta nebbia, incaglia nel Canale della Giudecca a Venezia. Dopo circa 12 ore viene disincagliata da 4 rimorchiatori; non subisce danni, ormeggia e prosegue il viaggio, con molti scali, diretta a New York.
Arriva la “calda” estate del 1963. Lo scrivente é tuttora imbarcato sulla M/n VULCANIA in placida navigazione da Halifax (Canada) verso New York.
Improvvisamente quell’incanto s’interrompe! Via etere giunge a bordo uno “strano” telegramma: GIOVANNI HA PRESO LA LAUREA.
Il destinatario é un garzone di cucina (noto per essere un rappresentante sindacale).
L’implacabile e velocissima “radio-caruggio di bordo” sparge la notizia:
Quel telegramma é il segnale (convenzionale) che prelude alla dichiarazione di sciopero dell’equipaggio durante la sosta della nave a New York.
Cappella di bordo, é in corso la celebrazione della Messa domenicale. Da sinistra in prima fila: Allievo Ufficiale (A) Carlo Gatti, il 1° Ufficiale Claudio Cosulich, il Commissario Governativo, il Comandante Giovanni Peranovich e il Direttore di macchina.
Di quei giorni ricordo ancora l’incredulità e la profonda delusione dei Comandanti in 1a ed in 2a della VULCANIA, entrambi originari di Lussimpiccolo (l’isola che nel 1947 passò alla Jugoslavia) i quali erano noti per il loro autoritarismo e senso della disciplina. Ero molto giovane e non saprei dire fino a che punto fosse esatta quella valutazione; ricordo che entrambi questi valenti uomini di mare avevano un piglio molto militaresco e, per dovere di cronaca, aggiungo che erano considerati, da tutti gli ufficiali di bordo, dei “veri marinai” con un passato bellico di tutto rispetto.
I due Allievi di coperta De Privitellio e Gatti all’arrivo al pier 84 di New York
MANOVRA DI PARTENZA
DA NEW YORK
Sta per iniziare il viaggio di rientro in Italia
Il Comandante ordina via interfonico: “equipaggio ai posti di manovra”. Quando gli Ufficiali di Coperta giungono a prora e a poppa per iniziare la manovra di disormeggio, i posti sono presidiati non solo dai marinai solitamente addetti a quella mansione, ma anche da camerieri, cuochi, infermieri ecc…
Il Comandante ordina al 1° Ufficiale di prora di rimanere su due cavi alla lunga, un traversino e uno spring. Il 1° ufficiale ripete l’ordine al nostromo che lo trasmette ai marinai; questi rispondono incrociando beffardamente le braccia. Stessa scena a poppa.
Gli ufficiali responsabili della manovra chiamano il Ponte di Comando:
“PONTE DA PRORA” – “PONTE DA POPPA”
“L’equipaggio non risponde agli ordini”
Un silenzio irreale inonda la nave da prora a poppa attraversando tutti i locali e i ponti dall’alto verso il basso. I passeggeri consapevoli dell’anomala situazione, osservano in trepidante attesa lo svolgersi di una manovra che non inizia mai, lo scenario é disegnato da sottili fili in tensione che minacciano lo strappo da un istante all’altro …
Poi tutto prosegue come durante un’esercitazione di routine che termina quando il Comandante comunica: “Esercitazione terminata, tornate ai vostri posti!”
Questa, al contrario, non é una esercitazione, ma una manovra vera che abortisce con il secco RIFIUTO dell’equipaggio di eseguire gli ordini del Comando di bordo. L’insubordinazione é fin troppo evidente e documentata, ma é disciplinata, composta e comunque rispettosa verso gli ufficiali coinvolti nel fallimento della manovra. Nessuno dimostra alcun imbarazzo nel recitare il proprio copione. Anche il Comandante afferra immediatamente l’inutilità di quella sceneggiata e non ripete l’ordine una seconda volta per non esasperare gli animi e volgere in dramma una commedia già andata in scena altre volte…come vedremo!
Dal Ponte di Comando giunge l’ordine perentorio:
"Manovra terminata! I capi servizio si rechino sul Ponte di Comando!”
Ricordo le lamentele coperte da ingiurie da parte dei passeggeri verso l’equipaggio ed anche le discussioni tra gli stessi marinai che non sembravano tutti d’accordo sull’esito di quel viaggio interrotto, senza preavviso, in quel modo anomalo per quei tempi. Ma il fatto che più mi sorprese fu che i marinai CAPI STIVA, pur essendo tutti di Lussimpiccolo e uomini di fiducia del Comandante, furono i più convinti e decisi tra gli scioperanti…
Credo che per il Comandante, vicinissimo ormai alla pensione, quello fu il giorno più triste della sua carriera: la delusione fu MASSIMA, si sentiva tradito… non tanto dai sindacati di terra ma dai suoi uomini che l’avevano sempre fedelmente seguito.
Non ricordo esattamente quanto durò lo sciopero, credo qualche giorno, perché l’America di quegli Anni non era terra di rivolte col “marchio comunista” che era detestato e contrastato aspramente… da tutti gli strati sociali USA.
Le parti trovarono ben presto un accordo provvisorio per cambiare “teatro” e per proseguire le lotte sindacali in Italia dove la sensibilità verso le tematiche sindacali legate ai Lavoratori sul Mare, era senza dubbio molto sentita.
In quei primi Anni ‘60 le navi passeggeri di Linea della FINMARE erano molto “amate” perché erano legate alla nostra emigrazione che si svolgeva ancora nei due flussi di andata e ritorno con le Americhe, e lo erano soprattutto lungo le coste italiane da dove provenivano tradizionalmente gli equipaggi imbarcati, per cui le “agitazioni sindacali” avevano una forte “cassa di risonanza” sia nel mondo marittimo statale che in quello privato.
UN PO’ DI STORIA….
Genova. Lo sciopero del ’59. Tutti fermi al primo approdo!
È una delle pagine memorabili della storia sindacale dei lavoratori del mare. Lo sciopero iniziato l’8 giugno 1959 durò quaranta giorni e coinvolse 118 equipaggi in tutto il mondo. A Genova i pensionati oggi raccontano quella storia nelle scuole ai giovani studenti.
Lo sciopero dei marittimi italiani più lungo e grande della storia durò quaranta giorni e arrivò, al suo culmine, a coinvolgere 118 navi ferme nei porti di mezzo mondo. L’ordine di incrociare le braccia partì da Genova in gran segreto la sera del 18 maggio 1959. I militanti della Film Cgil, l’allora federazione dei marittimi del capoluogo ligure, lo ricevettero in codice, lo stesso che veniva usato nella Resistenza. Il linguaggio cifrato era noto agli uomini degli equipaggi che avevano militato nella lotta armata al nazifascismo, ma sconosciuto agli armatori che non riuscirono a intercettarlo e ad attuare così le contromosse.
Quella primavera del 1959 stava lasciando lentamente il posto a un’estate che si annunciava rovente. A bordo delle navi le condizioni dei marittimi erano durissime, con turni massacranti di quattordici, e a volte anche diciotto ore al giorno, pessimo vitto, alloggi fatiscenti, nessuno straordinario riconosciuto. L’ultimo contratto del settore risaliva al 1931. I grandi armatori di allora – Costa, Lauro, Fassio – in mare erano veri e propri dominus assoluti, e si sentivano ben rappresentati dal governo in carica guidato da Antonio Segni, espressione della destra democristiana e futuro presidente della Repubblica.
Per gli appassionati di storia sindacale, riporto un DOCUMENTO significativo di quel periodo di lotte che modificarono i rapporti tra gli armatori e le varie categorie della “gente di mare” imbarcata, per cui nacquero i contratti di lavoro che avevano il diritto di essere appesi e consultati nelle salette di tutti le categorie: Ufficiali, Sottoufficiali e Comuni delle varie sezioni, Coperta, Macchina e Camera.
Il 1959 vide le navi passeggeri di bandiera italiana impegnate in prima linea nella lotta aspra contro gli Armamenti Statali e Privati che precedette e mise le fondamenta per le ulteriori rivendicazioni sindacali e relativi scioperi di cui é oggetto la mia testimonianza sopra riportata.
Di quell’anno 1959, così raccontavano a bordo della VULCANIA nel 1963:
“… gli equipaggi delle navi italiane furono abbandonati a sé stessi per 40 giorni, sopravvissero trovando ospitalità presso lontani parenti immigrati e amici degli amici… ma soprattutto trovarono cibo, assistenza, solidarietà e conforto spirituale presso i conventi francescani e benedettini delle grandi città dell’Argentina e Brasile…!” Quel fatto memorabile é riportato anche nello scritto che segue.
da Storia. R. Minotauro. Il compagno genovese Giordano Bruschi, racconta di sé, del Compagno Segretario Generale della Film Cgil Renzo CIARDINI e dello sciopero dei Lavoratori del Mare del 1959.
GIORDANO BRUSCHI già Segretario nazionale FILM CGIL
Questa è una storia che mi ha sempre visto a fianco al compagno ricordato in tutti gli interventi di oggi: Ciardini. Chiederei alla Fondazione di Vittorio di fare la ricerca su quello che ha significato, tra gli anni quarantacinque e cinquanta, l’attività dei Consigli di Gestione nel nostro paese. Renzo Ciardini nel 1946 venne a Genova dalla sua Livorno e diventò il coordinatore regionale dei Consigli di Gestione: a Milano c’era l’ingegner Leonardi e a Napoli protagonista dei Consigli di gestione un certo Giorgio Napolitano, diventato poi Presidente della Repubblica. Ci fu un tentativo nel dopoguerra di fare assumere alla classe operaia un ruolo nazionale, un ruolo dirigente come lo fu politicamente nella Resistenza. La resistenza è stata un fatto nuovo perché l’immensa partecipazione popolare ha tolto alle vecchie classi dirigenti l’esclusività delle scelte politiche e nel dopoguerra, il mio incontro con Ciardini fu proprio alla San Giorgio una delle grandi fabbriche genovesi.
Era il 1947 quando egli venne a costituire il Consiglio di gestione di una fabbrica che doveva essere riconvertita da produzione bellica a produzione di pace; la stessa sorte che toccò all’ILVA e all’Ansaldo. Ciardini mi chiese di entrare nel Consiglio di gestione della San Giorgio. Fu la nostra prima collaborazione. Io vi entrai all’età di 24 anni; i nostri ispiratori e maestri furono due personaggi della Cgil Vittorio Foa e Bruno Trentin. C’è sempre stato questo filo di continuità che noi applicammo nella vertenza della San Giorgio a cui ci tocco’ di partecipare. Lui venne a fare una assemblea, era un ironico toscano, quando raccontava di Borgo Cappuccini del filone anarchico. I livornesi sanno di cosa si tratta. Venne in questa assemblea a fare una proposta: frigoriferi e lavatrici al posto dei cannoni. Genova dovrebbe ricordare queste vicende e i personaggi come Franco Antolini, che era il dirigente ispiratore dei consigli di gestione, un grande economista, consigliere comunale e provinciale scomparso purtroppo il 4 luglio 1959 nel pieno della lotta dei marittimi. Genova ha avuto un gruppo dirigente politico di stampo burocratico ma anche una serie di compagni che hanno anticipato i tempi.
Questo discorso serve a capire perché nel 1959 i marittimi ebbero questa capacità di ribellione per le ingiustizie subite, che era contemporaneamente accompagnato da una proposta nuova. Vorrei che si ripubblicasse un libro scritto da Renzo Ciardini: “Un sindacato di classe dei lavoratori del mare italiani”; si tratta della relazione del congresso costitutivo del 3 aprile 1959 con una impostazione di una politica sindacale unitaria della Cgil Porti, flotta e cantieri questa è stata la costante della nostra azione, non la difesa della categoria ma una visione generale di un settore fondamentale, Genova sa quanto patisce oggi la mancanza di una politica economica di questo tipo. L’esperienza dei consigli di gestione è stata determinante per tutta una serie di compagni dell’Ansaldo, dell’Ansaldo San Giorgio perché ci siamo formati con questa idea che noi dovevamo esprimere sia le rivendicazioni immediate dei lavoratori ma anche le prospettive di un’altra società.
C’è insomma un periodo di storia che andrebbe ancora approfondito. Ciardini nel 1958 si ricordava di me, delle lotte della san Giorgio. Quando Di Vittorio, che era il più ostile nella Cgil alla fondazione del sindacato dei marittimi della Cgil (aveva una passione storica per Capitan Giulietti in quanto erano stati insieme nel sindacalismo nazionalista con Corridoni nel 1910 – 1915) Di Vittorio aveva questa ossessione dell’unità e diceva che la Film è l’unica categoria italiana non ancora divisa, potrebbe essere il nucleo di una nuova unità sindacale. Ma poi Rinaldo Scheda, Fernando Santi, Brodolini, che furono gli amici che ci aiutarono moltissimo nel primo congresso, lo convinsero che dopo la morte di Giulietti, nel marasma, il disastro, l’abbandono dei lavoratori, la Cgil doveva innalzare la sua bandiera anche sulle navi. Ciardini mi disse “abbiamo fatto tante cose insieme, vuoi tentate l’avventura dei marittimi?”.
Allora eravamo molto obbedienti, venivamo tutti da militanza di partito, non era facile però per un metalmeccanico come me, ma anche come Ciardini, entrare in una categoria assolutamente nuova, diversa come quella dei marittimi. Le vertenze sindacali possono nascere anche in modo strani. In quel periodo facevamo i viaggi a Roma. Non usava l’aereo per i dirigenti sindacali. Andavamo in macchina; Ciardini era un bravo guidatore e ricordo che mi pose, andando al Direttivo della Cgil, se con la mia esperienza di lotte sindacali potevo affrontare due problemi cruciali: primo, lo sciopero all’estero, io non ci avevo mai pensato; nessuno di noi aveva mai pensato ad una iniziativa del genere. Fermare le navi nei porti stranieri?
Lungo i tornanti del Bracco, in quel famoso viaggio in macchina, arrivammo ad una soluzione: io mi ricordo sempre delle mie esperienze della Resistenza, rammentavo i famosi me
ssaggi in codice. A bordo c’era la censura e l’autoritarismo. Sulle navi c’era la galera perché il comandante poteva mettere in galera il marittimo disubbidiente. Dico questo per ricordare il clima in cui eravamo. Il comandante aveva il diritto di leggere prima tutte le lettere, la Corrispondenza che arrivavano ai lavoratori. Abbiamo così ripetuto la storia dello sbarco in Normandia, cioè ci inventavamo i messaggi, esempio “Giovanni ha vinto il concorso”. Il comandante si complimentava con il marittimo, bravo hai trovato il posto di lavoro per tuo figlio e invece era l’ordine di sciopero; perché il “fermi al primo approdo” era quello.
Oggi anche Antonio Gibelli dalle pagine del Secolo XIX racconta molto bene quei fatti: come è possibile che contemporaneamente in tutti i porti del mondo da New York a Dakar le navi si fermassero? Abbiamo messo sulle spalle di quei lavoratori un peso enorme: hanno dovuto combattere con i consoli, con gli ambasciatori, con la polizia. Pensare ad uno sciopero della Bianca C. di 5 giorni nel Porto di Barcellona con il Presidente Segni che telefonava a Francisco Franco e diceva “tagliate i cavi”, questo sciopero non s’ha da fare, era come un novello Don Rodrigo italiano.
È stata, ed è la cronaca che lo dice, una cronaca eccezionale. La seconda cosa che mi chiese Renzo fu: “se vogliamo vincere la battaglia dobbiamo colpire Costa. Devi trovare il modo di fermare le navi di Costa”. Non ce l’avremmo fatta se non ci avesse aiutato Angelo Costa. L’unica cosa che mi sono sentito di fare è stata la comunicazione. Ho stampato un giornaletto, famoso, era il “lavoratore del mare” fondato da Giuseppe Giulietti. Sul giornale c’era una parte dedicata a una inchiesta: l’inchiesta di una nave di Costa, vecchia senza più ammortamenti la Anna C., e il giornale diceva ai marittimi perché bisognava fare il contratto per avere migliori condizioni di lavoro. Angelo Costa si arrabbiò Moltissimo e fece una cosa che forse oggi non ripeterebbe più: prese il giornale della Film Cgil ne ristampò 6 mila copie e lo inviò non solo sui bordi ma lo mandò anche nelle case tra i famigliari dei marittimi perché c’era il convincimento, c’è ancora oggi in qualche grande imprenditore, io sono il Dio, ti do il lavoro e tu devi fare quello che dico io; allora c’era questa concezione paternalistica dell’aiuto che il padrone dava al lavoratore, il quale doveva ringraziare il proprio datore di lavoro.
Quello che non eravamo riusciti a fare e cioè dare il giornale a tutti i marittimi, lo fece l’armatore. E poi mi domandò una volta: “ma perché hanno scioperato proprio le navi?”. Sulla Federico C. avevamo 10 iscritti su 290 marittimi non avevamo un iscritto sulla Bianca C. e nemmeno sulla Anna C. Ma se lei fa di queste diffusioni straordinarie, probabilmente i lavoratori capiscono da che parte bisogna muoversi. Da allora il binomio Ciardini-Costa ha funzionato. Costa voleva raggiungere un raccordo e i Fassio e i Lauro erano i più oltranzisti. Eravamo a metà di luglio, era una estate torrida. Eravamo al 37esimo giorno di sciopero e Ciardini convocò, il direttivo: bisognava trovare una mediazione, un compromesso. Non potevamo andare ad oltranza.
Convenimmo che non era fondamentale, anche se ci aspiravamo molto, l’aumento salariale. Quello che contava era la prosecuzione della lotta nei nuovi rapporti di forza e allora la cosa che sorprese Costa, sorprese anche i Ministri. Ciardini si rese disponibile a firmare un contratto solo con una clausola che non ci sarebbero state rappresaglie sindacali. Lauro Achille disse subito di no, però Costa alla fine lo convinse. Gli stava più a cuore il livello salariale. Scalfari sull’Espresso disse che la vertenza si era rivelata una catastrofe per i lavoratori: fu ottenuto solo l’1% in più dopo 40 giorni di sciopero.
Però la verità venne subito a galla. All’arrivo a Genova la famiglia Costa prese una posizione dura cancellando, licenziando 115 marittimi della Anna C., la nave che si era fermata in Spagna a Las Palmas, Costa si giustificava con le motivazioni di oggi. Si trattava di contratti a viaggio. È finito il viaggio, non c’è rappresaglia sindacale, tutto va secondo le regole normali. Angelo Costa accettò di ascoltarci. Per noi era una cosa tremenda perché aver fatto uno sciopero di quel genere e trovarsi sulle spalle questi licenziamenti significava la sconfitta vera della vertenza. Il fatto quale era? C’era la precarietà. Nei marittimi come succede oggi in tante categorie di lavoratori, c’era la precarietà: ecco l’attualità della vertenza di allora, dei valori che oggi la Cgil con Epifani sa difendere. Insomma andammo da Costa con la documentazione: questi marittimi infatti da 10/15 anni si imbarcano sempre sulle sue navi. Ci fu un conflitto in famiglia. La domanda che facemmo a Costa era questa: “Peppino Di Vittorio ci ha raccontato che quando lei firma un accordo, lo rispetta sempre perché è un uomo corretto e leale” e lui rispose immediatamente “io sono sempre lo stesso uomo descritto da Giuseppe Di Vittorio”.
Alla vigilia del ferragosto del 1959 c’era Graziella Torrini la segretaria del sindacato che riceve una telefonata “Giordano, c’è Angelo Costa al telefono”. Ci comunicò che aveva deciso di reintegrare i marittimi cancellati dal turno e di riscriverli a turno. Ecco la svolta di quella vertenza, la vittoria del sindacato, il cambiamento dei rapporti che c’erano tra il padrone del vapore, come li descriveva Scalfari, e i disperati dei porti, come li descriveva Vittorio Emiliani. Costa chiese un incontro con Ciardini. E da allora per 17 anni c’è sempre stato un patto di consultazione, ognuno difendendo le proprie posizioni però nel rispetto reciproco e questo è stato il grande cambiamento.
Ci abbiamo messo 17 anni; però il programma del Congresso Cgil del ’59 l’abbiamo realizzato. Abbiamo realizzato la riconversione, non abbiamo avuto timore di mettere ai voti il disarmo della Michelangelo, l’ho fatta io l’assemblea a Gibilterra conclusa con 665 voti a favore, 5 contrari, 6 astenuti. Avevamo trovato una soluzione generale complessiva e cioè la continuità del rapporto di lavoro, la conquista storica con la quale cessava ufficialmente la precarietà e i lavoratori anche durante il periodo di attesa imbarco i lavoratori percepivano il salario. Oggi possono sembrare utopie, sogni.
Abbiamo ottenuto l’ordinazione di 65 navi ai cantieri. Fu la grande operazione di una riconversione mai più verificatasi. Pensate, alle navi container, ai traghetti e all’attività delle crociere. Avevamo indicato una nuova prospettiva nazionale di prosperità per il porto e per le città marinare. Poi le cose sono andate come sono andate, perché le aziende pubbliche, la Finmare l’Iri non sono state in grado di realizzare quello che i marittimi, con quella nostra vertenza, avevano creato. Quella con Ciardini era una grande squadra. A me piace tanto la canzone che parla dei mediani, perché ci sono nelle squadre le punte che fanno goal però se non gli passano i palloni buoni. Noi a Ciardini abbiamo passato tanti palloni buoni.
Ricordo i marittimi Sironi e Carotenuto, che vanno a Karadu davanti all’ambasciatore e ascoltano gli articoli del codice della navigazione che proibisce lo sciopero. Questi operai dal taschino tirano fuori
la Costituzione della Repubblica Italiana e all’ambasciatore leggono l’articolo 39 che garantisce il diritto di sciopero. Questi sono stati alcuni degli straordinari protagonisti di quelle lotte; così a New York i compagni del Vulcania, del Giulio Cesare riuscirono ad arrivare sino ad a Eisenhower Presidente degli Stati Uniti. La Società Italia aveva mandato a New York un vecchio rottame fascista per chiedere dopo 29 giorni, l’applicazione della legge per l’immigrazione che stabiliva che le navi andavano allontanate. I compagni, i fratelli di Brooklyn ottennero un decreto speciale per salvaguardare il diritto di sciopero dei marittimi italiani. Sono cose che ai giovani andrebbero raccontate. A Dakar c’erano due navi. Il Conte Grande e Conte Biancamano. Noi li tenevamo sorretti da continue telefonate, ma erano soli laggiù. Eppure hanno resistito per 40 giorni. Pensate a cosa è stata questa battaglia, il valore che ha ancora oggi. Così come sono ancora attuali le nostre proposte: abbiamo detto nel ’59 di seguire anche per Genova l’esempio di Rotterdam, di Anversa per l’autofinanziamento dei porti attraverso le entrate fiscali che derivano dal traffico marittimo. Purtroppo siamo ancora dopo cinquanta anni ai tentativi di ottenere questo riconoscimento. Ringrazio profondamente la Fondazione Di Vittorio, i relatori che ci hanno reso più meriti di quelli che forse meritiamo. Mi auguro che a questa iniziativa ne seguano altre. Questi valori di lotta di cinquanta anni fa sono attuali. Non è retorica: veramente questi compagni marittimi, questa squadra di mediani, ha realizzato un pezzo di storia del nostro Paese.
Carlo GATTI
Rapallo, 27 Febbraio 2020
AQUILEIA ROMANA - 2a Parte - IL PORTO
LA STORIA DEL PORTO DI AQUILEIA
Emporio Cosmopolita dell'Impero Romano
AQUILEIA Romana rivestiva una posizione geografica assolutamente strategica nella difesa dell’Impero che era già all’epoca della sua fondazione minacciata ad Est da popolazioni barbariche che minacciavano i suoi confini.
Situata nell’attuale Friuli-Venezia Giulia, Aquileia è stata per molti secoli centro nevralgico dell'Impero Romano nel mediterraneo, centro politico-amministrativo e capitale della X Regione augustea, Venetia et Histria, nonché prospero scalo e ricco emporio di merci in transito. Aquileia può essere considerata uno dei più importanti siti archeologici dell’Italia Settentrionale, dal 1998 é patrimonio mondiale UNESCO.
Porto di Aquileia
A partire dal periodo immediatamente successivo alla fondazione della colonia romana nel 181 a. C. Aquileia svolse un ruolo fondamentale nei commerci marittimi dell’area del nord Adriatico.
Tuttavia, per due secoli circa, i rapporti commerciali coinvolsero soltanto la via marittima e una limitata parte dell’entroterra della città, in seguito i romani capirono ed attuarono un sistema viario di cui riportiamo qui sotto una cartina esplicativa di quanto l’Impero fosse strategicamente preparato a dominare vaste zone con la propria presenza e rapida mobilità.
Aquileia divenne quindi il CENTRO del sistema viario della regione per la sua posizione all’incrocio di più strade, tra cui le maggiori erano la via Postumia, la via Iulia Augusta e la via Gemina; era inoltre il punto di partenza delle strade che si diramavano verso il bacino danubiano e la via dell’ambra che giungeva dal mar Baltico.
RACCORDO CON NOME
LA VIA ANNIA
1. 1.PADOVA …………………………………….. La strada da Patavium a Bononia (Bologna).
2. 2.PADOVA …………………………………….. La Padova a Vicenza (Vicetia)
3. 3.PADOVA ………………………………………VIA AURELIA
4. 4.(Tra San Bruson e Marghera)…………………VIA POPOLLIA
5. 5.ALTINO ………………………………………. VIA CLAUDIA AUGUSTA
6. 6.CONCORDIA SAGITTARIA………..Bruson-Marghera nel punto mansio Maio Meduaco ad XII
7. 7.CONCORDIA SAGITTARIA………. Da Iulia Concordia-Aguntum e Vipiteno e Virinum
8. 8.AQUILEIA ………………………………….. Da Aquileia ad Aguntum (Lienz) e Vipitenum
9.AQUILEIA ………………………………….. Da Aquileia a Santico e Virunum (Klangefurt10.AQUILEIA ………………………………… La strada da Aquileia a Iulia Emona (Lubiana)
10.AQUILEIA…………………………………. Da Aquileia a Pola (via Flavia da Trieste a Pola)
Da Aquileia a Tarsatica (Fiume)
IL PORTO DI AQUILEIA: DATI ANTICHI E RITROVAMENTI RECENT!
NORD
SUD
Fig. I. Pianta generale di Aquileia con posizionamento dei siti citati nel testo (da BERTACCHI 1980a): I. banchina portuale (loc. Santo Stefano), 2. ponti; 3. scavo in concessione alla EFR; 4. decumano; 5. circo; 6. foro; 7. saggio 1989 nel Campo sportivo a cura della Soprintendenza; 8. porticato; 9. porto canale (scavo Brusin); 10. muro di controsponda del porto; 11. magazzini; 12. mura post-attilane; I3. teatro; I4. fiume Natissa; 15. terme; I6. anfiteatro; 17. horrea; I 8. mercati tardo-antichi; I 9. banchina del fondo Pasqualis (scavo Soprintendenza); 20. complesso basilicale.
PORTO FLUVIALE
Il bacino del porto era formato dalla confluenza di due corsi d’acqua, che si univano nella zona dell'attuale frazione di Monastero; è stato possibile stabilire ciò grazie al ritrovamento nella zona settentrionale di due ponti che segnalano il passaggio di due distinti corsi d'acqua destinati a confluire più a sud. Uno di questi era un fiume di risorgiva chiamato Roggia della Pila, l’altro aveva una portata maggiore perché riceveva le acque del Natisone e del Torre. Attualmente il Natisone non attraversa più la città, poiché confluisce nell'Isonzo; invece ciò che rimane del vecchio corso d'acqua è il fiume Natissa.
La rete di canali artificiali unita ai corsi fluviali presenti rese facile nell'antichità il collegamento con il mare e probabilmente consentì la circumnavigazione della città. Infatti su quasi tutti i lati sono state ritrovate delle strutture portuali collegate fra di loro; è incerta solamente la presenza di un percorso verso ovest.
Porto Fluviale, area archeologica di Aquileia. Foto di © Gianluca Baronchelli
Oggi il Natissa scorre placido e silenzioso, ma una volta era il ben più imponente fiume Natisone. Fu l’imperatore romano Giuliano a deviarne il corso. Il largo bacino del fiume, ampio circa 50 metri, destò l’interesse degli antichi romani che lo trasformarono in un approdo strategico di notevole rilevanza economica e militare per i loro traffici mercantili nel Mediterraneo e per lo spostamento delle proprie milizie attraverso l’Adriatico, visto il suo vicino sbocco al mare.
L’attuale livello dell’acqua si trova ad un livello più basso, ciò permette passeggiate lunghe e tranquille lungo gli antichi argini della Via Sacra ottenuta sullo sbancamento dell’alveo del fiume stesso.
Lo scenario ereditato dall’antichità permette al visitatore di immergersi in questa atmosfera ed immaginare lo svolgersi del lavoro portuale tra navi, banchine e magazzini: grano, olio, anfore e tessuti provenienti da ogni parte del mondo osservando in particolare le banchine con tutti i loro accessori, (anelli, bitte, scalette, iscrizioni su pietra ancora intatte) elementi che parlano della tecnica di un tempo che ha fatto da maestra alla tecnologia ancora oggi utilizzata nei porti moderni.
La cosiddetta banchina occidentale, in pietra d’Istria, é considerata la più importante perché conduce al Foro della città. Percorrendo questo tratto portuale ci s’imbatte nella zona che fu del mercato pubblico e in quei particolari edifici in mattone che erano utilizzati come magazzini per lo stivaggio delle merci in arrivo, in transito o in partenza. In questa direzione si giunge alla Basilica medievale.
Aquileia - La via Sacra
La VIA SACRA altro non é che un viale alberato lungo il fiume che é percorribile a piedi, una passeggiata archeologica posta nell’alveo del fiume e lunga circa un chilometro, che è stata creata con la terra di risulta degli scavi e lungo la quale sono stati collocati resti architettonici e monumentali provenienti dagli scavi delle mura e del foro.
Il viale ricalca l’andamento dell’antico corso d'acqua formato dalla confluenza del Natiso cum Turro, che in questo tratto aveva un letto largo m. 48. È oggi visibile il lato occidentale delle banchine del porto, con strutture che misurano 380 m di lunghezza.
Il molo è disegnato da due banchine, poste ad altezze diverse per ovviare ai dislivelli delle maree. La banchina superiore conserva la propria architettura d'ormeggio orizzontale e sporgente, quella inferiore evidenzia ormeggi verticali e incassati nei blocchi che rinforzavano la sponda.
Le strutture sono in pietra d'Istria, resistente all'azione corrosiva delle acque salmastre.
Sono ben visibili i magazzini di stoccaggio delle merci e il tratto iniziale delle strade lastricate perpendicolari alla riva che permettevano di trasportare i prodotti dalle banchine al Foro poco distante, dove venivano venduti.
Le strutture portuali mostrano anche tracce di difese militari, si suppone a motivo dell’invasione di Aquileia da parte di Massimino il Trace nel 238 d.C., mentre ulteriori cambiamenti risalgono all’assedio di Giuliano l’Apostata nel 361 d.C.
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Resti delle mura e dei magazzini sulla Via Sacra
Ecco come ci viene storicamente descritto l’evoluzione costruttiva in due fasi storiche diverse:
“Il porto fluviale fu completamente ristrutturato all’inizio del I secolo d.C., con un nuovo complesso di banchine e un lungo edificio retrostante, che si apriva verso il fiume. Tre rampe, oblique rispetto al prospetto delle banchine, consentivano il collegamento con la viabilità urbana. Ulteriori trasformazioni risalgono all’età di Costantino il Grande, pochi anni prima che alle banchine si sovrapponessero le nuove mura di cinta, decretando, assieme al restringimento dell’alveo, la progressiva defunzionalizzazione del porto”.
PORTO FLUVIALE Descrizione Tecnica
Banchine: erano costituite da un poderoso sistema di lastroni verticali di calcare sormontati da blocchi parallelepipedi a incastro, che costituivano il piano di carico e scarico superiore. A poco meno di due metri dalla sommità della banchina correva un largo marciapiede, che doveva servire alle attività di carico per imbarcazioni di piccola stazza. Dal livello inferiore si staccavano le rampe che si congiungevano alle strade urbane, in corrispondenza delle quali vi erano due ampi piani inclinati che permettevano di accedere ai retrostanti magazzini.
Una curiosità: sulla superficie dei marciapiedi, sono incisi talvolta dei piccoli schemi per il gioco, utilizzati dai marinai e degli addetti alle attività portuali come passatempo.
Anelli di ormeggio: ancora oggi possiamo notare sulle banchine, a distanze regolari, alcuni blocchi parallelepipedi sporgenti, in alcuni casi con l’estremità arrotondata, caratterizzati da un foro passante verticale. Secondo gli studiosi poteva trattarsi di anelli d’ormeggio per le imbarcazioni oppure di fori per l’inserimento di gru lignee per il carico e lo scarico delle merci. Sul piano di carico inferiore, esistevano invece dei blocchi con foro passante orizzontale, più piccoli dei precedenti, utilizzati per fissare le cime d’ormeggio dei navigli.
Resti delle mura: sopra le banchine si possono facilmente riconoscere i resti di una grossa struttura, spessa quasi tre metri sovrappostasi in età tardo-antica (IV secolo) alle strutture portuali. Il fiume, o ciò che rimaneva di esso, forniva così un ulteriore presidio alle difese murate, che erano dotate anche di torri. In una fase ancora successiva (V secolo?) fu costruita un’altra linea di mura di cinta a potenziamento della precedente, ancora più avanzata in ciò che rimaneva dell’alveo fluviale.
Le tre foto sopra mostrano una banchina lunga ed ampia molto ben conservata che ci offre una eloquente descrizione della portualità romana di quel tempo. Al porto fluviale lungo le sponde del Natissa confluivano le acque del fiume Torre e Natisone, con la banchina a doppio livello per essere usata da imbarcazioni di stazza diversa e per contenere il flusso delle maree. Largo 48 metri e lungo circa 350 era costruito con grandi blocchi di pietra d’Istria squadrati, con anelli per l’ormeggio delle navi.
Resti di magazzini: alle spalle della banchina portuale, si sviluppava un lunghissimo edificio, di cui restano i muri perimetrali in laterizio dei lati lunghi. In rapporto alla lunghezza, che superava addirittura i trecento metri, la larghezza era assai limitata, non più di tredici metri. Il complesso, costruito all’inizio del I secolo d.C. demolendo in parte le retrostanti mura di cinta repubblicane, serviva probabilmente come magazzino per lo stoccaggio delle merci, forse con annessi ambienti riservati ad uffici. Vi si accedeva da almeno due ingressi dotati di gradinata. È probabile che le rampe di collegamento con la città passassero sotto l’edificio. In tarda età costantiniana, gli spazi del grande edificio furono ulteriormente ampliati: ne sono testimonianza le fondazioni di pilastri che tuttora si possono riconoscere all’interno e all’esterno del perimetro originario.
Giungeva ad Aquileia ogni tipo di materiale e di viveri: legna, marmi, metalli, vino, olio, lana, spezie, bestiame e addirittura schiavi. Grazie all’edificazione del porto e alla sua posizione strategica, Aquileia si confermò come uno dei più grandi centri nevralgici dell’Impero Romano. Il ferro, che veniva importato dalle miniere del Norico, veniva poi lavorato ulteriormente nelle officine della città; la stessa cosa accadeva per il vetro che era poi esportato fin nelle regioni danubiane. Vi erano inoltre industrie che si occupavano della trasformazione del legname, proveniente dalle più diverse regioni dell’impero.
Un altro importante prodotto era la lana, che giungeva dai grandi pascoli dell’Istria interna e prima di essere esportata veniva lavorata nei vestiarii della città; sempre riguardo all’industria tessile, vi erano anche famose tintorie.
L’archeologo Giovanni Brusin
Grazie a studi recenti gli archeologi sono venuti a conoscenza del fatto che questo primo porto era più a occidente rispetto a quello attualmente visibile: ciò è dovuto allo spostamento del fiume verso est.
Il porto, scoperto nella parte orientale della città, ha un bacino che dista dal mare circa 10 chilometri; sono state ritrovate e scavate entrambe le sponde, ma quella occidentale, la più vicina alla città, ha rivelato di essere quella meglio attrezzata e perciò è quella ancora oggi visibile.
Aquileia - Porto fluviale
Il porto fluviale è stato scavato per la prima volta verso la fine dell’Ottocento da Enrico Maionica, poi l’opera è stata portata avanti da Giovanni Brusin negli anni Trenta.
La sistemazione del porto monumentale risale probabilmente alla fine del I secolo d. C. Giovanni Brusin l'aveva ipotizzato studiando i moduli dei mattoni, riferibili all'età di Claudio per la struttura e anche per la fama di questo imperatore in campo di impianti portuali (Porto di Claudio a Roma). Inoltre si può anche osservare che la parte settentrionale (abitata) fu abbandonata verso la fine del I secolo a. C. con l’inizio della grande impresa edilizia. Ancora non si sa se la costruzione della banchina orientale fu contemporanea a quella occidentale. Sono in corso studi e convegni per dare risposte a questo ed altri importanti quesiti. Ma si sa, l’archeologia non ha premura!
Porto fluviale - Banchina occidentale
La banchina della sponda occidentale del porto è lunga 380 metri ed è costituita da lastre verticali in pietra d’Istria. Vi è un primo piano di carico sovrapposto a questi lastroni e composto da blocchi con grandi anelli di ormeggio a foro passante verticale che abbiamo visto nella foto; il secondo piano di carico, che si trova circa 2 metri più in basso, è costituito da un marciapiede lastricato largo circa 2 metri e fornito anch’esso di anelli di ormeggio a foro passante orizzontale. Il fatto di avere due diversi piani di carico rendeva possibile sia che fossero accolte imbarcazioni di stazza grande o piccola, ma é più probabile che il porto venisse utilizzato anche nei periodi di bassa marea.
“Dalla banchina partono tre vie di accesso alla città che conducono ognuna ad un diverso decumano: l’accesso posto più a sud è costituito da una gradinata, mentre gli altri due sono strade lastricate in pendio (questo perché l'angolazione delle vie con la linea del porto non permettesse la salita dell'acqua in caso di piena del fiume); queste ultime due strade sono dotate di coppie di rampe perpendicolari che conducono ai magazzini”.
Aquileia - La riva orientale del porto
La riva orientale è stata scavata per un breve periodo negli anni Trenta e ne sono stati riportati alla luce poco più di 150 metri, anche perché ad un certo punto la struttura sembra interrompersi brutalmente. La banchina è molto stretta e composta da parallelepipedi di pietra, vi si notano solo quattro scalinate inserite nel muro e alcune pietre di ormeggio; dietro sono situati degli edifici, possibili magazzini o uffici.
Analizzando le diversità di struttura tra le due banchine, Brusin è giunto alla conclusione che quella occidentale sia anteriore; bisogna anche notare che la banchina orientale si trovava in una zona suburbana, mentre quella occidentale era più vicina al foro e al centro della città così da necessitare forse di un aspetto monumentale. Il porto ha subito nel tempo diverse modifiche che dimostrano la vitalità del centro e anche i molti sforzi per adeguarsi agli avvenimenti storici del tempo.
Le prime opere di difesa, che sono state realizzate sulla banchina occidentale, risalgono quasi sicuramente al 238, anno del bellum aquileiese, e riflettono la crisi politica e militare del tempo; in seguito queste strutture hanno anche influito sulla costruzione dei magazzini retrostanti.
Probabilmente nel 361, quando la città si schierò con Costanzo II e fu assediata da Giuliano l’Apostata, il fiume fu deviato per motivi strategici e di conseguenza la portata d’acqua diminuì. Queste opere provocarono poi un’alluvione, che fu la causa dell’abbandono del quartiere orientale. In epoca tardo-antica, verso la fine del IV secolo, furono realizzate altre opere difensive e di queste mura è stato ritrovato il lato orientale sulla banchina; si pensa che queste fortificazioni siano state costruite in grande fretta, anche perché i materiali utilizzati sono stati quelli recuperati da altre strutture (trabeazioni marmoree, iscrizioni votive e onorarie, colonne, ...).
L’intero porto fluviale, anche in seguito alle numerose invasioni barbariche (quella di Alarico nel 410, di Attila nel 452, di Teodorico nel 489 e infine dei Longobardi nel 568) e alle lotte dei pretendenti per il trono di Roma, fu così trasformato in una pura opera difensiva.
Aquileia - Scavi al porto
Analizzando il periodo che va dal IV al VI secolo d. C., si può osservare che Aquileia era il porto principale dell'alto Adriatico all'inizio, mentre sembra essere del tutto scomparso alla fine di quest'epoca.
Sono molte le testimonianze letterarie riguardanti il IV secolo e tutte tendono a sottolineare la grande vitalità di Aquileia, soprattutto per il suo ruolo commerciale: punto di partenza dei grandi itinerari marittimi e centro di esportazione di molti prodotti. Erano molto importanti e frequenti i rapporti con l'oriente, anche perché nella città vi erano comunità orientali molto dinamiche che erano ancora presenti nel V secolo.
Tuttavia già verso la fine del IV secolo il ruolo di Aquileia sembra essere cambiato: alcune grandi importazioni, come quelle di grano, scompaiono dalla città in favore di altri centri; continua invece il commercio di beni di lusso. Altri elementi che testimoniano l'evoluzione funzionale del porto di Aquileia sono episodi militari che caratterizzano la storia della città: infatti questa struttura assume uno scopo difensivo a scapito delle attività portuali poiché viene riempita progressivamente con le mura.
A partire dal VI secolo Aquileia e il suo porto cominciano a non essere più citati nelle opere letterarie, perché Grado, Venezia e Ravenna assunsero probabilmente sempre più importanza come scali marittimi.
A sud della città antica, nel tratto in cui il fiume Natissa scorre da est verso ovest, è stato ritrovato un complesso che è stato riconosciuto come il mercato pubblico; studiando il materiale usato e la sua struttura, si pensa che sia stato attivo per moltissimo tempo, dall’inizio dell’età imperiale fino a quella tardo-antica.
Ecco com'era l'antica Aquileia
FORO
Bibliografia:
Aquileia e il suo territorio agli albori del II Secolo a.C. Maselli Scotti
Studio Archeo Antico - Carre- Maselli - Scotti
Aquileia sulle tracce dell'Impero
Aquileia Porto fluviale.webarchive
Aquileia Romano Impero
Dalla via Annia verso le altre direzioni
Strutture portuali- "Antichità Altoadriatiche" Maselli Scotti, P.Ventura
Carlo GATTI
Rapallo, 18 Febbraio 2020
AQUILEIA ROMANA -1a Parte
AQUILEIA ROMANA – STORIA – FORO ROMANO – BASILICA – MOSAICI - MUSEO
Aquileia può essere considerata uno dei più importanti siti archeologici dell’Italia Settentrionale, dal 1998 patrimonio mondiale UNESCO.
Importante città militare di frontiera fin dall’epoca repubblicana, divenne una delle capitali dell’Impero romano sotto Massimiano. Nel 148 a.C. da Aquileia ebbe inizio la costruzione della via Postumia che congiungeva l'Adriatico con il Tirreno presso Genova. La strada era una via consolare romana fatta costruire dal console romano Postumio Albino nei territori della Gallia Cisalpina, l'odierna Pianura Padana, per scopi prevalentemente militari.
Nel 452 d.C. fu infine distrutta dalle orde degli Unni di Attila, non tornando mai più agli antichi splendori.
IMPERIUM
Aquileia romana, situata nell’attuale Friuli-Venezia Giulia, è stata per molti anni centro nevralgico dell'Impero Romano nel mediterraneo, centro politico-amministrativo e capitale della X Regione augustea, Venetia et Histria. Aquileia fu fondata nel 181 a.C. nei pressi del fiume Natisa, come colonia da parte dei triumviri romani Lucio Acidino, Publio Scipione e Gaio Flaminio che erano incaricati di sbarrare la strada ai barbari confinati, (Carni e Istri) che minacciavano i confini orientali d’Italia. Al seguito dei triumviri si spostarono circa 3.500 fanti come coloni con le loro famiglie.
Provenivano dal Sannio e con le loro famiglie raggiungevano circa 20.000 persone.
CAPITOLIUM
UN PO’ DI STORIA
Nell’89 a. C. la colonia di Aquileia divenne municipio, si espanse notevolmente e si chiuse entro massicce cinte murarie diventando sempre più ricca e sicura.
Per la verità, la sua rilevanza politica va attribuita alla costruzione del porto fluviale, con il quale la città acquistò importanza come emporio commerciale diventando “oggetto del desiderio” da parte dei popoli barbari che si ammassavano alle frontiere (limes) per entrarne in possesso.
Lo stesso imperatore Augusto si recava spesso ad Aquileia con la moglie Livia che amava bere il vino Pucino che aveva la fama di garante di longevità. Secondo Plinio, l’imperatrice ne beveva tutti i giorni e proprio per questo motivo sarebbe vissuta fino ad 87 anni (età straordinaria per l’epoca).
Aquileia conobbe anche anni difficili. Il periodo compreso tra il 165 ed il 189 d. C. fu contrassegnato da una violenta pestilenza che in tutto l’Impero portò alla morte 5 milioni di persone (cifra discordante e mai confermata). Con ogni probabilità la pestilenza venne portata dai legionari romani che per ragioni militari orbitavano intorno a quella regione.
Nella primavera del 168 d.C., nel pieno della pestilenza, Marco Aurelio e suo fratello Lucio Vero decisero di invadere Carnuntum (si trova a circa 40 km da nell’odierna Vienna). Aquileia divenne fondamentale nella vicenda, poiché era tappa intermedia della spedizione romana.
Durante l’inverno successivo, Marco Aurelio, ritiratosi temporaneamente dal fronte di battaglia, decise di ritirarsi ad Aquileia. Qualche settimana dopo fu però costretto ad abbandonare la zona insieme a suo fratello d’adozione Lucio Vero e alla sua scorta personale a causa dell’aumento dell’epidemia di peste. La morte per Vero giunse poco dopo la fine delle ostilità, agli inizi del 169, secondo alcune fonti a seguito di un ictus, a non molta distanza da Aquileia, nei pressi di Altino. Autori moderni sostengono invece che il decesso fu forse causato dalla stessa peste, mentre era impegnato in nuove manovre militari lungo il fronte settentrionale.
Aquileia, come si é visto, fu più volte soggetta a tentativi di conquista. Fu costretta infatti a difendersi dagli attacchi dei Marcomanni e dei Quadi, entrambi respinti con successo.
Aquileia fu anche teatro di una battaglia tra romani…
Massimino il Trace, sceso dalla Pannonia, tentò di assediarla, poiché infuriato per l’elezione del tredicenne Gordiano a imperatore. Nella primavera del 238 d. C., Massimino tentò di sostare ad Aquileia con il suo esercito per riposare e fare approvvigionamenti. La città, però, era fedele a Roma e alle disposizioni del suo Senato, quindi chiuse le porte, negando sostegno a Massimino. L’invasore cercò a quel punto di conquistare la città. Sebbene il numero degli invasori fosse superiore a quello degli aquileiesi, l’assedio risultò difficile e di lunga durata a causa della penuria dei viveri, che causò l’ostilità delle truppe. Protagonista della difesa di Aquileia fu il senatore Rutilio Pudente Crispino che, incaricato dal Senato, arringò la popolazione di Aquileia contro Massimino. La resistenza della città durò fino a quando le truppe di Massimino, stanche dal protrarsi della battaglia, non si ribellarono, uccidendo il loro comandante e suo figlio Massimo.
Con l’imperatore Massimiano, eletto nel 286 d. C. come Augusto d’Occidente, furono edificate imponenti strutture e la città fu dotata di una flotta.
Gli anni immediatamente successivi alle opere di Massimiano furono caratterizzati da una profonda crisi sociale ed economica, che prestò il fianco di Roma ai colpi dei popoli barbari invasori. Ciò nonostante, la città, ancora sede di edifici ed istituzioni importanti, nell’anno 395, che combaciò con la morte di Teodosio I, figurava ancora tra le città più importanti d’Italia e di tutto l’impero.
Aquileia subì un gravissimo colpo nel 452 d. C.. Le truppe di Attila penetrarono nella città in seguito al crollo accidentale di un muro della fortificazione difensiva, devastandola. Alcune fonti sostengono che massacrò buona parte della popolazione, altre sono concordi nell’affermare che ne fece schiava una larga parte. Da questo momento in poi Aquileia smise di essere roccaforte a protezione dell’Italia settentrionale, nella sua parte orientale, venendo così sostituita da Verona sull’Adige. Dopo l’assedio di Attila nel 452, Aquileia tornò a fiorire grazie all’appoggio di Carlo Magno, il quale permise il ritorno del Patriarca Massenzio e restituì la città ai primitivi fasti.
Lasciamo momentaneamente la storia per addentraci nella AQUILEIA sito UNESCO dal 1998 per l’importanza della sua area archeologica e la bellezza dei mosaici pavimentali che custodisce. I primi scavi risalgono a 1934; vennero in seguito ripresi nel 1979 e sono tuttora in corso.
Aquileia - Arte romana
IL FORO ROMANO - ANFITEATRO – LE GRANDI TERME
Anche Aquileia, come la totalità delle importanti città romane, disponeva di un FORO, la piazza principale della città che si trovava all’incrocio tra il decumano massimo e il cardo massimo.
La sua pavimentazione risale al I secolo a. C. (età repubblicana), mentre gli edifici e le decorazioni sono attribuibili all’epoca imperiale. La lunghezza del Foro è di 115 metri ed è largo 57 metri, ornato ai lati lunghi da due file di portico-colonnato. Sotto ai portici c’erano negozi e botteghe (tabernae) e, con ogni probabilità, su uno dei lati del Foro doveva trovarsi la Zecca imperiale (istituita con la tetrarchia di Diocleziano). A sud del Foro vi era la Basilica con gli uffici amministrativi e giuridici del senato cittadino. A nord, invece, c’erano la curia e il macellum (il mercato). Purtroppo del porticato sono rimasti quattro basamenti in mattoni. Sul lastricato si è riusciti a reperire la parte finale di un’iscrizione di cui restano gli incavi per le lettere bronzee.
Aquileia - Foro romano
Aquileia sfruttò moltissimo la pietra proveniente dall’Istria e con essa costruì quasi tutta la città imperiale, ad eccezione di alcuni monumenti, per i quali si avvalse invece del marmo. L’artigianato locale era specializzato nella lavorazione di pietre dure da ornamento, nella scultura figurata e ornamentale in marmo e in pietra, nell’arte del mosaico.
Oltre all’oreficeria, anche l’ambra che giungeva dalle lontane spiagge del mar Baltico veniva lavorata nelle officine locali. Sempre per quanto riguarda l’industria artigianale, vi erano anche fabbriche di vasi, lucerne ed anfore in terracotta.
Area dove alcuni studiosi ipotizzano sia sorto il Palazzo imperiale di Massimiano, a fianco dell'attuale basilica di Santa Maria Assunta.
C’è innanzitutto la Basilica forense, la cui costruzione fu opera di un Aratrius, (esponente della borghesia della città) di cui ci resta un’iscrizione. Una sua parente (forse la figlia) nota col nome di Aratria Galla lastricò a sue spese il primo decumano meridionale. A sud del Foro sorgeva la Basilica civile. Sede del tribunale, luogo di riunione degli organi di governo e punto d’incontro dei più importanti uomini d’affari, questa Basilica aveva due absidi sui lati brevi, ed il suo interno era diviso in tre navate che arrivavano anche sui lati corti. La pavimentazione era in marmo per quanto riguarda la zona centrale, mentre quella del deambulatorio in pietra d’Istria.
Particolarmente suggestive sono anche le domus romane. Negli anni ’70 gli scavi al nord del Foro hanno rivelato l’esistenza di tre livelli di abitazioni romane, con annessi mosaici. Per questi mosaici venivano usate diverse pietre colorate, formando così dei bellissimi mosaici policromi. L’alabastro, l’agata e l’onice sono solo alcune delle pietre utilizzate dai Romani per comporre le loro trame. In particolare erano apprezzati i toni turchini, gialli, rossi e verdi, ottenuti con le paste vitree opache e semitrasparenti. Il mosaico tipico di Aquileia era il vermiculatum, che era caratterizzato da piccole tessere che, disposte in maniera asimmetrica, seguivano il contorno delle immagini. Le tessere impiegate, di forma e colori diversi, potevano avere dimensioni che variano dai 4 mm fino ad un solo millimetro.
Aquileia possedeva anche un anfiteatro. Utilizzato per gli spettacoli venatori e dei gladiatori, l’anfiteatro misurava 148 x 112 metri. Le ricerche e i nuovi scavi del 2015 hanno rivelato l’esistenza di una platea (larga circa 4 metri), che aveva il compito di sorreggere la serie di pilastri all’esterno della facciata. L’anfiteatro di Aquileia, inoltre, possedeva una galleria esterna molto più grande di quanto si credeva in precedenza rispetto ai recenti studi. All’inizio dell’età tardoantica cominciò il processo di spoliazione dei marmi dell’anfiteatro, che proseguì purtroppo nel corso dei secoli successivi. L’anfiteatro, infatti, costituì una comoda cava di marmi per la costruzione di nuovi edifici.
Grazie alle indagini commissionate dalla Fondazione Aquileia all’Università di Padova è stato scoperto recentemente anche il teatro di Aquileia. È stato ritrovato un tratto di muro curvilineo, dal quale si dirama una serie di strutture radiali secondo il caratteristico impianto di molti edifici di spettacolo di età romana. Secondo gli studiosi non ci sono dubbi: è una porzione del teatro della città friulana. Questo ritrovamento ci conferma ancora una volta che Aquileia fosse una città ricca, amante dell’arte e dello spettacolo.
Le Grandi Terme furono scoperte all’inizio del ‘900 e solo una parte di esse è stata riportata alla luce. Ad oggi sono emersi il settore del calidarium (a parte delle terme romane destinata ai bagni in acqua calda e ai bagni di vapore), del frigidarium (dove potevano essere presi bagni in acqua fredda) e le palestre, decorate con magnifici mosaici, in parte conservati nel Museo Archeologico Nazionale. Le terme si estendevano per più di 20.000 metri quadrati ed erano ornate con colonne in marmi policromi, pavimenti in mosaico, capitelli figurati e trabeazioni in marmo con decorazioni floreali. Grazie un’incisione, si è potuto risalire al nome originale delle Grandi Terme: Terme Felici Costantiniane. Furono dedicate quindi all’imperatore Costantino, nel IV sec. d. C., ma probabilmente furono erette in precedenza, intorno alla seconda metà del II sec. d. C..
LA BASILICA PATRIARCALE
Santa Maria Assunta
Di particolare rilevanza artistica e culturale è la Basilica Patriarcale leggermente decentrata rispetto al nucleo principale di Aquileia: sorge a lato della via Sacra, affacciando su piazza del Capitolo, assieme al battistero e all’imponente campanile.
Il nucleo più antico è formato dalla Aule Paleocristiane, fondate nel IV sec d.C. dal vescovo Teodoro con l’appoggio dell'imperatore Costantino e testimonianza indelebile del ruolo decisivo svolto dalla città nella diffusione della religione cristiana del primo Medioevo.
Magnifici i mosaici pavimentali che si ammirano all'interno e all'esterno della basilica, dalla quale si può accedere alla Cripta degli affreschi, decorata con affreschi di gusto bizantino.
I danni causati dal terremoto del 988 costrinsero l’allora patriarca Poppone ad attuare, nel 1031, un radicale restauro in forme romaniche, con influenze carolinge-ottoniane, che culminò con la costruzione del grande Palazzo Patriarcale (oggi distrutto) e dell'imponente campanile alto oltre 70 metri che domina la campagna friulana.
Dopo un ulteriore restauro a seguito del terremoto del 1348, l'ultimo grande intervento nella Basilica venne effettuato nel Cinquecento, quando artigiani e carpentieri veneziani furono chiamati per realizzare l'imponente soffitto ligneo che ancora oggi si può osservare.
L’edificio è rettangolare, di circa 90 metri per 66, ed è costituito da due spazi allungati separati da un cortile centrale. Probabilmente la copertura del magazzino era sorretta da robusti pilastri, disposti in relazione con i rinforzi delle pareti esterne per conseguire un corretto sistema statico.
Questo edificio sottolinea anche le grandi capacità dei costruttori romani verso la fine del III secolo d. C. poiché, oltre alle caratteristiche già riportate, possedeva anche spessi muri perimetrali che raggiungevano i 2 metri e profonde fondamenta, almeno a 5 metri sottoterra.
I MOSAICI
Il buon pastore
Aquileia - Pavimento della basilica - 1a metà del IV secolo
Aquileia - Uno splendido mosaico
Interno della Basilica con vista del pavimento a mosaico
Storie di Giona
SEPOLCRETO ROMANO
Museo archeologico di Aquileia
Colonna Traiana ci racconta…
Colonna Traiana - Classiarii che salpano dal porto di Brindisi, secondo porto della costa italico-adriatica. n.59: secondo porto della costa italico-adriatica.
n.63: quarta tappa, forse Aquileia (?). La marcia continuerà fino al Danubio, percorrendo la vias Gemina fino a Singidunum.
Rilievo scultoreo di Mitra (culto di legionari romani), oggi conservato presso il Museo archeologico nazionale di Aquileia.
Statua di Augusto (che utilizzò Aquileia quale quartier generale per le campagne militari degli anni 13-9 a,C.) (Museo archeologico cittadino).
Busto bronzeo forse di Massimino il Trace, il quale trovò la morte presso la città di Aquileia (Museo archeologico cittadino).
Statua priva di testa appartenente ad ammiraglio romano (presso il Museo archeologico di Aquileia).
Carlo GATTI
Rapallo, giovedì 13 Febbraio 2020
VISITA AL MUSEO STORICO NAVALE - VENEZIA
VENEZIA
Museo Storico Navale
Come é strutturato il Museo
42 sale distribuite su cinque piani. Il Museo comprende anche il "padiglione delle Navi" nell'antica officina dei remi dell'arsenale e la chiesa di S.Biagio, antico luogo di culto della marineria veneta e poi austriaca, infine adibita alle funzioni religiose del personale della Marina Militare.
Piano terra, primo e secondo piano
La SMS Viribus Unitis fu una corazzata della Imperiale e Regia Marina austro-ungarica, nonché nave ammiraglia e fiore all'occhiello della flotta. La classe Tegetthoff fu impiegata di rado nel corso della Prima guerra mondiale, la Viribus Unitis fu affondata il 1º novembre 1918 nel porto di Pola in seguito all'incursione di una piccola unità d'assalto italiana, in quella che fu poi ribattezzata IMPRESA DI POLA.
All'esterno, a ridosso dell'edificio presso l'ingresso, dal 1961 sono collocate due ancore di due corazzate austro-ungariche della Prima guerra mondiale, una della SMS Viribus Unitis e l'altra della SMS Teghtthoff, (vedi la prima foto in alto) le cui gemelle sono poste all'ingresso di Palazzo Marina a Roma. I primi tre livelli sono dedicati alle imprese, alle attrezzature e ai personaggi della Marina di Venezia e della Marina italiana, con alcune testimonianze delle altre Repubbliche marinare al secondo piano. Sempre al secondo livello, è presente una sala dedicata al Bucintoro, l'antica imbarcazione da cerimonia del doge.
Terzo piano
(foto Carlo Gatti)
In queste sale sono esposti modelli di imbarcazioni tipiche della laguna di Venezia, imbarcazioni da pesca e varie gondole, tra cui quella donata da Peggy Guggenheim al museo dopo la sua morte.
Quarto piano
(foto Carlo Gatti)
Fa parte di questo piano la "Sala svedese" dedicata ai rapporti industriali e militari tra la Marina italiana e quella svedese, evidenziando l'aiuto che le nostre industrie hanno pdato alla formazione della marina e dell'aviazione del paese scandinavo. In una sala attigua é molto rilevante una ricca collezione di conchiglie donata da Roberta di Camerino (celebre stilista veneziana 1920-2010).
Padiglione delle navi
In particolari occasioni viene aperto al pubblico e sono esposte navi veneziane civili e militari ed una parte della Sala Macchine del panfilo ELETTRA (la Nave-esperimenti di G.Marconi)
Vi è conservata la campana della R. N. coloniale ERITREA
Chiesa di San Biagio
La chiesa ancora oggi appartiene alla Marina Militare e da sempre, gli equipaggi delle navi di stanza a Venezia, qui "prendevano messa" prima di uscire in mare. Anche il giovane allievo Guglielmo Teghetoff vi si recava la domenica, durante gli anni in cui fu allievo del vicino Collegio Navale (accademia) situato allora nell'ex convento di Sant'Anna a Castello, tra il 1840 ed il 1845. Nella chiesa è conservato il corpo dell’ammiraglio Angelo Emo, ed è esposto un dipinto olio su tela del pittore Giuseppe Frascaroli, che ritrae Santa Barbara, patrona dei marinai.
Modelli, dipinti, cimeli e molto altro narrano la storia della Marina Militare veneziana ed italiana, offrendone un quadro completo ed appassionante. Ne fanno da cornice e contenitore il cosiddetto “granaio”, edificio principale del sistema museale, la chiesa di San Biagio e l’attiguo Padiglione delle Navi, situato nell’antica Officina dei remi dell’Arsenale.
L’edificio fu realizzato alla metà del Cinquecento per la funzione di officina e deposito dei remi. Poco dopo la sua realizzazione, nel 1577, venne adattato temporaneamente a sede del Maggior Consiglio, il principale organo di governo della città, a seguito del rovinoso incendio che rese inagibile Palazzo Ducale per molto tempo. Le sale mantennero sostanzialmente la funzione di falegnameria specializzata per i remi, affiancata da un’officina febbrile e da spazi di deposito, fino alla metà dell’Ottocento. A seguito degli interventi di riordino dell’Arsenale avviati dopo il 1866, anno in cui Venezia fu annessa al Regno d’Italia, i locali furono destinati a magazzini e officine del Genio. In quel periodo vi fu un intervento di restauro delle coperture, con l’introduzione di un interessante sistema bidirezionale di tiranti in ferro che integravano le incavallature lignee del tetto. Dal 1980 gli spazi delle officine dei remi hanno assunto la denominazione di Padiglione delle Navi. Essi ospitano imbarcazioni di grande rilievo storico e costituiscono un ampliamento della sede principale del museo.
(foto di Carlo Gatti)
(foto di Carlo Gatti)
Vista laterale del modello del Bucintoro
Il Bucintoro era la galea di stato dei dogi di Venezia, sulla quale si imbarcavano ogni anno nel giorno dell’Ascensione per celebrare il rito veneziano dello sposalizio con il mare.
Origine del nome
Il nome bucintoro, come testimonia anche il Sanudo, deriva dal veneziano buzino d'oro (burcio d’oro), latinizzato nel Medioevo, come bucentaurus, nome di un'ipotetica creatura mitologica simile al centauro ma con corpo bovino. Questo ha portato qualcuno a sostenere che il nome derivasse da una testa bovina utilizzata come polena della galea, ma l'ipotesi è erronea: il nome bucentaurus non esiste nella mitologia greca, e la polena dei Bucintori (come appare nei dipinti che li raffigurano) è Venezia sotto forma di Giustizia.
Sembra comunque che qualsiasi grande e sontuosa galea veneziana fosse chiamata con il nome Bucintoro. DuCange cita dalla cronaca del doge Andrea Dandolo (morto nel 1354):
Storia e caratteristiche
Il Bucintoro aveva sede nell’Arsenale di Venezia, dapprima in un bacino, come attestato dalla pianta di Jacopo de Barbari del 1500, in seguito in un apposito scalo coperto, detto Casa del Bucintoro, dove la nave era conservata all'asciutto e priva degli addobbi. Prima di essere utilizzato il Bucintoro veniva accuratamente calafatato, per ripristinare l'impermeabilità dello scafo, e riaddobbato. Ai remi erano per esclusivo privilegio gli operai dell'Arsenale, detti Arsenalotti, mentre il comando spettava all’Ammiraglio dell’Arsenale, coadiuvato da prua dall’Ammiraglio del Lido, che verificava la rotta, e da poppa dall’Ammiraglio di Malamocco che sovrintendeva al timone.
Modello in scala ridotta di una galea dei Cavalieri di Malta
Ricostruzione di una galea sottile veneziana
(foto di Carlo Gatti)
Qualche antico fucile
- Due Tromboni a focile del XV Secolo
- Cannoncino ad avancarica a percussione del XVIII Secolo
Frammento della poppa della corazzata austriaca Wien recuperato dopo la Prima guerra mondiale ed ora esposto al Museo storico navale di Venezia
Coppia di MAS in esercitazione (1918)
La sera del 10 dicembre 1917 Luigi Rizzo partì al comando di un'unità MAS composta da due motoscafi, il MAS 9 e il MAS 13 per attaccare i due navigli austriaci ancorati nel Vallone di Muggia.
I due MAS, trainati da altrettante torpediniere da Venezia fino al mezzo del golfo di Trieste, partirono con i loro motori elettrici fino alla diga nord della baia. Rizzo verificò che l'incursione non fosse stata notata prima di dare l'ordine di tagliare le ostruzioni che impedivano l'accesso alla baia. Dopo due ore era stato tagliato anche l'ultimo dei cavi d'acciaio messi a diversi livelli sotto la superficie dell'acqua e i due MAS entrarono dal varco creato. Il MAS 9 puntò sulla SMS Wien, il MAS 13 sulla SMS Budapest. A 50 metri dalla sagoma della Wien Rizzo ordinò, senza essere stato notato dalle sentinelle austriache, il lancio dei siluri. Contemporaneamente furono lanciati anche i siluri sulla Budapest dal MAS 13 ma al contrario dei siluri del MAS 9 che centrarono in pieno la Wien, quelli del MAS 13 mancarono il bersaglio ed esplosero sulla banchina.
Siluro a lenta corsa italiano esposto all'ingresso del museo
La Motosilurante MS 473 fu costruita dai Cantieri Riuniti dell’Adriatico a Monfalcone nel 1942, con la denominazione di MS 31, nell'agosto dello stesso anno prese parte alla grande battaglia aeronavale di Mezzo agosto, durante la quale nella notte del 13 agosto, al comando de Tenente di Vascello Calvani, affondò, con un siluro, il piroscafo britannico Glenorchy di 8982 tonnellate.
(foto di Carlo Gatti)
Armi navali
(foto di Carlo Gatti)
RUDOLF CLAUDUS
Pittore di marina
RUDOLF CLAUDUS, 1893-1964
Il 23 aprile 1893, Odenburg ora Sopron vicino Vienna, diede i natali a Rudolf Claudus. Non sono molte le notizie sulla sua infanzia: il padre era un ufficiale dell'esercito; importante per la sua vita fu la figura dello zio, l'ammiraglio Sternek della marina imperiale austro-ungarica.
Da ragazzo era evidente il lui l’attitudine al disegno che lo portò a frequentare gli studi di alcuni pittori dai quali apprese i rudimenti del mestiere. La sua vocazione era l’arte marinista che corrispondeva al suo amore per il mare. Alla fine della prima guerra mondiale fu a Pola – Istria ed entrò in amicizia con gli ufficiali della Marina italiana: iniziò così un lungo periodo di collaborazione con la Marina italiana di cui divenne in pratica il pittore ufficiale. In circa mezzo secolo di sodalizio ha realizzato centinaia di opere destinate ad ornare le sale di navi e Circoli, stanze di rappresentanza dei palazzi della Marina e per essere donate alle Autorità in occasioni di manifestazioni ufficiali.
AMERIGO VESPUCCI
Il Regio Esploratore VENEZIA
Il Regio incrociatore GIUSEPPE GARIBALDI
La Regia corazzata Giulio Cesare a Punta Stilo
La Regia nave da battaglia DUILIO in navigazione
Ad esclusivo scopo divulgativo, come da Statuto della nostra Associazione, ci siamo concessi la "libera scelta" di pubblicare alcune foto a dir poco splendide del BUCINTORO per la gioia dei nostri associati che sono infermi e MAI potranno visitare questo magnifico edificio che ci racconta e celebra la nostra storia di Repubbliche Marinare Italiane e non solo!
Ringrazio pertanto tutti coloro che gentilmente non si opporranno alla loro pubblicazione.
Carlo GATTI
Rapallo, 4 febbraio 2020
THOMAS W. LAWSON LA GOLETTA DEI RECORDS
THOMAS W. LAWSON
La Goletta dei records
Thomas Lawson - Viaggio Inaugurale - 1902
UN PO’ DI STORIA:
Mentre la nave a vela in legno tramontava definitivamente, il suo posto veniva preso dal veliero in ferro prima, e poi da quella in acciaio. Con l’apertura del Canale di Suez nel 1869, il mondo della vela accusò un ulteriore colpaccio perché solo le navi a vapore potevano utilizzarlo evitando il periplo dell’Africa. Il lento ma costante progresso della nave a vapore ottenne in quegli anni il monopolio del trasporto passeggeri.
Nel 1890 solo il 10% del naviglio varato dai cantieri inglesi era privo di propulsore a vapore: il rimanente alberava imponenti fumaioli tra la persistente selva di alberi e sartiame.
La navigazione a vela, dopo cinquemila anni di universale pratica, veniva lentamente sconfitta dal nuovo mezzo meccanico. Già! Lentamente, perché la lotta fu aspra e durò ancora nel corso della Prima guerra mondiale, quando gli U-BOOT tedeschi ne fecero scempio con il cannone.
Riservate ai velieri d’altomare rimanevano solo alcune rotte, quelle estreme dei collegamenti con le regioni più lontane (Australia e Cile). Regioni troppo lontane per la limitata autonomia della nave a vapore.
Entriamo ora nel mondo della tipologia windjammer usando la classica definizione: “grandi velieri da trasporto che vennero realizzati tra la fine del XIX e l'inizio del XX Secolo”.
La grande novità costruttiva fu questa: scafo in ferro, e 3 - 5 alberi armati con vele quadre. Questa configurazione dava loro un profilo caratteristico perché furono le più grandi navi a vela mai costruite, avevano grandi stazze e non pochi vantaggi:
- la costruzione in metallo rendeva sia la produzione sia la manutenzione più economica di una nave a vela in legno di pari dimensioni.
- Lo scafo era più resistente e quindi permetteva il trasporto di un carico maggiore di una nave di dimensioni più grandi.
- Il moderno concetto di costruzione in serie sfruttava i rilevanti vantaggi dati dall’economia di scala.
- Lo stesso materiale: ferro prima, acciaio in seguito con il quale venivano realizzate, era di per sé meno costoso del legno. Inoltre lo scafo risultava più sottile e quindi lo spazio interno era maggiore.
- Il disegno costruttivo tipico del windjammer mostrava una particolarità molto importante per l’impiego dei più recenti ritrovati tecnologici. Le vele erano semi meccanizzate, gli alberi erano profilati in acciaio e, quando possibile, anche le manovre e il sartiame erano in acciaio.
- Lo scafo era affilato e rendeva il windjammer molto veloce e, nonostante il peso di quattro alberi, poteva raggiungere velocità media tra 15 e 18 nodi. La Herzogin Cecilie aveva raggiunto la fantastica velocità di 21 nodi.
- Ma c’era un altro aspetto economico di grande rilievo: l'equipaggio tipico di un veliero dell’epoca era composto da: comandante, secondo, nostromo, 15 marinai esperti e 5 apprendisti, mentre l'equipaggio richiesto per governare un windjammer poteva essere di sole 14 persone.
- L'armamento e le attrezzature fornivano prestazioni migliori della goletta e poteva navigare seguendo il vento meglio di una nave a palo, ed infine era più maneggevole di una nave dotata di sole vele quadre. La capacità di carico variava tra le 2.000 e le 5.000 tons. Il tipico carico, come abbiamo già visto, era costituito da guano, legno grezzo, grano e carbone.
Il grande veliero da carico-WINDJAMMER presentava ancora due notevoli vantaggi:
- non doveva fermarsi per caricare carbone
- il vento non costava nulla
Facendo presa e insistendo coraggiosamente su questi due concetti, Francesi, Tedeschi e Scandinavi costruirono velieri sempre più grandi, destinati a caricare una sempre maggiore quantità di merci. Mentre la flotta dei velieri americani andava lentamente declinando, quella inglese divenne la prima al mondo. A questa situazione di disagio… gli americani risposero con la costruzione di una super windjammer:
La Goletta Thomas W. Lawson fu l’unica goletta mai costruita con ben 7 alberi: trinchetto, maestro, mezzana, spanker, jigger, driver, pusher; dato il tipo di velatura, erano tutti delle medesime dimensioni e sopportavano, è il caso di dirlo visto il risultato finale, sette grandi vele auriche (le rande), sette “frecce” o controrande, cioè le vele triangolari poste alle estremità superiori degli alberi, cinque fiocchi a prua e sei vele di straglio, inserite su stralli tesi fra un albero e l’altro.
La Thomas W. Lawson aveva lo scafo in acciaio e, originariamente fu destinato per il commercio del Pacifico, ma poi fu utilizzata principalmente per trasportare il carbone e petrolio lungo la costa orientale degli Stati Uniti. Fu costruita nel 1902 e fu la goletta più grande e la più grande nave a vela pura (senza motore ausiliario)
In questa foto la LAWSON “fully ladden” mostra tutto il suo pescaggio di 10 metri
LE CARATTERISTICHE sono davvero impressionanti:
1- Lunghezza: 145 metri,
2- Larghezza 15 metri;
3- Altezza 58 metri;
4- Pescava ben 10 metri a pieno carico; pochi porti italiani sarebbero tuttora in grado di ospitarla;
5- Dislocamento: 10.860 tonnellate
6- era spinta unicamente dalle 25 vele che coprivano più o meno 4300 metri quadrati di superficie (più o meno un campo da calcio) e da sole pesavano 18 tonnellate.
7- Velocità 16 nodi.
8- Equipaggio: 17 – 18 uomini
9- Capacità di carico: Portata utile 11.000 tonnellat2
10-Proprietà: Coastwise Transportation Company di Boston
11-Cantiere: Fore River Shipyard di Quincy, Massachusetts
12-Impostata: Novembre 1901
13-Varata: Luglio 1902
La velatura a goletta necessitava di pochi marinai e per la manovra fu un grande vantaggio. Sulla Lawson, infatti, gli addetti alle manovre delle vele erano solo 15 uomini, aiutati da 6 verricelli a vapore.
M.Crowninshield fu l’architetto che disegnò lo scafo.
L’EPILOGO
Le isole Schilly
Gli scogli dov'é naufragata la THOMAS W.Lawson
Nella notte tra il 13 ed il 14 dicembre del 1907 la Thomas W. Lawson, di ritorno dal suo primo viaggio transatlantico da Filadelfia (USA) a Londra con un carico di Kerosene, si trovò nel centro di una violentissima tempesta al largo delle isole Schilly vicino alla Cornovaglia (UK). Il capitano George W. Dow, temendo di non riuscire a doppiare le isole, diede fondo entrambe le ancore nel tentativo di frenare lo scarroccio, ma fu tutto inutile: si spezzarono le catene e la grande goletta naufragò sugli scogli. Gli unici superstiti furono il capitano Dow e il tecnico E. Rowe.
Si aprirono numerose falle fino a quando la nave si capovolse ed affondò. Il carico fuoriuscì e migliaia di barili di petrolio finirono in mare.
La nave giace a circa 25 metri di profondità ed è esplorabile dai subacquei.
Il carico di 58.000 barili di kerosene si disperse interamente in mare. Il NAUFRAGIO della LAWSON é tuttora considerato il primo disastro ambientale da versamento di idrocarburi della storia.
Carlo GATTI
Rapallo, 10 novembre 2017
L’ARSENALE DI VENEZIA
L’ARSENALE DI VENEZIA
I primi arsenali militari marittimi costruiti in Europa nel Medioevo furono quelli che le nostre repubbliche marinare dovettero allestire per potervi fabbricare, armare e riparare le navi alle quali era affidata la loro potenza.
Di questi stabilimenti ci sono rimaste notizie, descrizioni e, per alcuni di essi, anche resti piuttosto cospicui che ci permettono, per quanto modificati in epoche posteriori, di farci un'idea chiara dell'importanza e della funzione di tali costruzioni.
Analogamente a quelli moderni, gli arsenali medievali erano costituiti da un complesso di bacini o darsene, sulle cui banchine erano sistemati scali - coperti o no -, officine, magazzini, fabbriche d'armi, uffici e altre costruzioni. L'insieme era cinto da mura dove si aprivano in genere solamente due aperture: la porta donde transitavano i navigli e quella verso terra, destinata al passaggio delle persone e dei materiali.
Se dell'arsenale amalfitano non ci è rimasto altro che due scali coperti, di quello genovese ci sono restate solamente delle notizie, tra le quali quella della data di costruzione nel sec. XIII e il nome dell'architetto, il genovese Boccanegra.
Dell'arsenale pisano abbiamo alcuni resti seminascosti, deturpati e parzialmente interrati, ma sufficienti a darci un'idea abbastanza chiara dello stabilimento, soprattutto se studiati col sussidio di notizie storiche e con quello della descrizione e dei rilievi che di essi ci ha lasciato l'architetto francese Rohault de Fleury, il quale li studiò nella seconda metà del secolo scorso, quando erano meglio conservati.
Degli Arsenali Repubblicani di Pisa e Genova ce ne siamo già occupati con servizi riportati sul sito di Mare Nostrum Rapallo (allegheremo i LINKS alla fine del presente lavoro).
LA DARSENA DI VENEZIA
Oggi ci occuperemo dell’Arsenale di Venezia, che pare essere ancor più interessante dei precedenti per la parte monumentale ancora esistente, per la sua vastità e per l'importanza storica.
Opera del Canaletto
L’enorme struttura dell’Arsenale vista dall’alto
Per oltre mille anni la Repubblica di Venezia ha rappresentato un punto di riferimento in Europa e nel Mondo.
La Serenissima ha basato per secoli il suo predominio sul commercio e sulla potenza della sua flotta.
Al centro di questo strapotere navale c’era l’Arsenale: un cantiere di 48 ettari che sorgeva nel centro della città e che a pieno regime sfornava una galea (nave da guerra e da commercio) in meno di 24 ore.
La costruzione navale mediterranea si perde nei tempi e l’arsenale di Venezia è soltanto quello che riuscì a passare, in tempi e modi lunghissimi, dalla costruzione artigianale a quella industriale.
L’Arsenale di Venezia era una vera e propria città nella città: recintato da mura e con due porte d’accesso (una di terra e una di mare), ospitava residenze per i lavoratori, forni pubblici e magazzini per i cereali.
Era inoltre organizzato in modo tale che le galee venivano rimorchiate a dei punti di carico prestabiliti. Qui ricevevano tutti i materiali nautici, bellici e logistici necessari alla loro partenza.
Dalle torri della porta d’acqua venivano imbarcati alberi e cannoni, lungo il rio che porta al bacino San Marco ricevevano i remi e, alla fine del percorso, nei pressi della chiesa di San Biagio, venivano caricati i viveri, come farina e gallette salate.
La grande organizzazione veneziana ha portato l’Arsenale ad essere considerata l’antesignana della fabbrica come la conosciamo oggi.
In anticipo di alcuni secoli rispetto al modello della catena di montaggio fordista i veneziani già ai tempi della Serenissima sperimentarono la specializzazione delle mansioni all’interno dell’Arsenale facendo eseguire agli arsenalotti singole operazioni di assemblaggio utilizzando componenti standard.
La grande capacità marinara e l'efficienza nell'organizzazione economica delle imprese mercantili erano solo due dei fattori che determinarono la grandezza della marineria veneziana. Per assicurarsi la supremazia sui mari, Venezia doveva poter contare su un terzo fattore, non meno importante: la possibilità di costruire le sue navi.
Inizialmente, le navi veneziane venivano costruite in piccole officine private, poi, intorno all'anno 1200, queste attività furono raggruppate in un unico, grande cantiere pubblico: l'Arsenale.
In questa immensa struttura si muovevano progettisti, maestri d'ascia, operai specializzati. Gli operai dell'Arsenale, i cosiddetti arsenalotti, costituivano una comunità a parte nella città, depositaria di un patrimonio prezioso, tramandato di generazione in generazione e custodito gelosamente.
La tracciatura del sesto, vale a dire il disegno del profilo dello scafo di una nave, era un'operazione difficilissima, ed era svolta dal proto, la vera autorità dell'arsenale. Da questa fase dipendeva il successo in mare di un'imbarcazione, e richiedeva una grandissima esperienza. L'organizzazione all'interno del cantiere era addirittura all'avanguardia, con tanto di suddivisione del lavoro in reparti diversi, controllo di qualità sulle materie prime, standardizzazione di molte fasi produttive e, come abbiamo appena visto, persino la prima catena di montaggio della storia.
Questo ciclo di produzione, completo e autosufficiente, consentiva di costruire, nei periodi di massima richiesta, fino a tre grandi navi al giorno, e garantiva a Venezia un vero e proprio primato.
Le galere veneziane erano imbarcazioni agili e leggere. Non potevano trasportare un gran carico ma, in compenso, un equipaggio al completo garantiva la presenza a bordo di 180-200 uomini, il che rendeva queste navi piuttosto sicure. Oltre al capitano e ai marinai più esperti, l'equipaggio comprendeva i balestrieri, alcuni mercanti, il cartografo, lo scrivano, il medico che in genere era anche astronomo, e, naturalmente i rematori, i cosiddetti galeotti. L’accezione attuale di questi termini - ha avuto origine proprio da qui, dal fatto che la nave era a volte il luogo dove si scontava la pena ai lavori forzati, da cui il significato di galera, come prigione.
Fare il galeotto per guadagnarsi da vivere era considerato un segno di inferiorità. Tra i marinai, i galeotti erano quelli che si prestavano al lavoro più duro, esponendosi a condizioni di vita difficili e faticose. Nonostante fossero la categoria più umile, i galeotti erano anche i più richiesti. Ogni viaggio verso le Fiandre, o il Mar Nero, o alla volta di Cipro aveva bisogno di almeno una mezza dozzina di galere mercantili e un altissimo numero di rematori.
Per arruolare la ciurma il capitano metteva un tavolo sul molo di fronte a Palazzo Ducale e offriva degli anticipi pari, generalmente, a tre o quattro mesi di paga. Quando la nave stava per salpare, un banditore ne dava l'annuncio per tre giorni di seguito a Rialto e alla Basilica di San Marco. Chi non si presentava, e non erano in pochi a disertare, veniva cercato dai Signori di Notte, una sorta di polizia di quartiere, per essere imbarcato a forza o addirittura arrestato.
Le galere mercantili erano un mezzo di trasporto costoso, perciò occorreva compensare la spesa con carichi preziosi e con navi che tornassero presto in patria. Per ridurre i rischi, la Repubblica mise a punto un semplice ma efficace sistema di controllo sulle imprese mercantili: in pratica, provvedeva a costruire le galere e a organizzarne le rotte commerciali e poi le appaltava al miglior offerente, che naturalmente doveva dare garanzia al Senato sulla propria solvibilità. Dopodichè si mettevano all'asta le quote di partecipazione all'impresa.
Questo sistema ripartiva sia i rischi che gli utili, spingeva i mercanti alla collaborazione per il buon esito dell'impresa, e garantiva alla stessa Repubblica un ritorno economico che ammortizzava i costi delle imbarcazioni.
La Repubblica veneta ebbe in questo gigantesco stabilimento, che essa costruì nel 1104, doge Ordelaffo Falier, uno strumento formidabile della sua prosperità. Intorno alla primitiva piccola darsena, scavata fra le due isolette dette le Gemelle e comunicante per mezzo di un canale col bacino di S. Marco, venne successivamente costruita tutta una serie di opere che resero ben presto l'arsenale di Venezia uno stabilimento occupante, come anche attualmente, ben 32 ettari circa di superficie all'estremità orientale della città. Febbrile vi dovette essere il lavoro in alcune epoche. Così da occupare 16.000 operai e da suscitare nell'animo di Dante, che visitò spesso Venezia, l'ultima volta come ambasciatore di Guido da Polenta, l'impressione di cui son eco le celebri terzine del XXI dell'Inferno:
Quale ne l’arzanà de’ Viniziani
bolle l’inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,
ché navicar non ponno – in quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più vïaggi fece;
chi ribatte da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon rintoppa;
tal, non per foco ma per divin’arte,
bollia là giuso una pegola spessa,
che ’nviscava la ripa d’ogne parte.
(Dante Alighieri, La divina Commedia, Inferno, Canto XXI, vv. 7-18)su_spacer]
Straordinario il portale d’accesso del 1460 dei tempi del doge Pasquale Malipiero attribuito all’architetto Gambello, a memoria del legame di Venezia con Roma antica e Costantinopoli con un richiamo preciso all’arco dei Sergi di Pola, da dove la famiglia Pola o Castropola era arrivata a Treviso negli stessi anni di erezione del portale in Arsenale.
Le torri d'entrata dell'antico
Arsenale Militare Marittimo di Venezia
Ai primitivi due accessi, quello marittimo e quello terrestre, situati tutt'e due dalla parte più antica dello stabilimento, ne venne aggiunto un terzo nel 1473 nel lato di levante, mettendo in comunicazione diretta la laguna con la parte dell'arsenale allora costruita, allo scopo di assicurare un comodo rifugio alle galee già pronte o in attesa di essere riparate. Quest'ingresso, chiuso al principio del secolo XVI, venne riaperto sotto il dominio napoleonico per poter permettere l'accesso all'arsenale dei potenti vascelli di quell'epoca e ricevette allora il nome di Porta Nuova di Mare. I due ingressi marittimi potevano essere sbarrati da cancelli di legno ed erano difesi da torri. Architettonicamente molto importante è l'ingresso terrestre, ricco portale ad arco, inquadrato da due coppie di colonne con capitelli bizantini e sul quale posa un'edicola a timpano recante in bassorilievo il leone di S. Marco. Questa bella opera architettonica venne eretta sotto il dogato di Pasquale Malipiero (1460) ed è attribuita da taluno al veronese fra' Giocondo, da altri ad Antonio Gambello.
Arsenale a Venezia, Statua della Giustizia
Arsenale a Venezia, Statua di Nettuno
Dopo la vittoria di Lepanto (1571) si conferì a questo portale il valore di monumento commemorativo arricchendolo con vittorie alate, con trofei e con la statua di S. Giustina, nella cui ricorrenza (7 ottobre) era avvenuta la battaglia. Tale carattere di arco trionfale dato al monumento venne accentuato collocan
do attorno alla cancellata che lo ricinge alcune sculture greche di varie epoche, raffiguranti leoni e che erano state portate a Venezia, come bottino di guerra, in più volte, e specialmente da Francesco Morosini dopo la riconquista della Morea (1687).
Veduta dell’Arsenale Vecchio con le Gaggiandre (imponenti tettoie acquatiche adibite al ricovero delle galere a remi)
Nell'interno dell'arsenale si conservano ancora alcuni degli antichi scali, alcune tettoie acquatiche (tra le quali, importanti, quelle cinquecentesche delle Gagiandre cioè "tartarughe" destinate al completamento delle galee già varate), la Tana o Casa del Canevo, lo scalo per la custodia del Bucintoro e l'ampio locale, lungo 150 metri, costruito verso la metà del sec. XVIII da Giuseppe Scalfarotto e destinato agli squadratori delle grandi ossature di navi.
L’interno delle Corderie
La Tana (così chiamata da Tanai, antico nome del fiume Don, alle cui bocche i Veneziani avevano gli stabilimenti commerciali che procuravano loro la canapa necessaria per la marina), ambiente destinato alla costruzione dei cordami e alla conservazione delle canape, venne ricostruita, al posto d'una più antica (1304), tra il I579 e il 1583, da Antonio da Ponte, l'architetto del Ponte di Rialto. Essa era un unico grandioso locale, lungo metri 316 e largo oltre 20, alto quasi altrettanto e diviso in tre navate da 84 colonne con capitelli dorici. Ora la Tana è suddivisa da tramezzi in varî magazzini.
Per la custodia del Bucintoro, il famoso naviglio riccamente adorno che la Repubblica usava nelle occasioni solenni, venne elevato tra il 1544 e il 1547, su disegno di Michele Sammicheli, veronese, un ampio locale con facciata di semplice e maschia architettura.
L'introduzione e il rapido aumentare dell'impiego delle armi da fuoco indussero ben presto le autorità della repubblica veneta a far confezionare e conservare in appositi reparti dell'arsenale sia le armi stesse sia le polveri e i proiettili. Alcuni gravi incendi, che avvennero al principio del sec. XVI nei locali dove si confezionavano e conservavano le polveri, indussero il senato veneto ad allontanare dall'arsenale i servizi pirotecnici, conservando solamente quelli che non presentassero pericoli per l'incolumità dello stabilimento. Tra essi, quello importante della fusione delle artiglierie in bronzo, affidato per più che quattro secoli alla famiglia Alberghetti.
Le armi da fuoco e le munizioni furono allora conservate nelle Nuove sale d'armi, nel Parco delle bombarde e in altre parti dell'arsenale. Nel 1772 venne istituito un Museo d'artiglieria, il quale accolse le armi fuori uso. che avevano un notevole valore artistico.
L'arsenale di Venezia era governato da due magistrati ambedue temporanei, l'uno detto dei sopravveditori e l'altro dei provveditori o patroni; i primi erano senatori, i secondi patrizi: queste due magistrature unite si chiamavano eccellentissima banca. I sopravveditori avevano potestà civile e penale su tutte le persone impiegate nell'arsenale; essi invigilavano gli atti dei patroni, dai quali dipendeva l'ammiraglio dell'arsenale, che sopraintendeva alle costruzioni, riparazioni e armamenti, avendo sotto di sé il primo architetto navale, e anche alle opere idrauliche per l'arsenale. Alla dipendenza di quest'ultimo era pure il capitano dell'arsenale, che aveva incarico di polizia. Le costruzioni navali erano comandate dal senato e intraprese e dirette dai seguenti tecnici: un primo architetto navale, un secondo architetto navale, un aiutante del primo architetto, otto architetti costruttori, sei sottoarchitetti costruttori, quattro aiutanti di sottoarchitetti, otto primi aiutanti delle compagnie, otto secondi aiutanti delle compagnie, otto terzi aiutanti delle compagnie. Ogni ramo d'arte aveva i suoi capi d'opera o proti, i maestri, un certo numero di operai di varie classi e i garzoni. Tutti gli operai erano militarmente ordinati e denominati arsenalotti con impiego a vita trasferibile ai figli.
L'arsenale di Venezia fu utilizzato pure come Arsenale della marina del regno d'Italia sotto Napoleone (1805-14). Indi subentrò l'Austria la quale, nel 1849, preferendo Pola a Venezia, vi intraprese la costruzione dell'arsenale, che divenne poi uno dei migliori e più efficienti arsenali d'Europa e passò, nel 1918 all'Italia, la quale però dopo pochi anni ne cedette molte parti e lo ridusse per il rimanente a semplice base navale.
Bibliografia:
Fuochi ad Est di Candia di Carlo Lucardi
Vascelli e fregate della Serenissima - Guido Ercole
Viva san Marco! Storia di una repubblica marinara - Guido Ercole
Sotto le bandiere di San Marco. Le armate della Serenissima di Alberto Prelli
In Venice today.com
Veneto Storia
Città di Venezia-Storia dell’Arsenale
L’Arsenale militare marittimo di Venezia
Best Venice Guides.it
News Storia: La Darsena Secolare
It.Venezia
Metropolitano.it
Dasa Light Your Life
Venipedia-Arsenale
CARLO GATTI
Rapallo, 29 Gennaio 2020
TSS EARNSLAW, LA NAVE A CARBONE PIU’ VECCHIA DEL MONDO
TSS EARNSLAW
LA NAVE A CARBONE PIU’ VECCHIA DEL MONDO
Viaggia ancora sul lago WAKATIPU
New Zealand del Sud
La Nuova Zelanda é uno stivale rovesciato composta da due grandi isole. Ha una Superficie di 268.021 Km2 - Poco meno dell'Italia 301.338 Km2 - Abitanti: 4.100.000.
Siamo “partiti” per la nuova Zelanda alla ricerca della nave in servizio più vecchia del mondo (109 anni). Nel suo palmarez si legge che ha ospitato la regina d’Inghilterra con il principe Filippo e quasi tutti gli ultimi Presidenti degli Stati Uniti.
Il mondo marittimo anglosassone é da sempre convinto che le navi abbiano un’anima come le persone, quindi un destino che talora é glorioso e va conservato come una reliquia e onorato come una bandiera nazionale! Noi italiani non siamo buoni recettori di questo sentimento che é tuttora sballottato tra le onde del nazionalismo e del patriottismo senza percepirne il vero confine.
Il piroscafo TSS EARNSLAW nell’attesa della sua crociera giornaliera
Su questa mappa del lago Wakatipu é marcata al centro la città di Queenstown capolinea della crociera della nave a carbone TSS Earnslaw una delle più antiche attrazioni turistiche di OTAGO.
Lago Wakatipu
Il TSS EARNSLAW in navigazione. Le crociere partono regolarmente durante il giorno.
La piacevole crociera di 90 minuti attraverso il lago Wakatipu mette in mostra alcuni spettacolari paesaggi alpini di Queenstown e offre la possibilità d’esplorare un pezzo della sua natura vivente.
UN PO’ DI STORIA
Il TSS Earnslaw è parte integrante della storia pioneristica di Queenstown di cui é anche l'icona più gettonata. Il piroscafo fu incaricato dalle ferrovie della Nuova Zelanda di servire le comunità intorno al lago Wakatipu. Lo Steamer Ship é stato varato nello stesso anno del TITANIC, il viaggio inaugurale (maiden voyage) della TSS Earnslaw avvenne il 18 ottobre 1912.
Conosciuta come La signora del lago, ha fornito un collegamento essenziale tra le comunità agricole isolate lungo il lago e il mondo esterno. Lunga 48 metri, era la più grande barca sul lago e trasportava passeggeri, pecore, bovini, posta e provviste.
Quasi demolita nel 1968, fu salvata e acquistata da Real Journeys e messa di nuovo in servizio per il trasporto passeggeri intorno al lago. Da allora il TSS Earnslaw è stata accuratamente restaurata nelle sue condizioni originali: tutto ciò che si vede di lei oggi è fedelmente identico all’aspetto del suo primo viaggio.
Oggi, la TSS Earnslaw è l'unica nave a vapore tuttora in funzione nell'emisfero meridionale, questa realtà le conferisce un alone epico unico al mondo.
Il TSS Earnslaw è apparso in diversi film tra cui un cameo in Indiana Jones e il Kingdom of the Crystal Skull come Amazon River Boat.
Parti della nave a strascico SS Venture nel King Kong di Peter Jackson sono state ispirate dal TSS Earnslaw. Il famoso compositore Ron Goodwin ha composto un brano musicale ispirato al ritmo delle macchine alternative della TSS Earnslaw.
Lo abbiamo già accennato, ma lo sapevate….?
Nel marzo 1990, il TSS Earnslaw ha trasportato la regina Elisabetta e il principe Filippo.
In altre occasioni sono state ospiti a bordo: il re e la regina del Belgio, il principe della Thailandia e numerosi presidenti degli Stati Uniti.
Seguono tre immagini d’epoca, un po’ ingiallite dal trascorrere del tempo, ma intatte nel loro fascino old fashion che si contrappone alla modernità “pacchiana” di tante navi che oggi solcano i sevenseas …
Il TSS Earnslaw è un piroscafo a doppia elica di epoca edoardiana*, l'unica nave a carbone che trasporta passeggeri nell'emisfero meridionale. È una delle più antiche attrazioni turistiche nel centro di Otago (una delle 16 regioni della N.Z. - situata nella parte Sud-Orientale dell’Isola Meridionale.
*L’Epoca Edoardiana (1901-1910)
L’Epoca Edoardiana è il periodo tra il 1901 ed il 1910, cioè l’epoca del regno di Edoardo VII.
Dopo la morte della regina Vittoria avvenuta il 22 gennaio 1901, il suo successore fu il primogenito Edoardo VII che segnò la fine dell’epoca vittoriana e l’inizio di un nuovo secolo.
Mentre la regina Vittoria non partecipava alle uscite in società (era solita ripetere “Noi no, che non ci divertiamo”), re Edoardo VII era un grande frequentatore di circoli mondani ed un grande viaggiatore.
La Londra ereditata dalla Regina Vittoria, era una Londra capitale di un impero che si estendeva per 4 Continenti e contava più di 500 milioni di abitanti.
VISITANDO LA NAVE …
TSS EARNSLAW
Cartatteristiche tecniche
Lunghezza: 51,2 m
Costruzione iniziata: 4 luglio 1911
Varo: 24 febbraio 1912
Pescaggio: 2,1 m
Velocità: 13 nodi
Sala Macchine
- La nave a carbone TSS Earnslaw è sottoposta a manutenzione annuale.
- Per ulteriori info rivolgersi: Centro visitatori Real Journeys, Steamer Wharf, 88 Beach Street, Queenstown
Sul depliant della Compagnia leggiamo:
QUEENSTOWN-DART RIVER SAFARI E CENA CON CROCIERA
Il tour di mezza giornata include un’emozionante escursione con un motoscafo moderno tipo Jetboat, una passeggiata in una foresta autoctona ed una gita in jeep: un’esperienza indimenticabile! Si raccomandano: abiti e scarpe comode - in inverno guanti e giacca impermeabile ed in estate cappellino ed occhiali da sole.
Nel pomeriggio inoltrato ci si imbarca su un vaporetto dello scorso secolo la TSS Earnslaw che ha solcato le acque del lago per oltre 100 anni ed é conosciuta affettuosamente come la SIGNORA DEL LAGO.
Si naviga attraverso il lago sino a raggiungere Walter Peak ove si visita in tutto relax i magnifici giardini della tenuta coloniale Colonel’s Homestead ove si é ospitati per una elegante cena nell’edificio originale. Il menù comprende le tipiche pietanze Neozelandesi a base di gustose carni e verdure seguite dall’immancabile dessert. Dopo la cena é possibile assistere ad uno spettacolo tipico degli allevamenti neozelandesi lo sheep shearing (tosatura delle pecore). Al termine si rientra a Queenstown sempre navigando sulla “signora del lago”.
A BORDO DELLA NAVE
Sala Macchine
La crociera sul lago è adatta a tutte le età. E’ possibile visitare la sala macchine per scoprire le due grandi macchine alternative (a vapore) al lavoro. Nelle vicinanze potrai vedere la raccolta di foto storiche nel nostro mini-museo, controllare il ponte e persino unirti a un cantante insieme al pianista.
Il pianista...
Oppure, se preferisci, rilassati e goditi un vino o una birra o un po' di cibo da caffetteria nel nostro Promenade Café a bordo.
DUE CHIACCHIERE CON IL COMANDANTE SUL PONTE DI COMANDO …
Telegrafo di macchina
Dopo averlo omaggiato del “crest” dei Piloti del porto di Genova, il cinquantenne barbuto Comandante m'invita sul Ponte di comando per scambiare due parole che presto diventano un’affabile conversazione tra vecchi amici avendo anche lui la Licenza di Pilotaggio del suo distretto, in pratica siamo colleghi che lavorano agli antipodi del mondo...
Ormai questa “vecchia signora” non ha più segreti per te …!
A dirti la verità appena mi distraggo un attimo mi frega... Ho lavorato su molte navi nella mia vita, ma nessuna di loro aveva la personalità di Earny ... dotata del temperamento di una anziana nobildonna decaduta... piena di sé, con poca umanità. Una signora scontrosa ed arrogante che vuole comandare in ogni situazione… perché é convinta che solo lei sappia ormeggiare e disormeggiare senza andare a sbattere… in fondo tutti la guardano, l'ammirano, parlano di lei... così si sente sempre bella e desiderata; in poche parole lei é il COMANDANTE ed io sono il suo timoniere...
Mi sembra di capire che tra voi ci sia un po' di rivalità: due primedonne sulla scena prima o poi fanno scintille...
Un po' di verità c'é nelle tue parole. Insomma non ci fidiamo troppo l’uno dell’altra ... ne parliamo spesso … a volte litighiamo, specialmente quando c’é vento di tramontana che ci scarroccia di pancia, purtroppo il nostro pescaggio é limitato a 2 metri a causa dei fondali. Inoltre, quando ci avviciniamo all’ormeggio, i turisti si spostano tutti dal lato banchina per vedere la manovra, la nave s’inclina, una delle due eliche fuoriesce e non lavora più come dovrebbe, per cui la Earnslaw tende ad accostare da un lato, dove incontra meno resistenza.
Ogni manovra risulta diversa da tutte le altre…
Una cosa é certa, se trasformassero la Earnslaw in una unità moderna con l’elica di prora, azipod ecc… tu faresti una vita migliore, ma la nave perderebbe quel fascino che attira turisti da tutto il mondo…!
Hai ragione! Devo anche dirti che spero di non essere io al comando qualora venisse in mente all’armatore di trasformarla in un “soggetto moderno”, facile da manovrare… sarebbe una noia tremenda! Questo antico “ferro”, come sai, ha il timone piccolo, le accostate sono lente e molto lunghe, le devi prevedere con largo anticipo ed é lì che mi diverto!
Allora provo ad andare sul personale… Ma tra voi, se non esiste un po’ di feeling, cos’altro vi tiene insieme?
Provo ad essere sincero: alla sera sono felice di “legarla alle bitte”, lasciarla sola in castigo nel suo “brodo”, e andarmene a casa. Ma dopo un po’ sento che questa “son of a bitch” strapiena d’idiosincrasie… mi manca! Allora chiedo a mia moglie di venire a fare quattro passi, ritorniamo sottobordo, io per controllare che Earny non sia scappata senza di me… mentre mia moglie ogni volta cerca di capirne qualcosa di più… e credo che sia anche un po’ gelosa…
di CARLO GATTI
Rapallo, 2 gennaio 2020
LE NAVI DEGLI EMIGRANTI
LE NAVI DEGLI EMIGRANTI
Furono molti i bastimenti che trasportarono nei loro viaggi transoceanici milioni di persone alla ricerca di fortuna in nuovi Continenti. Molte furono le persone che pur d'imbarcarsi vendettero quel poco che gli era rimasto: l'asino, la vigna, la casa, con la speranza di fare fortuna per poter un giorno ritornare.
Le piccole flotte di navigazione italiane dopo il 1870 furono curate e incentivate con sussidi dal Governo del Regno d'Italia: all'inizio del Novecento alcune di esse erano dei colossi grazie soprattutto al denaro degli emigranti.
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Negli ultimi decenni del XIX secolo il fenomeno dell'emigrazione iniziò ad avere numeri e aspetti che non poterono essere più sottovalutati e si fece sempre più stringente la necessità di provvedere ad una sua adeguata regolamentazione. E' in questa ottica che, con la legge Crispi del 30 dicembre 1888 n. 5866, si recepì il crescente fenomeno dell'emigrazione anche se, ancora per una volta, venne privilegiato l'aspetto repressivo a quello della tutela degli emigranti e dei loro diritti minimi. Con la nuova normativa, tuttavia, venne riconosciuto all’emigrante il pieno diritto di espatriare per motivi di lavoro ma furono introdotte delle discrete restrizioni dovute al mancato espletamento degli obblighi militari. La legge disciplinava, inoltre, tutti gli aspetti riferibili ai contratti di trasporto; introduceva la figura dell'agente che aveva il compito di rappresentare, in modo capillare sul territorio, gli interessi degli armatori e ne regolamentava le competenze in modo da garantire una sia pur blanda forma di tutela dell'emigrante nei confronti delle grandi compagnie di navigazione.
Sempre nell’ottica di questa filosofia, le norme stabilivano, infine, quali dovessero essere le condizioni minime relative alla sistemazione a bordo dei piroscafi a cui gli emigranti avevano diritto (1). La legge del 1888 ha il pregio di regolamentare per la prima volta in modo organico molti degli aspetti del flusso migratorio anche se non garantiva ancora in modo adeguato l'emigrante rispetto agli armatori e agli agenti delle compagnie di navigazione. Una delle critiche più sentite era quella che si esplicitava con la seguente considerazione “l'emigrante viene preso per mano fino al porto di imbarco e poi lasciato al proprio destino”.
La legge 31 gennaio 1901, n. 23
Dopo un ampio e articolato dibattito che vide come protagonisti diversi esponenti politici tra cui gli onorevoli Luzzatti e Pantano, si giungeva agli inizi del ‘900, alla formulazione di una nuova legge sull'emigrazione che finalmente veniva incontro agli emigranti tenendo in considerazione i loro diritti e assicurando efficaci strumenti di protezione. Si trattava della Frontespizio della legge del 1901legge n. 23 del 31 gennaio 1901. Il punto qualificante della nuova normativa fu quello di imporre la creazione di un unico ente di controllo, il Commissariato Generale per l'emigrazione (alle dipendenze del Ministero degli Affari esteri), a cui erano demandate tutte le incombenze relative al problema migratorio che, fino a quel momento erano state parcellizzate tra le diverse amministrazioni dello Stato (articolo 7). La legge, inoltre, aboliva gli agenti delle compagnie di navigazione e li sostituiva con i “rappresentanti dei vettori”, i quali, a loro volta furono obbligati, per diventare tali, a richiedere annualmente al Commissariato una specifica “patente di vettore” (articoli 13 e seguenti).
Per garantire un’adeguata tutela dell’emigrante la legge del 1901 istituiva delle commissioni ispettive nei vari porti di imbarco (Genova, Napoli, Palermo) con il compito di verificare se le navi impiegate a tale scopo rispondessero ai requisiti imposti dalle normative sanitarie. A bordo dei piroscafi, poi, furono previsti commissari viaggianti e medici militari che avevano il compito di verificare l’osservanza delle disposizioni sancite dal regolamento di attuazione della legge e l’adeguatezza degli spazi a disposizione degli emigranti. La protezione attiva della norma non si limitava a tutelare l'emigrante fino al momento dello sbarco in terra straniera, ma assicurava una adeguata protezione anche dopo la conclusione del viaggio con la creazione, nei principali paesi di immigrazione (anche se con ritardo e tra notevoli difficoltà), di patronati e di enti di tutela obbligati a fornire assistenza legale e sanitaria a chi ne avesse bisogno.
Furono istituite, inoltre, delle “commissioni arbitrali provinciali” che avevano il compito di intervenire in caso di controversie tra l’emigrante e il vettore di emigrazione o di un suo rappresentante (articoli 26 e 27). La legge del 1901 venne, in seguito, integrata dalla legge 2 agosto 1913 n. 1075 e dal decreto luogotenenziale del 29 agosto 1918 n. 1379 che rivedevano la normativa in materia di commissioni arbitrali (dando la facoltà agli ispettori d’emigrazione di derimere alcune controversie), e inasprivano le penali da comminare alle società di navigazione e ai loro agenti in caso di inosservanza della legge.
Con il testo unico del 1919 si intese, infine, riorganizzare tutta la normativa in materia di emigrazione conferendo maggiori poteri al Commissariato per l’emigrazione che fu in grado di intervenire nei paesi esteri in modo più incisivo per garantire l’emigrante con norme adeguate ai tempi e con il principio, finalmente del tutto affermato, della libertà di espatrio per motivi di lavoro (anche se era prevista la possibilità di impedire temporaneamente l’espatrio in quelle nazioni che non offrivano adeguati margini di sicurezza).
Il regime fascista e la fine del Commissariato per l’emigrazione
Con l’avvento del fascismo al potere, il fenomeno migratorio venne sottoposto dal regime ad un generale ripensamento che ne cambiò la natura arrivando, addirittura, ad abolire il termine “emigrante” per sostituirlo con quello di “lavoratore italiano all’estero”.
Sempre in questa ottica, l’emigrazione (i lavoratori italiani all’estero, appunto) fu sfruttata anche a fini propagandistici e di politica estera. Dal punto di vista legislativo il fascismo tenne fede a questo cambiamento di politica tanto che con il D.L. 26 aprile 1927, n. 628 fu abolito il Commissariato per l’emigrazione che diventò una “semplice” direzione generale del Ministero degli Affari Esteri (la Direzione generale degli italiani all’estero).
FONTI - LINK:
LE NAVI PASSEGGERI DI LINEA ITALIANE - DAL 1900 AL 1970
file:///Users/carlogatti/Desktop/Le%20NAVI%20PASSEGGERI%20di%20Linea%20italiane%201900-1970.webarchive
IL SOGNO AMERICANO
http://www.terraiblea.it/files/IL%20SOGNO%20AMERICANO.pdf
ALBUM FOTOGRAFICO
In questa stupenda immagine scattata nel 1926 sul ponte di Comando di una nave passeggeri del Lloyd Sabaudo, si vedono due personaggi della nostra Riviera di Levante: in primo piano, davanti al timoniere, il 1° Ufficiale chiavarese ERNANI ANDREATTA (Sr), un Commissario di bordo ed il celebre ANTONIO LENA Comandante del CONTE DI DAVOIA. Infine a destra tre passeggeri della 1a classe.
In aggiunta alle foto contenute nel mio artico: LE NAVI PASSEGGERI DI LINEA - DAL 1900 AL 1970, riportiamo, in ordine cronologico, n.15 foto di navi famose nella loro epoca per aver trasportato numerosi emigranti dall'Italia al Nord America.
PERSEO
LOMBARDIA
FLORIDA
REGINA D'ITALIA
MANIFESTO PUBBLICITARIO
DUCA DEGLI ABRUZZI
RE D'ITALIA
AMERICA
GIULIO CESARE
DUILIO
A sinistra: PRINCIPESSA MAFALDA
DUCA DI GENOVA
GIUSEPPE VERDI
CONTE ROSSO
ROMA
CARLO GATTI
Rapallo, 19 Novembre 2019
ELLIS ISLAND (1892-1954)
ELLIS ISLAND (1892-1954)
FU LA META DEI POPOLI EUROPEI CHE INSIEME RISCOPRIRONO
THE NEW WORLD
Ellis Island è un isolotto parzialmente artificiale alla foce del fiume Hudson nella baia di New York. L'originaria superficie (poco più di un ettaro) fu incrementata fra il 1890 e il 1930 con i detriti derivanti dagli scavi della Metropolitana di New York, fino a raggiungere gli attuali 11 ettari.
Antico arsenale militare, dal 1892 al 1954, anno della sua chiusura, è stato il principale punto d'ingresso per gli immigrati che sbarcavano negli Stati Uniti. Attualmente l'edificio ospita l'Ellis Island Immigration Museum che è visitabile utilizzando il medesimo biglietto e traghetto che consente l'accesso anche alla vicina Statua della Libertà.
MUSEO DELL’IMMIGRAZIONE DI ELLIS ISLAND
ECCO DOVE SI TROVA
Nel Museo dell'emigrazione a New York ci sono ancora le valigie piene di suppellettili e di povero abbigliamento delle persone che reimbarcate per l'Italia, nella disperazione si buttavano nelle acque gelide della baia andando quasi sempre incontro alla morte.
Museo dell’Immigrazione – Ellis Island
UNA BREVE CITAZIONE
La Sinfonia n. 9 in mi minore di Antonín Dvořák (op. 95), nota anche col titolo di Sinfonia "Dal Nuovo Mondo", fu pubblicata come sinfonia n. 5, ma è in realtà la nona ed ultima fra le sinfonie di Dvořák (pron.Dvorgiak).
Il titolo si riferisce evidentemente al NUOVO MONDO, ossia il Continente Americano, dato che la sinfonia fu composta quando il compositore ceco era direttore del New York National Conservatory of Music. La cultura americana stimolò e arricchì Dvořák, che propose una sinfonia di matrice classica europea, spiritual afroamericani e la musica dei nativi americani, ma contaminata dalla musica autoctona, come gli spoirituaal afroamericani e la musica dei nativi americani.
Questa citazione ha una sua logica storica in quanto fu composta nel 1893 a New York, l’anno successivo all’apertura di ELLIS ISLAND. La sinfonia fu eseguita in prima assoluta alla Carnegie Hall il 16 dicembre di quello stesso anno dalla New York Philharmonic diretta da Anton Seidl, ottenendo un enorme successo.
Neil Armstrong portò l'opera sulla LUNA durante la missione APOLLO 11, la prima con atterraggio sulla Luna, nel 1969.
UN PO’ DI STORIA
Fra il 1880 e il 1915 approdano negli Stati Uniti quattro milioni di italiani, su 9 milioni circa di emigranti che scelsero di attraversare l'Oceano verso le Americhe. Le cifre non tengono conto del gran numero di persone che rientrò in Italia: una quota considerevole (50/60%) nel periodo 1900-1914.
Circa il settanta per cento proveniva dal Meridione, anche se fra il 1876 ed il 1900 la maggior parte degli emigrati era del Nord Italia con il quarantacinque per cento composto solo da Veneto, Friuli Venezia Giulia e Piemonte.
Le motivazioni che spinsero masse di milioni di Meridionali ad emigrare furono molteplici.
Durante l'invasione Piemontese, operata senza dichiarazione di guerra, dal Regno delle due Sicilie, i macchinari delle fabbriche, non dimentichiamo che Napoli era allora una città all'avanguardia in campo industriale, furono portati al Nord dove in seguito sorsero le industrie del Piemonte, della Lombardia e della Liguria.
Le popolazioni del Meridione, devastato dalle guerra con circa un milione di morti, da cataclismi naturali (il terremoto del 1908 con l'onda di marea nello Stretto di Messina uccise più di 100,000 persone nella sola città di Messina) depredato dall'esercito, dissanguato dal potere ancora di stampo feudale, non ebbero alternativa ad emigrare in massa. Il Sistema Feudale , ancora perfettamente efficiente, permetteva che la proprietà terriera ereditaria determinasse il potere politico ed economico, lo status sociale, di ogni individuo. In questo modo, le classi povere non ebbero praticamente alcuna possibilità di migliorare la propria condizione.
Da aggiungere ai motivi dell'esodo la crisi agraria dal 1880 in poi, successivamente l'aggravarsi delle imposte nelle campagne meridionali dopo l'unificazione del paese, il declino dei vecchi mestieri artigiani, delle industrie domestiche, la crisi della piccola proprietà e delle aziende montane, delle manifatture rurali.
Gli Stati Uniti dal 1880 aprirono le porte all'immigrazione nel pieno dell'avvio del loro sviluppo capitalistico; le navi portavano merci in Europa e ritornavano cariche di emigranti. I costi delle navi per l'America erano inferiori a quelli dei treni per il Nord Europa, per questo milioni di persone scelsero di attraversare l'Oceano.
L'arrivo in America era caratterizzato dal trauma dei controlli medici e amministrativi durissimi, specialmente ad Ellis Island, l'Isola delle Lacrime.
I primi 700 emigranti attraccano a Ellis Island il 1 gennaio 1892. Alla fine dell'anno saranno oltre 450mila gli immigrati passati dall'isola di fronte a Manhattan. Il picco sarà raggiunto nel 1907, con oltre 1 milione di arrivi, tanto da indurre le autorità newyorchesi a potenziare la struttura con un ampliamento importante, e ad affidare ad un commissario all'immigrazione, William Williams, la gestione del personale di Ellis Island per estirpare la piaga dilagante della corruzione.
Con lo scoppio della Grande Guerra l'attività del centro diminuì sensibilmente, e per un periodo la struttura fu destinata alla detenzione dei cosiddetti "enemy aliens", i potenziali nemici di origini straniere presenti sul territorio e sospettati di spionaggio.
Soltanto tre anni dopo la fine delle ostilità iniziò il declino di Ellis Island per effetto dell'Immigration Quota Act voluto dal Presidente Warren G. Harding, seguito nel 1924 dal National Origins Act, che fissava un tetto al flusso di immigrazione sul territorio Usa, stabilendo anche le quote massime per i rispettivi Paesi di provenienza.
Dalla Grande Depressione alla Seconda guerra mondiale Ellis Island fu praticamente svuotata, funzionando negli anni della guerra come ospedale militare. Dal 1950 alla chiusura definitiva alla metà di novembre del 1954, l'isola che accolse milioni di nuovi americani fu in parte ceduta alla Guardia Costiera e in parte adibita a centro di detenzione ed espulsione per stranieri sospettati di attività sovversive e di legami con i comunisti durante gli anni della Guerra Fredda.
Oggi è sede del Museo dell'Immigrazione e dal 1965 monumento nazionale degli Stati Uniti.
Il porto di Ellis Island ha accolto più di 12 milioni di aspiranti cittadini statunitensi (prima della sua apertura altri 8 milioni transitarono per il Castle Garden Immigration Depot di Manhattan), che all'arrivo dovevano esibire i documenti di viaggio con le informazioni della nave che li aveva portati a New York. I Medici del Servizio Immigrazione controllavano rapidamente ciascun immigrante, contrassegnando sulla schiena con un gesso, quelli che dovevano essere sottoposti ad un ulteriore esame per accertarne le condizioni di salute (ad esempio: PG per donna incinta, K per ernia e X per problemi mentali).
Chi superava questo primo esame, veniva poi accompagnato nella Sala dei Registri, dove erano attesi da ispettori che registravano nome, luogo di nascita, stato civile, luogo di destinazione, disponibilità di denaro, riferimenti a conoscenti già presenti nel paese, professione e precedenti penali. Ricevevano alla fine il permesso di sbarcare e venivano accompagnati al molo del traghetto per Manhattan.
I "marchiati" venivano inviati in un'altra stanza per controlli più approfonditi. Secondo il vademecum destinato ai nuovi venuti, "i vecchi, i deformi, i ciechi, i sordi e tutti coloro che soffrono di malattie contagiose, aberrazioni mentali e qualsiasi altra infermità sono inesorabilmente esclusi dal suolo americano". Tuttavia risulta che solo il due percento degli immigranti siano stati respinti. Per i ritenuti non idonei, c'era l'immediato reimbarco sulla stessa nave che li aveva portati negli Stati Uniti, la quale, in base alla legislazione americana, aveva l'obbligo di riportarli al porto di provenienza.
Il picco più alto si ebbe nel 1907 con 1.004.756 persone approdate.
Dal 1917, modifiche alle norme d'ingresso limitarono i flussi immigratori. Venne introdotto il test dell'alfabetismo e dal 1924 vennero approvate le quote d'ingresso: 17.000 dall’Irlanda, 7.500 dal Regno Unito, 7.400 dall’Italia e 2.700 dalla Russia. La Depressione del 1929 ridusse ulteriormente il numero degli immigrati, dai 241.700 del 1930 ai 97.000 del 1931 e 35.000 nel 1932. Contemporaneamente Ellis Island diventò anche un centro di detenzione per i rimpatri forzati: dissidenti politici, anarchici, senza denaro e senza lavoro vennero obbligati a tornare al loro paese d'origine. Gli espulsi a forza dagli Stati Uniti furono 62.000 nel 1931, 103.000 l'anno successivo e 127.000 nel 1933.
Durante la Seconda guerra mondiale vi furono detenuti cittadini giapponesi, italiani e tedeschi e il 12 novembre 1954 il Servizio Immigrazione chiuse definitivamente, spostando i propri uffici a Manhattan. Dopo una parziale ristrutturazione negli anni ottanta, dal 1990 ospita il Museo dell'Immigrazione.
QUANDO LE FOTOGRAFIE RACCONTANO PIU’ DELLE PAROLE…
DOVE SI TROVA ELLIS ISLAND?
LE FOTO A SEGUIRE, DOVREBBERO AVERE ... UN ORDINE CRONOLOGICO A PARTIRE DAL 1 GENNAIO 1892 FINO ALLA META’ DEL NOVEMBRE 1954
1927 – Ellis Island ripresa dall’alto
Rappresentazione pittorica della speranza dipinta sui visi dei nostri emigranti dinanzi alla agognata AMERICA!
Ellis Island – E’ l’ora di pranzo
Circa 10 milioni di americani possono rintracciare le loro radici attraverso Ellis lsland. Al primo piano, sul retro, c’è la mostra "La popolazione d’America", che narra quattro secoli di immigrazione americana, offrendo un ritratto statistico di coloro che arrivavano: chi erano, da dove venivano, perché venivano.
Ellis Island, intorno al 1895. (Hulton Archive/Getty Images
Arrivo di emigranti ad Ellis Island, 1902
Anno 1902
Un gruppo di immigrati attendono di fare la visita medica presso a Ellis Island, prima di poter essere ammessi negli Stati Uniti, nel 1904.(Hulton Archive/Getty Images)
Controllo molto accurato della vista
Un gruppo di immigrati ebrei inglesi attendono l'ispezione a Ellis Island, prima di poter entrare negli Stati Uniti (Hulton Archive/Getty Images)
Due immigrati ebrei a Ellis Island con lo sfondo dei grattacieli di Manhattan
Un funzionario doganale distribuisce le etichette dell'immigrazione a una famiglia di immigrati tedeschi presso la sala di registrazione a Ellis Island. (Lewis Hine W/Getty Images)
Gli immigrati dall’Europa viaggiavano letteralmente ammassati…
La suffragetta inglese Emmeline Pankhurst, subito dopo il suo rilascio da Ellis Island, il 27 ottobre 1913. (Topical Press Agency/Getty Images)
Alcuni bambini che giocano su un carro a Ellis Island. Il carro ha scritto di lato 'Zio Sam' ed è decorato con numerose bandiere americane (Augustus Sherman/Hulton Archive/Getty Images)
Alcuni immigrati si sottopongono ad uno dei numerosi esami medici per completare le procedure per uscire da Ellis Island ed entrare negli Stati Uniti, nell'agosto del 1923. (Topical Press Agency/Getty Images)
Una foto, scattata prima della Prima Guerra Mondiale, di alcuni immigrati che pranzano a Ellis Island.
Alcuni immigrati in coda per bere a Ellis Island, nel 1920. (General Photographic Agency/Getty Images)
Uno sguardo intenso sul proprio futuro… é scolpito sul volto di una giovane immigrata ebrea russa a Ellis Island. (Lewis W Hine/Getty Images)
Una famiglia di immigrati italiani a bordo di un traghetto a Ellis Island. Lewis Hine W/Getty Images)
Il presidente americano Lyndon Johnson mentre parla a Ellis Island, dopo aver firmato il nuovo progetto di legge sull'immigrazione, ai piedi della Statua della Libertà. Sullo sfondo lo skyline di New York dell'epoca. (Central Press/Getty Images)
Un gruppo di bambini con un'insegnante, nel 1943: a molti giovani immigrati vennero insegnate diverse lingue durante il soggiorno a Ellis Island. (B. Newman/Three Lions/Getty Images)
Michael Corrie, un bambino di 9 anni rifugiato dall'Inghilterra, sul traghetto per Ellis Island da New York durante la Seconda guerra mondiale. Evacuato da Bedford nel 1941, Corrie arrivò a New York senza un visto d'ingresso, poiché suo padre si era dimenticato di darglielo e dovette andare a Ellis Island (Keystone/Hulton Archive/Getty Images)
Henry "Red" Johnson (terzo da sinistra con il cappello bianco) mentre lascia il New Jersey, l'11 aprile 1932, in compagnia di alcuni funzionari dell'immigrazione e della polizia, verso Ellis Island. Verrà consegnato alle autorità federali per un'udienza con l'accusa di aver infranto le leggi sull'immigrazione. Johnson era un marinaio amico di Betty Gow, la babysitter del figlio di Charles Lindbergh: i due furono accusati di aver rapito il bambino, che fu in seguito trovato morto. Per il crimine fu poi condannato Bruno Richard Hauptmann, un immigrato clandestino tedesco, mentre Johnson venne espulso. (AP Photo)
Henri Barbusse, lo scrittore e pacifista francese, in una foto al suo arrivo a New York a bordo della nave Berengaria, il 29 settembre 1933. Si dichiarò membro del partito comunista e fu detenuto a Ellis Island prima di poter entrare nel Paese. (AP Photo)
Alcuni visitatori della stazione di detenzione di Ellis Island mentre arrivano sul traghetto da Manhattan il 13 giugno 1947. Il recinto di filo spinato racchiudeva l'area riservata ai detenuti in attesa di conoscere il loro destino. Molti di loro venivano espulsi e rimandati nel luogo di nascita dei genitori.
Alcuni giovani detenuti a Ellis Island che giocano mentre i genitori cercano di chiarire con l'immigrazione i problemi che impediscono loro l'ingresso a New York il 1° agosto, 1951. (AP Photo/Dan Grossi)
Arne Petterson è l'ultimo straniero a lasciare Ellis Island per entrare a New York, prima della chiusura del principale punto d'ingresso per gli immigranti. La foto ritrae Petterson sul traghetto da Ellis Island, il 12 novembre 1954. Petterson, un marinaio norvegese di Narvik, è stato rilasciato sulla parola grazie a un amico non identificato, che gli fece da sponsor per la cittadinanza. (AP Photo)
Pearl Buck, vincitrice del premio Nobel, apparve davanti a una commissione del Senato per discutere su una proposta per l'uso futuro di Ellis Island, a New York, il 6 dicembre, 1962. Pearl Buck, che era all'epoca la presidentessa del Consiglio di fondazione di una scuola di formazione a Vineland nel New Jersey, aveva proposto di usare l'isola per aprire un centro diagnostico internazionale per le persone con disabilità. Nella foto con il suo progetto.
Una foto del 1924 della stanza in cui avvenivano le registrazioni degli immigrati a Ellis Island (AP Photo/
La foto di una guardia tra alcuni cittadini giapponesi in viaggio verso Ellis Island su una barca l'11 agosto 1945, dopo il loro arrivo a New York dall'Europa sulla SS Santa Rosa. Facevano parte di un gruppo di 158 cittadini giapponesi che sarebbero stati imprigionati come nemici stranieri. (AP Photo/Matty Zimmerman)
Harry Ferguson, mentre viene fotografato all'arrivo a Ellis Island, il 7 gennaio 1933. Si era fatto passare per il principe Michael Romanoff, per essere ammesso negli Stati Uniti. Ferguson fu scoperto e doveva essere espulso, ma scappò da Ellis Island per poter partecipare ad uno spettacolo teatrale. (AP Photo)
1927- New York - Ellis Island vista dall’alto
In questa bella immagine dall’alto si vede chiaramente la banchina d’ormeggio dei traghetti che trasportavano gli immigrati dai Piers dei transatlantici al controllo di Ellis Island
APPENDICE
MUSEO GALATA DEL MARE
GENOVA
"Da Genova a Ellis Island. Il viaggio per mare ai tempi della migrazione italiana" è la grande mostra sull'emigrazione italiana visitabile a partire dal 19 giugno al Galata Museo del Mare. L'allestimento - 8 sale in 3 gallerie per un totale di circa 1200 metri quadri - che intende mostrare le condizioni di viaggio degli emigranti diretti negli Stati Uniti nel periodo tra il 1892 (anno in cui entra in funzione Ellis Island) e il 1914 (scoppio del primo conflitto mondiale) rappresenta una tappa essenziale nel percorso che il Comune di Genova / Istituzione Mu.MA - Musei del Mare e della Navigazione si è prefisso per la realizzazione del "MEM - Museo dell'Emigrazione", quale sezione all'interno del Galata Museo del Mare.
Dopo il grande successo rappresentato dalla realizzazione della Sala "Piroscafo", una ricostruzione ambientale, che unisce allestimenti marittimi originali ad elementi multimediali (un simulatore navale, completo di videoproiezione, manovrabile dalla timoneria), il Galata Museo del Mare, con il sostegno della Regione Liguria e della Compagnia di San Paolo, sponsor sia della mostra che del nuovo allestimento museale MEM, prosegue sul filone del viaggio tra Otto e Novecento.
Rispetto alle mostre tradizionali sul tema dell'emigrazione, per lo più fotografiche e documentarie, "Da Genova a Ellis Island" vuole far rivivere al Visitatore l'esperienza "emigrazione". Munito di un passaporto e di un biglietto di viaggio, il Visitatore arriverà a Genova e qui incontrerà la realtà di una città che, in pieno sviluppo industriale, vive sull'emigrante eppure lo disprezza e lo considera un problema sociale. Attenderà, come molti, all'addiaccio - magari per giorni - l'arrivo del proprio battello e poi entrerà nella ricostruzione dell'antica stazione marittima di Ponte Federico Guglielmo (oggi è Ponte dei Mille) e, dopo i controlli e le raccomandazioni, potrà salire a bordo del piroscafo di emigrazione.
Come il momento dell'imbarco e della partenza è, nella vicenda dell'emigrazione, l'ora più drammatica, quando si tagliano i legami con la propria terra e i propri affetti, così nella mostra "Da Genova a Ellis Island" il centro emozionale è la grande scena dell'imbarco, con la ricostruzione della Stazione Marittima, del Molo e la fiancata del piroscafo "Taormina" ricostruita nei minimi dettagli a grandezza naturale, sulla scorta dei disegni originali conservati dal museo: e così, fisicamente, il Visitatore salirà a bordo, in cerca della sua cuccetta, nei cameroni comuni (divisi in uomini e donne) o potrà esplorare gli ambienti di servizio: come i bagni, il refettorio, la sala medica, ma anche la prigione - dove venivano rinchiusi i violenti e i clandestini - e l'Ufficio del Commissario di bordo.
Un viaggio negli ambienti del piroscafo d'emigrazione e, co contemporaneamente, un vero viaggio "virtuale". Dagli oblò e dalle finestrature sarà possibile vedere il mare, in diverse condizioni di luce, di giorno, al tramonto e durante una notte di luna, e infine passare sotto la Statua della Libertà, il momento del pathos e della commozione. Ma questa non è la fine del viaggio. Il Visitatore, da emigrante, sbarcherà a Ellis Island, l'isola a due miglia da New York: qui entrerà nella Inspection Line, il percorso fatto di visite mediche, interrogatori e test per verificare se possedeva i requisiti per essere accolto in America. E qui verrà ricostruito il percorso, fatto di attese, domande, visite, oltre a mostrare ciò che accadeva a chi non era in regola, o era malato o comunque giudicato non idoneo a entrare negli Stati Uniti. L'ultima scena, infine, apre le porte del Nuovo Mondo o, più esattamente, la città di New York dove la gran parte degli emigranti giunti dall'Europa si fermava alle prese con i problemi concreti del trovare un lavoro, una casa, curare la salute e sbarcare il lunario.
"Per realizzare la mostra Da Genova a Ellis Island - commenta Maria Paola Profumo, Presidente del Mu.Ma - abbiamo sviluppato una coproduzione, tra l'Istituzione Mu.MA e l'Ellis Island Immigration Museum di New York. Il contatto diretto e la collaborazione con anche l'Ambasciata USA in Italia, ha permesso visite, invio di materiale e documentazione. Un contatto importante, perché va ricordato, che gli italiani che passarono a Ellis Island furono oltre 3.000.000, una percentuale enorme sui circa 12.000.000 che tra il 1892 e il 1956 - periodo di funzionamento dell'isola - vi transitarono, il che fa del nostro popolo quello che maggiormente dovette subire le procedure e i controlli di questa fase dell'immigrazione americana".
Se Ellis Island Immigration Museum, struttura visitata ogni anno da milioni e milioni di visitatori, americani e no, luogo simbolo del "melting pot" è il partner di riferimento della mostra, l'elenco delle collaborazioni è molto lungo e qualificato. "La mostra si avvale della collaborazione di alcuni dei centri di studio sull'emigrazione e di raccolta documentaria più importanti in Italia: come la Fondazione Paolo Cresci di Lucca, che ha collaborato per la parte iconografica e documentaria, con l'Archivio Ligure di Scrittura Popolare, diretto da Antonio Gibelli che ha messo a disposizione l'importante e variegata documentazione di lettere e immagini, per lo più di emigranti liguri, o il CISEI - Centro Internazionale di Studi sulla Emigrazione Italiana di Genova. Così come va ricordata la Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma che ha messo a disposizione della mostra il dipinto più famoso e significativo dell'emigrazione italiana: "Gli Emigranti" di Angiolo Tommasi. Datato 1895, misura 4 metri x 3 e rapprsenta un grande affresco che mostra l'attesa degli emigranti, uomini e donne, vecchi e bambini, di regioni diverse. E dove li mostra? Proprio a Genova, lungo il Ponte Federico Guglielmo".
Genova, secondo Pierangelo Campodonico che è il curatore della mostra con il collaudato staff di museologi del Galata Museo del Mare, non è un "luogo qualunque dell'emigrazione italiana: è la porta attraverso la quale passano buona parte degli moltre 29.000.000 milioni di italiani che partono per l'emigrazione. E' perciò doveroso realizzare nella nostra città un luogo dove si possa fare memoria di questo".
Collaborazioni scientifiche, ma non solo: "una mostra non è un libro - prosegue Campodonico - pertanto abbiamo posto molta attenzione alle forme espressive: e così siamo stati aiutati dalla Scuola di Recitazione del Teatro Stabile di Genova, che ha messo "in scena" molti dei documenti raccolti, registrandoli, a voce e in video, a creare la straordinaria colonna sonora della mostra, fatta da musiche dell'emigrazione, ma anche e soprattutto da dialoghi, monologhi, testi di lettere, avvisi e avvertimenti che accompagneranno il Visitatore-Emigrante lungo il percorso. Ma anche l'iconografia ha la sua parte, e così l'Istituto Artistico Nicolò Barabino, con il suo corso di ritrattistica ha realizzato la reinterpretazione dei ritratti fotografici di Augustus Sherman, impiegato e fotografo di Ellis Island, le cui immagini rappresentano nel modo più struggente l'ansia e le speranze degli emigranti, ma anche la loro straordinaria varietà etnica e culturale".
Una mostra "diversa", nelle attese del Galata Museo del Mare, destinata a non essere il tradizionale percorso artistico o documentario in uno dei grandi temi del Novecento e della modernità, ma soprattutto "un percorso emozionale, segnato dall'ansia e dalla speranza. Perché la storia dell'emigrazione è una storia di uomini e donne, di persone, di sentimenti. E gli stessi sentimenti che furono dei nostri padri, sono oggi quelli di tanti emigranti tra noi, non dobbiamo scordarcerlo. E' questo il senso di una memoria civile", conclude Maria Paola Profumo.
CARLO GATTI
Rapallo, giovedì 14 Novembre 2019