ALEXANDER von HUMBOLDT - Veliero

ALEXANDER von HUMBOLDT


Friedrich Heinrich Alexander Freiherr von Humboldt (Berlino 14 settembre 1769 – Berlino, 6 maggio 1859) è stato un naturalista, esploratore, geografo e botanico tedesco.


La corrente di Humboldt (o corrente del Perù) è una  CORRENTE MARINA fredda che circola nell’Oceano Pacifico al largo delle coste occidentali del Cile e del Perù e scorre da Sud a Nord.  Deve il suo nome allo scienziato tedesco ALEXANDER  von HUMBOLDT.

La corrente è prodotta dai venti occidentali delle medie latitudini e, al suo avvicinarsi alle coste a ovest del Sudamerica, viene deviata in direzione equatoriale rinfrescando le coste della fascia tropicale, questo fa sì che le temperature dell'acqua lungo la costa occidentale del Sudamerica siano mediamente inferiori di 7°- 8° rispetto alla temperatura dell'acqua alla stessa latitudine nelle aree dell'Oceano Pacifico più lontane dalla costa.

Questo provoca anche un abbassamento della temperatura dell'aria, riducendo le precipitazioni e facendo sì che le aree costiere siano aride, desertiche, ma molto umide, uggiose e nebbiose allo stesso tempo per il fenomeno dell’inversione termica nei bassissimi strati troposferici che nel contempo inibisce la Convezione e dunque la formazione di cumulonembi, causando siccità marcata in diverse aree.

Al grande scienziato tedesco é stata dedicata la costruzione del brigantino a palo:

Alexander von Humboldt

Anno di costruzione: 1906 dal cantiere Weserwerft di Brema (costruzione N° 155) per essere utilizzato come nave faro per conto della Wasserbauamt di Flensburg.

Costo:  RM 538.400 (Reichmarks) dell'epoca.

Inizialmente era armato a goletta a tre alberi.

Scafo in acciaio

Stazza: 396 tonnellate lorde.

Lunghezza: f.t 53,50 metri, scafo 46,60 metri,

Larghezza 8,02. Immersione min. 4,50 metri, max. 5,50.

Dislocamento: 700 tonnellate.

Propulsione principale: superficie velica 1.035 m².

Il faro fungeva da albero maestro.

Propulsione secondaria: macchina a vapore da 175 PS che dava una velocità di 6 nodi.

L'illuminazione interna era a petrolio.

Equipaggio di complemento: 14 uomini.

Venne varato: il 10 settembre 1906. Prima della consegna venne ribattezzato Reserve.

Operò come nave faro in tutte le stazioni del Mare del Nord. Il porto di armamento era Sonderburg e così ricevette il nome di Reserve Sonderburg.

Nel 1914 venne militarizzato. Dotato di due cannoni, fu inviato nel Baltico con il nome di Ost.

Nel 1918 fece ritorno da Dünamünde a Kiel sotto vela per mancanza di carbone.

Nel 1919 venne comandato come faro di riserva per le stazioni del Mare del Nord.

Nel 1920 venne comandato a Holtenau essendo Sonderburg diventata danese.

Nel 1925 venne sottoposto a lavori di modernizzazione degli impianti luminosi.

Tra il 1933 ed il 1935 venne riallestito integralmente con nuovo motore diesel da 300 PS, fu montato un nuovo e più potente faro con luce elettrica prodotta da due motori diesel, la stazione radiotelegrafica potenziata, ecc.

Nel 1937 vennero rifatte le sistemazioni interne, gli alloggiamenti e le cabine.

Tra il 1939 ed il 1945 venne utilizzato spostandolo in varie località della costa del Mare del Nord.

Nel 1946 venne utilizzato sia come nave faro che come nave appoggio per i piloti portuali a Kiel.
Nel 1950 venne ancora trasformato e rimodernato con aggiunta di altri alloggi per i piloti.


Il 5 luglio 1957 venne speronato e semiaffondato.

Nello stesso anno venne recuperato e mandato in cantiere per le riparazioni ed altri ammodernamenti. I lavori terminarono nel 1959.

Il 19 giugno 1959 riprese servizio a Kiel.

Nel 1963 vi fu installato il radar.

Il 5 luglio 1967 fu trasferito nel Mare del Nord essendosi soppressa la postazione di Kiel per la costruzione di un faro fisso.

Il 21 settembre 1983 la nave faro Reserve cambiò armatore: dall'Amminsistrazione Marittima di Lubecca passa all'Amministrazione Marittima di Wilhelmshaven.

Gli ultimi stazionamenti furono il Golfo di Germania, la foce dell'Elba e, dal 17 settembre 1986, la foce del Weser dove il 17 settembre 1986 venne speronata dal mercantile liberiano Ocean Wind.

I danni furono ingenti e la nave faro dovette essere rimorchiata in cantiere a Wilhelmshaven.

Messa in disarmo, il 23 settembre 1986 venne venduta alla Deutsche Stiftung Sail Training che la portò in cantiere a Brema per i lavori di restauro.

Nel 1987 venne completamente rifatta dal cantiere Motorenwerk di Bremerhaven su progetto del cantiere Lenin di Danzica.

Nel 1988 venne riarmata a brigantino a palo e fu montato un nuovo motore diesel MAN Tipo R 8V 16/18 T4 da quattro tempi della potenza di 510 PS.

L'equipaggio odierno è di 60 uomini più 45 passeggeri od allievi.

Il suo faro originale è nel Museo della Navigazione di Kiel.

Il suo porto di armamento è Brema.

Inizialmente ribattezzata Confidentia, il 20 maggio 1988 alla consegna della nave alla società proprietaria prese il nome di Alexander von Humboldt.

Da allora con le sue caratteristiche vele verdi solca in tutti i mari e partecipa ai raduni delle Tall Ships di tutto il mondo.



Carlo GATTI

Rapallo, venerdì 27 Settembre 2019


INDIVIDUATO IL RELITTO DEL VASCELLO SVEDESE MARS

LA NAVE DA GUERRA MARS (MARTE)

MAKALÖS (l’impareggiabile)


VIENE INDIVIDUATA DOPO 449 ANNI

ALCUNE CONSIDERAZIONI PRELIMINARI

I Paesi Scandinavi, come li conosciamo oggi, sono civilissimi, politicamente “neutrali”, pacifici e molto invidiati per la loro organizzazione sociale che va dal wellfare all’accoglienza ecc…

Eppure queste monarchie che tuttora sopravvivono, sono state rivali tra loro, espansioniste, molto bellicose e spesso in conflitto armato tra loro.

Oggi si parla sempre più spesso di “sovranismi” in riferimento alle due Guerre mondiali che ci hanno visto coinvolti in quei massacri, ma gli Stati Scandinavi hanno saputo voltar pagina al momento opportuno e sono stati capaci di abbracciare e difendere quella posizione di neutralità, su cui torneremo tra breve, che ha consentito loro di limitare i danni della Seconda guerra mondiale, pur mantenendo tutte le caratteristiche antropologiche legate alle loro tradizioni storiche a cui sono legatissimi.

Qualche “ciccatrice” del passato é ancora presente, per esempio nella Skandia (la parte meridionale della Svezia), che un tempo apparteneva alla Danimarca, stranamente, si parla lo SKÅNSKA, una lingua più danese che svedese. Anche l’isola di Bornholm é molto più vicina alla Svezia che alla madrepatria danese.

In altri articoli del sito di Mare Nostrum ho scritto la storia di Bornholm ed anche dell’isola di Åland che si trova tra Svezia e Finlandia. Ma la cosa più curiosa é che nonostante le rispettive lingue appartengano allo stesso gruppo linguistico Nord Germanico, tra loro preferiscono parlare inglese… e questo la dice lunga sullo spirito di conservazione delle rispettive radici.

Per quanto riguarda la Finlandia il discorso é ancora più complicato, nel senso che i finlandesi appartengono ad una razza completamente diversa da quella scandinava e la loro lingua (incomprensibile) appartiene al gruppo uralo-altaico (ugro-finnico).

La Svezia e la Danimarca sono tra i più antichi e più tipici casi di stato-nazione e di conseguenza vanno studiati, alla pari di Francia, Gran Bretagna e Spagna, più come varianti dello stato-nazione nato nell’Europa moderna che non come casi di “piccoli stati”. I due stati, in competizione tra loro, hanno esercitato una forma di supremazia sulla gran parte del Nord Europa, dal tardo Medioevo in avanti.

Nel tempo furono gradualmente rimpiazzati dall’egemonia russa, prussiana e inglese, e ridotti allo status di piccoli poteri statuali.
In ragione di cambiamenti simultanei nella grande politica durante il XVIII e il XIX secolo, i maggiori conflitti europei si dislocarono lontano dal Nord Europa e ciò produsse una “neutralizzazione” virtuale dei paesi scandinavi a nord del Mar Baltico. Questa situazione di relativa neutralità fa sentire la sua presenza nella memoria collettiva dei danesi e nonostante anni di appartenenza alla Nato e all’Unione Europea l’ideologia neutralista mantiene una forte presa sulla popolazione. Un effetto secondario della propria esperienza di periferia privilegiata del Nord Europa fu la crescita di una identità nordica transnazionale al di sopra delle identificazioni nazionali per cui si sentono solidali nella comune appartenenza alle Nordinska Länder (Terre Nordiche).

LO SCONTRO NAVALE TRA DANIMARCA E SVEZIA

Non sempre nei libri di storia dell’Europa meridionale si racconta di quella guerra (detta dei Sette Anni o delle Tre Corone) che nel XVI secolo fu combattuta nelle fredde acque del nord Europa, dalla Svezia di Erik XIV contro la Danimarca di Federico II e la sua alleata città di Lubecca.

Stemma dell’Unione di Kalmar

Una guerra forse minore a fronte di quelle combattute tra le grandi nazioni europee meridionali ma che forse riserva ancora molte sorprese per gli storici e gli archeologi. Tutto ebbe inizio nel 1523 quando la Svezia uscì dall’Unione di Kalmar, diventando un regno indipendente con il re Gustavo I Wasa. Questa azione suscitò la disapprovazione del re danese Cristiano III che per ripicca incluse nel proprio stemma le Tre Corone (da cui il nome della guerra), che rappresentava i tre regni nordici dell’Unione di Kalmar e che, fino a quel momento, era presente solo nello stemma svedese. Ciò ovviamente non piacque alla Svezia che si senti tradita dopo che avevano avuto interessi comuni quando nella prima guerra del nord, combattuta per arginare l’espansionismo russo sulle coste del Baltico.


Sulla carta é segnata la posizione del relitto della MARS

 


Il XVI secolo fu molto interessante sia dal punto di vista dell’architettura navale sia nello sviluppo degli armamenti, quando videro la nascita dei nuovi cannoni realizzati usando ferro e bronzo. Questo vascello apparteneva alla prima generazione di grandi navi da guerra a tre alberi, armato con oltre cento canne da fuoco. Per poterle approntare fu necessario reperire il bronzo, metallo assai raro sul mercato. L’impiego del Mars in battaglia differisce da quello delle navi precedenti per un’importante novità tattica. Lo scontro di Öland, che gli fu fatale, fu storicamente la prima battaglia navale in cui le navi usarono il fuoco diretto dei cannoni per offendere l’avversario, piuttosto che per perseguire l’abbordaggio classico del nemico. In realtà nel primo giorno di battaglia gli Svedesi comandanti dall’ammiraglio Bagge avevano sbaragliato i Danesi, grazie ad una potenza di fuoco non comparabile, ma il secondo giorno, i Danesi della flotta di Lubecca cambiarono tattica e decisero di concentrarsi sulla grande nave da battaglia, lanciando palle di fuoco incendiarie sul grande vascello.

L’idea era di creare scompiglio al fine di riuscire ad abbordarla mentre era in fiamme. L’incendio si propagò velocemente, alimentato dalle esplosioni dei depositi di polvere da sparo e degli stessi cannoni. Si ritiene che furono proprio le loro esplosioni a causarne l’affondamento. Uno squarcio si apri sulla prua trascinando oltre mille uomini negli abissi. Quel 30 maggio 1564, il Mars scomparve ed iniziò la storia della sua maledizione.

 

IL RITROVAMENTO DEL RELITTO


Il relitto è stato scoperto da un team guidato da Richard Lundgren, uno dei proprietari di Ocean Discovery, una società di subacquei professionisti che assiste il lavoro degli archeologi marittimi e a Johan Rönnby, professore di archeologia marittima all'Università di Södertörn in Svezia, sono state affidate le ricerche per ricostruire la storia della nave.

 

 

La Mars con i suoi 50 metri di lunghezza era uno dei vascelli più grandi della flotta militare svedese, dotata di 107 cannoni e con quasi 1.000 persone di equipaggio, era una delle navi da guerra più famosi della sua epoca. Era il 1564 quando il vascello s’inabissò nel Mar Baltico, nel corso della Guerra dei Sette Anni, probabilmente a causa di una esplosione che la distrusse facendola colare a picco.

 

 





Reperti trovati all’interno del relitto

 

Nel 2011, dopo anni di ininterrotte ricerche, il relitto è stato individuato a 75 metri di profondità al largo dell’isola di Öland, la nave era inclinata sul lato destro sul fondale dove per quasi 450 si è conservata incredibilmente bene, grazie soprattutto a condizioni ambientali favorevoli, come la scarsità di sedimenti e la lentezza delle correnti.

Il relitto è stato scoperto da un team guidato da Richard Lundgren, uno dei proprietari di Ocean Discovery, una società di subacquei professionisti che assiste il lavoro degli archeologi marittimi e a Johan Rönnby, professore di archeologia marittima all'Università di Södertörn in Svezia, sono state affidate le ricerche per ricostruire la storia della nave.

Il team guidato da Rönnby sta ispezionando il relitto millimetro per millimetro e, grazie ai fondi della National Geographic Foundation, gli archeologi subacquei stanno scansionando il relitto per realizzare una foto mosaico e riproduzioni tridimensionali che consentiranno di condividere la Mars con studiosi e appassionati di tutto il mondo. Riportare un relitto in superficie, infatti, è un’operazione finanziariamente onerosa e pericolosa per la sopravvivenza dei resti archeologici, ma oggi grazie ai laser scanner utilizzati dagli studiosi il sito potrà esse esplorato e studiato senza ulteriori costi e rischi.

La tradizione, però, narra una storia leggermente diversa. Rönnby spiega che i sovrani svedesi, all'epoca, erano impegnati a consolidare la propria posizione. "Ma la chiesa cattolica, potente com'era, costituiva un grosso ostacolo". Proprio nel tentativo di sminuire il potere della Chiesa, re Erik XIV - colui che commissionò la MARS – diede ordine di confiscare le campane delle chiese, le fusero e utilizzarono il metallo per forgiare i cannoni delle navi da guerra. A bordo c'erano oltre cento cannoni di svariate dimensioni. Secondo il mito, proprio la "nuova vita" forzata di quelle che erano soltanto campane, portò la nave verso la rovina.

La leggenda narra che dopo l’affondamento uno spettro si alzò dalle profondità degli abissi per proteggere il relitto in modo che non fosse mai più scoperto.

Lundgren e i suoi colleghi recuperarono 50 cannoni di bronzo dell'epoca, ma il fortunato sommozzatore ci tiene a precisare: «Non abbiamo cercato ricchezze, anche perché, secondo una severissima legge svedese, ogni tesoro ritrovato nelle acque territoriali appartiene allo Stato, che a sua volta può rilasciare una "generosa mancia" a chi l'ha trovato. Purtroppo c'è troppa gente senza scrupoli che ha selvaggiamente violato i relitti, asportandone reperti preziosi. E così non può continuare».

Ma è impossibile controllare e tenere d'occhio tutte le imbarcazioni che incrociano nel Golfo di Botnia a caccia di tesori. Di grandi galeoni ricchi di tesori che giacciono sul fondo ne sono stati ritrovati otto, mentre di due non si sono trovate ancora le tracce. Inoltre, nel corso di varie guerre, comprese le ultime due mondiali, sono numerosissime le unità affondate con siluri o cannoneggiamenti. Lo stato di conservazione dei relitti, anche quelli più antichi, è ottimo, anche grazie alla mancanza, nel Golfo di Botnia, del mollusco «Tiridinidae», presente nei mari caldi e temperati, che mangia il legno delle navi. Secondo l'archeologo marittimo Johan Rònnby, sarebbe quindi possibile ritrovare anche relitti risalenti all'epoca vichinga o alla preistoria, perfettamente conservati e forse ricchi di reperti preziosi per gli studiosi di antichità. Sempre che cercatori di tesori senza scrupoli non arrivino prima a saccheggiarli.

Carlo GATTI

Rapallo, giovedì 6 maggio 2019


HORATIO NELSON - EROE E VERO MARINAIO

HORATIO NELSON

EROE E VERO MARINAIO


La Colonna di Nelson domina Trafalgar Square – Londra

Il monumento fu costruito tra il 1840 e il 1843 per commemorare la morte dell'ammiraglio Horatio Nelson alla battaglia di Trafalgar, nel 1805. La statua di Nelson è alta 5,5 m e si trova sopra una colonna di granito alta 46 m di circa 3 m di diametro. La statua di arenaria è orientata verso sud verso il Palazzo di Westminster e il Pall Mall. La cima della colonna ha un capitello corinzio (ispirato alle colonne del tempio di Marte Ultore di Roma) ed è decorato con foglie d’acanto in bronzo ottenute dalla fusione di cannoni britannici. Il piedistallo è decorato da quattro pannelli che raffigurano le quattro grandi vittorie di Nelson ottenuti dalla fusione dei cannoni francesi catturati. Nel 1868 agli angoli del piedistallo furono aggiunti quattro grandi leoni di bronzo.

Horatio Nelson, visconte. - Ammiraglio inglese (Burnham Thorpe, Norfolk, 1758 - Trafalgar 1805). Considerato uno dei più celebri eroi nazionali inglesi, si distinse particolarmente nelle guerre antinapoleoniche. A Napoli (1799) patrocinò la spietata rappresaglia contro gli esponenti della Repubblica partenopea. Comandante supremo della flotta inglese nel mar Mediterraneo, nel 1805 sconfisse i francesi a Trafalgar, dove morì in battaglia.


(Nella foto) - L’ammiraglio britannico Lord Horatio Nelsonprimo visconte Nelsonprimo duca di Bronte (Burnham Thorpe, 29 settembre 1758 – Capo Trafalgar, 21 ottobre 1805)

Per le sue vittorie nelle tre grandi battaglie navali in cui era Comandante in capo è ancora oggi uno dei più amati e celebrati eroi nazionali d'Inghilterra, ma non mancano nella sua vita episodi controversi, come la parte avuta negli orrori seguiti alla fine della Repubblica partenopea nel 1799.


 

BIOGRAFIA

HORATIO NELSON entrò in marina all'età di dodici anni grazie a un suo zio, il Capitano Maurice Suckling. Il suo primo viaggio in mare lo portò a visitare le Indie Occidentali, ed al rientro prese ad esercitarsi, affascinato dal mare, a pilotare piccoli velieri nell'estuario del Tamigi.

Fu promosso Tenente di Vascello nell'aprile del 1777, dopo aver preso parte ad una spedizione nell'Artico agli ordini del Comandante Phipps e dopo aver fatto esperienza nel mare delle Indie.

Avendo portato a termine diverse operazioni ancora nelle Indie Occidentali, all'età di vent'anni fu promosso Capitano di Vascello nel 1778. Nel 1780 partecipò ad una spedizione in Nicaragua dalla quale dovette anticipatamente rientrare a causa di gravi problemi di salute.

Ripresosi dalla malattia, nel 1781 fu pronto per una nuova spedizione in Canada, a bordo della fregata ALBEMARLE, comandata dall'Ammiraglio Hood.

Nel 1783 rientrò in patria dopo la guerra contro le colonie americane che si risolse con la dichiarazione d'indipendenza delle stesse; l'anno seguente operò ancora una volta nelle Indie Occidentali dove conobbe e sposò nel 1787 Frances Nisbet.


Frances Nisbet moglie di Orazio Nelson da una pittura di anonimo

Il primo comando

Nel 1793 a Nelson fu affidato il comando del vascello HMS AGAMENNON durante la guerra contro la Francia rivoluzionaria. Di nuovo agli ordini dell'Ammiraglio Hood, fu inviato nel Mediterraneo dove partecipò all'assedio di Tolone. L'esito positivo di tale operazione contribuì ad accrescere la già elevata popolarità di cui Horatio Nelson godeva in patria. Nel corso di una missione a Napoli, nel settembre del 1793, conobbe Emma Lyon, moglie dell'ambasciatore britannico presso la corte borbonica Sir William Hamilton, con la quale strinse successivamente una intensa relazione sentimentale.


Il vascello HMS AGAMENNON - Da mediadecor.com


Fu poi impegnato nelle operazioni militari che puntavano alla conquista della
Corsica: nel luglio del 1794 durante un attacco a Calvi, perse l'occhio destro. Nel 1795 al comando dell'HMS AGAMENNON si distinse nella battaglia di Genova, attaccando coraggiosamente la nave francese di classe superiore ÇA IRA catturandola assieme alla CENSEUR e impedendo uno sbarco di truppe francesi in Corsica. Nel 1796 fu nominato commodoro e poi gli fu affidato il comando della CAPTAIN, un vascello di linea di terza classe (74 cannoni).

L'anno seguente si distinse nel corso della battaglia di Capo San Vincenzo (14 febbraio 1797), durante la quale una manovra, divenuta poi famosa, che contravveniva apertamente alle Istruzioni per il Combattimento della marina Inglese permise all'ammiraglio John Jervis (nominato poi conte di St. Vincent) di portare in patria due grandi navi catturate, a prova della sua vittoria sulla flotta spagnola.

 

La battaglia di Capo San Vincenzo - Da it.wahooart.com

 

L'esperienza, la fama, l’ASCESA…

 

Promosso Contrammiraglio della "squadra blu” e creato Cavaliere dell'Ordine del Bagno, nel luglio del 1797 partecipò al temerario ma inutile attacco sferrato contro la città di Santa Cruz de Tenerife, nelle Isole Canarie, durante il quale fu gravemente ferito al braccio destro che, divenuto incurabile, gli venne amputato.

Nell'aprile del 1798 riprese servizio dopo un lungo periodo di convalescenza. Gli fu assegnata nel Mediterraneo una divisione incaricata di sorvegliare i movimenti della flotta francese con base a Tolone. Essendosi lasciato sfuggire la flotta comandata dall'Ammiraglio Brueys, diretta in Egitto con la spedizione di Napoleone Bonaparte, iniziò una lunga caccia che lo portò ad inseguire l'armata navale nemica per quasi due mesi dopo i quali, il 1º agosto 1798, sorprese il nemico ancorato nella baia di Abukir e lo annientò (battaglia del Nilo), bloccando in tal modo le truppe di Napoleone sul suolo egiziano.

 

Nelson nella battaglia del Nilo nella baia di Abukir

 

Successivamente fu inviato a Napoli con una flotta congiunta britannico-portoghese, divisa in due flotte comandate dallo stesso Nelson e dall'ammiraglio portoghese Domingos Xavier de Lima noto come il Marchese di Nisa, per colpire gli insorti giacobini e mettere in salvo la corte borbonica, ma al suo arrivo sul teatro di guerra la Repubblica Napoletana, sconfitta su tutti i fronti dal cardinale Fabrizio Ruffo e abbandonata dalle truppe francesi, aveva già capitolato. Tuttavia Nelson non volle rispettare i patti della resa che gli vennero trasmessi dal cardinale Ruffo, consegnando così i capi giacobini ed i fautori della rivolta alla vendetta di Ferdinando IV, tra cui l'ammiraglio Francesco Caracciolo, ritenuto colpevole di alto tradimento e condannato all'impiccagione.

Durante la parentesi napoletana Nelson strinse un legame più intenso con Lady Hamilton.

Nominato Duca di Bronte da Re Ferdinando, Nelson tornò in Inghilterra con Emma Hamilton agli inizi del 1800 dopo alcune divergenze con l'ammiragliato; poco tempo dopo si separò dalla moglie Frances Nisbet per vivere con l'amante, dalla quale lo stesso anno ebbe una figlia, Horatia.

 

Lady Hamilton ritratta come Circe, dipinto di George Romney

 

Le turbolente vicende legate alla sua vita privata non ridussero la stima che l'Ammiragliato e gli alti vertici della marina militare britannica riponevano nei confronti di Nelson: nel 1801 difatti fu promosso dall'Ammiragliato viceammiraglio e comandante in seconda della flotta con la quale il comandante Hyde Parker doveva reprimere le forze della Lega dei Neutri.

L'operazione comandata da Parker e Nelson aveva il compito di sconfiggere le flotte di Danimarca e Svezia; entrambi i paesi infatti appoggiavano economicamente la Francia napoleonica e per questo dovevano essere rapidamente fermate. Il 2 aprile del 1801 Nelson e Parker riportarono una brillante vittoria con la Battaglia di Copenaghen che cancellò in modo definitivo la minaccia navale scandinava.


La Battaglia di Copenhagen di Thomas Luny (1759-1837)


 

L'ultima battaglia

Dopo un periodo di congedo a seguito della Pace di Amiens, Nelson fu nominato comandante in capo della flotta operante nel Mar Mediterraneo, la prestigiosa Mediterranean Fleet. Con queste forze riuscì a bloccare a Tolone la flotta francese che si preparava all'invasione dell'Inghilterra; Nelson assediò la città per due anni, attendendo le mosse della marina avversaria dall'isola de La Maddalena fino al marzo 1805, quando l'ammiraglio Pierre Charles Silvestre de Villeneuve riuscì ad eludere la sorveglianza ed a dirigersi verso le Indie Occidentali.

La manovra avrebbe dovuto far credere ad un attacco francese ai possedimenti inglesi nell'America Centrale mentre Napoleone sarebbe potuto sbarcare in Inghilterra ed in effetti essa riuscì. Ma l'ammiraglio Villeneuve, sfuggito all'inseguimento inglese, anziché dirigersi nel canale della Manica per "coprire" lo sbarco francese in territorio inglese, si lasciò impressionare da uno scontro di poco conto al largo di El Ferrol e riparò a Cadice.

 

 

- La battaglia di Trafalgar (1822) - dipinto di Turner

 

Il 21 ottobre l'ammiraglio Villeneuve, ricongiuntosi con le forze navali spagnole del Gravina, si portò al largo di Capo Trafalgar dove la flotta britannica era pronta alla battaglia: benché le forze navali inglesi fossero numericamente inferiori a quelle franco-spagnole (trentatré navi franco-spagnole contro le ventisette inglesi), NELSON inflisse una decisiva sconfitta alla flotta nemica (battaglia di Trafalgar). Questo evento bellico permise all'Inghilterra di rafforzare la propria supremazia navale su quella francese che da quel momento non ebbe più alcun peso nello scacchiere operativo navale.

Il giorno in cui si svolse la battaglia navale di Trafalgar, Horatio Nelson fece innalzare sull'albero maestro della sua nave ammiraglia, la VICTORY il segnale d'incitamento rivolto a tutta la sua flotta: ("L'Inghilterra si aspetta che ogni uomo compia il proprio dovere").

 

"England expects that every man will do his duty"

 

Trafalgar - Morte di Nelson

 

Tuttavia Nelson non poté godere degli allori della vittoria poiché fu colpito a morte da un tiratore francese che sparò dall'albero maestro della nave Redoutable.

Il cadavere dell'ammiraglio, come confermano i documenti degli archivi britannici, venne conservato in una botte di rum (in quanto a base di alcol) fino al rientro in Inghilterra, dove ricevette i funerali di Stato.

Il suo corpo venne solennemente tumulato nella Cattedrale di San Paolo a Londra, all'interno di una bara ricavata da un pezzo di legno, ripescato in mare, dell'albero maestro de L'Orient. Quest'ultima era ammiraglia francese nella battaglia del Nilo. Prese fuoco e affondò in seguito all'esplosione dei due depositi di polveri situati uno a poppa e l'altro a prua.

Alla vigilia della partenza per la campagna d'oriente, Napoleone aveva appropriatamente fatto cambiare il nome della nave da Sans Culotte a L'Orient, risvegliando la superstizione dei marinai, per i quali cambiare nome ad una nave porta disgrazia. C'è da aggiungere che si trattava del secondo cambio di nome, essendo la nave stata varata col nome di Le Dauphin Royal.



LA PARENTESI GENOVESE DI HORATIO NELSON

Omaggio di Mauro Salucci (storico genovese)

"Era il settembre 1794, Horatio Nelson sbarcava a Genova. Trentaseienne, ancora uno sconosciuto, rossiccio di capelli e mingherlino. Quel 20 settembre scese dalla nave Agamennon ormeggiata nel porto. Vestito in alta uniforme, in mezzo agli sguardi interrogativi di lerci marinai e pendagli da forca nell'ora d'aria dalle galee, imboccò i caruggi da Sottoripa per raggiungere Palazzo Ducale. La sua intenzione era richiedere un'udienza al Doge per spiegare un incidente diplomatico dell'anno precedente, durante il quale una flotta inglese era entrata nel porto di Genova senza permesso, violando la neutralità politica della Superba. Ci volle poco e i genovesi si presero la loro rivincita, perchè negarono la richiesta di permesso d'imbarco nel porto di cinquemila soldati austriaci per la difesa di Tolone strappata ai francesi. Giunto al cospetto del doge, venne accolto con tutti gli onori, ma questi gli disse chiaro e tondo che Genova non avrebbe mai e poi mai preso le armi contro la Francia. Quando uscì dal palazzo lo fece mesto e corrucciato. Mai si sarebbe atteso una risposta tanto risoluta. Alzò gli occhi e giunto sulla nave scrisse alla moglie Fanny una lettera "Questa città è senza eccezione la più bella che io abbia mai visitato, persino superiore a Napoli, sebbene vista dal mare il suo aspetto non le renda giustizia, ma vista da vicino è semplicemente splendida. Tutte le case sono palazzi e dalle dimensioni imponenti". Seguiranno notti bianche per il povero Nelson, che iniziò una rappresaglia verso i genovesi nei mari di tutto il mondo che commerciavano con i nemici, avendo Nelson spesso la peggio. Scrisse "Vedremo chi, tra me e i genovesi, si stancherà prima...". Poi scrive il 29 luglio 1795 "... qui sono parecchio detestato. Non posso più scendere a terra in Genova senza correre probabili rischi..."

 

Come abbiamo già visto, nel maggio 1793, l’ammiraglio della flotta britannica Horatio Nelson soggiornò a Napoli presso la corte borbonica dove conobbe la giovanissima Lady Emma Hamilton, donna controversa, nota al pubblico europeo dell’epoca anche con il nome di Emma Hart, soggetto dei ritratti di George Romney. Nonostante entrambi fossero sposati, intrapresero una relazione amorosa.

In quegli anni Nelson era capitano dell’Agamennon, vascello della flotta britannica nel Mediterraneo. La Rivoluzione Francese imperversava e i giacobini miravano all’occupazione di nuovi territori: fu così che gli inglesi ingaggiarono gli eterni rivali prima nella battaglia di Calvi (Corsica, 1794), nella quale Nelson perse un occhio e un braccio, e poi nella battaglia di Genova, dove la flotta britannica si era diretta dopo l’occupazione dell’isola tirrenica.


Ristorante Panson - Genova

In Piazza delle Erbe ci sono molti locali, tra questi si trova L'Antico Ristorante Panson, che era già in attività nel 1790. Conta due sale da pranzo, una delle quali è detta saletta Nelson.

A noi piace immaginare Nelson e Lady Hamilton a braccetto, come nuovi innamorati, mentre passeggiano ancora in Piazza delle Erbe.

Dopo le mutilazioni subite, Nelson stesso era stato inviato a Genova per instaurare nuovi rapporti diplomatici tra la Repubblica e il Regno Unito. Fu durante questo periodo, prima della battaglia navale del marzo 1795, che soggiornò presso le stanze di quella che allora era l’osteria Panson. E’ da questo episodio che prende nome la sala da pranzo dell’odierno ristorante.

Lady Hamilton raggiunse Nelson a Genova per un breve periodo, poi ritornò nel regno di Ferdinando I, dove proseguiva la sua permanenza a Napoli con il marito. Nel 1798 incontrò di nuovo il suo amato.

I tre in Inghilterra condussero una vita di scandalo, vivendo sotto lo stesso tetto. I due amanti, rispettavano i propri coniugi e non avevano intenzione di chiedere un divorzio che avrebbe disonorato le loro vite per sempre. Horatio ed Emma ebbero due figlie, la primogenita Horatia, nacque nel 1801, mentre la sorella nacque nel 1804, ma morì poche settimane dopo la nascita.


Uno dei tanti ritratti in cui George Romney ha immortalato Emma Hamilton, in arte Emma Hart

Hamilton, Emma, nata Lyon. - Avventuriera inglese (Great Neston, Cheshire, forse 1761 - Calais 1815). Di umile origine, nel 1782 divenne l'amante di Charles Greville, deputato ai Comuni, che la introdusse nella brillante società londinese del tempo, dove la ritrasse più volte, nel fulgore della sua bellezza, il pittore George Romney. Nel 1786 era a Napoli presso Sir William Hamilton, che nel 1791 la sposò; bene accolta alla corte napoletana, in particolare dalla regina, servì da tramite tra questa e l'ambasciatore inglese. Nel settembre del 1793 H. Nelson, di passaggio da Napoli, l'incontrò per la prima volta, ma solo al suo ritorno a Napoli nel settembre 1798, dopo la battaglia di Abukir (al cui felice esito contribuì la concessione fatta dalla regina alla flotta inglese, sembra proprio per intervento della H., di rifornirsi in Sicilia), ebbe inizio la sua passione per lei, che tanta influenza doveva avere sulla sua vita pubblica e privata; quando, poco dopo, la corte borbonica si rifugiò a Palermo  sotto la protezione della flotta inglese, la H. divenne l'amante ufficiale dell'ammiraglio, sulla cui sleale politica di repressione (1799) influì per istigazione della regina. Nelson, alla sua morte (1805), le lasciava una pensione che essa, trasferitasi a Londra in seguito al richiamo del marito fin dal 1800, dilapidò presto; fu anche, sul finire della vita, imprigionata per debiti (1813).

 

Il resto è storia, lui morì a Trafalgar nel 1815, lei disperata si diede al gioco d’azzardo e all’alcol, prima di morire all’età di 49 anni.


L’EPILOGO

Ferito a morte durante la battaglia di Trafalgar, HORATIO NELSON fu riportato in patria dentro un barile di rum inglese.

Capo Trafalgar, Spagna sud-occidentale.

È l’alba del 21 ottobre 1815: 17.000 inglesi stanno per affrontare 25.000 tra francesi e alleati spagnoli, in una delle battaglie navali più famose di sempre.

Al comando della Royal Navy britannica, impeccabile sulla nave ammiraglia VICTORY, Lord Horatio Nelson fa issare una bandiera che passerà alla Storia:

L’Inghilterra si aspetta che ogni uomo compia il proprio dovere

L’inizio della battaglia di Trafalgar fu violentissimo: gli inglesi disponevano di ventisette vascelli, contro le trentatré navi da guerra franco-spagnole. Dopo cinque ore di combattimento, i francesi avevano perso ventidue navi, gli inglesi nemmeno una. L’ammiraglio Villeneuve si arrese così alla flotta di Sua Maestà.

La vittoria era stata indubbiamente merito dell’ammiraglio HORATIO NELSON e delle sue ardite (e innovative) manovre, che avrebbero consegnato alla Gran Bretagna il dominio dei mari fino al secolo successivo. Il Lord inglese non avrebbe però potuto assistere ai festeggiamenti: era morto nella sua cabina poco prima del termine della battaglia, ma in tempo utile per conoscerne l’esito positivo.

I TRAGICI MOMENTI DELLA MORTE DI NELSON

Nelson era una vera e propria leggenda.

- Aveva perso un braccio nella battaglia di Santa Cruz de Tenerife

- l’occhio destro a Calvi

- aveva in fronte una grossa cicatrice risalente alla battaglia di Abukir

- ferite più da semplice marinaio che da ammiraglio di Sua Maestà.

Ma il Lord inglese era fatto così: le cronache raccontano di un uomo sempre al fianco dei suoi marinai, il primo a esporsi ai rischi degli abbordi. E ai tiri dei cecchini avversari, posizionati sulle coffe.


Poco dopo l’inizio delle ostilità un cecchino lo centrò in pieno petto, perforandogli un polmone. Rimasto cosciente per qualche ora, sembra che sia vissuto abbastanza da venire informato della vittoria, ma pochi minuti dopo spirò.

La leggenda narra che la scelta della marsina rosso sangue fosse stata scelta appositamente da Nelson: in caso egli fosse stato ferito (come poi avvenne) la marsina avrebbe nascosto il sangue, così da non demoralizzare le proprie truppe.

L’ultimo trucco di uno dei più grandi strateghi militari della storia.

Anche quella mattina era in coperta – nonostante gli avvertimenti dei suoi attendenti – in alta uniforme, con le decorazioni che scintillavano al sole spagnolo. Durante la battaglia, il suo segretario viene colpito in pieno da una palla di cannone.

Verso le 14, un tiratore scelto nemico lo colpisce alla spalla sinistra: il colpo viene dall’alto: attraversa l’omero, spezza due costole, trancia un’arteria polmonare e frattura due vertebre dorsali. Nelson si accascia in una pozza di sangue, ma quasi nessuno se ne accorge, forse grazie anche alla mantella scarlatta che indossa. La notizia del ferimento così non trapela e nessun marinaio cede allo scoramento. Nelson viene portato sottocoperta, assistito dal capitano Hardy e dal dottor Beatty. Il dolore è insopportabile e le condizioni appaiono subito critiche.

Dopo due ore di agonia, Hardy lo informa che la battaglia sta per essere vinta. È il segnale che Nelson stava aspettando. Fa promettere al capitano di non buttarlo in mare, una volta morto, e lo bacia sulla guancia. Rivolgendosi al cappellano Scott, mormora le sue ultime parole

“Non sono stato un grande peccatore. Grazie a Dio, ho compiuto il mio dovere”.

Alle 17 in punto Nelson muore.


Particolare dell’uniforme di Nelson. In alto si nota il foro di entrata del proiettile mortale.

La notizia della vittoria (e della morte dell’ammiraglio) arriverà a Londra soltanto quindici giorni dopo, il 5 novembre. Il Times intitolerà:

“Non sappiamo se dobbiamo piangere o gioire, il paese ha vinto la più splendida e decisiva battaglia che abbia mai adornato gli annali navali d’Inghilterra, ma è stata acquistata a caro prezzo. Il grande e galante Nelson non è più”.

A bordo, il corpo di Nelson viene denudato e rasato. Per conservarlo fino al ritorno in Inghilterra, si decide di immergerlo in un grosso barile di rum. Qui inizia la leggenda.

IL NELSON’S BLOODY RUM

Da quasi due secoli, sulle navi di Sua Maestà, il rum veniva distribuito ai marinai quotidianamente, diluito con succo di limone per prevenire lo scorbuto. La VICTORY non faceva eccezione. Per la conservazione della salma dell’ammiraglio viene però usato molto liquore e le razioni giornaliere per l’equipaggio diminuiscono. Iniziano i mugugni.

Durante il viaggio di rientro, il barile con all’interno il corpo dell’ammiraglio viene scoperto da un marinaio che, ignaro di ciò che il barile in realtà “ospita”, pratica un foro su un lato e ne spilla a piccole dosi il contenuto, per compensare la penuria di rum distribuito legalmente.

La VICTORY attracca a Portsmouth il 4 dicembre 1815, dopo essere stata riparata a Gibilterra. Quando il barile viene aperto, per concedere al grande ammiraglio degna sepoltura, di rum non ve n’è più neppure una goccia.

L’episodio ispirerà la nascita di un famoso rum dal colore rosso, il Nelson’s Bloody, per l’appunto.


Nelson’s Bloody Rum

Una volta in patria, Nelson viene composto in una bara ricavata dal legno dell’ORIENT, una nave da guerra francese da lui catturata ad Abukir e, dopo solenni funerali, sepolto nella cattedrale di Saint Paul.

L’uniforme indossata da Nelson durante la battaglia è conservata al National Maritime Museum di Londra; il proiettile che lo colpì si trova invece al Castello di Windsor; mentre a Portsmouth è possibile visitare l’Ammiraglia VICTORY.

HONOURS

· Battle of Ushant …………………. 1781

· Battle of the Saintes …………… 1782

· Battle of Genoa....................... 1795

· Battle of the Hyeres Islands 1795

· Battle of Copenhagen …………. 1801

· Battle of Cape Finisterre …….. 1805

· Battle of Trafalgar ………………. 1805

· Battle of San Domingo ………… 1806

· Battle of Copenhagen …………. 1807

Fonti: Wikipedia e Nautica Report

A cura di Carlo GATTI

Rapallo, 15 Maggio 2019


BREVE STORIA DELLE ASSICURAZIONI MARITTIME

BREVE STORIA DELLE ASSICURAZIONI MARITTIME

Trent'anni fa, Maurizio Tosi, allora giovane archeologo dell'Istituto per lo studio del Medio ed Estremo Oriente (Is.MEO), si trovava a esplorare un territorio vergine e pressoché sconosciuto all'archeologia, il sultanato dell'Oman.

 

I PRIMI CONTRATTI
Anche le civiltà più antiche in India o in Babilonia hanno lasciato tracce di accordi, di
“contratti” stipulati, spesso oralmente, per proteggere i beni trasportati dalle navi o dalle carovane.

 


Nave Oneraria di Albenga

 


Nel 200 a.C. comparvero alcune iniziali forme d’assicurazioni di rendita vitalizia…

Un antico esempio di mutualità nacque da una legge promulgata a Rodi ancor prima dell’avvento di Cristo che sanciva il criterio della compensazione generale delle perdite conseguenti ad alleggerimenti del carico effettuati durante la navigazione allo scopo di salvare la nave, i passeggeri ed il suo equipaggio.


A Roma esistevano molte società di assistenza e, come in Grecia, anche i collegia tenuiorum provvedevano alla sepoltura di chi non poteva permettersi una cerimonia funebre.


Le guerre puniche (264-146 a.C.)

I fornitori di armi e vettovaglie delle legioni romane impegnate nelle Guerre Puniche contro Cartagine comunicavano al Senato l’intenzione di continuare a rifornire le LEGIONI soltanto dietro pagamento completo del carico anche in caso di perdita totale di un naviglio o di una spedizione.

Dopo la caduta dell'Impero Romano e per buona parte del Medio Evo, la necessità di tutelarsi é sempre riferita al rischio marittimo …


Navi epoca all’epoca delle CROCIATE

La prima forma di Assicurazione fu quella marittima, che risale al Basso Medioevo. Per Basso Medioevo si intende il periodo della storia europea e del bacino del Mediterraneo convenzionalmente compreso tra l'anno 1000 circa e la scoperta dell’America nel 1492. Ed è altrettanto naturale che le forme assicurative abbiano la loro origine nelle città marittime italiane, veri poli della navigazione e del traffico commerciale europeo e oceanico.

Già nel 1225 a Venezia si ebbe un esempio di Assicurazione Marittima (fino a 1000 lire) e quando si verificò un infortunio, il Governo obbligò l'assicuratore ad eseguire il pagamento.

Queste forme di tutela assunsero una particolare consistenza già con i grandi movimenti di massa al seguito dei crociati.

Con le Crociate, infatti, quando i viaggi via mare non erano solo commerciali, ma anche militari, le prime forme d’Assicurazione ebbero una rilevante importanza. Erano viaggi lunghi e pericolosi: con navi, uomini e merci duramente esposti a tempeste, malattie, incursioni piratesche e danneggiamenti, per cui s’impose la necessità da parte di tutti gli operatori di queste storiche SPEDIZIONI di mettersi al riparo dai rischi gravi cui erano sottoposti.

Nel XIII secolo nacquero anche sodalizi di mutua assistenza, generalmente nati all'interno delle Corporazioni di Arti e Mestieri, in cui gli aderenti versavano quote annue che servivano a cumulare un capitale che venisse in aiuto ai soci colpiti da malattia, o che avessero subito furti o incendi. Anche in questo caso abbiamo una tutela da un rischio, ma non possiamo ancora parlare di "assicurazione", poiché la tutela non prevedeva un risarcimento vero e proprio del danno, ma solo il versamento di una somma relativa al capitale raccolto e che pertanto poteva essere anche esigua, non essendo correlata all'effettivo danno economico subito dall'associato.

L'Assicurazione trasporti, secondo il suo concetto primario, comprendeva tutte le assicurazioni contro le perdite e i danni che colpivano le merci e i mezzi di trasporto; ma in pratica, per ragioni diverse, le assicurazioni trasporti per via di mare erano considerate separatamente dalle altre riguardanti trasporti per via di terra e di acque continentali.

Volendo procedere con un po’ di cronologia, si può affermare che i primi documenti di assicurazione sono di tipo marittimo e risalgono all'inizio del XIV secolo, che sono:

il Breve cagliaritano, statuto pisano per la città di Cagliari del 1318; le spese per il rischio nei libri di Francesco Del Bene del 1319-320:

l'Atto grossetano di quietanza, un atto notarile del 1329 per una somma assicurativa;

Vari contratti assicurativi dalle città di Genova (1343), Marsiglia (1333), Lucca (1334), Palermo (1350).

Nello stesso periodo nasce la figura del MERCANTE, che inizia a svolgere anche il ruolo di Assicuratore. Nel 1400 le Amministrazioni stabiliscono le prime norme in materia, come le Ordinanze di Barcellona (1435-1484), replicate successivamente anche a Burgos (1538), Siviglia (1556), Bilbao (1569) e Anversa (1570).

All'epoca i contratti di assicurazione erano stabiliti per polizza o con un atto notarile, talvolta anche a voce. Il carico, il periodo del viaggio, il mezzo di trasporto e la rotta influenzavano il calcolo del premio; la nave tipo galea-galera, ad esempio, era considerato il mezzo più sicuro via mare.

I maggiori esponenti del Cristianesimo, inizialmente, criticarono l'istituzione dell'assicurazione in quanto era assimilata al prestito con interessi e all’USURA, entrambe vietate dal Diritto Canonico Medievale.

 


BERNARDINO DA SIENA - De contractibus et usuris, XV secolo

Bernardino da Siena (religioso e teologo italiano, appartenente all'Ordine dei Frati Minori. Fu proclamato santo nel 1450 da papa Niccolò V), si rifaceva al Diritto Romano e riteneva il prestito assicurativo tollerabile, poiché aveva un'utilità pubblica. L'assicurazione dei commerci via terra era molto limitata, anche se esistente in misura minore, poiché era ritenuto più sicuro dei trasporti marittimi avendo delle Autorità Statali che ne garantivano il controllo.


Lo sviluppo dell'assicurazione a scopo speculativo inizia solo nel sec. XIV. Negli archivi di Firenze e di Genova si sono scoperti documenti che vanno dal 1300 al 1319; ma un esplicito e definitivo riconoscimento legale dell'
Assicurazione Marittima si ha solo:

con la legge del 21 ottobre 1369, promulgata a Genova dal doge GABRIELE ADORNO che ordinò il PRIMO CODICE su questa materia.


 

Stemma nobiliare degli ADORNO

 

E’ quindi di Origine genovese il primo Contratto di Assicurazione in senso moderno.
che si affermò tra i secoli XIII e XIV in Italia, diffondendosi successivamente in altri Paesi europei, quando lo sviluppo dei traffici marittimi determinò per i mercanti l’esigenza di garantire i rischi del trasporto contro le insidie del mare e gli atti di pirateria crescenti. 

Con essa, sono dichiarati validi i contratti per viam cambi seu assecuramenti. Nello stesso archivio di Palazzo S. Giorgio si trova anche il Registro dove, dal 1410 sono registrate le assicurazioni marittime stipulate a Genova, con le indicazioni del premio relativo, che era di soldi dieci per ogni cento lire di capitale assicurato.

Da questo momento le Assicurazioni dilagano per tutto il Mediterraneo e vanno a coprire anche altri rischi come quello dei Trasporti Terrestri.

Un forte sviluppo del mondo assicurativo fu dato dalla Spagna dove nacque la prima regolamentazione completa del rapporto assicurativo con le cinque ordinanze di Barcellona fra il 1435 e il 1484, ordinanze inserite nel celebre Consolato del Mare.

Tra i primi Codici riguardanti le assicurazioni marittime hanno speciale importanza, oltre la legge del 1369, l'ordinanza di Pisa del 1318, (che contiene già norme per regolare diritti e doveri dell'assicurato e dell'assicuratore), c’é l'ordinanza di Firenze del 1523 che stabilisce per le polizze una determinata forma simile a quella oggi in uso.

L’INTERVENTO DELLO STATO



Jean-Baptiste Colbert

I primi documenti che interessano l’intervento dello STATO nel settore assicurativo ci sono pervenuti dai Paesi Bassi con Filippo II il quale, con decreto del 1570, nominò un Commissario di Stato per le assicurazioni, Diego Gonzales di Gand, responsabile della sorveglianza sul buon fine dei contratti, il quale rese obbligatoria la registrazione delle polizze.

Nel 1681, in Francia, fu pubblicata la famosa ORDONNANCE DE LA MARINE e tutta la successiva legislazione sulle assicurazioni marittime trasse ispirazione da questo documento:

Jean Baptiste COLBERT - Ministro delle Finanze del Regno di Francia - esercitò anche una consistente attività legislativa. Tra le iniziative di maggior rilievo, vanno ricordate le quattro Ordinanze che, emanate tra il 1667 ed il 1681,Rivoluzione ed oltre. In ordine cronologico, esse furono: estesero la loro influenza sul DIRITTO francese fino alla

· Ordonnance civile pour la réformation de la justice (1667), sulla riforma della giustizia civile, a cui si sarebbe ampiamente ispirato il Codice di procedura napoleonico;

· Ordonnance criminelle (81670), sulla procedura penale, che stabiliva un sistema decisamente intimidatorio (ad esempio, regolava in maniera minuziosa l'uso della tortura);

· Ordonnance du Commerce (1673), il primo "codice di commercio" dell'era moderna. Stabiliva un regolamento generale del commercio di terra e venne redatta, sentito il parere delle varie corporazioni e delle giurisdizioni mercantili, con il determinante apporto personale del mercante parigino Jacques Savary, grande esperto di giurisprudenza commerciale. In suo onore è anche indicata come Code Savary;

- ORDONNANCE DE LA MARINE (1681). Avente come oggetto il commercio sui mari, era una rielaborazione delle consuetudini marittime, talmente perfezionata che non solo ispirò i legislatori napoleonici, ma pure i successivi CODICI DELLA NAVIGAZIONE.

Tra il 1600 e il 1700 il cuore dell’attività finanziaria si sposta a LONDRA.

Qui nacquero le prime polizze contro l’incendio e le prime assicurazioni collettive. Le prime ebbero un impulso dopo l’incendio che nel 1666 distrusse gran parte della City: assicurare gli edifici (che erano per lo più in legno) contro il fuoco divenne una prassi diffusa.

 

La statistica e le assicurazioni sulla vita

L’affermazione delle assicurazioni moderne non sarebbe stata possibile senza lo sviluppo della scienza della statistica, alla quale diede un impulso determinante – sempre nella seconda metà del ‘600 – il filosofo matematico francese Blaise Pascal.

Grazie alla statistica, le Assicurazioni poterono contare su una base scientifica per il calcolo delle probabilità: l’eventualità che un evento si verifichi poté, da allora in poi, essere misurata in modo matematico. Una delle prime Compagnie londinesi specializzata nelle assicurazioni contro gli incendi, adottò per esempio l'ipotesi che una casa su 200 bruciasse ogni 15 anni.

Le Assicurazioni collettive, in cui agisce non un unico assicuratore, ma un gruppo, ci rimandano invece a un nome che è tuttora tra i simboli delle assicurazioni nel mondo: I Lloyd’s.

Edward Lloyd era il gestore di un caffè londinese, dove si riunivano gli Assicuratori Marittimi, e dove nacque l’uso di assicurare collettivamente i rischi più ingenti. Ancora oggi Lloyd’s è il più grande ri-assicuratore del mondo.

Anche le assicurazioni sulla vita nacquero, probabilmente, da quelle marittime, poiché anche i Capitani erano preziosi, come le navi e il loro carico. Ma perché il “ramo vita” si sviluppasse in una forma moderna si dovette attendere la seconda metà del XVII secolo quando nacquero il calcolo delle probabilità e, soprattutto, la tavola di mortalità, grazie all'astronomo Halley.

Alla fine del ‘600 c’erano dunque le basi per lo sviluppo delle imprese moderne di assicurazioni che si svilupparono fino ai giorni nostri.

Il famoso COFFEE HOUSE di Edward LLoyd

 


Il moderno edificio dei Lloyd's

LLOYD’S - INGHILTERRA

Quando il dominio dei mari passò dalla Spagna all’Inghilterra, questo paese conquistò, ovviamente, anche il primato nel mercato delle Assicurazioni Marittime.

Il Lloyd’s di Londra, che nacque nel 1686, divenne il centro del mercato assicurativo marittimo inglese oltre che un gigante dell’industria assicurativa mondiale. In Inghilterra non solo fiorì l’Assicurazione Marittima, ma nacquero per la prima volta nel XVII secolo anche le Assicurazioni Terrestri e le prime moderne Imprese assicurative sia come società di mutue che società per azioni.

 

LA PRIMA COMPAGNIA

Contemporaneamente, nel 1681 si costituì a Venezia la prima Compagnia di Assicurazione che garantiva i rischi marittimi. E’ questa l’epoca in cui il mondo assicurativo subì una svolta ulteriore.

Gli assicuratori, associati tra loro, che sino a quel momento garantivano con i premi, ma anche con il loro patrimonio personale, lasciarono il posto ad un organismo più moderno in cui il rischio dei soci era limitato alla quota di capitale versata. L’esperienza accumulata da questa forma societaria, fu la base della ideazione della prima “tavola di mortalità” ideata da Deparcieux e messa a punto da Edmund Halley. Nel frattempo, nella società dell’epoca, cominciarono a comparire i primi elementi del “calcolo delle probabilità” grazie a Blaise Pascal e a Pierre De Fermat. Con l’istituzione dei registri anagrafici parrocchiali, le raccolte dati divennero “sistema” per il calcolo della mortalità e così fu fatto un altro, basilare, passo in avanti verso quella che è oggi la moderna polizza assicurativa. Con la costituzione della “The amicable society for a percentual assurance office” nel 1705, nacque il moderno concetto di assicurazione. Siamo in Inghilterra. La società britannica ancora non usava una differenziazione del rischio rispetto all’età dell’assicurato se non calcolando un rischio comune fra i dodici ed i quarantacinque anni.

 

NASCONO I PREMI DIFFERENZIATI

Il primo esempio di tecnica attuariale applicata al mondo assicurativo lo si deve a James Dodson nel 1750. Fu lo stesso Dodson che fondò – sempre a Londra – la “Equitable Society” che per prima ideò i “Premi” differenziati rispetto all’età dei clienti. Per la prima volta apparse anche una certificazione medica sullo stato di saluto dell’assicurato e il primo tasso di interesse di sconto.


Un manifesto pubblicitario del 1899 per una compagnia assicurativa olandese.

CARLO GATTI

Rapallo, 2 aprile 2019

 


CENNI SULLA COCCA, CARAVELLA E CARACCA

CENNI SULLA COCCA, CARAVELLA E CARACCA

CIVADA E CONTROCIVADA

La nave a vela, nelle sue varie forme e dimensioni, ha solcato i mari dal tempo delle civiltà più antiche, passando per le grandi scoperte geografiche, le rotte mercantili che hanno reso ricchi gli imperi coloniali e l’era dell’industrializzazione, la quale, all’inizio del XX secolo, ha portato alla sostituzione del veliero con le navi a motore.


COCCA ANSEATICA

Il primo veliero vero e proprio fu la COCCA (foto sopra), un’imbarcazione medievale che poteva raggiungere una stazza di 200-300 tonnellate. Essa può essere considerata la più importante delle navi a vela che seguirono il periodo delle navi a propulsione mista: remi e vele.

La cocca aveva il ponte di coperta, sotto il quale vi era la stiva. Successivamente, si aggiunse un ponte coperto più piccolo a prua e uno maggiore a poppa. Aveva un solo albero con una sola vela quadra e di grandi dimensioni.

La cocca é un prodotto dei mari del nord. Nasce intorno al XII secolo per realizzare gli scambi commerciali via mare tra nazioni isolate dal clima duro e da mari tempestosi. Dette condizioni climatiche favorirono costruzioni navali robuste e tecnicamente in grado di affrontare situazioni emergenziali pericolose: neve, ghiaccio, nebbie, tempeste ecc…

Si sviluppa quindi un nuovo tipo di nave chiamata

 

COCCA  ANSEATICA

 

Il nome deriva dalla LEGA ANSEATICA, che dominava il MARE DEL NORD e il BALTICO negli ultimi secoli del Medioevo.


Le cocche anseatiche presentavano un disegno che abbandonava la prua ricurva del passato scegliendone una dritta, formante un angolo di circa 60 gradi, bloccata da una lunga chiglia dritta con un dritto di poppa anch'esso quasi verticale, formante un angolo di 75 gradi. L'attrezzatura velica era composta da una vela quadra con bracci e boline in modo che la vela potesse essere orientata per favorire la spinta in avanti della nave con vento al traverso. La nave presentava le sovrastrutture agli estremi: castelli di prua e di poppa, rialzati ed utili in caso di scontro armato, in tempi in cui la pirateria era presente, armatissima e scaltra nella guerriglia navale nel mondo conosciuto di allora.

La vela quadra nel dettaglio


1. ferzi
3. lato di inferitura
7. terzaroli
8. matafioni dei terzaroli

La vela quadra era dotata di matafioni di terzarolo lungo il bordo inferiore in modo che il bordame venisse assicurato con i matafioni.

Lo scafo era rivestito di assi di legno, fasciame, di norma sovrapposte bordo su bordo.

Inizialmente la cocca presentava il solo albero di maestra, con vela quadra. Fu intorno al 1300 che si ebbe la fusione fra le tecniche costruttive del Nord e quelle mediterranee. L’alberatura della cocca, così come lo scafo e le sovrastrutture, venne rinforzata con l’aggiunta di un secondo albero a prora, detto di trinchetto e, in seguito, con l’installazione di un terzo albero, più piccolo, a poppa, detto di mezzana. Era nata la nave a tre alberi, resa più manovriera dalla presenza delle vele di prora e di poppa, mentre la vela dell’albero maestro conservava la sua funzione propulsiva. Le estremità superiori degli alberi vennero munite di coffe, piattaforme rotonde protette da parapetti o griglie che potevano contenere un certo numero di arcieri o balestrieri e, successivamente, di archibugieri.


Nel XIV secolo la
cocca arrivò ad avere sino a quattro alberi, attrezzati sia con vele quadre sia con vele latine; aveva una lunghezza massima di 30 mt fuori tutto, cioè dall’estremità della poppa a quella della prora, e di 20 mt al galleggiamento. Questo tipo di nave poteva trasportare circa 150 t di carico e veniva armata con un equipaggio di venti o trenta uomini; poteva imbarcare armi da fuoco pesanti, sia a scopo difensivo sia offensivo. La cocca fu per quasi quattro secoli la nave commerciale per eccellenza: nel corso del tempo le sue dimensioni aumentarono e, verso la fine del XV secolo, la sua capacità di carico toccò le 1000 tonnellate. L’evoluzione finale della cocca porterà alla nascita della caracca.


Le vele erano governate tramite il sartiame, una complicata serie di cime, bigotte e bozzelli. Le corde prese singolarmente venivano chiamate cime.

Inizialmente anche il timone per governare era formato da due remi fissati ai lati della poppa. In epoca successiva, invece, venne sviluppato un timone centrale di poppa, detto timone alla navaresca.


In Italia il timone poppiero unico venne detto alla navaresca, poiché fu applicato per la prima volta su imbarcazioni alla navaresca, con bordi alti e vele quadre, come le Cocche.

Si è così ritenuto che il timone di questo tipo fosse di origini nordiche, anche perché la sua prima inequivocabile attestazione è su di un sigillo del 1242 della città baltica di Elbing, rinomata per i suoi cantieri navali, (vedi foto sopra).


In realtà una delle 99 miniature, oggi raccolte nella Bibliothèque Nazionale di Parigi, dipinte nell’anno 1237 (anno 634 dell’Egira), che illustrano le 50 Moqamat (Conversazioni) di Abu Mohammaoud al-Qasìm al-Hariri (1054- 1121), mostra una nave con timone centrale, del quale sono chiaramente rappresentate tre coppie di femminelle ed agugliotti.

Appare evidente quindi, a parte la lieve precedenza cronologica di una rappresentazione rispetto all’altra, che il timone centrale si fosse sviluppato in modo indipendente nel Nord Europa,  nell’Oceano Indiano e nel Golfo Persico da dove, forse, venne diffuso nel Mediterraneo. Nel Milione (1271–1295) Marco Polo, sempre così attento alle novità, dice semplicemente che: le navi asiatiche hanno “un timone”, e non vi si sofferma, come se la cosa non gli fosse nuova.

 

CARAVELLA E CARACCA

L’erede della cocca fu la CARAVELLA, divenuta famosa per essere stata l’imbarcazione utilizzata da Cristoforo Colombo nei suoi viaggi verso le Americhe. Questo veliero nacque all’inizio del 1400 e la sua fortuna coincise con le grandi traversate oceaniche, per poi declinare verso il XVII secolo.

La caravella era una nave inizialmente di piccole dimensioni, il cui tonnellaggio aumentò solo in seguito, dandole una forma più panciuta e tonda. Di norma presentava tre alberi, con vele quadre e latine che le conferivano una buona velocità e doti manovriere. Era dotata inoltre di una novità nautica strutturale: l’albero di bompresso, che si stagliava obliquamente all’esterno della prua, e montava una vela quadra chiamata CIVADA. Questa velatura mista le consentiva di gestire con maggiore facilità le diverse condizioni di vento. E’ mia opinione personale che detta vela, oltre a determinare una spinta in avanti, fosse in grado di sollevare la prua con il mare di punta e, opportunamente manovrata, facilitasse le accostate.

Le caravelle più grandi presentavano un cassero a poppa, vale a dire un castello sopraelevato rispetto a quello di prua. La potenza di fuoco della caravella era notevole, anche se non di grosso calibro, e necessitava di un equipaggio che si aggirasse tra i venti e i quaranta uomini.

Questo veliero, purtroppo, era soggetto a problemi strutturali (fragilità, poca protezione contro i parassiti) allo scafo e agli alberi, ma nel complesso si trattava della nave più affidabile e innovativa in circolazione, almeno fino all’avvento della CARACCA la cui fortuna durò dalla metà del XV alla metà del XVII secolo, ebbe origini prettamente mercantili. Di forma più tondeggiante rispetto alla cocca, presentava più ponti sovrapposti, castelli non sporgenti dallo scafo – di frequente costituiti a loro volta da più piattaforme – e una non disprezzabile capacità di artiglieria, per la prima volta disposta dietro a pannelli scorrevoli nella tipica formazione a batteria, in file orizzontali sovrapposte lungo le fiancate della nave.

La CARACCA era inizialmente utilizzata soprattutto dalla Lega Hanseatica nell’Europa del Nord e presentava una struttura velica e di sartiame piuttosto evoluta. Inoltre, per sfruttare al meglio il vento, oltre alle grandi vele quadre e alla vela latina all’albero di trinchetto, potevano essere issate anche vele poste più in alto lungo gli alberi, denominate vele di gabbia. Un ulteriore aiuto, come abbiamo appena visto, era fornito dalla vela di civada e dalla velatura di un quarto albero a poppa, detto albero di contromezzana o bonaventura. Le cime venivano assicurate alle lande: spranghe metalliche attraverso la quale ogni sartia era collegata allo scafo.

Grazie allo scafo accuratamente calatafato – cioè reso impermeabile – la caracca possedeva un’ottima resistenza alle intemperie, qualità che alla caravella mancava, e trasportava un maggiore carico di merci, armi e soldati, ragione per cui ebbe tanto successo nelle spedizioni intorno al mondo e sulle nuove rotte mercantili transoceaniche che fecero la fortuna degli imperi coloniali. Lo scafo era spesso rinforzato da parabordi che lo proteggevano dai contatti con altre navi o con gli scogli.

L’imbarcazione necessitava di un equipaggio di norma attorno ai cento uomini. Le caracche più grandi, però, potevano annoverare una ciurma composta da trecento o quattrocento marinai.

Benché la caracca costituisse un’evoluzione importante dell’architettura navale, la tecnica costruttiva non si fermò. Le rotte oceaniche erano impegnative, piene di pericoli ed imprevisti;  l’esperienza acquisita portò alle nascite del GALEONE, del VASCELLO, della FREGATA, dei CLIPPERS ecc

Una replica della Santa María ormeggiata vicino a Palos de la Frontera

La SANTA MARIA fu una CARACCA (nonostante comunemente venga ritenuta una CARAVELLA come le sue due compagne) e venne usata come nave ammiraglia della spedizione.

Costruita a Santander era molto robusta e faceva servizio mercantile con il nome di Galenda. Apparteneva a Juan De La Casa che la noleggiò per l'impresa. Aveva tre alberi con vele quadre ed una stazza che di circa 51 tonnellate. Era lunga 26,32 metri e larga 8 metri. L'albero di maestra era alto 26,6 metri con il grande trevo,coltellacci laterali, sul quale era dipinta la Croce di Castiglia e, sopra, una piccola vela di gabbia. Sull'albero di trinchetto c'era l'omonima vela e, sull'albero di mezzana, la vela latina triangolare.

Aveva un ponte di coperta, castello di prora e un cassero rialzato di poppa con l'alloggio del capitano. Il timone, come per le navi dell'epoca, era privo di ruota di comando e si trasmetteva il movimento al timone stesso per mezzo di due cime. Era la più lenta dei vascelli di Colombo. Portava quattro bombarde da 90 mm. – Colubrine e armi portatili nonché girevoli posti sul ponte inferiore e sui castelli di prua e di poppa.

Il GRANDE navigatore era partito il 3 Agosto 1492 dal porto di Palos de la Frontera, raggiunse il continente americano dopo 71 giorni di viaggio.

La SANTA MARIA, ammiraglia nella spedizione, era in grado di raggiungere i 10-12 nodi di velocità in condizioni favorevoli.

Il 25 dicembre 1492 l'equipaggio era in coperta e per un errore di manovra finì sugli scogli a Hispaniola e venne perduta. Colombo così si trasferì sulla NIÑA. Il relitto della Santa Maria venne ritrovato nel 1968. (A questo presunto relitto abbiamo dedicato un articolo sul nostro sito).

Un po’ di terminología essenziale


1) Controvelaccino

2) Velaccino

3) Parrocchetto

4) Trinchetto

5) Controcivada

6) Civada

7) Controvelaccio

8) Velaccio

9) Gabbia

10) Maestra

11) Belvedere

12) Mezzana

13) Coltellaccio della mezzana

 

CLONI DELLA CARACCA DI CRISTOFORO COLOMBO



Le foto (sopra e sotto) si riferiscono a “repliche” naviganti di caravelle dell’epoca di Cristoforo Colombo del periodo delle grandi scoperte, sono armate con due alberi e con vele tra loro di ugual ampiezza. Da notare come queste vele siano alquanto tondeggianti (venivano anche chiamate vele tonde). Sull'albero di mezzana è invece situata una vela latina con la sua lunga antenna. A prora, sull'albero di bompresso, la civada, che verrà in seguito sostituita dal fiocco.


Il bompresso, nell'evoluzione dalla galea al galeone, diventando ALBERO BOMPRESSO diagonale rispetto alla linea dello scafo, ed ospitante solitamente una sola vela, detta civada, in seguito, per rinforzarne l’effetto, compare una seconda vela sistemata su un prolungamento verticale dell'albero, detta controcivada.

Queste vele nate nel III secolo a.C. Con l'avvento della Vela Latina caddero in disuso, ma nel XV ricomparvero con la vela quadra insieme con la vela latina.

UN PASSO INDIETRO….

LA NAVE ONERARIA


NOTARE A PRORA (a destra del disegno) LA PRIMA CIVADA DELLA STORIA NAVALE

LA NAVE ONERARIA - Prima ancora di allestire una flotta da guerra, i Romani avevano un grande numero di mercantili: erano dette navi onerarie (dal latino onus, carico), cioè navi da carico. Con una forma piuttosto rotonda venivano spinte dalle vele: non vi erano rematori, per consentire al carico il maggior spazio possibile. La vela aveva una forma quadrata. Nella costruzione di questo tipo di navi, i Romani curavano particolarmente la chiglia, che fosse solida e impermeabile, su cui veniva stesa una lastra di piombo. Con questo sistema di protezione, l'acqua non filtrava assolutamente nella stiva e la merce trasportata poteva considerarsi al sicuro.
Sulla poppa v'era di solito un ornamento chiamato chenisco. Con questo tipo di nave i Romani svolgevano i loro commerci soprattutto nei vari porti del Mar Tirreno: trasportavano olio, vino, grano, frutta e bestiame. Quando i Romani ebbero una flotta militare, le navi onerarie servirono per il trasporto dei viveri, delle truppe, dei cavalli e delle macchine da guerra: catapulte e arieti.

La CIVADA nasce nel III secolo a.C. - Nel XV ricompare con la vela quadra e con la vela latina. Si tratta di una piccola Vela Quadra inferita al di sotto dell’albero di bompresso e da questo sostenuta al pennone di civada. La civada é comune nei vascelli del XVII e XVIII secolo.

La sua curiosa denominazione deriva, per l’analogia della sua forma originaria con il sacco d'avena (in provenzale civadiera), che si appendeva sotto il muso dei cavalli.

I velieri dei sec. XVII e XVIII avevano spesso, a proravia della civada, una seconda vela quadra chiamata controcivada che era sostenuta inizialmente dall'albero di civada, sopportato a sua volta dal bompresso e, in epoca successiva, sospesa allo stesso bompresso.

All'inizio del XIX secolo le vele quadre del bompresso non furono più utilizzate e al pennone di civada fu destinata la funzione di dare angolatura opportuna alle manovre fisse di ritenuta laterale dell'albero di bompresso.

Verso il sec. XIX le vele quadre al bompresso scomparvero e al pennone di civada (talvolta sostituito da due picchi disposti uno per lato trasversalmente all'albero di bompresso) fu affidata la funzione di dare angolo conveniente alle manovre laterali (venti) del bompresso.

Da queste trasformazioni sperimentate nei secoli, nacque il FIOCCO

IL MODELLISMO CI OFFRE LA POSSIBILITA’ DI ENTRARE NEI PARTICOLARI COSTRUTTIVI DELLA CIVADA


 

CARLO GATTI

Rapallo, 27 Marzo 2019

 


LE NAVI ROMANE DI PISA

LE NAVI ROMANE DI PISA


Vent’anni fa, nel dicembre 1998, durante i lavori di un nuovo centro delle Ferrovie dello Stato presso la stazione di Pisa - San Rossore, venne alla luce un eccezionale sito archeologico, a cinquecento metri dalla Torre pendente di PISA, cioè in pieno centro storico.

Dopo alcuni anni di scavi il tesoro arrivò a contare ben 31 navi romane di ogni tipo e misura, appartenente a differenti epoche storiche.

All’epoca in cui queste navi solcavano i mari, tra il II a.C. e il VII d.CPisa era un insediamento di media importanza nel Mediterraneo occidentale e si trovava in una zona cosiddetta di “porto diffuso”. L'area era solcata da canali navigabili e ricca di vie d’acqua simili a quelle che oggi si trovano ad Anversa e in altre siti del Nord Europa. Non c’era alcun porto a San Rossore, ma solo una estesa rada, un punto intermedio in cui le barche sostavano o partivano verso l’interno navigando in un dedalo di canali. Proprio per muoversi lungo questi corsi erano necessari piccoli barchini, ben tre sono oggi esposti nel Museo. Parliamo di un lontano periodo in cui Pisa era un porto militare distribuito su di un esteso porto fluviale canalizzato.

Già dopo i primi scavi promossi da Soprintendenza, gli archeologi si trovarono dinanzi a strutture banchinate, un pontile e una grande quantità di oggetti mobili, tra cui anfore, coperchi, ceramiche, manufatti, lucerne e attrezzature per la pesca. Gli esperti spiegarono che l’arretramento del mare aveva fatto sì che già nel Medioevo il porto di Pisa (che a quel tempo era una delle quattro Repubbliche marinare) fosse costruito più lontano dalla città, ma il trasporto dei detriti è proseguito, soprattutto per opera dell’Arno, e anche quel porto è stato inglobato dalla terraferma.

Pisa ha dunque perso nel tempo il suo forte legame col mare, ma il passato ogni tanto riaffiora dalla terra e rende testimonianza dei fatti che hanno scandito la storia di questa Repubblica marinara. Questo ritrovamento presentò fin dall’inizio caratteristiche di assoluta eccezionalità non solo per il gran numero di materiali finora individuati, ma per le stesse condizioni di conservazione delle imbarcazioni, alcune delle quali praticamente intatte, che restituiscono lo spettro di varie tipologie navali: dalle navi da carico alle barche fluviali, dai barconi a remi ai navicelli lagunari.

Le guide ci hanno spiegato che si tratta di relitti, rinvenuti in ottimo stato di conservazione in un’area dove un tempo un canale confluiva nel Serchio (Auser) e dove nel corso dei secoli affondarono numerose imbarcazioni a seguito di alluvioni.  La denominazione “Navi Romane” è un po’ impropria in quanto nel sito sono stati rinvenuti relitti non solo di epoca romana ma anche di quella ellenistica e medioevale e nello scavo sono stati portati alla luce reperti che risalgono fin dall’epoca etrusca (VII secolo A.C.)”.

IL MUSEO DELLE NAVI ROMANE

Dopo 18 anni d'attesa, dal 25 novembre scorso è aperto al pubblico il "Museo delle Navi Antiche" di Pisa, un primo nucleo di quella che sarà una delle più importanti e grandi esposizioni archeologiche sulla marineria antica, la cosiddetta "Pompei del mare", con 30 imbarcazioni di epoca romana e altomedievale (di cui 13 integre), risalenti ad un periodo che va dal I secolo d.C. e il VII d.C.

 

 

Nel disegno le varie navi in base alla loro posizione di ritrovamento contrassegnate dalla lettera corrispondente. I relitti rinvenuti permetteranno agli studiosi di ricostruire, grazie al ricco reperimento di “materiali”, una pagina di storia non solo pisana con le tecniche di allestimento delle imbarcazioni, il tipo di navigazione, nonché gli usi e le abitudini degli uomini che su tali mezzi si muovevano e vivevano insieme ai rapporti commerciali che intrattenevano lungo le rotte nel Mediterraneo.

 

GLI ARSENALI MEDICEI

 

Gli Arsenali medicei che accolgono le antiche navi di Pisa.

 




MASCHERA APOTROPAICA (primo piano)

I locali degli antichi Arsenali medicei voluti da Cosimo I Medici, per la costruzione delle galere dei Cavalieri dell’Ordine di Santo Stefano da lui istituito, e affidati all’opera dell’architetto Bernardo Buontalenti, accolgono quattro delle imbarcazioni ritrovate a pochi passi dalla Torre pendente, nell’area ferroviaria di Pisa-San Rossore, nel 1998.

Museo navi romane Pisa - Interno

 


Il traghetto I durante l'allestimento del Museo.


Nave contrassegnata con la lettera C

 

Museo - la nave C


Museo di Pisa - la nave C

 

Il pezzo più affascinante è sicuramente la ricostruzione a grandezza naturale della nave contrassegnata con la lettera C datata degli inizi del I secolo d.C. e affondata mentre era ancora ormeggiata in banchina. Notevole il suo ritrovamento per l’eccellente stato di conservazione. Splendida ancora con i suoi colori originali di cui conservava notevole traccia: bianco con rifiniture in rosso e il simbolo, in nero, dell’occhio, il portafortuna di chi andava per mare. La chiglia di leccio, il fasciame, ovvero il rivestimento esterno, di pino, ma anche fico, frassino, leccio, olmo e ontano per le ordinate o costole, le parti che si incastrano trasversalmente sulla chiglia.

 

Museo delle navi antiche di Pisa, la nave C

Nello scafo sei banchi di voga su uno dei quali in caratteri greci la scritta “alkedo”, probabilmente la trascrizione della parola latina alcedo, gabbiano.


la nave C

Una delle navi restaurate ed esposte nella Sala V

 

La sala IV è dedicata alla tecnica di costruzioni delle navi

 

LE ANFORE GRECO-ROMANE


L'anfora è un vaso di terracotta a due manici, definiti anse, di forma affusolata o globulare utilizzato nell'antichità per il trasporto di derrate alimentari liquide o semiliquide, come vino, olio, salse di pesce (garu) conserve di frutta, miele, ecc. Le anfore si possono classificare in fenicie o puniche, greche, etrusche, della Magna Grecia  (greco-italiche antiche) e romane.

Dall'anfora greco arcaica si giunge alla romana di età repubblicana, attraverso una serie di passaggi ben descritti dall'archeologo francese Jean Pierre Joncheray. L'anfora greco arcaica del VII secolo a.C. si evolve nelle sue forme nella greco recente (V-IV secolo) e poi nella greco italica (III secolo a.C.) usata in età ellenistica dai coloni greci in Italia e adottata in seguito dai Romani; mi è capitato di vedere delle greco italiche con bolli romani. Il passaggio continua con la greco italica di transizione (II secolo a.C.) e arriva alla romana di età repubblicana 18).


L'orlo dapprima a ciambella circolare o piatto e orizzontale della greco arcaica, si sviluppa e si inclina progressivamente nell'anfora greco italica, greco italica di transizione, fino diventare verticale nella forma romana. Il collo si allunga: dai 15 centimetri si passa ai 40 nei più recenti, le anse si allungano seguendo il collo. La pancia a forma di trottola, nei tipi più antichi, diventa un'ogiva sempre più affusolata. La lunghezza totale arriva a 120 centimetri: e' forma tipica dell'anfora romana di età repubblicana varietà Dressel lA (II Sec. a.C.), lB (I secolo a.C.) e 1C (I secolo a.C.), conosciute come anfora di Marsiglia, anfora di Albenga, anfora di Capo Mele, dal nome dei luoghi dove sono state principalmente rinvenute. Questo tipo è detta vinaria, per distinguerla da quella di forma più panciuta, chiamata olearia (Dressel 6).

Comunque le anfore vinarie, come è stato constatato dai residui del contenuto, portavano olio e, viceversa, molte olearie contenevano vino.

LE ANFORE DEL MUSEO DELLE NAVI ROMANE DI PISA



UNA LUCERNA perfettamente conservata

 

La nave D in fase di allestimento

È una grande imbarcazione fluviale utilizzata per il trasporto della sabbia che veniva trainata da riva con due cavalli. Gli archeologi collocano il suo affondamento in età tardo gotica quando, travolta dall’ennesima alluvione, affondò nei pressi della sponda su fondali bassi, capovolgendosi.

 

Museo delle navi antiche di Pisa, il barchino F

 

Diversa non solo per dimensioni la nave indicata con la lettera F e con il numero 46. È stata datata II secolo d.C. ed appartiene alla categoria delle piccole imbarcazioni fluviali. Ripropone nella forma e nel tipo di pilotaggio la struttura di una gondola, facendoci intuire meglio quanto l’ambiente naturale e l’apparato portuale pisano assomigliassero a quelli della laguna veneta. Lo scafo, realizzato con legno di ontano e quercia, appare infatti deformato su di un lato proprio per la manovra di un solo rematore. Lo studio dei legnami utilizzati per la costruzione delle varie parti delle imbarcazioni ha confermato le antiche fonti che tramandano l’uso della quercia per le parti strutturali, come la chiglia, che devono essere più resistenti, ma anche frassino, olmo, leccio; per il fasciame invece prevale l’abete o il pino, più leggeri.

LA NAVE 1

Museo delle navi antiche di Pisa

il traghetto, la nave I

 

(Sopra e sotto)

Interamente in quercia il traghetto a fondo piatto per il trasporto del bestiame, contrassegnato dalla lettera I e dal numero 45. Datato IV-V secolo d.C., era rivestito da fasce chiodate in ferro in modo da proteggere lo scafo dai bassi fondali in cui manovrava, mossa dalla riva per mezzo di un argano.

 

Il traghetto per i bassi fondali, nave I

 

LA NAVE A

Museo delle navi antiche di Pisa

La nave A nella ricostruzione della Sala IV

Ultima sorpresa del nostro viaggio la grande Sala IV, con la prima nave, enorme, anche se ne manca una buona metà rimasta sotto i fabbricati della ferrovia, contrassegnata dalla lettera A, quella che ha dato il via a tutta la ricerca. Giace con i suoi grandi legni su un mare di sabbia che riproduce il cantiere di ritrovamento.

 

IMPERO ROMANO - CARTA STORICA


BIREME ROMANA – LIBURNA


 

TERMINOLOGIA TECNICO - NAVALE

NAVE ONERARIA


 

MODELLINO DEL TIPO NAVE - C (Museo Navi Romane Pisa)

Carlo GATTI

Rapallo, 6 Marzo 2019

 

 


GESTI DI GRANDE MARINERIA: L'ULTIMA TEMPESTA

GESTI DI GRANDE MARINERIA

L’ULTIMA TEMPESTA

L’argomento “marinaro” del giorno, a giudicare dai video proiettati sui “social”, riguarda le “arrampicate” dei piloti portuali con cattivo tempo, ma che solo in epoca di smartphone hanno trovato la loro puntuale visibilità “riprendendosi” tra loro in piena autonomia. Per esperienza sappiamo che nessun fotografo specializzato si é mai voluto prendere il rischio d’avventurarsi in mare aperto con cattivo tempo e rischiare la propria incolumità … Tuttavia occorre precisare che le qualità acrobatiche di tempismo dei piloti sono cresciute nel tempo insieme all’abilità dei loro Timonieri/Pilotini che sono manovratori eccezionali e persone che dimostrano freddezza assoluta e coraggio da vendere… Doti che emergono specialmente quando le pilotine raggiungono vette ragguardevoli di 6/8 metri, a volte anche di più e la vita del pilota é nelle loro mani!

Alcuni di loro sono stati anche decorati per aver collaborato insieme al pilota in numerose operazioni di salvataggio: Vedi London Valour, Haven, Hakuyo Maru dei quali trovo utile riportare i LINK dei miei scritti ripresi dal nostro sito di Mare Nostrum.

Dopo questa premessa dedicata alla perizia dei Timonieri/Pilotini, oggi dedico il nostro scritto settimanale ad un fatto vero che ha avuto la massima visibilità grazie al film: L’ULTIMA TEMPESTA che, come vedremo, racconta l’eccezionale impresa di salvataggio compiuta proprio da un Conduttore/Timoniere della Guardia Costiera USA. Ma prima di “partire” desidero spendere qualche parola sulle petroliere T2 che furono per molti anni la “casa” di molti marittimi italiani e che in questo racconto due di esse si sono inabissate davanti alle coste USA.


Una petroliera T2 - 1943

La petroliera T2, o più semplicemente T2, era una nave per il trasporto di petrolio e suoi derivati, progettata e realizzata, in numeri rilevanti, negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale.

Le petroliere T2 avevano per l'epoca delle dimensioni rilevanti, superate solo dalle petroliere T3 che però furono costruite solo in cinque esemplari. Alla fine del conflitto furono 500 le T2 costruite tra il 1940 e il 1945. Molte furono utilizzate per decenni dopo la fine della guerra. Come altre navi realizzate in questo periodo andarono incontro a problemi di sicurezza. Dopo che nel 1952 due di queste navi - la SS Pendleton e la SS Fort Mercer - andarono perdute a distanza di poche ore, lo U.S. Coast Guard Marine Board of Investigation dichiarò che queste navi erano inclini a spezzarsi in due in acque fredde. Pertanto furono aggiunte alla struttura della nave delle strisce di acciaio. Le inchieste tecniche attribuirono inizialmente la tendenza delle navi a spezzarsi in due alle scarse tecniche di saldatura. In seguito venne stabilito che, durante la guerra, l'acciaio utilizzato per la loro costruzione aveva un contenuto di zolfo troppo elevato che rendeva fragile l'acciaio alle basse temperature.

L’ULTIMA TEMPESTA


Tratta dal libro: The Finest Hours, The True Story of the U.S. Coast Guard's Most Daring Sea Rescue di Michael J. Tougias e Casey Sherman. L'ultima tempesta racconta l'incredibile, eroico salvataggio di 32 uomini dell'equipaggio ad opera di 4 membri della Guardia Costiera USA, che contro ogni previsione, e a totale rischio di naufragio, riuscirono a raggiungere la nave spezzata superando scogliere e bassifondi tra onde altissime, con la piccola pilotina CG-36500, a recuperare i superstiti e a tornare a terra.


Il troncone della T2 SS/PENDLETON sta per affondare




E’ stata una delle peggiori tempeste che si siano mai abbattute sull’East Coast.

 

Quando un potente NOREASTER* invase la costa orientale degli Stati Uniti, due grosse petroliere T2 si ritrovano intrappolate nell’occhio della tempesta. La SS FORT MERCER venne letteralmente spezzata in due dal mare. Fece in tempo a lanciare un segnale di soccorso che mobilitò i soccorsi. Nel frattempo un'altra petroliera SS PENDLETON subì la stessa sorte…


Foto aerea di Rock Harbor – Orleans - Massachusetts

LA CRONACA

Il 18 febbraio del 1952 una violenta tempesta colpì il New England devastando, tra l’altro, centinaia d’imbarcazioni che si trovavano sulla sua traiettoria. Fra queste, la petroliera SS Pendleton, una petroliera T-2 diretta a Boston che venne letteralmente spezzata in due da onde gigantesche. Un troncone affondò subito, mentre l'altro si ritrovò in balia degli elementi, in pieno Oceano Atlantico intrappolando 32 marinai al suo interno a poppa. La loro sorte era ormai segnata per l’evidente impossibilità di governare ed erano destinati ad un rapido naufragio.

L'equipaggio, ritrovandosi su una parte soltanto “galleggiante” in balia della tempesta, senza radio, senza timone, senza capitano e con tutti i soccorsi impegnati alla ricerca della Fort Mercer, si mise nelle mani del suo più anziano ufficiale Ray Sybert.

Ma non fu facile per Sybert prendere in pugno la situazione in quei frangenti dove la paura ed il panico la facevano da padroni. Tuttavia, dopo aver domato con grande energia le divergenze tra i membri dell’equipaggio, riuscì a dare speranza a tutti operando alcune manovre che diedero al troncone la possibilità di rimanere a galla e poi di arenarsi su una secca a largo di Rock Harbor.

Nel mentre, un addetto portuale sentì la sirena di emergenza della nave e riconobbe la sagoma al largo ed avvisò la Guardia Costiera. La notizia del disastro raggiunse la Centrale Operativa di Chatham, nel Massachusetts. Il Sergente Maggiore Daniel Cluff diede l’ordine di effettuare una rischiosa operazione per mettere in salvo i naufraghi sopravvissuti dei 41 membri dell'equipaggio della PENDLETON. La missione di recupero e salvataggio venne immediatamente organizzata e fu affidata al nostromo in servizio, il giovane Bernie Webber che prese subito il largo a bordo della motovedetta CG 36500.

L’operazione presentava tali rischi da essere definita suicida dai propri colleghi per via delle enormi onde che si abbattevano sulla secca che proteggeva il porto. L'operazione di salvataggio fu un successo e i 32 membri della petroliera vennero messi in salvo in un solo viaggio eseguito a notte fonda, con bussola in avaria e senza alcun tipo di illuminazione oltre al faro della motovedetta (la petroliera era senza alimentazione elettrica, la sirena nel frattempo si era spenta così come tutte le luci: in blackout era anche il porto di partenza a causa della forte tempesta).


Bernard C. Webber con il suo equipaggio in porto dopo il salvataggio dei superstiti

 

Coast Guard Motor Lifeboat CG 36500


La Coast Guard Motor Lifeboat CG-36500 (nella foto) è la storica motovedetta della Guardia Costiera statunitense, divenuta famosa per il salvataggio di 32 membri dell'equipaggio della petroliera Tipo T2-SE-A1 SS PENDLETON al largo della costa di Rock Harbor, Orleans (Massachussetts).

Si è trattato del più grande salvataggio di tutta la storia della Guardia Costiera statunitense eseguito da una piccola imbarcazione. L'impresa è stata premiata con una medaglia al merito e nel 2016 è stata ricordata con il film: L’ULTIMA TEMPESTA (The Finest Hours).

ESPOSIZIONE MUSEALE

L'imbarcazione, messa fuori servizio nel 1968, fu consegnata al National Park Service per utilizzarla in una mostra a Cape Cod National Seashore. Nel novembre 1981, il Park Service, che non aveva effettuato alcun significativo intervento di restauro sulla nave, la cedette alla Orleans Historical Society, la quale avviò un restauro, grazie ad un gruppo di volontari da Chatham, Orleans,Harwich in Massachusetts.

In sei mesi i lavori di restauro furono completati e la barca venne messa in mostra in una cerimonia pubblica che ha visto la partecipazione di Bernard Webber e di sua moglie Miriam Penttinen.

*I Noreaster sono Cicloni Extratropicali che si sviluppano lungo la costa orientale degli USA soprattutto tra la fine dell’autunno e inizio primavera e la cui intensità, generalmente marcata, è data dalle forti differenze di temperatura e umidità fra l'aria fredda che in quei mesi comincia ad irrompere dal Canada e l'aria caldo umida che è presente sull’oceano Atlantico, che ancora ritiene il calore accumulato nei mesi estivi; il suo caratteristico nome è dato dal fatto che i forti venti che si sviluppano sulla costa orientale degli USA si dispongono da Nord-Est. Il centro della depressione si colloca poco al largo e la tempesta nel suo movimento di traslazione tende a seguire la linea di costa verso Nord.

LINK

Ricordando la HAVEN

vent’anni dopo...

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=150:haven&catid=41:sub&Itemid=162

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LONDON VALOUR

IL GIORNO DEL DIAVOLO

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=139:il-giorno-del-diavolo&catid=34:navi&Itemid=160

Carlo GATTI

Rapallo, 28 febbraio 2019


IL GIGANTISMO NAVALE PETROLIFERO

IL GIGANTISMO NAVALE PETROLIFERO

SEAWISE GIANT

Un po’ di Storia...

Il Canale di SUEZ fu inaugurato il 17 giugno 1869 e il suo regime giuridico internazionale (nel 1875, il sovrano d'Egitto Ismā'il, per far fronte al grave deficit dello stato fu costretto a cedere alla Gran Bretagna la propria quota azionaria) fu definito dalla Convenzione di Costantinopoli del 1888. Essa restò in vigore fino al 23 luglio 1956, data in cui il presidente G.A.Nasser  annunciò la nazionalizzazione del Canale da parte dello stato egiziano. Trovandosi improvvisamente impedito il transito, Israele intervenne militarmente insieme a Francia e Inghilterra. Durante la "Crisi di Suez" il Canale fu chiuso al traffico e la situazione si sbloccò solo grazie all'azione congiunta degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica, che imposero il ritiro degli anglo-francesi e, attraverso l'ONU, la cessazione delle ostilità; le stesse Nazioni Unite curarono la riapertura del Canale nell'aprile 1957, ma questo si era nel frattempo insabbiato e aveva perduto la preminente funzione di rotta più breve verso l'India e l'Estremo Oriente. Nel 1960 la Banca Mondiale offrì un prestito di 56,6 milioni di dollari per l'allargamento e l'approfondimento del Canale, ma nel 1967, in conseguenza del riacceso conflitto arabo-israeliano, esso fu nuovamente teatro di combattimenti e restò bloccato fino al 5 giugno 1975, quando fu riaperto al transito.

La petroliera T2 (fu un grande successo bellico e poi commerciale nel dopoguerra)

Il progetto della T2 venne formalizzato dalla United States Maritime Commission come tipologia di petroliera per la Difesa Nazionale di medie dimensioni. La nave veniva costruita per il servizio commerciale ma in caso di conflitto poteva essere utilizzata come nave militare inserita nella flotta ausiliaria. La Commissione si faceva carico della differenza dei costi aggiuntivi dovuti all'inserimento di tutte le caratteristiche necessarie per l'impiego militare della nave e che andavano oltre i normali standard commerciali.

Il modello T2 venne basato su due navi costruite nel 1938-1939 dai cantieri Bethlehem Steel per la Socony-Vacuum Oil Company. Le due navi, Mobifuel e Mobilube, differivano dalle altre navi Mobil principalmente per l'installazione di un motore più potente che poteva garantire una maggiore velocità. La T2 standard aveva una lunghezza totale di 152,9 mt. e una larghezza massima di 20,7 mt. La stazza era di 8.981 tons. ed aveva unaportata lorda di 16.104 tonnellate. Il dislocamento totale standard di una T2 si aggirava intorno alle 19.141 tonnellate.

 

Le sueturbine a vapore fornivano 8.900 KW (12.000 hp) ed azionavano un'elica singola che poteva spingere la nave fino ad una velocità di 16 nodi.

 

In totale ne sono state costruite sei utilizzate per l'impiego commerciale presso i cantieri Bethlehem-Sparrows Point Shipyard che avevano sede in Maryland. Subito dopo l'attacco a Pearl Harbour le navi sono state prese in carico dalla U.S. Navy dove vennero riunite nella classe Kennebec.

 

Nei primi anni ’60 ho navigato sulla t/n FINA ITALIA da 3° e 2° uff.le di cop. Era soprannominata “la freccia del Golfo persico”. Aveva una portata lorda di 31.500 tonn. ed una velocità poco superiore ai 18 nodi.

Con la chiusura del Canale di Suez - dal 1967 al 1973 – iniziò il gigantismo navale petrolifero sulla ROTTA del Capo di Buona Speranza - “periplo d’Africa”. Aumentarono le portate e le velocità si ridussero alle attuali 16 nodi.

 

Nella prima metà degli anni ’80, da pilota del Porto di Genova, ho manovrato le gemelle NAI GENOVA e NAI SUPERBA (Lunghezza= 400 mt. - Portata lorda= 409.000 tonn. Velocità= 16,25 nodi.

 

 

Fu dunque dopo il 1945 che l’industria petrolifera raggiunse la sua maturità e il petrolio, dopo duecento anni, detronizzò definitivamente il carbone come principale fonte di energia. L’incredibile incremento della domanda di greggio (raddoppiata nell’arco di poco più di un decennio, dal 1958 al 1973) da parte delle nazioni più industrializzate e l’avvio del sistematico sfruttamento dei giacimenti del Medio Oriente determinò quello che Francisco Parra, segretario generale dell’Opec nel 1968, ha definito una sorta di vero e proprio “big bang” (Parra 2004, 33-54). Il traffico commerciale via mare, reso ulteriormente più vantaggioso dagli accordi che dettero vita al sistema di Bretton Woods aumentò esponenzialmente: tra il 1960 e il 1975 il traffico annuale di greggio subì un aumento dell’800% mentre la flotta mondiale di petroliere, che già all’inizio degli anni Sessanta per tonnellaggio ammontava già a 67 milioni (una cifra tre volte più grande di quella del 1939 e ben venticinque volte quella del 1914) aumentò del 600% (Scanlan 1984, 104). A metà degli anni Sessanta il 43% delle navi in costruzione nei vari cantieri del mondo erano petroliere (cit. in Hoye 1966b, 14-15. Cfr. inoltre Hartshorne 1962a; 1962b).

 

 

 

Fu in questi anni che si andarono definendo le principali rotte mondiali del greggio: la maggiore era senza dubbio quella che partiva dai giacimenti medio-orientali in direzione dell’Europa occidentale (con il canale di Suez quale via d’accesso privilegiata), del Nord America e dell’Asia, in particolare del Giappone e fu in questo stesso periodo che le navi adibite al trasporto del greggio crebbero ulteriormente in dimensioni. L’era delle superpetroliere iniziò negli anni Sessanta, quando fu costruita la Manhattan e quando la Torrey Canyon (inizialmente di 60.000 tonnellate) venne modificata in modo da poter praticamente raddoppiare il proprio carico. Si trattò di una evoluzione continua che toccò il suo apice nel 1977 con la Esso Atlantic, costruita con una stazza che superava le 500.000 tonnellate.

 

 

 

Questa tendenza a costruire petroliere sempre più capienti non rispondeva solo ad un continuo incremento della domanda di greggio da parte dei paesi più sviluppati, ma fu anche la conseguenza indiretta di alcune crisi internazionali che interessarono i paesi medio-orientali e in particolare l’Egitto: la crisi di Suez del 1956 e la Guerra dei Sei Giorni del 1967 con il primo embargo da parte dei paesi arabi produttori ma soprattutto la chiusura del canale, che nel frattempo si era trasformato da autostrada dell’impero britannico ad “autostrada del petrolio” (Yergin 1991), indussero le principali compagnie di petrolifere e di navigazione a raggiungere l’Europa occidentale e il Nord America attraverso una rotta più lunga di 6.000 miglia*, circumnavigando l’Africa. La riapertura del canale di Suez, negli anni Settanta e la crisi petrolifera seguita agli shock del 1973 e del 1979, provocarono solo una parziale inversione di tendenza, dal momento che le petroliere di nuova costruzione si attestarono comunque su una capacità di 200-300.000 tonnellate (IMO 2006, 11). D’altro canto, nonostante l’ulteriore diffusione degli oleodotti, gli ingenti investimenti iniziali richiesti nella loro costruzione e il costo alto delle royalties da versare ai paesi attraversati rendevano e avrebbero reso conveniente anche negli anni a venire il trasporto del petrolio via mare

 

 

* 6.000 miglia, alla velocità di 15 nodi corrispondono a circa di 17 giorni di navigazione, che sarebbero stati ammortizzati con l’incremento della portata delle petroliere in base alla classificazione sotto riportata.

 

 

Principali Rotte Petrolifere in milioni di tonnellate nel 1991 (Fonte IMO)

 

Le petroliere vengono classificate in base alle loro dimensioni:

 

ULCC (Ultra Large Crude Carrier) navi con portata superiore alle 300.000 tonnellate;

 

VLCC (Very Large Crude Carrier) petroliere con capacità di carico superiore alle 200.000 tonnellate;

 

SUEZMAX - petroliere tra le 125.000 e le 200.000 tonnellate di capacità che possono transitare nel Canale di Suez ;

 

AFRAMAX (Average Freight Rate Assessment) petroliere con capacità compresa tra le 125.000 e le 80.000 tonnellate;

 

PANAMAX Navi dalla capacità di trasporto compresa tra le 50.000 e le 79.000 tons e che hanno una larghezza massima di 32,2 mt e quindi in grado di transitare nel  Canale di Panama;

 

 

La velocità di crociera di una petroliera VLCC è di 12-16 nodi, la lunghezza “fuori tutto” di circa 350 metri e il pescaggio, a pieno carico, di circa 20 metri. Le grandi petroliere con capacità di trasporto superiore a 1,5 milioni di barili di greggio sono dette anche superpetroliere (Supertanker).

 

Al di sotto di queste dimensioni si adotta il termine di Porta-Prodotti (Product Carriers in Inglese) in quanto il traffico principale per queste navi è il trasporto di prodotti di raffineria e non più di petrolio greggio. Si usano ancora i termini LR (Long Range), e MR (Medium Range) a seconda delle dimensioni delle navi.

 

La più grande nave petroliera mai esistita è la Jahre Viking soprannominata "Happy Giant" o "Seawise Giant" con una lunghezza complessiva di ben 458 metri, 69 di larghezza ed una portata di 564.763 tonnellate circa. La Happy Giant fu bombardata durante la guerra dell'Iran-Irak nel 1987/88: fu poi completamente riparata, riprese servizio nel1991 ed infine fu demolita nel 2010 inIndia.

 

Tra le più grandi navi del mondo c'è anche la "TI Asia", una ULCC costruita nel 2002 nei cantieri Daewoo dellaCorea del Sud: è lunga 380 metri, larga 68 metri con una capacità di carico di 441.000 tonnellate. È dotata di un motore principale di oltre 50.000 cv.

 

 

1981 – La Super petroliera Knock Nevis in manovra. Stazza Lorda: 260,941 - Tonn. Portata: 564,763 tonn. Pescaggio: 24,611 mt – Velocità: 16 nodi - Lunghezza x Larghezza: 458 x 68 mt.

 

 

Carlo GATTI

 

Rapallo, Venerdì 13 Febbraio 2015

 

 

 


PITTORI DI MARINA-CLAUS BERGEN

PITTORI DI MARINA

Eco del golfo Tigullio

LA QUADRERIA DEL MARE

CLAUS BERGEN

La pittura di marina tedesca del novecento

Claus Friedrich Bergen (Stoccarda, 1885 - Lenggries (Baviera), 1964) è uno dei pochi pittori di marina tedeschi contemporanei i cui lavori sono conosciuti anche all’estero, in particolare per olii e acquerelli a riferiti a fatti della guerra navale in entrambi i conflitti mondiali.

Dal 1904 frequentò a Monaco gli studi dei pittori Moritz Weinhold, Otto Strützel, Peter Paul Müller e Hans von Bartels e, finalmente, nel 1909, riuscì ad essere ammesso all'Accademia d'arte di Monaco dove studiò e si esercitò sotto la guida del professor Carl von Marr. Nei primi tre decenni del secolo XX i lavori di Claus Bergen furono esposti a Monaco e in altre città tedesche ottenendo numerosi riconoscimenti non solo in patria ma anche all’estero, con medaglie e premi di cui fu destinatario a Monaco, Berlino, Amsterdam e Copenhagen.

Nel 1914 ottenne la nomina ufficiale a “Pittore di Marina” da parte del Kaiser Guglielmo II e, dopo la vittoriosa conclusione per la flotta tedesca della battaglia dello Jutland nella primavera del 1916, la richiesta di sue opere pittoriche relative a questo scontro divenne elevata, sia da parte del pubblico sia da parte di comandanti e ufficiali delle navi della Kaiserliche Marine che vi avevano preso parte.

Nel 1917, fatto sino ad allora senza precedenti, Claus Bergen venne aggregato all’equipaggio del sommergibile U-53 al comando del Kapitänleutnant (tenente di vascello) Hans Rose, prendendo parte ad una crociera in Atlantico della durata di due mesi nel corso della quale il battello affondò diversi mercantili britannici. I dipinti che realizzò al termine di questa navigazione sono considerati tra le sue migliori opere, abbinando alla perfetta rappresentazione dell’atmosfera nebbiosa e delle condizioni meteorologiche spesso tempestose dell’Oceano Atlantico settentrionale precise raffigurazioni di navi e sommergibili, il tutto permeato da una personale e intensa partecipazione emotiva agli eventi cui l’autore prese parte e che seppe traslare sulle numerose opere da lui realizzate ispirate alla guerra subacquea condotta dagli U-Boote della Marina Imperiale.

Tra le due guerre Claus Bergen si dedicò anche alla paesaggistica e alla tecnica pittorica della natura morta, come pure alla raffigurazione di navi mercantili e di transatlantici, ma la sua amicizia con gli ammiragli Erich Raeder e Karl Dönitz (come pure con Ernest Udet, “asso” della caccia tedesca nella Grande Guerra), gli fruttò numerose committenze per quadri e disegni raffiguranti navi militari tedesche dell’epoca. Nel 1922 Bergen, come molti altri artisti tedeschi, si iscrisse al Partito Nazionalsocialista e ciò - senza dubbio - favorì ulteriormente il suo talento e la sua notorietà, in particolare con la realizzazione, nel 1928, di dodici grandi tele relative alla storia della Marina germanica in seguito esposte in via permanente al Ministero della Marina a Berlino.

Con lo scoppio della seconda guerra mondiale l’attività di Bergen proseguì a un ritmo ancor più serrato e, soprattutto nei primi anni di guerra, produsse alcuni dei suoi lavori maggiormente conosciuti: U-53 im Atlantik (1939), Gegen England (1940), Beschiessung der Westerplatte, Wiedererstanden U-26, Schwerer Kreuzer Prinz Eugen im Gefecht in der Dänemarkstrasse (1940) e Kampfgebiet des Atlantiks (1941). Anche se ciò non può essere considerato un punto di merito, nove quadri di Claus Bergen furono acquistati dallo stesso cancelliere tedesco Adolf Hitler, mentre altri andarono ad arricchire le collezioni ufficiali di diverse città di mare tedesche e vennero esposti in palazzi e gallerie d’arte pubblici.

Al termine della seconda guerra mondiale, anche qui al pari di molti artisti tedeschi che avevano aderito al nazismo (verosimilmente, va detto, spesso più per convenienza che per convinzione…), pur non venendo epurato o messo al bando Bergen soffrì di un comprensibile periodo di “assenza mediatica”, ma, già verso la metà degli anni Cinquanta, aveva ripreso la sua attività dedicandosi soprattutto alla realizzazione di acquerelli a soggetto paesaggistico.

Ben presto, tuttavia, mise nuovamente mano a quella che era la sua più grande passione, ossia la pittura di Marina: all’inizio del 1963 fece personalmente dono al Presidente statunitense J.F. Kennedy di un grande quadro ad olio dal titolo The Atlantic (oggi esposto nella “Kennedy Library” di Boston) e, nello stesso anno, l’Ammiragliato britannico acquistò un suo grande quadro raffigurante il “tre ponti” HMS Victory, nave di bandiera dell’ammiraglio Nelson alla battaglia di Trafalgar.

Ai giorni nostri, opere a soggetto navale di Claus Bergen sono esposte in alcuni dei principali musei europei, tra cui il National Maritime Museum di Greenwich, e i suoi quadri fanno spesso parte di lotti a soggetto navale di aste e vendite d’arte ove raggiungono quotazioni assai spesso elevate, a testimonianza della valenza tecnica e professionale di un artista che ha fatto attraversare alla pittura di marina tedesca tutto il travagliato corso storico della sua nazione nel Novecento, esprimendo una grande passione per il mare e le navi militari e il suo personale riconoscimento per gli uomini che a bordo di esse hanno combattuto.

ALBUM FOTOGRAFICO

La Hochseeflotte (Flotta d’alto mare) tedesca  in navigazione nel Mare del Nord il 31 maggio 1916 (il quadro è del 1917), nell’imminenza dello scontro dello Jutland con la Flotta britannica al comando dell’ammiraglio Jellicoe. Si noti la particolare “resa” pittorica delle onde e della schiuma, indice di una considerevole padronanza delle tecniche della pittura di matina e di conoscenze dirette dell’aspetto del mare e di tutti gli elementi meteorologici correlati.

Navi e incrociatori da battaglia tedeschi alla battaglia dello Jutland (1917, Monaco, collezione privata).

L’interno di una torre di grosso calibro di una nave da battaglia tedesca alla battaglia dello Jutland ove, con grande partecipazione emotiva da parte dell’autore, è raffigurato l’intenso sforzo degli addetti al caricamento di proietti e cariche di lancio (1917).

L’incrociatore da battaglia tedesco Seydlitz, gravemente danneggiato alla battaglia dello Jutland, si allontana dalla zona dello scontro (1918, Greenwich, National Maritime Museum).

Il Kaiser parla agli equipaggi delle navi della Hochseeflotte dopo il rientro delle unità alle basi successivamente alla conclusione della battaglia dello Jutland (fine 1916, collezione privata).

Uno dei numerosi quadri realizzati da Claus Bergen al termine della sua navigazione di guerra sull’U-53 nel 1917: il battello si appresta ad attaccare in superficie un brigantino a palo britannico, visibile sullo sfondo a sinistra.

 

Il tema dell’affondamento di mercantili da parte degli U-Boote germanici fu affrontato da Claus Bergen tanto nel primo quanto nel secondo conflitto mondiale. Venticinque anni separano queste due opere: quella a sinistra (1917), è una delle tante realizzate al termine della navigazione di guerra sull’U-17; quella a destra, senza neppure “aggiornare” le caratteristiche della falsatorre del battello, tipiche dei sommergibili tedeschi della Grande Guerra, venne dipinta nel 1942.

Ritorno da un pattugliamento in Atlantico - Un U-Boot tipo “VII” rientra alla base dopo una lunga crociera di guerra nell’Atlantico settentrionale: il pittore ha reso al meglio le condizioni del sommergibile al termine di un lungo periodo operativo, con numerose chiazze di ruggine su tutto lo scafo; si noti sullo sfondo un caccia tipo “Z-1” (1942, Monaco, collezione privata).

Maurizio BRESCIA

Direttore del mensile

Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco

Rapallo, 14 Febbraio 2019

 

 


PITTORI DI MARINA-DOMENICO GAVARRONE: Ritratti di Navi nella Genova dell'Ottocento

PITTORI DI MARINA

Eco del golfo Tigullio

LA QUADRERIA DEL MARE

 

DOMENICO GAVARRONE

Ritratti di navi nella Genova

dell'800

 

Con vero piacere, giunti ormai alla decima uscita di questa rubrica sulle pagine de “Il Mare”, mi accingo a presentare ai nostri lettori uno tra i più celebri pittori di marina dell’Ottocento genovese, la cui notorietà ha travalicato i confini liguri e italiani arrivando sino oltreoceano, consegnandone le opere ai momenti più significativi di questo genere artistico e inserendole - per le loro indubbie qualità - nell’immaginario collettivo a quanti studiano e si appassionano alla “ritrattistica navale” nel senso più artistico, e allo stesso tempo tecnico, del termine.

In realtà, gli elementi biografici su Domenico Gavarrone (1821-1874, nato e vissuto a Genova) non sono poi molti anche se, fortunatamente, sono stati approfonditi e ben descritti dall’attuale direttore del Museo del Mare e della Navigazione di Genova, Pierangelo Campodonico, in un bel volume del 2000 edito da Tormena (I velieri di Domenico Gavarrone) che, ad oggi, è il saggio più completo ed esaustivo sull’attività e la produzione di questo artista ligure e marittimo “a tutto tondo”.

L’arte di Domenico Gavarrone si inserisce, di diritto, nella categoria dello ship portrait: un genere pittorico assai in voga nel Settecento e, soprattutto, sino agli anni Ottanta del secolo XIX quando la fotografia non si era ancora affermata quale fonte documentale primaria anche per il campo marittimo e navale. Erano difatti numerosissimi gli artisti attivi all’estero in questo settore: basterà citare la dinastia marsigliese dei Roux (tra l’altro protagonista di questa rubrica sul numero de “Il Mare” dello scorso mese di febbraio), le cui realizzazioni non mancarono di influenzare per stile, soggetti e tecnica pittorica quelle di Gavarrone. Va inoltre ricordata, dall’era napoleonica ai primi decenni dell’Ottocento, la presenza a Genova del maltese Nicolas Cammilleri (1777-1860) che, ancor più dei Roux, rivestì per Gavarrone un ruolo di guida e ispirazione sicuramente fondamentale.

In pratica, come avveniva all’epoca nei principali porti europei e degli Stati Uniti, armatori, comandanti e ufficiali erano usi commissionare a pittori specializzati lo ship portait (ossia un vero e proprio “ritratto” della propria nave, solitamente una vista al traverso di dritta o di sinistra) da esporre nella sede della compagnia, a bordo oppure nell’abitazione di residenza come ancora avviene ai nostri giorni con le stampe fotografiche. Negli anni, gli ship portrait hanno assunto una valenza non soltanto artistica ma anche documentale, in quanto una delle loro caratteristiche è costituita dall’assolutamente fedele riproduzione di scafi, alberature, attrezzature ed elementi dell’allestimento: in molti casi questi dipinti costituiscono l’unico documento iconografico certo e preciso su una determinata nave e, in quanto tali, il loro valore risulta ancor più accresciuto anche sul mercato delle opere d’arte, talvolta raggiungendo ragguardevoli quotazioni nell’ordine delle decine di migliaia di dollari o di euro.

A cavallo dei decenni centrali dell’Ottocento l’attività di Domenico Gavarrone e del suo studio fu frenetica, con centinaia di dipinti (in particolare olii su tela e acquerelli) realizzati per committenti dalle diverse origini ma, nella maggioranza dei casi, riferiti all’area dello shipping genovese e della Liguria di levante, all’epoca e sino agli anni del secondo dopoguerra tra gli ambiti italiani più importanti per l’armamento e la marineria mercantili. Al fine di accelerare quanto più possibile le tempistiche della realizzazione di uno ship portrait, gli artisti dell’epoca (ed anche Gavarrone non mancò di sfruttare questo escamotage) preparavano in anticipo gli sfondi di un quadro con il mare, il cielo e - spesso - un tratto di costa in lontananza, disponendone quindi sempre in buona quantità: a questo modo era possibile riprodurre soltanto il bastimento una volta che il dipinto veniva commissionato, ciò anche perché, allora come oggi, la permanenza di una nave in porto poteva non essere lunga in ragione delle tempistiche commerciali e delle condizioni meteorologiche. Non pochi furono pure gli armatori stranieri che si avvalsero dell’arte di Domenico Gavarrone: una delle più vaste collezioni estere di suoi ship portrait è esposta al Peabody Essex Museum di Salem (Massachusetts, USA), ma suoi lavori sono presenti anche in musei francesi, britannici e canadesi.

Soprattutto in ambito Mediterraneo (e, più specificatamente, italiano, greco, maltese e spagnolo) la tipologia pittorica dell’ex-voto visse nell’Ottocento il suo momento più fulgido: Domenico Gavarrone non mancò di rendersi attivo interprete in questo campo, con le sue opere che - insieme a quelle del coevo Angelo Arpe - aggiungono importanti valenze documentali e artistiche a dipinti devozionali che costituiscono uno delle più significative espressioni del sentimento religioso ligure. Ex-voto di Gavarrone sono presenti nei santuari di Montallegro a Rapallo, di N.S. del Boschetto a Camogli e della Madonna del Monte sulle alture di San Fruttuoso a Genova.

Infine (anche se non pochi suoi quadri si trovano al Mueso del Mare e della Navigazione nel Porto Antico di Genova), una tra le più vaste e importanti collezioni di ship portrait di Domenico Gavarrone è esposta al Museo Navale di Pegli: un corpus di quasi quaranta olii ed acquerelli che costituisce, di per sé, una tra le più importanti testimonianze della pittura di marina genovese, italiana ed europea oggi esistenti al mondo.

 

ALBUM FOTOGRAFICO

La permanenza a Genova del pittore maltese Nicolas Cammilleri portò alla realizzazione di numerose opere i cui soggetti e stile influenzarono la pittura di marina di Domenico Gavarrone. Questo ex-voto di Cammilleri, raffigurante una difficile situazione fronteggiata dal brigantino Concordia il 10 novembre 1937, è esposto all’interno del Santuario di N.S. del Boschetto di Camogli.

In un olio su tela di Domenico Gavarrone del 1848, il brigantino Laura, all’epoca comandato da Lazzaro Bertolotto. Si noti che il tricolore italiano a riva alla varea dell’asta della randa è raffigurato posteriormente alla vela in modo da non rendere visibile  lo stemma sabaudo: un espediente spesso posto in atto dai pittori di marina del periodo (o richiesto dallo stesso committente) al fine evidenziarne i sentimenti repubblicani in contrapposizione alle istanze di Casa Savoia. Nel riquadro, tratto da un’altra opera del Gavarrone, la bandiera navala e mercantile del Regno di Sardegna in uso precedentemente al 1848 (Museo Marinaro Gio Bono Ferrari, Camogli).

Al Santuario di Montallegro a Rapallo è conservato questo ex-voto di Domenico Gavarrone risalente al 1849, donato all’istituzione religiosa “per grazia ricevuta” dal capitano Filippo Campodonico, raffigurante il brigantno Granduca Leopoldo che scampa al naufragio.

Il bovo San Giuseppe in un quadro del 1854 esposto al Museo del Mare e della Navigazione di Genova. Insieme al “pinco” (con un solo albero e antenna con vela latina), il “bovo” era un’altra tipologia di imbarcazione ligure per il cabotaggio costiero, a due alberi attrezzati con vela latina (il trinchetto) e vela aurica (la mezzana). Si noti, sullo sfondo a sinistra, il promontorio di Portofino.

Il brigantino a palo Fortuna del comandante Angelo Pillo nel 1862. In questo caso, ormai conseguita l’unità d’Italia nel 1861, la bandiera mercantile con lo stemma sabaudo fa mostra di sé a poppa del bastimento (Museo del Mare e della Navigazione, Genova).

Domenico Gavarrone raffigurò nelle sue opere anche navi estere in entrata o in uscita dal porto di Genova. In questo acquerello, oggi conservato al Peabody Essex Museum di Salem (Massachusetts, USA) e raffigurato il “tre alberi” statunitense Sooloo in navigazione di bolina e con velatura ridotta.

Nello specifico genere dello ship portrait, gli artisti (che spesso avevano esperienza diretta di navigazione o costruzione navale) ponevano grande attenzione nell’esatta raffigurazione di alberi e attrezzature. Nell’immagine, un dettaglio dell’albero e della velatura di trinchetto del brigantino a palo Fratelli Cadenaccio in un acquerello di Angelo Arpe (artista coevo di Gavarrone), conservato al Museo Navale di Pegli (foto M. Brescia).

Pegli, Museo Navale: un angolo della sala che ospita una selezione di ship portrait di Domenico Gavarrone. Si tratta, per la maggior parte, di acquerelli che - verosimilmente - costituiscono la più vasta raccolta di opere del Gavarrone custodite in una singola istituzione museale (foto M. Brescia).

Da un acquerello di Domenico Gavarrone, uno degli sfondi “standard” con la Lanterna e l’accesso al porto di Genova che venivano preparati “in serie” nello studio dell’artista e ai quali, in un secondo tempo veniva sovrapposta la vista laterale della nave richiesta dal comandante.

 

 

Maurizio BRESCIA

Direttore del mensile

 


 

Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco

 

 

Rapallo, 8 Febbraio 2019