BREVE STORIA DELLE ASSICURAZIONI MARITTIME

BREVE STORIA DELLE ASSICURAZIONI MARITTIME

Trent'anni fa, Maurizio Tosi, allora giovane archeologo dell'Istituto per lo studio del Medio ed Estremo Oriente (Is.MEO), si trovava a esplorare un territorio vergine e pressoché sconosciuto all'archeologia, il sultanato dell'Oman.

 

I PRIMI CONTRATTI
Anche le civiltà più antiche in India o in Babilonia hanno lasciato tracce di accordi, di
“contratti” stipulati, spesso oralmente, per proteggere i beni trasportati dalle navi o dalle carovane.

 


Nave Oneraria di Albenga

 


Nel 200 a.C. comparvero alcune iniziali forme d’assicurazioni di rendita vitalizia…

Un antico esempio di mutualità nacque da una legge promulgata a Rodi ancor prima dell’avvento di Cristo che sanciva il criterio della compensazione generale delle perdite conseguenti ad alleggerimenti del carico effettuati durante la navigazione allo scopo di salvare la nave, i passeggeri ed il suo equipaggio.


A Roma esistevano molte società di assistenza e, come in Grecia, anche i collegia tenuiorum provvedevano alla sepoltura di chi non poteva permettersi una cerimonia funebre.


Le guerre puniche (264-146 a.C.)

I fornitori di armi e vettovaglie delle legioni romane impegnate nelle Guerre Puniche contro Cartagine comunicavano al Senato l’intenzione di continuare a rifornire le LEGIONI soltanto dietro pagamento completo del carico anche in caso di perdita totale di un naviglio o di una spedizione.

Dopo la caduta dell'Impero Romano e per buona parte del Medio Evo, la necessità di tutelarsi é sempre riferita al rischio marittimo …


Navi epoca all’epoca delle CROCIATE

La prima forma di Assicurazione fu quella marittima, che risale al Basso Medioevo. Per Basso Medioevo si intende il periodo della storia europea e del bacino del Mediterraneo convenzionalmente compreso tra l'anno 1000 circa e la scoperta dell’America nel 1492. Ed è altrettanto naturale che le forme assicurative abbiano la loro origine nelle città marittime italiane, veri poli della navigazione e del traffico commerciale europeo e oceanico.

Già nel 1225 a Venezia si ebbe un esempio di Assicurazione Marittima (fino a 1000 lire) e quando si verificò un infortunio, il Governo obbligò l'assicuratore ad eseguire il pagamento.

Queste forme di tutela assunsero una particolare consistenza già con i grandi movimenti di massa al seguito dei crociati.

Con le Crociate, infatti, quando i viaggi via mare non erano solo commerciali, ma anche militari, le prime forme d’Assicurazione ebbero una rilevante importanza. Erano viaggi lunghi e pericolosi: con navi, uomini e merci duramente esposti a tempeste, malattie, incursioni piratesche e danneggiamenti, per cui s’impose la necessità da parte di tutti gli operatori di queste storiche SPEDIZIONI di mettersi al riparo dai rischi gravi cui erano sottoposti.

Nel XIII secolo nacquero anche sodalizi di mutua assistenza, generalmente nati all'interno delle Corporazioni di Arti e Mestieri, in cui gli aderenti versavano quote annue che servivano a cumulare un capitale che venisse in aiuto ai soci colpiti da malattia, o che avessero subito furti o incendi. Anche in questo caso abbiamo una tutela da un rischio, ma non possiamo ancora parlare di "assicurazione", poiché la tutela non prevedeva un risarcimento vero e proprio del danno, ma solo il versamento di una somma relativa al capitale raccolto e che pertanto poteva essere anche esigua, non essendo correlata all'effettivo danno economico subito dall'associato.

L'Assicurazione trasporti, secondo il suo concetto primario, comprendeva tutte le assicurazioni contro le perdite e i danni che colpivano le merci e i mezzi di trasporto; ma in pratica, per ragioni diverse, le assicurazioni trasporti per via di mare erano considerate separatamente dalle altre riguardanti trasporti per via di terra e di acque continentali.

Volendo procedere con un po’ di cronologia, si può affermare che i primi documenti di assicurazione sono di tipo marittimo e risalgono all'inizio del XIV secolo, che sono:

il Breve cagliaritano, statuto pisano per la città di Cagliari del 1318; le spese per il rischio nei libri di Francesco Del Bene del 1319-320:

l'Atto grossetano di quietanza, un atto notarile del 1329 per una somma assicurativa;

Vari contratti assicurativi dalle città di Genova (1343), Marsiglia (1333), Lucca (1334), Palermo (1350).

Nello stesso periodo nasce la figura del MERCANTE, che inizia a svolgere anche il ruolo di Assicuratore. Nel 1400 le Amministrazioni stabiliscono le prime norme in materia, come le Ordinanze di Barcellona (1435-1484), replicate successivamente anche a Burgos (1538), Siviglia (1556), Bilbao (1569) e Anversa (1570).

All'epoca i contratti di assicurazione erano stabiliti per polizza o con un atto notarile, talvolta anche a voce. Il carico, il periodo del viaggio, il mezzo di trasporto e la rotta influenzavano il calcolo del premio; la nave tipo galea-galera, ad esempio, era considerato il mezzo più sicuro via mare.

I maggiori esponenti del Cristianesimo, inizialmente, criticarono l'istituzione dell'assicurazione in quanto era assimilata al prestito con interessi e all’USURA, entrambe vietate dal Diritto Canonico Medievale.

 


BERNARDINO DA SIENA - De contractibus et usuris, XV secolo

Bernardino da Siena (religioso e teologo italiano, appartenente all'Ordine dei Frati Minori. Fu proclamato santo nel 1450 da papa Niccolò V), si rifaceva al Diritto Romano e riteneva il prestito assicurativo tollerabile, poiché aveva un'utilità pubblica. L'assicurazione dei commerci via terra era molto limitata, anche se esistente in misura minore, poiché era ritenuto più sicuro dei trasporti marittimi avendo delle Autorità Statali che ne garantivano il controllo.


Lo sviluppo dell'assicurazione a scopo speculativo inizia solo nel sec. XIV. Negli archivi di Firenze e di Genova si sono scoperti documenti che vanno dal 1300 al 1319; ma un esplicito e definitivo riconoscimento legale dell'
Assicurazione Marittima si ha solo:

con la legge del 21 ottobre 1369, promulgata a Genova dal doge GABRIELE ADORNO che ordinò il PRIMO CODICE su questa materia.


 

Stemma nobiliare degli ADORNO

 

E’ quindi di Origine genovese il primo Contratto di Assicurazione in senso moderno.
che si affermò tra i secoli XIII e XIV in Italia, diffondendosi successivamente in altri Paesi europei, quando lo sviluppo dei traffici marittimi determinò per i mercanti l’esigenza di garantire i rischi del trasporto contro le insidie del mare e gli atti di pirateria crescenti. 

Con essa, sono dichiarati validi i contratti per viam cambi seu assecuramenti. Nello stesso archivio di Palazzo S. Giorgio si trova anche il Registro dove, dal 1410 sono registrate le assicurazioni marittime stipulate a Genova, con le indicazioni del premio relativo, che era di soldi dieci per ogni cento lire di capitale assicurato.

Da questo momento le Assicurazioni dilagano per tutto il Mediterraneo e vanno a coprire anche altri rischi come quello dei Trasporti Terrestri.

Un forte sviluppo del mondo assicurativo fu dato dalla Spagna dove nacque la prima regolamentazione completa del rapporto assicurativo con le cinque ordinanze di Barcellona fra il 1435 e il 1484, ordinanze inserite nel celebre Consolato del Mare.

Tra i primi Codici riguardanti le assicurazioni marittime hanno speciale importanza, oltre la legge del 1369, l'ordinanza di Pisa del 1318, (che contiene già norme per regolare diritti e doveri dell'assicurato e dell'assicuratore), c’é l'ordinanza di Firenze del 1523 che stabilisce per le polizze una determinata forma simile a quella oggi in uso.

L’INTERVENTO DELLO STATO



Jean-Baptiste Colbert

I primi documenti che interessano l’intervento dello STATO nel settore assicurativo ci sono pervenuti dai Paesi Bassi con Filippo II il quale, con decreto del 1570, nominò un Commissario di Stato per le assicurazioni, Diego Gonzales di Gand, responsabile della sorveglianza sul buon fine dei contratti, il quale rese obbligatoria la registrazione delle polizze.

Nel 1681, in Francia, fu pubblicata la famosa ORDONNANCE DE LA MARINE e tutta la successiva legislazione sulle assicurazioni marittime trasse ispirazione da questo documento:

Jean Baptiste COLBERT - Ministro delle Finanze del Regno di Francia - esercitò anche una consistente attività legislativa. Tra le iniziative di maggior rilievo, vanno ricordate le quattro Ordinanze che, emanate tra il 1667 ed il 1681,Rivoluzione ed oltre. In ordine cronologico, esse furono: estesero la loro influenza sul DIRITTO francese fino alla

· Ordonnance civile pour la réformation de la justice (1667), sulla riforma della giustizia civile, a cui si sarebbe ampiamente ispirato il Codice di procedura napoleonico;

· Ordonnance criminelle (81670), sulla procedura penale, che stabiliva un sistema decisamente intimidatorio (ad esempio, regolava in maniera minuziosa l'uso della tortura);

· Ordonnance du Commerce (1673), il primo "codice di commercio" dell'era moderna. Stabiliva un regolamento generale del commercio di terra e venne redatta, sentito il parere delle varie corporazioni e delle giurisdizioni mercantili, con il determinante apporto personale del mercante parigino Jacques Savary, grande esperto di giurisprudenza commerciale. In suo onore è anche indicata come Code Savary;

- ORDONNANCE DE LA MARINE (1681). Avente come oggetto il commercio sui mari, era una rielaborazione delle consuetudini marittime, talmente perfezionata che non solo ispirò i legislatori napoleonici, ma pure i successivi CODICI DELLA NAVIGAZIONE.

Tra il 1600 e il 1700 il cuore dell’attività finanziaria si sposta a LONDRA.

Qui nacquero le prime polizze contro l’incendio e le prime assicurazioni collettive. Le prime ebbero un impulso dopo l’incendio che nel 1666 distrusse gran parte della City: assicurare gli edifici (che erano per lo più in legno) contro il fuoco divenne una prassi diffusa.

 

La statistica e le assicurazioni sulla vita

L’affermazione delle assicurazioni moderne non sarebbe stata possibile senza lo sviluppo della scienza della statistica, alla quale diede un impulso determinante – sempre nella seconda metà del ‘600 – il filosofo matematico francese Blaise Pascal.

Grazie alla statistica, le Assicurazioni poterono contare su una base scientifica per il calcolo delle probabilità: l’eventualità che un evento si verifichi poté, da allora in poi, essere misurata in modo matematico. Una delle prime Compagnie londinesi specializzata nelle assicurazioni contro gli incendi, adottò per esempio l'ipotesi che una casa su 200 bruciasse ogni 15 anni.

Le Assicurazioni collettive, in cui agisce non un unico assicuratore, ma un gruppo, ci rimandano invece a un nome che è tuttora tra i simboli delle assicurazioni nel mondo: I Lloyd’s.

Edward Lloyd era il gestore di un caffè londinese, dove si riunivano gli Assicuratori Marittimi, e dove nacque l’uso di assicurare collettivamente i rischi più ingenti. Ancora oggi Lloyd’s è il più grande ri-assicuratore del mondo.

Anche le assicurazioni sulla vita nacquero, probabilmente, da quelle marittime, poiché anche i Capitani erano preziosi, come le navi e il loro carico. Ma perché il “ramo vita” si sviluppasse in una forma moderna si dovette attendere la seconda metà del XVII secolo quando nacquero il calcolo delle probabilità e, soprattutto, la tavola di mortalità, grazie all'astronomo Halley.

Alla fine del ‘600 c’erano dunque le basi per lo sviluppo delle imprese moderne di assicurazioni che si svilupparono fino ai giorni nostri.

Il famoso COFFEE HOUSE di Edward LLoyd

 


Il moderno edificio dei Lloyd's

LLOYD’S - INGHILTERRA

Quando il dominio dei mari passò dalla Spagna all’Inghilterra, questo paese conquistò, ovviamente, anche il primato nel mercato delle Assicurazioni Marittime.

Il Lloyd’s di Londra, che nacque nel 1686, divenne il centro del mercato assicurativo marittimo inglese oltre che un gigante dell’industria assicurativa mondiale. In Inghilterra non solo fiorì l’Assicurazione Marittima, ma nacquero per la prima volta nel XVII secolo anche le Assicurazioni Terrestri e le prime moderne Imprese assicurative sia come società di mutue che società per azioni.

 

LA PRIMA COMPAGNIA

Contemporaneamente, nel 1681 si costituì a Venezia la prima Compagnia di Assicurazione che garantiva i rischi marittimi. E’ questa l’epoca in cui il mondo assicurativo subì una svolta ulteriore.

Gli assicuratori, associati tra loro, che sino a quel momento garantivano con i premi, ma anche con il loro patrimonio personale, lasciarono il posto ad un organismo più moderno in cui il rischio dei soci era limitato alla quota di capitale versata. L’esperienza accumulata da questa forma societaria, fu la base della ideazione della prima “tavola di mortalità” ideata da Deparcieux e messa a punto da Edmund Halley. Nel frattempo, nella società dell’epoca, cominciarono a comparire i primi elementi del “calcolo delle probabilità” grazie a Blaise Pascal e a Pierre De Fermat. Con l’istituzione dei registri anagrafici parrocchiali, le raccolte dati divennero “sistema” per il calcolo della mortalità e così fu fatto un altro, basilare, passo in avanti verso quella che è oggi la moderna polizza assicurativa. Con la costituzione della “The amicable society for a percentual assurance office” nel 1705, nacque il moderno concetto di assicurazione. Siamo in Inghilterra. La società britannica ancora non usava una differenziazione del rischio rispetto all’età dell’assicurato se non calcolando un rischio comune fra i dodici ed i quarantacinque anni.

 

NASCONO I PREMI DIFFERENZIATI

Il primo esempio di tecnica attuariale applicata al mondo assicurativo lo si deve a James Dodson nel 1750. Fu lo stesso Dodson che fondò – sempre a Londra – la “Equitable Society” che per prima ideò i “Premi” differenziati rispetto all’età dei clienti. Per la prima volta apparse anche una certificazione medica sullo stato di saluto dell’assicurato e il primo tasso di interesse di sconto.


Un manifesto pubblicitario del 1899 per una compagnia assicurativa olandese.

CARLO GATTI

Rapallo, 2 aprile 2019

 


CENNI SULLA COCCA, CARAVELLA E CARACCA

CENNI SULLA COCCA, CARAVELLA E CARACCA

CIVADA E CONTROCIVADA

La nave a vela, nelle sue varie forme e dimensioni, ha solcato i mari dal tempo delle civiltà più antiche, passando per le grandi scoperte geografiche, le rotte mercantili che hanno reso ricchi gli imperi coloniali e l’era dell’industrializzazione, la quale, all’inizio del XX secolo, ha portato alla sostituzione del veliero con le navi a motore.


COCCA ANSEATICA

Il primo veliero vero e proprio fu la COCCA (foto sopra), un’imbarcazione medievale che poteva raggiungere una stazza di 200-300 tonnellate. Essa può essere considerata la più importante delle navi a vela che seguirono il periodo delle navi a propulsione mista: remi e vele.

La cocca aveva il ponte di coperta, sotto il quale vi era la stiva. Successivamente, si aggiunse un ponte coperto più piccolo a prua e uno maggiore a poppa. Aveva un solo albero con una sola vela quadra e di grandi dimensioni.

La cocca é un prodotto dei mari del nord. Nasce intorno al XII secolo per realizzare gli scambi commerciali via mare tra nazioni isolate dal clima duro e da mari tempestosi. Dette condizioni climatiche favorirono costruzioni navali robuste e tecnicamente in grado di affrontare situazioni emergenziali pericolose: neve, ghiaccio, nebbie, tempeste ecc…

Si sviluppa quindi un nuovo tipo di nave chiamata

 

COCCA  ANSEATICA

 

Il nome deriva dalla LEGA ANSEATICA, che dominava il MARE DEL NORD e il BALTICO negli ultimi secoli del Medioevo.


Le cocche anseatiche presentavano un disegno che abbandonava la prua ricurva del passato scegliendone una dritta, formante un angolo di circa 60 gradi, bloccata da una lunga chiglia dritta con un dritto di poppa anch'esso quasi verticale, formante un angolo di 75 gradi. L'attrezzatura velica era composta da una vela quadra con bracci e boline in modo che la vela potesse essere orientata per favorire la spinta in avanti della nave con vento al traverso. La nave presentava le sovrastrutture agli estremi: castelli di prua e di poppa, rialzati ed utili in caso di scontro armato, in tempi in cui la pirateria era presente, armatissima e scaltra nella guerriglia navale nel mondo conosciuto di allora.

La vela quadra nel dettaglio


1. ferzi
3. lato di inferitura
7. terzaroli
8. matafioni dei terzaroli

La vela quadra era dotata di matafioni di terzarolo lungo il bordo inferiore in modo che il bordame venisse assicurato con i matafioni.

Lo scafo era rivestito di assi di legno, fasciame, di norma sovrapposte bordo su bordo.

Inizialmente la cocca presentava il solo albero di maestra, con vela quadra. Fu intorno al 1300 che si ebbe la fusione fra le tecniche costruttive del Nord e quelle mediterranee. L’alberatura della cocca, così come lo scafo e le sovrastrutture, venne rinforzata con l’aggiunta di un secondo albero a prora, detto di trinchetto e, in seguito, con l’installazione di un terzo albero, più piccolo, a poppa, detto di mezzana. Era nata la nave a tre alberi, resa più manovriera dalla presenza delle vele di prora e di poppa, mentre la vela dell’albero maestro conservava la sua funzione propulsiva. Le estremità superiori degli alberi vennero munite di coffe, piattaforme rotonde protette da parapetti o griglie che potevano contenere un certo numero di arcieri o balestrieri e, successivamente, di archibugieri.


Nel XIV secolo la
cocca arrivò ad avere sino a quattro alberi, attrezzati sia con vele quadre sia con vele latine; aveva una lunghezza massima di 30 mt fuori tutto, cioè dall’estremità della poppa a quella della prora, e di 20 mt al galleggiamento. Questo tipo di nave poteva trasportare circa 150 t di carico e veniva armata con un equipaggio di venti o trenta uomini; poteva imbarcare armi da fuoco pesanti, sia a scopo difensivo sia offensivo. La cocca fu per quasi quattro secoli la nave commerciale per eccellenza: nel corso del tempo le sue dimensioni aumentarono e, verso la fine del XV secolo, la sua capacità di carico toccò le 1000 tonnellate. L’evoluzione finale della cocca porterà alla nascita della caracca.


Le vele erano governate tramite il sartiame, una complicata serie di cime, bigotte e bozzelli. Le corde prese singolarmente venivano chiamate cime.

Inizialmente anche il timone per governare era formato da due remi fissati ai lati della poppa. In epoca successiva, invece, venne sviluppato un timone centrale di poppa, detto timone alla navaresca.


In Italia il timone poppiero unico venne detto alla navaresca, poiché fu applicato per la prima volta su imbarcazioni alla navaresca, con bordi alti e vele quadre, come le Cocche.

Si è così ritenuto che il timone di questo tipo fosse di origini nordiche, anche perché la sua prima inequivocabile attestazione è su di un sigillo del 1242 della città baltica di Elbing, rinomata per i suoi cantieri navali, (vedi foto sopra).


In realtà una delle 99 miniature, oggi raccolte nella Bibliothèque Nazionale di Parigi, dipinte nell’anno 1237 (anno 634 dell’Egira), che illustrano le 50 Moqamat (Conversazioni) di Abu Mohammaoud al-Qasìm al-Hariri (1054- 1121), mostra una nave con timone centrale, del quale sono chiaramente rappresentate tre coppie di femminelle ed agugliotti.

Appare evidente quindi, a parte la lieve precedenza cronologica di una rappresentazione rispetto all’altra, che il timone centrale si fosse sviluppato in modo indipendente nel Nord Europa,  nell’Oceano Indiano e nel Golfo Persico da dove, forse, venne diffuso nel Mediterraneo. Nel Milione (1271–1295) Marco Polo, sempre così attento alle novità, dice semplicemente che: le navi asiatiche hanno “un timone”, e non vi si sofferma, come se la cosa non gli fosse nuova.

 

CARAVELLA E CARACCA

L’erede della cocca fu la CARAVELLA, divenuta famosa per essere stata l’imbarcazione utilizzata da Cristoforo Colombo nei suoi viaggi verso le Americhe. Questo veliero nacque all’inizio del 1400 e la sua fortuna coincise con le grandi traversate oceaniche, per poi declinare verso il XVII secolo.

La caravella era una nave inizialmente di piccole dimensioni, il cui tonnellaggio aumentò solo in seguito, dandole una forma più panciuta e tonda. Di norma presentava tre alberi, con vele quadre e latine che le conferivano una buona velocità e doti manovriere. Era dotata inoltre di una novità nautica strutturale: l’albero di bompresso, che si stagliava obliquamente all’esterno della prua, e montava una vela quadra chiamata CIVADA. Questa velatura mista le consentiva di gestire con maggiore facilità le diverse condizioni di vento. E’ mia opinione personale che detta vela, oltre a determinare una spinta in avanti, fosse in grado di sollevare la prua con il mare di punta e, opportunamente manovrata, facilitasse le accostate.

Le caravelle più grandi presentavano un cassero a poppa, vale a dire un castello sopraelevato rispetto a quello di prua. La potenza di fuoco della caravella era notevole, anche se non di grosso calibro, e necessitava di un equipaggio che si aggirasse tra i venti e i quaranta uomini.

Questo veliero, purtroppo, era soggetto a problemi strutturali (fragilità, poca protezione contro i parassiti) allo scafo e agli alberi, ma nel complesso si trattava della nave più affidabile e innovativa in circolazione, almeno fino all’avvento della CARACCA la cui fortuna durò dalla metà del XV alla metà del XVII secolo, ebbe origini prettamente mercantili. Di forma più tondeggiante rispetto alla cocca, presentava più ponti sovrapposti, castelli non sporgenti dallo scafo – di frequente costituiti a loro volta da più piattaforme – e una non disprezzabile capacità di artiglieria, per la prima volta disposta dietro a pannelli scorrevoli nella tipica formazione a batteria, in file orizzontali sovrapposte lungo le fiancate della nave.

La CARACCA era inizialmente utilizzata soprattutto dalla Lega Hanseatica nell’Europa del Nord e presentava una struttura velica e di sartiame piuttosto evoluta. Inoltre, per sfruttare al meglio il vento, oltre alle grandi vele quadre e alla vela latina all’albero di trinchetto, potevano essere issate anche vele poste più in alto lungo gli alberi, denominate vele di gabbia. Un ulteriore aiuto, come abbiamo appena visto, era fornito dalla vela di civada e dalla velatura di un quarto albero a poppa, detto albero di contromezzana o bonaventura. Le cime venivano assicurate alle lande: spranghe metalliche attraverso la quale ogni sartia era collegata allo scafo.

Grazie allo scafo accuratamente calatafato – cioè reso impermeabile – la caracca possedeva un’ottima resistenza alle intemperie, qualità che alla caravella mancava, e trasportava un maggiore carico di merci, armi e soldati, ragione per cui ebbe tanto successo nelle spedizioni intorno al mondo e sulle nuove rotte mercantili transoceaniche che fecero la fortuna degli imperi coloniali. Lo scafo era spesso rinforzato da parabordi che lo proteggevano dai contatti con altre navi o con gli scogli.

L’imbarcazione necessitava di un equipaggio di norma attorno ai cento uomini. Le caracche più grandi, però, potevano annoverare una ciurma composta da trecento o quattrocento marinai.

Benché la caracca costituisse un’evoluzione importante dell’architettura navale, la tecnica costruttiva non si fermò. Le rotte oceaniche erano impegnative, piene di pericoli ed imprevisti;  l’esperienza acquisita portò alle nascite del GALEONE, del VASCELLO, della FREGATA, dei CLIPPERS ecc

Una replica della Santa María ormeggiata vicino a Palos de la Frontera

La SANTA MARIA fu una CARACCA (nonostante comunemente venga ritenuta una CARAVELLA come le sue due compagne) e venne usata come nave ammiraglia della spedizione.

Costruita a Santander era molto robusta e faceva servizio mercantile con il nome di Galenda. Apparteneva a Juan De La Casa che la noleggiò per l'impresa. Aveva tre alberi con vele quadre ed una stazza che di circa 51 tonnellate. Era lunga 26,32 metri e larga 8 metri. L'albero di maestra era alto 26,6 metri con il grande trevo,coltellacci laterali, sul quale era dipinta la Croce di Castiglia e, sopra, una piccola vela di gabbia. Sull'albero di trinchetto c'era l'omonima vela e, sull'albero di mezzana, la vela latina triangolare.

Aveva un ponte di coperta, castello di prora e un cassero rialzato di poppa con l'alloggio del capitano. Il timone, come per le navi dell'epoca, era privo di ruota di comando e si trasmetteva il movimento al timone stesso per mezzo di due cime. Era la più lenta dei vascelli di Colombo. Portava quattro bombarde da 90 mm. – Colubrine e armi portatili nonché girevoli posti sul ponte inferiore e sui castelli di prua e di poppa.

Il GRANDE navigatore era partito il 3 Agosto 1492 dal porto di Palos de la Frontera, raggiunse il continente americano dopo 71 giorni di viaggio.

La SANTA MARIA, ammiraglia nella spedizione, era in grado di raggiungere i 10-12 nodi di velocità in condizioni favorevoli.

Il 25 dicembre 1492 l'equipaggio era in coperta e per un errore di manovra finì sugli scogli a Hispaniola e venne perduta. Colombo così si trasferì sulla NIÑA. Il relitto della Santa Maria venne ritrovato nel 1968. (A questo presunto relitto abbiamo dedicato un articolo sul nostro sito).

Un po’ di terminología essenziale


1) Controvelaccino

2) Velaccino

3) Parrocchetto

4) Trinchetto

5) Controcivada

6) Civada

7) Controvelaccio

8) Velaccio

9) Gabbia

10) Maestra

11) Belvedere

12) Mezzana

13) Coltellaccio della mezzana

 

CLONI DELLA CARACCA DI CRISTOFORO COLOMBO



Le foto (sopra e sotto) si riferiscono a “repliche” naviganti di caravelle dell’epoca di Cristoforo Colombo del periodo delle grandi scoperte, sono armate con due alberi e con vele tra loro di ugual ampiezza. Da notare come queste vele siano alquanto tondeggianti (venivano anche chiamate vele tonde). Sull'albero di mezzana è invece situata una vela latina con la sua lunga antenna. A prora, sull'albero di bompresso, la civada, che verrà in seguito sostituita dal fiocco.


Il bompresso, nell'evoluzione dalla galea al galeone, diventando ALBERO BOMPRESSO diagonale rispetto alla linea dello scafo, ed ospitante solitamente una sola vela, detta civada, in seguito, per rinforzarne l’effetto, compare una seconda vela sistemata su un prolungamento verticale dell'albero, detta controcivada.

Queste vele nate nel III secolo a.C. Con l'avvento della Vela Latina caddero in disuso, ma nel XV ricomparvero con la vela quadra insieme con la vela latina.

UN PASSO INDIETRO….

LA NAVE ONERARIA


NOTARE A PRORA (a destra del disegno) LA PRIMA CIVADA DELLA STORIA NAVALE

LA NAVE ONERARIA - Prima ancora di allestire una flotta da guerra, i Romani avevano un grande numero di mercantili: erano dette navi onerarie (dal latino onus, carico), cioè navi da carico. Con una forma piuttosto rotonda venivano spinte dalle vele: non vi erano rematori, per consentire al carico il maggior spazio possibile. La vela aveva una forma quadrata. Nella costruzione di questo tipo di navi, i Romani curavano particolarmente la chiglia, che fosse solida e impermeabile, su cui veniva stesa una lastra di piombo. Con questo sistema di protezione, l'acqua non filtrava assolutamente nella stiva e la merce trasportata poteva considerarsi al sicuro.
Sulla poppa v'era di solito un ornamento chiamato chenisco. Con questo tipo di nave i Romani svolgevano i loro commerci soprattutto nei vari porti del Mar Tirreno: trasportavano olio, vino, grano, frutta e bestiame. Quando i Romani ebbero una flotta militare, le navi onerarie servirono per il trasporto dei viveri, delle truppe, dei cavalli e delle macchine da guerra: catapulte e arieti.

La CIVADA nasce nel III secolo a.C. - Nel XV ricompare con la vela quadra e con la vela latina. Si tratta di una piccola Vela Quadra inferita al di sotto dell’albero di bompresso e da questo sostenuta al pennone di civada. La civada é comune nei vascelli del XVII e XVIII secolo.

La sua curiosa denominazione deriva, per l’analogia della sua forma originaria con il sacco d'avena (in provenzale civadiera), che si appendeva sotto il muso dei cavalli.

I velieri dei sec. XVII e XVIII avevano spesso, a proravia della civada, una seconda vela quadra chiamata controcivada che era sostenuta inizialmente dall'albero di civada, sopportato a sua volta dal bompresso e, in epoca successiva, sospesa allo stesso bompresso.

All'inizio del XIX secolo le vele quadre del bompresso non furono più utilizzate e al pennone di civada fu destinata la funzione di dare angolatura opportuna alle manovre fisse di ritenuta laterale dell'albero di bompresso.

Verso il sec. XIX le vele quadre al bompresso scomparvero e al pennone di civada (talvolta sostituito da due picchi disposti uno per lato trasversalmente all'albero di bompresso) fu affidata la funzione di dare angolo conveniente alle manovre laterali (venti) del bompresso.

Da queste trasformazioni sperimentate nei secoli, nacque il FIOCCO

IL MODELLISMO CI OFFRE LA POSSIBILITA’ DI ENTRARE NEI PARTICOLARI COSTRUTTIVI DELLA CIVADA


 

CARLO GATTI

Rapallo, 27 Marzo 2019

 


LE NAVI ROMANE DI PISA

LE NAVI ROMANE DI PISA


Vent’anni fa, nel dicembre 1998, durante i lavori di un nuovo centro delle Ferrovie dello Stato presso la stazione di Pisa - San Rossore, venne alla luce un eccezionale sito archeologico, a cinquecento metri dalla Torre pendente di PISA, cioè in pieno centro storico.

Dopo alcuni anni di scavi il tesoro arrivò a contare ben 31 navi romane di ogni tipo e misura, appartenente a differenti epoche storiche.

All’epoca in cui queste navi solcavano i mari, tra il II a.C. e il VII d.CPisa era un insediamento di media importanza nel Mediterraneo occidentale e si trovava in una zona cosiddetta di “porto diffuso”. L'area era solcata da canali navigabili e ricca di vie d’acqua simili a quelle che oggi si trovano ad Anversa e in altre siti del Nord Europa. Non c’era alcun porto a San Rossore, ma solo una estesa rada, un punto intermedio in cui le barche sostavano o partivano verso l’interno navigando in un dedalo di canali. Proprio per muoversi lungo questi corsi erano necessari piccoli barchini, ben tre sono oggi esposti nel Museo. Parliamo di un lontano periodo in cui Pisa era un porto militare distribuito su di un esteso porto fluviale canalizzato.

Già dopo i primi scavi promossi da Soprintendenza, gli archeologi si trovarono dinanzi a strutture banchinate, un pontile e una grande quantità di oggetti mobili, tra cui anfore, coperchi, ceramiche, manufatti, lucerne e attrezzature per la pesca. Gli esperti spiegarono che l’arretramento del mare aveva fatto sì che già nel Medioevo il porto di Pisa (che a quel tempo era una delle quattro Repubbliche marinare) fosse costruito più lontano dalla città, ma il trasporto dei detriti è proseguito, soprattutto per opera dell’Arno, e anche quel porto è stato inglobato dalla terraferma.

Pisa ha dunque perso nel tempo il suo forte legame col mare, ma il passato ogni tanto riaffiora dalla terra e rende testimonianza dei fatti che hanno scandito la storia di questa Repubblica marinara. Questo ritrovamento presentò fin dall’inizio caratteristiche di assoluta eccezionalità non solo per il gran numero di materiali finora individuati, ma per le stesse condizioni di conservazione delle imbarcazioni, alcune delle quali praticamente intatte, che restituiscono lo spettro di varie tipologie navali: dalle navi da carico alle barche fluviali, dai barconi a remi ai navicelli lagunari.

Le guide ci hanno spiegato che si tratta di relitti, rinvenuti in ottimo stato di conservazione in un’area dove un tempo un canale confluiva nel Serchio (Auser) e dove nel corso dei secoli affondarono numerose imbarcazioni a seguito di alluvioni.  La denominazione “Navi Romane” è un po’ impropria in quanto nel sito sono stati rinvenuti relitti non solo di epoca romana ma anche di quella ellenistica e medioevale e nello scavo sono stati portati alla luce reperti che risalgono fin dall’epoca etrusca (VII secolo A.C.)”.

IL MUSEO DELLE NAVI ROMANE

Dopo 18 anni d'attesa, dal 25 novembre scorso è aperto al pubblico il "Museo delle Navi Antiche" di Pisa, un primo nucleo di quella che sarà una delle più importanti e grandi esposizioni archeologiche sulla marineria antica, la cosiddetta "Pompei del mare", con 30 imbarcazioni di epoca romana e altomedievale (di cui 13 integre), risalenti ad un periodo che va dal I secolo d.C. e il VII d.C.

 

 

Nel disegno le varie navi in base alla loro posizione di ritrovamento contrassegnate dalla lettera corrispondente. I relitti rinvenuti permetteranno agli studiosi di ricostruire, grazie al ricco reperimento di “materiali”, una pagina di storia non solo pisana con le tecniche di allestimento delle imbarcazioni, il tipo di navigazione, nonché gli usi e le abitudini degli uomini che su tali mezzi si muovevano e vivevano insieme ai rapporti commerciali che intrattenevano lungo le rotte nel Mediterraneo.

 

GLI ARSENALI MEDICEI

 

Gli Arsenali medicei che accolgono le antiche navi di Pisa.

 




MASCHERA APOTROPAICA (primo piano)

I locali degli antichi Arsenali medicei voluti da Cosimo I Medici, per la costruzione delle galere dei Cavalieri dell’Ordine di Santo Stefano da lui istituito, e affidati all’opera dell’architetto Bernardo Buontalenti, accolgono quattro delle imbarcazioni ritrovate a pochi passi dalla Torre pendente, nell’area ferroviaria di Pisa-San Rossore, nel 1998.

Museo navi romane Pisa - Interno

 


Il traghetto I durante l'allestimento del Museo.


Nave contrassegnata con la lettera C

 

Museo - la nave C


Museo di Pisa - la nave C

 

Il pezzo più affascinante è sicuramente la ricostruzione a grandezza naturale della nave contrassegnata con la lettera C datata degli inizi del I secolo d.C. e affondata mentre era ancora ormeggiata in banchina. Notevole il suo ritrovamento per l’eccellente stato di conservazione. Splendida ancora con i suoi colori originali di cui conservava notevole traccia: bianco con rifiniture in rosso e il simbolo, in nero, dell’occhio, il portafortuna di chi andava per mare. La chiglia di leccio, il fasciame, ovvero il rivestimento esterno, di pino, ma anche fico, frassino, leccio, olmo e ontano per le ordinate o costole, le parti che si incastrano trasversalmente sulla chiglia.

 

Museo delle navi antiche di Pisa, la nave C

Nello scafo sei banchi di voga su uno dei quali in caratteri greci la scritta “alkedo”, probabilmente la trascrizione della parola latina alcedo, gabbiano.


la nave C

Una delle navi restaurate ed esposte nella Sala V

 

La sala IV è dedicata alla tecnica di costruzioni delle navi

 

LE ANFORE GRECO-ROMANE


L'anfora è un vaso di terracotta a due manici, definiti anse, di forma affusolata o globulare utilizzato nell'antichità per il trasporto di derrate alimentari liquide o semiliquide, come vino, olio, salse di pesce (garu) conserve di frutta, miele, ecc. Le anfore si possono classificare in fenicie o puniche, greche, etrusche, della Magna Grecia  (greco-italiche antiche) e romane.

Dall'anfora greco arcaica si giunge alla romana di età repubblicana, attraverso una serie di passaggi ben descritti dall'archeologo francese Jean Pierre Joncheray. L'anfora greco arcaica del VII secolo a.C. si evolve nelle sue forme nella greco recente (V-IV secolo) e poi nella greco italica (III secolo a.C.) usata in età ellenistica dai coloni greci in Italia e adottata in seguito dai Romani; mi è capitato di vedere delle greco italiche con bolli romani. Il passaggio continua con la greco italica di transizione (II secolo a.C.) e arriva alla romana di età repubblicana 18).


L'orlo dapprima a ciambella circolare o piatto e orizzontale della greco arcaica, si sviluppa e si inclina progressivamente nell'anfora greco italica, greco italica di transizione, fino diventare verticale nella forma romana. Il collo si allunga: dai 15 centimetri si passa ai 40 nei più recenti, le anse si allungano seguendo il collo. La pancia a forma di trottola, nei tipi più antichi, diventa un'ogiva sempre più affusolata. La lunghezza totale arriva a 120 centimetri: e' forma tipica dell'anfora romana di età repubblicana varietà Dressel lA (II Sec. a.C.), lB (I secolo a.C.) e 1C (I secolo a.C.), conosciute come anfora di Marsiglia, anfora di Albenga, anfora di Capo Mele, dal nome dei luoghi dove sono state principalmente rinvenute. Questo tipo è detta vinaria, per distinguerla da quella di forma più panciuta, chiamata olearia (Dressel 6).

Comunque le anfore vinarie, come è stato constatato dai residui del contenuto, portavano olio e, viceversa, molte olearie contenevano vino.

LE ANFORE DEL MUSEO DELLE NAVI ROMANE DI PISA



UNA LUCERNA perfettamente conservata

 

La nave D in fase di allestimento

È una grande imbarcazione fluviale utilizzata per il trasporto della sabbia che veniva trainata da riva con due cavalli. Gli archeologi collocano il suo affondamento in età tardo gotica quando, travolta dall’ennesima alluvione, affondò nei pressi della sponda su fondali bassi, capovolgendosi.

 

Museo delle navi antiche di Pisa, il barchino F

 

Diversa non solo per dimensioni la nave indicata con la lettera F e con il numero 46. È stata datata II secolo d.C. ed appartiene alla categoria delle piccole imbarcazioni fluviali. Ripropone nella forma e nel tipo di pilotaggio la struttura di una gondola, facendoci intuire meglio quanto l’ambiente naturale e l’apparato portuale pisano assomigliassero a quelli della laguna veneta. Lo scafo, realizzato con legno di ontano e quercia, appare infatti deformato su di un lato proprio per la manovra di un solo rematore. Lo studio dei legnami utilizzati per la costruzione delle varie parti delle imbarcazioni ha confermato le antiche fonti che tramandano l’uso della quercia per le parti strutturali, come la chiglia, che devono essere più resistenti, ma anche frassino, olmo, leccio; per il fasciame invece prevale l’abete o il pino, più leggeri.

LA NAVE 1

Museo delle navi antiche di Pisa

il traghetto, la nave I

 

(Sopra e sotto)

Interamente in quercia il traghetto a fondo piatto per il trasporto del bestiame, contrassegnato dalla lettera I e dal numero 45. Datato IV-V secolo d.C., era rivestito da fasce chiodate in ferro in modo da proteggere lo scafo dai bassi fondali in cui manovrava, mossa dalla riva per mezzo di un argano.

 

Il traghetto per i bassi fondali, nave I

 

LA NAVE A

Museo delle navi antiche di Pisa

La nave A nella ricostruzione della Sala IV

Ultima sorpresa del nostro viaggio la grande Sala IV, con la prima nave, enorme, anche se ne manca una buona metà rimasta sotto i fabbricati della ferrovia, contrassegnata dalla lettera A, quella che ha dato il via a tutta la ricerca. Giace con i suoi grandi legni su un mare di sabbia che riproduce il cantiere di ritrovamento.

 

IMPERO ROMANO - CARTA STORICA


BIREME ROMANA – LIBURNA


 

TERMINOLOGIA TECNICO - NAVALE

NAVE ONERARIA


 

MODELLINO DEL TIPO NAVE - C (Museo Navi Romane Pisa)

Carlo GATTI

Rapallo, 6 Marzo 2019

 

 


GESTI DI GRANDE MARINERIA: L'ULTIMA TEMPESTA

GESTI DI GRANDE MARINERIA

L’ULTIMA TEMPESTA

L’argomento “marinaro” del giorno, a giudicare dai video proiettati sui “social”, riguarda le “arrampicate” dei piloti portuali con cattivo tempo, ma che solo in epoca di smartphone hanno trovato la loro puntuale visibilità “riprendendosi” tra loro in piena autonomia. Per esperienza sappiamo che nessun fotografo specializzato si é mai voluto prendere il rischio d’avventurarsi in mare aperto con cattivo tempo e rischiare la propria incolumità … Tuttavia occorre precisare che le qualità acrobatiche di tempismo dei piloti sono cresciute nel tempo insieme all’abilità dei loro Timonieri/Pilotini che sono manovratori eccezionali e persone che dimostrano freddezza assoluta e coraggio da vendere… Doti che emergono specialmente quando le pilotine raggiungono vette ragguardevoli di 6/8 metri, a volte anche di più e la vita del pilota é nelle loro mani!

Alcuni di loro sono stati anche decorati per aver collaborato insieme al pilota in numerose operazioni di salvataggio: Vedi London Valour, Haven, Hakuyo Maru dei quali trovo utile riportare i LINK dei miei scritti ripresi dal nostro sito di Mare Nostrum.

Dopo questa premessa dedicata alla perizia dei Timonieri/Pilotini, oggi dedico il nostro scritto settimanale ad un fatto vero che ha avuto la massima visibilità grazie al film: L’ULTIMA TEMPESTA che, come vedremo, racconta l’eccezionale impresa di salvataggio compiuta proprio da un Conduttore/Timoniere della Guardia Costiera USA. Ma prima di “partire” desidero spendere qualche parola sulle petroliere T2 che furono per molti anni la “casa” di molti marittimi italiani e che in questo racconto due di esse si sono inabissate davanti alle coste USA.


Una petroliera T2 - 1943

La petroliera T2, o più semplicemente T2, era una nave per il trasporto di petrolio e suoi derivati, progettata e realizzata, in numeri rilevanti, negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale.

Le petroliere T2 avevano per l'epoca delle dimensioni rilevanti, superate solo dalle petroliere T3 che però furono costruite solo in cinque esemplari. Alla fine del conflitto furono 500 le T2 costruite tra il 1940 e il 1945. Molte furono utilizzate per decenni dopo la fine della guerra. Come altre navi realizzate in questo periodo andarono incontro a problemi di sicurezza. Dopo che nel 1952 due di queste navi - la SS Pendleton e la SS Fort Mercer - andarono perdute a distanza di poche ore, lo U.S. Coast Guard Marine Board of Investigation dichiarò che queste navi erano inclini a spezzarsi in due in acque fredde. Pertanto furono aggiunte alla struttura della nave delle strisce di acciaio. Le inchieste tecniche attribuirono inizialmente la tendenza delle navi a spezzarsi in due alle scarse tecniche di saldatura. In seguito venne stabilito che, durante la guerra, l'acciaio utilizzato per la loro costruzione aveva un contenuto di zolfo troppo elevato che rendeva fragile l'acciaio alle basse temperature.

L’ULTIMA TEMPESTA


Tratta dal libro: The Finest Hours, The True Story of the U.S. Coast Guard's Most Daring Sea Rescue di Michael J. Tougias e Casey Sherman. L'ultima tempesta racconta l'incredibile, eroico salvataggio di 32 uomini dell'equipaggio ad opera di 4 membri della Guardia Costiera USA, che contro ogni previsione, e a totale rischio di naufragio, riuscirono a raggiungere la nave spezzata superando scogliere e bassifondi tra onde altissime, con la piccola pilotina CG-36500, a recuperare i superstiti e a tornare a terra.


Il troncone della T2 SS/PENDLETON sta per affondare




E’ stata una delle peggiori tempeste che si siano mai abbattute sull’East Coast.

 

Quando un potente NOREASTER* invase la costa orientale degli Stati Uniti, due grosse petroliere T2 si ritrovano intrappolate nell’occhio della tempesta. La SS FORT MERCER venne letteralmente spezzata in due dal mare. Fece in tempo a lanciare un segnale di soccorso che mobilitò i soccorsi. Nel frattempo un'altra petroliera SS PENDLETON subì la stessa sorte…


Foto aerea di Rock Harbor – Orleans - Massachusetts

LA CRONACA

Il 18 febbraio del 1952 una violenta tempesta colpì il New England devastando, tra l’altro, centinaia d’imbarcazioni che si trovavano sulla sua traiettoria. Fra queste, la petroliera SS Pendleton, una petroliera T-2 diretta a Boston che venne letteralmente spezzata in due da onde gigantesche. Un troncone affondò subito, mentre l'altro si ritrovò in balia degli elementi, in pieno Oceano Atlantico intrappolando 32 marinai al suo interno a poppa. La loro sorte era ormai segnata per l’evidente impossibilità di governare ed erano destinati ad un rapido naufragio.

L'equipaggio, ritrovandosi su una parte soltanto “galleggiante” in balia della tempesta, senza radio, senza timone, senza capitano e con tutti i soccorsi impegnati alla ricerca della Fort Mercer, si mise nelle mani del suo più anziano ufficiale Ray Sybert.

Ma non fu facile per Sybert prendere in pugno la situazione in quei frangenti dove la paura ed il panico la facevano da padroni. Tuttavia, dopo aver domato con grande energia le divergenze tra i membri dell’equipaggio, riuscì a dare speranza a tutti operando alcune manovre che diedero al troncone la possibilità di rimanere a galla e poi di arenarsi su una secca a largo di Rock Harbor.

Nel mentre, un addetto portuale sentì la sirena di emergenza della nave e riconobbe la sagoma al largo ed avvisò la Guardia Costiera. La notizia del disastro raggiunse la Centrale Operativa di Chatham, nel Massachusetts. Il Sergente Maggiore Daniel Cluff diede l’ordine di effettuare una rischiosa operazione per mettere in salvo i naufraghi sopravvissuti dei 41 membri dell'equipaggio della PENDLETON. La missione di recupero e salvataggio venne immediatamente organizzata e fu affidata al nostromo in servizio, il giovane Bernie Webber che prese subito il largo a bordo della motovedetta CG 36500.

L’operazione presentava tali rischi da essere definita suicida dai propri colleghi per via delle enormi onde che si abbattevano sulla secca che proteggeva il porto. L'operazione di salvataggio fu un successo e i 32 membri della petroliera vennero messi in salvo in un solo viaggio eseguito a notte fonda, con bussola in avaria e senza alcun tipo di illuminazione oltre al faro della motovedetta (la petroliera era senza alimentazione elettrica, la sirena nel frattempo si era spenta così come tutte le luci: in blackout era anche il porto di partenza a causa della forte tempesta).


Bernard C. Webber con il suo equipaggio in porto dopo il salvataggio dei superstiti

 

Coast Guard Motor Lifeboat CG 36500


La Coast Guard Motor Lifeboat CG-36500 (nella foto) è la storica motovedetta della Guardia Costiera statunitense, divenuta famosa per il salvataggio di 32 membri dell'equipaggio della petroliera Tipo T2-SE-A1 SS PENDLETON al largo della costa di Rock Harbor, Orleans (Massachussetts).

Si è trattato del più grande salvataggio di tutta la storia della Guardia Costiera statunitense eseguito da una piccola imbarcazione. L'impresa è stata premiata con una medaglia al merito e nel 2016 è stata ricordata con il film: L’ULTIMA TEMPESTA (The Finest Hours).

ESPOSIZIONE MUSEALE

L'imbarcazione, messa fuori servizio nel 1968, fu consegnata al National Park Service per utilizzarla in una mostra a Cape Cod National Seashore. Nel novembre 1981, il Park Service, che non aveva effettuato alcun significativo intervento di restauro sulla nave, la cedette alla Orleans Historical Society, la quale avviò un restauro, grazie ad un gruppo di volontari da Chatham, Orleans,Harwich in Massachusetts.

In sei mesi i lavori di restauro furono completati e la barca venne messa in mostra in una cerimonia pubblica che ha visto la partecipazione di Bernard Webber e di sua moglie Miriam Penttinen.

*I Noreaster sono Cicloni Extratropicali che si sviluppano lungo la costa orientale degli USA soprattutto tra la fine dell’autunno e inizio primavera e la cui intensità, generalmente marcata, è data dalle forti differenze di temperatura e umidità fra l'aria fredda che in quei mesi comincia ad irrompere dal Canada e l'aria caldo umida che è presente sull’oceano Atlantico, che ancora ritiene il calore accumulato nei mesi estivi; il suo caratteristico nome è dato dal fatto che i forti venti che si sviluppano sulla costa orientale degli USA si dispongono da Nord-Est. Il centro della depressione si colloca poco al largo e la tempesta nel suo movimento di traslazione tende a seguire la linea di costa verso Nord.

LINK

Ricordando la HAVEN

vent’anni dopo...

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=150:haven&catid=41:sub&Itemid=162

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LONDON VALOUR

IL GIORNO DEL DIAVOLO

https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=139:il-giorno-del-diavolo&catid=34:navi&Itemid=160

Carlo GATTI

Rapallo, 28 febbraio 2019


IL GIGANTISMO NAVALE PETROLIFERO

IL GIGANTISMO NAVALE PETROLIFERO

SEAWISE GIANT

Un po’ di Storia...

Il Canale di SUEZ fu inaugurato il 17 giugno 1869 e il suo regime giuridico internazionale (nel 1875, il sovrano d'Egitto Ismā'il, per far fronte al grave deficit dello stato fu costretto a cedere alla Gran Bretagna la propria quota azionaria) fu definito dalla Convenzione di Costantinopoli del 1888. Essa restò in vigore fino al 23 luglio 1956, data in cui il presidente G.A.Nasser  annunciò la nazionalizzazione del Canale da parte dello stato egiziano. Trovandosi improvvisamente impedito il transito, Israele intervenne militarmente insieme a Francia e Inghilterra. Durante la "Crisi di Suez" il Canale fu chiuso al traffico e la situazione si sbloccò solo grazie all'azione congiunta degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica, che imposero il ritiro degli anglo-francesi e, attraverso l'ONU, la cessazione delle ostilità; le stesse Nazioni Unite curarono la riapertura del Canale nell'aprile 1957, ma questo si era nel frattempo insabbiato e aveva perduto la preminente funzione di rotta più breve verso l'India e l'Estremo Oriente. Nel 1960 la Banca Mondiale offrì un prestito di 56,6 milioni di dollari per l'allargamento e l'approfondimento del Canale, ma nel 1967, in conseguenza del riacceso conflitto arabo-israeliano, esso fu nuovamente teatro di combattimenti e restò bloccato fino al 5 giugno 1975, quando fu riaperto al transito.

La petroliera T2 (fu un grande successo bellico e poi commerciale nel dopoguerra)

Il progetto della T2 venne formalizzato dalla United States Maritime Commission come tipologia di petroliera per la Difesa Nazionale di medie dimensioni. La nave veniva costruita per il servizio commerciale ma in caso di conflitto poteva essere utilizzata come nave militare inserita nella flotta ausiliaria. La Commissione si faceva carico della differenza dei costi aggiuntivi dovuti all'inserimento di tutte le caratteristiche necessarie per l'impiego militare della nave e che andavano oltre i normali standard commerciali.

Il modello T2 venne basato su due navi costruite nel 1938-1939 dai cantieri Bethlehem Steel per la Socony-Vacuum Oil Company. Le due navi, Mobifuel e Mobilube, differivano dalle altre navi Mobil principalmente per l'installazione di un motore più potente che poteva garantire una maggiore velocità. La T2 standard aveva una lunghezza totale di 152,9 mt. e una larghezza massima di 20,7 mt. La stazza era di 8.981 tons. ed aveva unaportata lorda di 16.104 tonnellate. Il dislocamento totale standard di una T2 si aggirava intorno alle 19.141 tonnellate.

 

Le sueturbine a vapore fornivano 8.900 KW (12.000 hp) ed azionavano un'elica singola che poteva spingere la nave fino ad una velocità di 16 nodi.

 

In totale ne sono state costruite sei utilizzate per l'impiego commerciale presso i cantieri Bethlehem-Sparrows Point Shipyard che avevano sede in Maryland. Subito dopo l'attacco a Pearl Harbour le navi sono state prese in carico dalla U.S. Navy dove vennero riunite nella classe Kennebec.

 

Nei primi anni ’60 ho navigato sulla t/n FINA ITALIA da 3° e 2° uff.le di cop. Era soprannominata “la freccia del Golfo persico”. Aveva una portata lorda di 31.500 tonn. ed una velocità poco superiore ai 18 nodi.

Con la chiusura del Canale di Suez - dal 1967 al 1973 – iniziò il gigantismo navale petrolifero sulla ROTTA del Capo di Buona Speranza - “periplo d’Africa”. Aumentarono le portate e le velocità si ridussero alle attuali 16 nodi.

 

Nella prima metà degli anni ’80, da pilota del Porto di Genova, ho manovrato le gemelle NAI GENOVA e NAI SUPERBA (Lunghezza= 400 mt. - Portata lorda= 409.000 tonn. Velocità= 16,25 nodi.

 

 

Fu dunque dopo il 1945 che l’industria petrolifera raggiunse la sua maturità e il petrolio, dopo duecento anni, detronizzò definitivamente il carbone come principale fonte di energia. L’incredibile incremento della domanda di greggio (raddoppiata nell’arco di poco più di un decennio, dal 1958 al 1973) da parte delle nazioni più industrializzate e l’avvio del sistematico sfruttamento dei giacimenti del Medio Oriente determinò quello che Francisco Parra, segretario generale dell’Opec nel 1968, ha definito una sorta di vero e proprio “big bang” (Parra 2004, 33-54). Il traffico commerciale via mare, reso ulteriormente più vantaggioso dagli accordi che dettero vita al sistema di Bretton Woods aumentò esponenzialmente: tra il 1960 e il 1975 il traffico annuale di greggio subì un aumento dell’800% mentre la flotta mondiale di petroliere, che già all’inizio degli anni Sessanta per tonnellaggio ammontava già a 67 milioni (una cifra tre volte più grande di quella del 1939 e ben venticinque volte quella del 1914) aumentò del 600% (Scanlan 1984, 104). A metà degli anni Sessanta il 43% delle navi in costruzione nei vari cantieri del mondo erano petroliere (cit. in Hoye 1966b, 14-15. Cfr. inoltre Hartshorne 1962a; 1962b).

 

 

 

Fu in questi anni che si andarono definendo le principali rotte mondiali del greggio: la maggiore era senza dubbio quella che partiva dai giacimenti medio-orientali in direzione dell’Europa occidentale (con il canale di Suez quale via d’accesso privilegiata), del Nord America e dell’Asia, in particolare del Giappone e fu in questo stesso periodo che le navi adibite al trasporto del greggio crebbero ulteriormente in dimensioni. L’era delle superpetroliere iniziò negli anni Sessanta, quando fu costruita la Manhattan e quando la Torrey Canyon (inizialmente di 60.000 tonnellate) venne modificata in modo da poter praticamente raddoppiare il proprio carico. Si trattò di una evoluzione continua che toccò il suo apice nel 1977 con la Esso Atlantic, costruita con una stazza che superava le 500.000 tonnellate.

 

 

 

Questa tendenza a costruire petroliere sempre più capienti non rispondeva solo ad un continuo incremento della domanda di greggio da parte dei paesi più sviluppati, ma fu anche la conseguenza indiretta di alcune crisi internazionali che interessarono i paesi medio-orientali e in particolare l’Egitto: la crisi di Suez del 1956 e la Guerra dei Sei Giorni del 1967 con il primo embargo da parte dei paesi arabi produttori ma soprattutto la chiusura del canale, che nel frattempo si era trasformato da autostrada dell’impero britannico ad “autostrada del petrolio” (Yergin 1991), indussero le principali compagnie di petrolifere e di navigazione a raggiungere l’Europa occidentale e il Nord America attraverso una rotta più lunga di 6.000 miglia*, circumnavigando l’Africa. La riapertura del canale di Suez, negli anni Settanta e la crisi petrolifera seguita agli shock del 1973 e del 1979, provocarono solo una parziale inversione di tendenza, dal momento che le petroliere di nuova costruzione si attestarono comunque su una capacità di 200-300.000 tonnellate (IMO 2006, 11). D’altro canto, nonostante l’ulteriore diffusione degli oleodotti, gli ingenti investimenti iniziali richiesti nella loro costruzione e il costo alto delle royalties da versare ai paesi attraversati rendevano e avrebbero reso conveniente anche negli anni a venire il trasporto del petrolio via mare

 

 

* 6.000 miglia, alla velocità di 15 nodi corrispondono a circa di 17 giorni di navigazione, che sarebbero stati ammortizzati con l’incremento della portata delle petroliere in base alla classificazione sotto riportata.

 

 

Principali Rotte Petrolifere in milioni di tonnellate nel 1991 (Fonte IMO)

 

Le petroliere vengono classificate in base alle loro dimensioni:

 

ULCC (Ultra Large Crude Carrier) navi con portata superiore alle 300.000 tonnellate;

 

VLCC (Very Large Crude Carrier) petroliere con capacità di carico superiore alle 200.000 tonnellate;

 

SUEZMAX - petroliere tra le 125.000 e le 200.000 tonnellate di capacità che possono transitare nel Canale di Suez ;

 

AFRAMAX (Average Freight Rate Assessment) petroliere con capacità compresa tra le 125.000 e le 80.000 tonnellate;

 

PANAMAX Navi dalla capacità di trasporto compresa tra le 50.000 e le 79.000 tons e che hanno una larghezza massima di 32,2 mt e quindi in grado di transitare nel  Canale di Panama;

 

 

La velocità di crociera di una petroliera VLCC è di 12-16 nodi, la lunghezza “fuori tutto” di circa 350 metri e il pescaggio, a pieno carico, di circa 20 metri. Le grandi petroliere con capacità di trasporto superiore a 1,5 milioni di barili di greggio sono dette anche superpetroliere (Supertanker).

 

Al di sotto di queste dimensioni si adotta il termine di Porta-Prodotti (Product Carriers in Inglese) in quanto il traffico principale per queste navi è il trasporto di prodotti di raffineria e non più di petrolio greggio. Si usano ancora i termini LR (Long Range), e MR (Medium Range) a seconda delle dimensioni delle navi.

 

La più grande nave petroliera mai esistita è la Jahre Viking soprannominata "Happy Giant" o "Seawise Giant" con una lunghezza complessiva di ben 458 metri, 69 di larghezza ed una portata di 564.763 tonnellate circa. La Happy Giant fu bombardata durante la guerra dell'Iran-Irak nel 1987/88: fu poi completamente riparata, riprese servizio nel1991 ed infine fu demolita nel 2010 inIndia.

 

Tra le più grandi navi del mondo c'è anche la "TI Asia", una ULCC costruita nel 2002 nei cantieri Daewoo dellaCorea del Sud: è lunga 380 metri, larga 68 metri con una capacità di carico di 441.000 tonnellate. È dotata di un motore principale di oltre 50.000 cv.

 

 

1981 – La Super petroliera Knock Nevis in manovra. Stazza Lorda: 260,941 - Tonn. Portata: 564,763 tonn. Pescaggio: 24,611 mt – Velocità: 16 nodi - Lunghezza x Larghezza: 458 x 68 mt.

 

 

Carlo GATTI

 

Rapallo, Venerdì 13 Febbraio 2015

 

 

 


PITTORI DI MARINA-CLAUS BERGEN

PITTORI DI MARINA

Eco del golfo Tigullio

LA QUADRERIA DEL MARE

CLAUS BERGEN

La pittura di marina tedesca del novecento

Claus Friedrich Bergen (Stoccarda, 1885 - Lenggries (Baviera), 1964) è uno dei pochi pittori di marina tedeschi contemporanei i cui lavori sono conosciuti anche all’estero, in particolare per olii e acquerelli a riferiti a fatti della guerra navale in entrambi i conflitti mondiali.

Dal 1904 frequentò a Monaco gli studi dei pittori Moritz Weinhold, Otto Strützel, Peter Paul Müller e Hans von Bartels e, finalmente, nel 1909, riuscì ad essere ammesso all'Accademia d'arte di Monaco dove studiò e si esercitò sotto la guida del professor Carl von Marr. Nei primi tre decenni del secolo XX i lavori di Claus Bergen furono esposti a Monaco e in altre città tedesche ottenendo numerosi riconoscimenti non solo in patria ma anche all’estero, con medaglie e premi di cui fu destinatario a Monaco, Berlino, Amsterdam e Copenhagen.

Nel 1914 ottenne la nomina ufficiale a “Pittore di Marina” da parte del Kaiser Guglielmo II e, dopo la vittoriosa conclusione per la flotta tedesca della battaglia dello Jutland nella primavera del 1916, la richiesta di sue opere pittoriche relative a questo scontro divenne elevata, sia da parte del pubblico sia da parte di comandanti e ufficiali delle navi della Kaiserliche Marine che vi avevano preso parte.

Nel 1917, fatto sino ad allora senza precedenti, Claus Bergen venne aggregato all’equipaggio del sommergibile U-53 al comando del Kapitänleutnant (tenente di vascello) Hans Rose, prendendo parte ad una crociera in Atlantico della durata di due mesi nel corso della quale il battello affondò diversi mercantili britannici. I dipinti che realizzò al termine di questa navigazione sono considerati tra le sue migliori opere, abbinando alla perfetta rappresentazione dell’atmosfera nebbiosa e delle condizioni meteorologiche spesso tempestose dell’Oceano Atlantico settentrionale precise raffigurazioni di navi e sommergibili, il tutto permeato da una personale e intensa partecipazione emotiva agli eventi cui l’autore prese parte e che seppe traslare sulle numerose opere da lui realizzate ispirate alla guerra subacquea condotta dagli U-Boote della Marina Imperiale.

Tra le due guerre Claus Bergen si dedicò anche alla paesaggistica e alla tecnica pittorica della natura morta, come pure alla raffigurazione di navi mercantili e di transatlantici, ma la sua amicizia con gli ammiragli Erich Raeder e Karl Dönitz (come pure con Ernest Udet, “asso” della caccia tedesca nella Grande Guerra), gli fruttò numerose committenze per quadri e disegni raffiguranti navi militari tedesche dell’epoca. Nel 1922 Bergen, come molti altri artisti tedeschi, si iscrisse al Partito Nazionalsocialista e ciò - senza dubbio - favorì ulteriormente il suo talento e la sua notorietà, in particolare con la realizzazione, nel 1928, di dodici grandi tele relative alla storia della Marina germanica in seguito esposte in via permanente al Ministero della Marina a Berlino.

Con lo scoppio della seconda guerra mondiale l’attività di Bergen proseguì a un ritmo ancor più serrato e, soprattutto nei primi anni di guerra, produsse alcuni dei suoi lavori maggiormente conosciuti: U-53 im Atlantik (1939), Gegen England (1940), Beschiessung der Westerplatte, Wiedererstanden U-26, Schwerer Kreuzer Prinz Eugen im Gefecht in der Dänemarkstrasse (1940) e Kampfgebiet des Atlantiks (1941). Anche se ciò non può essere considerato un punto di merito, nove quadri di Claus Bergen furono acquistati dallo stesso cancelliere tedesco Adolf Hitler, mentre altri andarono ad arricchire le collezioni ufficiali di diverse città di mare tedesche e vennero esposti in palazzi e gallerie d’arte pubblici.

Al termine della seconda guerra mondiale, anche qui al pari di molti artisti tedeschi che avevano aderito al nazismo (verosimilmente, va detto, spesso più per convenienza che per convinzione…), pur non venendo epurato o messo al bando Bergen soffrì di un comprensibile periodo di “assenza mediatica”, ma, già verso la metà degli anni Cinquanta, aveva ripreso la sua attività dedicandosi soprattutto alla realizzazione di acquerelli a soggetto paesaggistico.

Ben presto, tuttavia, mise nuovamente mano a quella che era la sua più grande passione, ossia la pittura di Marina: all’inizio del 1963 fece personalmente dono al Presidente statunitense J.F. Kennedy di un grande quadro ad olio dal titolo The Atlantic (oggi esposto nella “Kennedy Library” di Boston) e, nello stesso anno, l’Ammiragliato britannico acquistò un suo grande quadro raffigurante il “tre ponti” HMS Victory, nave di bandiera dell’ammiraglio Nelson alla battaglia di Trafalgar.

Ai giorni nostri, opere a soggetto navale di Claus Bergen sono esposte in alcuni dei principali musei europei, tra cui il National Maritime Museum di Greenwich, e i suoi quadri fanno spesso parte di lotti a soggetto navale di aste e vendite d’arte ove raggiungono quotazioni assai spesso elevate, a testimonianza della valenza tecnica e professionale di un artista che ha fatto attraversare alla pittura di marina tedesca tutto il travagliato corso storico della sua nazione nel Novecento, esprimendo una grande passione per il mare e le navi militari e il suo personale riconoscimento per gli uomini che a bordo di esse hanno combattuto.

ALBUM FOTOGRAFICO

La Hochseeflotte (Flotta d’alto mare) tedesca  in navigazione nel Mare del Nord il 31 maggio 1916 (il quadro è del 1917), nell’imminenza dello scontro dello Jutland con la Flotta britannica al comando dell’ammiraglio Jellicoe. Si noti la particolare “resa” pittorica delle onde e della schiuma, indice di una considerevole padronanza delle tecniche della pittura di matina e di conoscenze dirette dell’aspetto del mare e di tutti gli elementi meteorologici correlati.

Navi e incrociatori da battaglia tedeschi alla battaglia dello Jutland (1917, Monaco, collezione privata).

L’interno di una torre di grosso calibro di una nave da battaglia tedesca alla battaglia dello Jutland ove, con grande partecipazione emotiva da parte dell’autore, è raffigurato l’intenso sforzo degli addetti al caricamento di proietti e cariche di lancio (1917).

L’incrociatore da battaglia tedesco Seydlitz, gravemente danneggiato alla battaglia dello Jutland, si allontana dalla zona dello scontro (1918, Greenwich, National Maritime Museum).

Il Kaiser parla agli equipaggi delle navi della Hochseeflotte dopo il rientro delle unità alle basi successivamente alla conclusione della battaglia dello Jutland (fine 1916, collezione privata).

Uno dei numerosi quadri realizzati da Claus Bergen al termine della sua navigazione di guerra sull’U-53 nel 1917: il battello si appresta ad attaccare in superficie un brigantino a palo britannico, visibile sullo sfondo a sinistra.

 

Il tema dell’affondamento di mercantili da parte degli U-Boote germanici fu affrontato da Claus Bergen tanto nel primo quanto nel secondo conflitto mondiale. Venticinque anni separano queste due opere: quella a sinistra (1917), è una delle tante realizzate al termine della navigazione di guerra sull’U-17; quella a destra, senza neppure “aggiornare” le caratteristiche della falsatorre del battello, tipiche dei sommergibili tedeschi della Grande Guerra, venne dipinta nel 1942.

Ritorno da un pattugliamento in Atlantico - Un U-Boot tipo “VII” rientra alla base dopo una lunga crociera di guerra nell’Atlantico settentrionale: il pittore ha reso al meglio le condizioni del sommergibile al termine di un lungo periodo operativo, con numerose chiazze di ruggine su tutto lo scafo; si noti sullo sfondo un caccia tipo “Z-1” (1942, Monaco, collezione privata).

Maurizio BRESCIA

Direttore del mensile

Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco

Rapallo, 14 Febbraio 2019

 

 


PITTORI DI MARINA-DOMENICO GAVARRONE: Ritratti di Navi nella Genova dell'Ottocento

PITTORI DI MARINA

Eco del golfo Tigullio

LA QUADRERIA DEL MARE

 

DOMENICO GAVARRONE

Ritratti di navi nella Genova

dell'800

 

Con vero piacere, giunti ormai alla decima uscita di questa rubrica sulle pagine de “Il Mare”, mi accingo a presentare ai nostri lettori uno tra i più celebri pittori di marina dell’Ottocento genovese, la cui notorietà ha travalicato i confini liguri e italiani arrivando sino oltreoceano, consegnandone le opere ai momenti più significativi di questo genere artistico e inserendole - per le loro indubbie qualità - nell’immaginario collettivo a quanti studiano e si appassionano alla “ritrattistica navale” nel senso più artistico, e allo stesso tempo tecnico, del termine.

In realtà, gli elementi biografici su Domenico Gavarrone (1821-1874, nato e vissuto a Genova) non sono poi molti anche se, fortunatamente, sono stati approfonditi e ben descritti dall’attuale direttore del Museo del Mare e della Navigazione di Genova, Pierangelo Campodonico, in un bel volume del 2000 edito da Tormena (I velieri di Domenico Gavarrone) che, ad oggi, è il saggio più completo ed esaustivo sull’attività e la produzione di questo artista ligure e marittimo “a tutto tondo”.

L’arte di Domenico Gavarrone si inserisce, di diritto, nella categoria dello ship portrait: un genere pittorico assai in voga nel Settecento e, soprattutto, sino agli anni Ottanta del secolo XIX quando la fotografia non si era ancora affermata quale fonte documentale primaria anche per il campo marittimo e navale. Erano difatti numerosissimi gli artisti attivi all’estero in questo settore: basterà citare la dinastia marsigliese dei Roux (tra l’altro protagonista di questa rubrica sul numero de “Il Mare” dello scorso mese di febbraio), le cui realizzazioni non mancarono di influenzare per stile, soggetti e tecnica pittorica quelle di Gavarrone. Va inoltre ricordata, dall’era napoleonica ai primi decenni dell’Ottocento, la presenza a Genova del maltese Nicolas Cammilleri (1777-1860) che, ancor più dei Roux, rivestì per Gavarrone un ruolo di guida e ispirazione sicuramente fondamentale.

In pratica, come avveniva all’epoca nei principali porti europei e degli Stati Uniti, armatori, comandanti e ufficiali erano usi commissionare a pittori specializzati lo ship portait (ossia un vero e proprio “ritratto” della propria nave, solitamente una vista al traverso di dritta o di sinistra) da esporre nella sede della compagnia, a bordo oppure nell’abitazione di residenza come ancora avviene ai nostri giorni con le stampe fotografiche. Negli anni, gli ship portrait hanno assunto una valenza non soltanto artistica ma anche documentale, in quanto una delle loro caratteristiche è costituita dall’assolutamente fedele riproduzione di scafi, alberature, attrezzature ed elementi dell’allestimento: in molti casi questi dipinti costituiscono l’unico documento iconografico certo e preciso su una determinata nave e, in quanto tali, il loro valore risulta ancor più accresciuto anche sul mercato delle opere d’arte, talvolta raggiungendo ragguardevoli quotazioni nell’ordine delle decine di migliaia di dollari o di euro.

A cavallo dei decenni centrali dell’Ottocento l’attività di Domenico Gavarrone e del suo studio fu frenetica, con centinaia di dipinti (in particolare olii su tela e acquerelli) realizzati per committenti dalle diverse origini ma, nella maggioranza dei casi, riferiti all’area dello shipping genovese e della Liguria di levante, all’epoca e sino agli anni del secondo dopoguerra tra gli ambiti italiani più importanti per l’armamento e la marineria mercantili. Al fine di accelerare quanto più possibile le tempistiche della realizzazione di uno ship portrait, gli artisti dell’epoca (ed anche Gavarrone non mancò di sfruttare questo escamotage) preparavano in anticipo gli sfondi di un quadro con il mare, il cielo e - spesso - un tratto di costa in lontananza, disponendone quindi sempre in buona quantità: a questo modo era possibile riprodurre soltanto il bastimento una volta che il dipinto veniva commissionato, ciò anche perché, allora come oggi, la permanenza di una nave in porto poteva non essere lunga in ragione delle tempistiche commerciali e delle condizioni meteorologiche. Non pochi furono pure gli armatori stranieri che si avvalsero dell’arte di Domenico Gavarrone: una delle più vaste collezioni estere di suoi ship portrait è esposta al Peabody Essex Museum di Salem (Massachusetts, USA), ma suoi lavori sono presenti anche in musei francesi, britannici e canadesi.

Soprattutto in ambito Mediterraneo (e, più specificatamente, italiano, greco, maltese e spagnolo) la tipologia pittorica dell’ex-voto visse nell’Ottocento il suo momento più fulgido: Domenico Gavarrone non mancò di rendersi attivo interprete in questo campo, con le sue opere che - insieme a quelle del coevo Angelo Arpe - aggiungono importanti valenze documentali e artistiche a dipinti devozionali che costituiscono uno delle più significative espressioni del sentimento religioso ligure. Ex-voto di Gavarrone sono presenti nei santuari di Montallegro a Rapallo, di N.S. del Boschetto a Camogli e della Madonna del Monte sulle alture di San Fruttuoso a Genova.

Infine (anche se non pochi suoi quadri si trovano al Mueso del Mare e della Navigazione nel Porto Antico di Genova), una tra le più vaste e importanti collezioni di ship portrait di Domenico Gavarrone è esposta al Museo Navale di Pegli: un corpus di quasi quaranta olii ed acquerelli che costituisce, di per sé, una tra le più importanti testimonianze della pittura di marina genovese, italiana ed europea oggi esistenti al mondo.

 

ALBUM FOTOGRAFICO

La permanenza a Genova del pittore maltese Nicolas Cammilleri portò alla realizzazione di numerose opere i cui soggetti e stile influenzarono la pittura di marina di Domenico Gavarrone. Questo ex-voto di Cammilleri, raffigurante una difficile situazione fronteggiata dal brigantino Concordia il 10 novembre 1937, è esposto all’interno del Santuario di N.S. del Boschetto di Camogli.

In un olio su tela di Domenico Gavarrone del 1848, il brigantino Laura, all’epoca comandato da Lazzaro Bertolotto. Si noti che il tricolore italiano a riva alla varea dell’asta della randa è raffigurato posteriormente alla vela in modo da non rendere visibile  lo stemma sabaudo: un espediente spesso posto in atto dai pittori di marina del periodo (o richiesto dallo stesso committente) al fine evidenziarne i sentimenti repubblicani in contrapposizione alle istanze di Casa Savoia. Nel riquadro, tratto da un’altra opera del Gavarrone, la bandiera navala e mercantile del Regno di Sardegna in uso precedentemente al 1848 (Museo Marinaro Gio Bono Ferrari, Camogli).

Al Santuario di Montallegro a Rapallo è conservato questo ex-voto di Domenico Gavarrone risalente al 1849, donato all’istituzione religiosa “per grazia ricevuta” dal capitano Filippo Campodonico, raffigurante il brigantno Granduca Leopoldo che scampa al naufragio.

Il bovo San Giuseppe in un quadro del 1854 esposto al Museo del Mare e della Navigazione di Genova. Insieme al “pinco” (con un solo albero e antenna con vela latina), il “bovo” era un’altra tipologia di imbarcazione ligure per il cabotaggio costiero, a due alberi attrezzati con vela latina (il trinchetto) e vela aurica (la mezzana). Si noti, sullo sfondo a sinistra, il promontorio di Portofino.

Il brigantino a palo Fortuna del comandante Angelo Pillo nel 1862. In questo caso, ormai conseguita l’unità d’Italia nel 1861, la bandiera mercantile con lo stemma sabaudo fa mostra di sé a poppa del bastimento (Museo del Mare e della Navigazione, Genova).

Domenico Gavarrone raffigurò nelle sue opere anche navi estere in entrata o in uscita dal porto di Genova. In questo acquerello, oggi conservato al Peabody Essex Museum di Salem (Massachusetts, USA) e raffigurato il “tre alberi” statunitense Sooloo in navigazione di bolina e con velatura ridotta.

Nello specifico genere dello ship portrait, gli artisti (che spesso avevano esperienza diretta di navigazione o costruzione navale) ponevano grande attenzione nell’esatta raffigurazione di alberi e attrezzature. Nell’immagine, un dettaglio dell’albero e della velatura di trinchetto del brigantino a palo Fratelli Cadenaccio in un acquerello di Angelo Arpe (artista coevo di Gavarrone), conservato al Museo Navale di Pegli (foto M. Brescia).

Pegli, Museo Navale: un angolo della sala che ospita una selezione di ship portrait di Domenico Gavarrone. Si tratta, per la maggior parte, di acquerelli che - verosimilmente - costituiscono la più vasta raccolta di opere del Gavarrone custodite in una singola istituzione museale (foto M. Brescia).

Da un acquerello di Domenico Gavarrone, uno degli sfondi “standard” con la Lanterna e l’accesso al porto di Genova che venivano preparati “in serie” nello studio dell’artista e ai quali, in un secondo tempo veniva sovrapposta la vista laterale della nave richiesta dal comandante.

 

 

Maurizio BRESCIA

Direttore del mensile

 


 

Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco

 

 

Rapallo, 8 Febbraio 2019

 


TOSCANA - Una nave, una storia

P.fo TOSCANA

dal 1935 al 1961

Fu la nave della

“SPERANZA, della SALVEZZA e della RINASCITA”!

Non era una nave grande, non era una nave veloce, non era una nave lussuosa, non è stata famosa per le sue caratteristiche, e in definitiva non era neanche una bella nave. Eppure, molti sono i libri ed gli articoli dedicati a questa nave che sarebbe rimasta del tutto "anonima" se non fosse stata coinvolta in eventi che hanno segnato la nostra storia e sui quali ancora oggi poco è stato scritto. Il piroscafo TOSCANA fu costruito in Germania nel 1923 col nome Saarbrùcken ma per noi la sua storia comincia nel 1935, come trasporto truppe per l'avventura africana, continua con la guerra civile spagnola, l'occupazione dell'Albania e poi, come nave ospedale, con la tragica seconda guerra mondiale. Fra i pochi sopravvissuti alla guerra fu quindi coinvolto nei primi collegamenti con le Isole maggiori, con il rimpatrio di nostri prigionieri dal Nord Africa e con il drammatico esodo di Pola come conseguenza di un iniquo trattato di pace. Finalmente ripristinato al servizio civile e posto in linea regolare dal Lloyd Triestino fra Trieste e l'Australia il Toscana contribuì in modo determinante all'esodo di circa 22.000 Triestini e Giuliani verso quel grande e lontano paese.

 

TIPO: Piroscafo Misto (1923-1935 e 1945-1961) Nave Ospedale (1941-1945)

PROPRIETA’: Norddeutscher Lloyd (1923-1935)-Italia Flotte Riunite (1935-1936)- Lloyd Triestino (1936-1943)

CANTIERE: AG Weser, Bremen – Impostazione: 1922 – Varo 1923 ed entra in servizio lo stesso anno come nave civile. 1° febbraio 1941 come nave militare.
GESTIONE: dalla-FlottaLauro nel-1938-1939
REQUISITO: Regia-Marina nel-1941-1945
Co.Ge.Na. (Comitato ministeriale Gestione Navi) 1945-1947

CIME (Comitato Intergovernativo per le Migrazioni Europee) 1947-1961

Nome precedente: P/s Saarbrücken – Radiata nel 1961 – Demolita nel 1962

Stazza Lorda: 9442 tsl - Lunghezza: 146,2 mt – Larghezza: 17,57 mt – Pescaggio: 9,52 mt.

Propulsione: 5 caldaia a carbone (poi dal 1947 a nafta) – Potenza: 4200 CV – 2 Eliche – Velocità 12,5 nodi Capacità carico: 9142 tonn.

Equipaggio: 176 – Passeggeri: (nel 1923) 198+142 - (Nel 1947) 826

 

UN PO’ DI STORIA

 

Militari in partenza per le colonie italiane sul TOSCANA

 

In vista della guerra d’Etiopia, il governo italiano decise di acquistare un certo numero di navi passeggeri per destinarle al Trasporto Truppe ribattezzandole con nomi delle regioni italiane. Sul mercato europeo c’era la Saarbrücken, che rientrava nelle specifiche previste per quell’impiego. Fu comprata nel 1935 e fu ribattezzata TOSCANA. La nave trasportò truppe dapprima nella guerra d’Etiopia e poi nella guerra civile spagnola trasportando ogni volta 1990 uomini, per un totale di 80.000 uomini e 4.000 veicoli.

Data in gestione alla Flotta Lauro, nel novembre 1938 la nave venne impiegata per qualche mese nel trasporto di 1720 famiglie italiane verso la Libia per un totale di 20.000 coloni; nel maggio 1939, la nave fu inviata in Spagna per rimpatriare 1900 militari italiani.

 

DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE IL TOSCANA FU CONVERTITA IN NAVE OSPEDALE

 

Per esigenze belliche, nel dicembre 1940, la Regia Marina decise la trasformazione della TOSCANA in Nave Ospedale. Fu ridipinta secondo le norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra per le navi ospedale, fu fornita di adeguate attrezzature sanitarie, di 700 posti letto, imbarcò il personale medico ed entrò in servizio nel marzo 1941.

Nel corso di questi mesi compì molte missioni umanitarie e subì anche numerosi bombardamenti aerei notturni.

Il 2 dicembre 1942 il Toscana, insieme alle piccole navi soccorso Capri e Laurana nonché a diversi cacciatorpediniere, venne inviata alla ricerca dei superstiti delle navi del Convoglio “H” che fu quasi totalmente distrutto in uno scontro notturno contro una formazione navale inglese presso SKERKI – costa tunisina. Complessivamente vennero tratti in salvo circa 1.100 naufraghi, un terzo del totale degli uomini imbarcati sulle navi del convoglio.

Il 28 aprile 1943 il Toscana trasse in salvo 72 naufraghi dell’equipaggio del piroscafo italiano Teramo, incendiato quello stesso giorno da motosiluranti britanniche ed aerei Kittyhawk durante la navigazione da Napoli a Tunisi carico di benzina (il relitto alla deriva si arenò il 29 aprile a sud di Capo Bon).

Il 29 aprile il Toscana, mentre rientrava dalla Tunisia con a bordo 938 tra feriti e malati, venne nuovamente attaccata con lancio di bombe e mitragliamenti – nonostante la trasmissione di segnali radio di riconoscimento – e fu stavolta colpita, con 15 feriti tra il personale medico e l'equipaggio, alcuni dei quali di notevole gravità.

Nel luglio-agosto 1943 la nave prese parte alle operazioni di evacuazione sanitaria della Sicilia, dopo lo Sbarco Alleato. Nel mese di luglio il Toscana e le navi ospedale Aquileia e Virgilio effettuarono cinque missioni, imbarcando circa 3.400 tra feriti e malati gravi sia tedeschi che italiani, radunati sulle spiagge di Sant’Agata e Ganzirri (Stretto di Messina). In agosto le stesse tre navi compirono altre tre missioni sino al giorno della caduta di Messina.

Il 17 agosto recuperarono altri 3.000 infermi. La Toscana e l'Aquileia furono le ultime navi ospedale ad abbandonare le rive dello stretto di Messina, sotto reiterati attacchi aerei.

 

Alla Proclamazione dell’Armistizio il Toscana si trovava a Gaeta da dove salpò la sera del 9 settembre 1943, mentre le truppe tedesche occupavano la piazzaforte, riuscendo così ad evitare la cattura.

 

Tra il settembre ed il dicembre 1943, il Principessa Giovanna e Toscana effettuarono in tutto sei missioni di trasporto di feriti e malati sia britannici (per i due terzi) che italiani (per il rimanente terzo).

 

Di fatto, tuttavia, il Toscana (a differenza del Principessa Giovanna), benché formalmente iscritta nei registri britannici come Hospital Ship N.59, continuò ad essere impiegata per conto del Comando navale italiano del Levante sino alla fine del 1945, quando venne derequisita.  Il 16 febbraio 1945 la Toscana venne inviata a Yarrow e vi rimase per tre settimane, venendo sottoposta ad un turno di lavori

Nel corso della seconda guerra mondiale la Toscana aveva svolto complessivamente 54 missioni come nave ospedale, trasportando 4.720 tra feriti e naufraghi e 28.684 ammalati.

 

IL DOPOGUERRA E L’ESODO ISTRIANO

UNA PAGINA DI DOLORE E DI TRISTEZZA

Tornata a Napoli il 4 dicembre 1945 ed issata nuovamente la bandiera italiana, il TOSCANA venne utilizzata dal Co.Ge.Na. (Comitato ministeriale Gestione Navi) per conto del governo italiano, svolgendo collegamenti d'urgenza tra Napoli, Palermo e Cagliari. Restituita formalmente al Lloyd Triestino nell'ottobre 1946, la nave venne impiegata per il rimpatrio da Libia e Tunisia di profughi ed ex prigionieri. Nello stesso periodo la nave trasportò anche da Napoli a Massaua, via Suez e Porto Said, ex coloni italiani che tornavano in Africa Orientale dopo esserne partiti nel 1942, a seguito dell'occupazione britannica. Ad inizio gennaio 1947 il governo decise di impiegare il Toscana per l'evacuazione dei profughi di Pola, intenzionati a lasciare la città prima che questa venisse annessa alla Iugoslavia.


La nave TOSCANA durante l'abbandono di Pola (1947)

 

 

Una giovane esule italiana in fuga trasporta, insieme ai propri effetti personali, una bandiera tricolore (1945)

 

I VIAGGI DEI PROFUGHI ISTRIANI SUL TOSCANA

 

L'esodo giuliano-dalmata, noto anche come esodo istriano, coinvolse la maggioranza dei cittadini di etnia e di lingua italiana dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia; iniziò alla fine della Seconda guerra mondiale (1945) e  continuò negli anni successivi. Si stima che i giuliani, i fiumani e i dalmati italiani che emigrarono dalle loro terre di origine ammontino a un numero compreso tra le 250.000 e le 350.000 persone.

Il fenomeno, conseguente agli eccidi noti come massacri delle foibe, coinvolse in generale tutti coloro che diffidavano del nuovo governo jugoslavo e fu particolarmente rilevante in Istria e nel Quarnaro, dove interi villaggi e cittadine si svuotarono dei propri abitanti. Nell'esilio forzato, furono coinvolti tutti i territori ceduti dall’Italia alla Jugoslavia in base al Trattato di Parigi, compresa la Dalmazia dove vivevano i dalmati italiani.

I massacri delle foibe e l'esodo giuliano-dalmata sono ricordati dal:

Giorno del Ricordo

solennità civile nazionale italiana che si celebra il 10 febbraio di ogni anno.

Questo modesto articolo é dedicato anche alla loro memoria!

 

I VIAGGI DEL RITORNO IN PATRIA:

- Giunta a Pola, al comando del Capitano Caro agli inizi di febbraio, il TOSCANA imbarcò 1.865 profughi e ripartì dal Molo Carboni alle 8.30 del 2 febbraio 1947 diretta a Venezia.

- Dopo aver sbarcato i profughi, la nave tornò a Pola il 5 febbraio, imbarcando 2.085 persone e ripartendo il 7 febbraio alla volta di Venezia.

- Il 9 febbraio la nave fece ritorno nel capoluogo istriano, dove prese a bordo 1.550 persone salpando verso Venezia l'11 febbraio.

- Tornato a Pola il 14 febbraio, il piroscafo ne ripartì il 16 febbraio con 2.300 profughi a bordo, per poi tornare il 18.

- La successiva partenza (per Ancona e non per Venezia) del Toscana, che aveva imbarcato 2.156 profughi (tra cui 16 malati, 50 lattanti e 120 bambini con meno di quattro anni, oltre a numerosi anziani) era prevista per il 19, ma causa il maltempo venne inizialmente rimandata al 20 febbraio e poi, persistendo le condizioni meteorologiche avverse, poté infine avvenire solo il 21 febbraio.

- Rientrata a Pola il 23 febbraio, la nave ripartì il 26 febbraio con il sesto carico di profughi istriani.

- Il 2 marzo 1947 il Toscana partì da Pola per Venezia con 1.580 profughi in quello che avrebbe dovuto essere l'ultimo viaggio;

- ma il 4 marzo la nave tornò di nuovo nel porto istriano. Il 7 marzo, con un giorno di ritardo a causa di problemi tecnici, il Toscana ripartì da Pola, portando a bordo, oltre a 1.400 profughi.

- Negli ultimi due viaggi la nave trasportò soprattutto personale rimasto a Pola per le operazioni di evacuazione della città, che si presentava a bordo provvisto di documenti con apposito timbro di riconoscimento.

- Il 13 marzo il Toscana si presentò ancora una volta a Pola, con a bordo il capo della Pontificia Commissione di Assistenza. Ripartì il 14 marzo alla volta di Ancona, nuovamente carico di profughi.

- Il 17 marzo il Toscana fece ritorno a Pola per l'ultimo viaggio. La partenza era prevista per il 19, ma in realtà la nave partì con un giorno di ritardo. Dopo aver ricevuto dal Comitato di Liberazione Nazionale e dal Comitato di Assistenza per l'Esodo una PERGAMENA MINIATA in segno di riconoscenza, il Toscana lasciò Pola per l'ultima volta il 20 marzo 1947. (vedi foto sotto)

In dieci viaggi  tra il 2 febbraio ed il 20 marzo 1947, il piroscafo aveva trasportato complessivamente 16.800 profughi istriani.

- (più del numero inizialmente previsto) -

Terminato il suo mandato di evacuazione degli Italiani dal Nord Adriatico,  il Toscana riprese il servizio di rimpatrio di profughi ed ex prigionieri dall’Africa Settentrionale.

UNA BREVE PARENTESI STORICA

 


L'Italia nel 1796

 

Le tonalitè verdi della cartina, indicano le modifiche del confine orientale italiano dal 1920 al 1975.

 

Il Litorale Austriaco poi ribattezzato Venezia Giulia fu assegnato all'Italia nel 1920 con il TRATTATO DI RAPALLO (con ritocchi del suo confine nel 1924 dopo il Trattato di Roma) e che fu poi ceduto alla Jugoslavia nel 1947 con i Trattati di Parigi.

In verde - Le Aree annesse all'Italia nel 1920 e rimaste italiane anche dopo il 1947. - Aree annesse all'Italia nel 1920, passate al Territorio Libero di Trieste nel 1947 con i trattati di Parigi e assegnate definitivamente all'Italia nel 1975 con l'infelice Trattato di Osimo.

In giallo - Aree annesse all'Italia nel 1920, passate al Territorio Libero di Trieste nel 1947 con i trattati di Parigi e assegnate definitivamente alla Jugoslavia nel 1975 con il trattato di Osimo.

 

 

La folla festante per il ritorno di Trieste all'Italia, 26 ottobre 1954

Nella parte finale della Seconda guerra mondiale e durante il successivo dopoguerra ci fu la contesa sui territori della Venezia Giulia tra Italia e Jugoslavia, che è chiamata "questione giuliana" o "questione triestina". Trieste era stata occupata dalle truppe del Regno d'Italia il 3 novembre del 1918, al termine della Prima guerra mondiale, e poi ufficialmente annessa all'Italia con la ratifica del Trattato di Rapallo del 1920.

Al termine della Seconda guerra, con la sconfitta dell'Italia, ci furono infatti le occupazioni militari della Germania e poi della Jugoslavia.

L'occupazione jugoslava fu ottenuta grazie alla cosiddetta “corsa per Trieste”, ovvero all'avanzata verso la città giuliana compiuta in maniera concorrenziale nella primavera del 1945 da parte della quarta armata jugoslava e dell’ottava armata britannica.

Territorio libero di Trieste: con il trattato di Osimo (1975), la zona A fu definitivamente assegnata all'Italia, mentre la zona B alla Jugoslavia

 

Il 10 febbraio del 1947 fu firmato il trattato di pace dell’Italia, che istituì il Territorio Libero di Trieste, costituito dal litorale triestino e dalla parte Nord Occidentale dell'Istria, provvisoriamente diviso da un confine passante a sud della cittadina di Muggia ed amministrato dal Governo Militare Alleato (zona A) e dall'esercito jugoslavo (zona B), in attesa della creazione degli organi costituzionali del nuovo stato.

Nella regione la situazione si fece incandescente e numerosi furono i disordini e le proteste italiane: in occasione della firma del trattato di pace, la maestra Maria Pasquinelli uccise a Pola il generale inglese Robin De Winton, comandante delle truppe britanniche. All'entrata in vigore del trattato (15 settembre 1947) corse addirittura voce che le truppe jugoslave della zona B avrebbero occupato Trieste. Negli anni successivi la diplomazia italiana cercò di ridiscutere gli accordi di Parigi per chiarire le sorti di Trieste, senza successo.

La situazione si chiarì solo il 5 ottobre 1954 quando col Memorandum di Londra la Zona "A" del TLT passò all'amministrazione civile del governo italiano, mentre l'amministrazione del governo militare jugoslavo sulla Zona "B" passò al governo della Repubblica socialista. Gli accordi prevedevano inoltre alcune rettifiche territoriali a favore della Jugoslavia fra cui il centro abitato di Albaro Vescovà/Škofije con alcune aree appartenenti al Comune di Muggia (pari a una decina di km²). Il trattato fu un passo molto gradito alla NATO, che valutava particolarmente importante la stabilità internazionale della Jugoslavia.

 

IL RITORNO DEL TOSCANA

AL SERVIZIO CIVILE

 

Emigranti italiani a bordo del Toscana a Trieste nel 1954, in partenza per l'Australia

 

 

Nell'estate 1947 Il TOSCANA fu restituito FINALMENTE alla navigazione mercantile. Il piroscafo subì un turno di grandi lavori di rimodernamento eseguiti presso il Cantiere San Marco di Trieste. I bruciatori delle caldaie, alimentati a carbone, vennero convertiti alla nafta, venne sostituito il fumaiolo con uno più basso e tozzo (la velocità tuttavia non mutò, restando di 12 nodi) La stazza fu portata a 9.584 tsl. Anche le sistemazioni passeggeri vennero ampliate, potendo quindi alloggiare 826 persone.

Il TOSCANA, superate le prove di collaudo, tornò in servizio di linea e  il 7 febbraio 1948 gli venne assegnato il collegamento diretto da Trieste a Durban. alle rotte dell'Estremo Oriente via Suez.

Dal 19 ottobre 1948 fu destinato al trasporto di emigranti (tra cui numerosi giuliani ed istriani, esuli dalle loro terre annesse alla Iugoslavia.

Nel 1954, 20.000 triestini che, dopo la restituzione della città all'Italia avevano lasciato Trieste perché disoccupati, raggiunsero Perth-l’Australia, a disposizione del CIME (Comitato Intergovernativo per le Migrazioni Europee), partendo inizialmente da Napoli e successivamente da Trieste (capolinea). I

Il 14 settembre 1960 l'anziana nave TOSCANA lasciò Trieste per l'ultimo viaggio di linea.

Disarmato a Trieste sul finire del 1961, il Toscana venne infine demolito, sempre a Trieste, nel 1962.

E' nostro parere che il TOSCANA avrebbe dovuto continuare a vivere nel tempo come NAVE MUSEO a perenne ricordo di TANTE SOFFERENZE, patite dagli italiani, proprio a TRIESTE, città che tutti noi di una certa età abbiamo tuttora nel cuore.

CONCLUSIONE

 

Siamo giunti al termine di questa breve carrellata storica in cui lo shape del transatlantico TOSCANA si staglia come emblema di una Italia “confusa” che mandò i suoi coloni in Africa a cercare lavoro e fortuna, poi a raccogliere feriti nel Mediterraneo nelle vesti di crocerossina, ed infine a riportare in Patria 350.000 profughi, ESODO GIULIANO-DAMATA per cui si é meritato il seguente riconoscimento:

 

Le missioni di pace e di speranza del TOSCANA si concluse, come abbiamo visto, con i viaggi degli emigranti triestini diretti a Fremantle-Perth, Australia.

Questo articolo lo abbiamo dedicato soprattutto a questo PIROSCAFO che, a distanza di molti decenni, dopo la decantazione naturale di errori infarciti di odio e stragi tra i Paesi belligeranti, ancora oggi ci riempie il cuore di stupore e di affetto per aver svolto un ruolo protettivo, direi MATERNO per migliaia e migliaia di militari e civili, anche non italiani, talvolta persino nemici.

Il TOSCANA, nell’arco della sua esistenza sui mari, fu davvero la nave della

 

“SPERANZA, della SALVEZZA e della RINASCITA”!

LA FIGURA DEL COMANDANTE

ERNANI ANTONIO ANDREATTA

S’INCROCIA CON LA VITA DEL TOSCANA

Nel frattempo sono proseguite le nostre ricerche sulla M/n TOSCANA e, con grande sorpresa, abbiamo scoperto che il Comandante Ernani Antonio Andreatta di Chiavari ha comandato la celebre nave per  un lungo periodo sia durante la guerra che nel dopoguerra.

E’ stato proprio il figlio, il noto Fondatore e Curatore del Museo Marinaro di Chiavari: Comandante Ernani Andreatta a sottoporci in visione l’estratto matricolare di suo padre del quale riportiamo alcune parti:


Capitano             Nave           Date IMBARCO     MESI   GIORNI  Qualifica

SBARCO

Se stesso         TOSCANA 14.2.39/9.3.39                   -        24        Com.te

Se stesso         TOSCANA 31.10.39/8.3.40                 4        09        Com.te

Se stesso         TOSCANA 20.8.49/8.8.50                 11        09        Com.te

Se stesso         TOSCANA 29.11.52/30.4.53              05       01        Com.te

 

A metà circa della pagina allegata si legge: Sbarcato a Napoli il 3.9.1946 rimpatriato dalla prigionia in Siam (Tainlandia), già imbarcato sulla M/n SUMATRA”…

(notare la data: ….fu rimpatriato quando la guerra era finita da un anno e mezzo!)

Gli ultimi imbarchi del Comandante Ernani Antonio Andreatta, da come si evince dall’estratto matricolare, li ha effettuati sulle moderne motonavi della Compagnia di Navig. Lloyd Triestino di cui si conservano i modelli nel Museo Marinaro di Chiavari.

Il Comandante Ernani Antonio Andreatta con i gradi di 1° Ufficiale

In questa stupenda immagine scattata nel 1926 sul ponte di Comando di una nave passeggeri del Lloyd Sabaudo, si vedono due personaggi della nostra Riviera di Levante: in primo piano, davanti al timoniere, il 1° Ufficiale chiavarese ERNANI ANDREATTA (Sr)un Commissario di bordo ed il celebre ANTONIO LENA Comandante del CONTE DI SAVOIA. Infine a destra tre passeggeri della 1a classe.

Carlo GATTI

Rapallo, 6 febbraio 2019


PITTORI DI MARINA-WILLEM VAN DE VELDE IL VECCHIO E IL GIOVANE

PITTORI DI MARINA

Eco del Golfo Tigullio

LA QUADRERIA DEL MARE

 

WILLEM VAN DE VELDE IL VECCHIO

E

WILLEM VAN DE VELDE IL GIOVANE

Dall’Olanda alla corte di Sua Maestà: i Willem van de Velde

Willem van de Velde padre (noto anche come “il vecchio” 1611-1693) e figlio (noto come “il giovane”, 1633-1707) sono senza ombra di dubbio i pittori di marina seicenteschi più completi e preparati.

Dopo la ben più numerosa “dinastia” marsigliese dei Roux, descritta in questa rubrica su “Il mare” dello scorso febbraio, ci avviciniamo oggi a un altro gruppo famigliare, numericamente più ristretto ma di grande importanza per la storia della pittura in generale e per quella di marina in particolare: i pittori olandesi (omonimi) Willem van de Velde padre e figlio che - nel contesto culturale e storico del XVII secolo - rivestono un’importanza fondamentale che trascende dai già eccellenti aspetti qualitativi della loro attività artistica.

Nativi di Leiden (Leida) in Olanda, Willem van de Velde padre (noto anche come “il vecchio”, 1611-1693) e figlio (noto anche come “il giovane”, 1633-1707) sono senza ombra di dubbio i pittori di marina seicenteschi più completi e preparati e tali da aver saputo “traghettare” questo specifico genere dalle ridondanze barocche verso un più moderno neoclassicismo, che raggiungerà la sua più completa maturità nella pittura di marina britannica del successivo secolo XVIII.

Willem van de Velde padre nacque in una famiglia di comandanti dello shipping mercantile olandese e, anzi, talune biografie riportano che in giovinezza praticò questa professione prima di dedicarsi alla pittura di marina come apprendista nello studio di Simon De Vlieger (1601-1653), artista di quel genere piuttosto rinomato all’epoca, soprattutto a Rotterdam. Analoga fu la scelta artistica del figlio che, anzi, dette avvio ad una fattiva collaborazione con l’Ammiragliato delle “Province Unite” divenendo, al pari del padre, pittore ufficiale della Flotta olandese.


Da sinistra: Willem van de Velde il vecchio (incisione di G. Sibelius, ca. 1689) e Willem van de Velde il giovane (olio su tela di Lodewijk van der Helst, ca, 1665-1670, Rijksmuseum, Amsterdam).

L’attività dei van de Velde si svolse quindi, in particolare ad Amsterdam, in abbinamento con quella della Marina dei Paesi Bassi all’epoca delle guerre anglo-olandesi: tre conflitti che - tra il 1652 e il 1674 - ebbero come protagoniste le sette “Provincie Unite” e la Gran Bretagna per motivi di preminenza marittima e commerciale sulle rotte dell’Europa settentrionale e dell’Oceano Atlantico. Nella fattispecie, Willem van de Velde padre fu presente alla “Battaglia dei quattro giorni” (giugno 1666) e alla “Battaglia di San Giacomo (o “dei due giorni”) del luglio successivo, scontri navali che videro contrapposte le flotte olandese e britannica con la prima vincitrice ai “quattro giorni” e la seconda ai “due giorni”. Ad entrambi gli scontri il pittore partecipò a bordo di una piccola unità a remi, prendendo appunti e realizzando schizzi che avrebbe poi utilizzato per la realizzazione di successive opere pittoriche.

Willem van de Velde il vecchio: “Studio del due ponti olandese De Zeven Provincien” (disegno a matita e inchiostro grigio, ca, 1665-1668, National Maritime Museum, Greenwich via Sotheby’s).

Nel 1672, con un repentino “cambio di campo” in parte dovuto anche al rischio di un attacco francese ai Paesi Bassi, subito dopo lo scoppio della terza guerra anglo-olandese i van de Velde trasferirono la propria attività in… Gran Bretagna, passando al servizio della corte inglese - anche in questo caso come pittori ufficiali di marina - al fine di celebrare, per l’innanzi, le glorie e le vittorie della Royal Navy. Gli attuali canoni etici potrebbero far considerare una mossa del genere un vero e proprio tradimento ma così non era nell’Europa dei secoli XVI e XVII, quando il concetto di “guerra totale” era ben lungi dall’essere acquisito e tra Stati belligeranti rimanevano sempre in essere rapporti artistici, culturali (e talvolta anche politici) che non interrompevano taluni interscambi economici e passaggi di personalità, anche di rilievo, da un Paese all’altro a discapito della nazionalità.

Willem van de Velde il vecchio: “Consiglio di guerra a bordo del De Zeven Provincien, 10 giugno 1666” (olio e inchiostro su tela, 1667, Rijksmuseum, Amsterdam). Da un’osservazione diretta dell’artista nell’imminenza della “Battaglia dei quattro giorni”, vinta dalla flotta olandese su quella britannica.

Willem van de Velde il vecchio: “La flotta olandese in navigazione”, opera probabilmente riferita alla spedizione navale olandese del 1667 verso la Medway e Sheerness. Alcuni lavori dei van de Welde sono esposti anche in musei italiani. Questo inchiostro su pergamena fu acquistato nel 1674 dal cardinale Leopoldo dei Medici e fa oggi parte delle collezioni di palazzo Pitti a Firenze.

Willem van de Velde il giovane: “Resa del tre ponti britannico Prince Royal alla Battaglia dei quattro giorni” (olio su tela, da un disegno a inchiostro su carta di Willem van de Velde il vecchio, ca. 1666-1667, Rijksmuseum, Amsterdam). Si noti, sulla destra, il Prince Royal con le vele “a collo” mentre alcune lance olandesi si avvicinano al suo lato sinistro. Le bandiere bianche dell’unità britannica non sono un’indicazione di resa, ma attestano l’appartenenza della nave al “White Squadron” della Royal Navy, all’epoca divisa in tre gruppi operativi (White, Red e Blue Squadron), contraddistinti per l’appunto da bandiere bianche, rosse e blu.


Willem van de Velde il giovane: “Uno yacht del Servizio di Stato olandese , con navi e chiatte mercantili in calma di vento” (olio su tela, ca. 1660, New York, Newhouse Galleries sino al 1991, ora collezione privata).


Willem van de Velde il giovane: “Il due ponti britannico HMS St. Andrew in navigazione” (olio su tela, 1673, National Maritime Museum, Greenwich). Dopo il passaggio al servizio della Corte inglese i van de Velde si dedicarono alla raffigurazione di unità della Royal Navy: il St. Andrew faceva parte, come indicato dalle bandiere a riva, del “Blue Squadron” della Marina britannica.


In alto - Willem van de Velde il giovane: “Navi olandesi in calma di vento” (olio su tela, 1665, Rijksmuseum, Amsterdam). In basso - Willem van de Velde il giovane: “L’HMS Royal Sovereign spara una cannonata di saluto in calma di vento”, 1701, Weston Park, collezione privata). Cambiano i tempi, i committenti e le Marine di riferimento ma lo stile resta il medesimo… Si notino i colori più vivi del quadro del 1701, indici di un rinnovato stile che influenzerà tutta la pittura di marina settecentesca in Gran Bretagna; il Royal Sovereign e lo “Yacht” in primo piano a sinistra hanno inferita sull’asta di poppa la bandiera del “Red Squadron” della Royal Navy.

I van de Velde furono attivissimi alla corte di Carlo II sino al 1688, quando la “Glorious Revolution” portò sul trono britannico Guglielmo III di Orange che - verosimilmente anche per le sue origini olandesi e senz’altro meno interessato all’arte e alla pittura di marina - privò i due pittori di alcuni privilegi. Cionondimeno, l’attività di Willem van de Velde padre e figlio proseguì senza particolari contraccolpi grazie alle loro eccellenti doti artistiche, sempre più apprezzate dalla committenza pubblica e da quella privata.

Mentre Willem padre si specializzò in grandi “cartoni” disegnati a penna con inchiostro scuro, Willem figlio sviluppò un vero e proprio talento nella realizzazione di olii su tela che, in parte, erano ispirati a precedenti disegni a penna del padre. Le opere di entrambi i pittori, al di là della loro indubbia valenza artistica, permettono di apprezzare nel dettaglio ogni aspetto delle navi dell’epoca, e consentono agli storici navali di acquisire preziose informazioni sull’allestimento, sulle manovre, sulla velatura, sull’armamento e su ogni altro dettaglio delle unità navali seicentesche che, a tutti gli effetti, possono essere considerate le antesignane dei celebri vascelli a due e a tre ponti del Settecento, l’”epoca d’oro” della marina velica sino all’era napoleonica.

Non stupisce quindi che, grazie al trasferimento a Londra dei Van de Velde (e del loro ricchissimo archivio di disegni, appunti e quadri) il maggior depositario di loro opere - più di ottocento! - sia il National Maritime Museum di Greenwich, anche se non pochi cartoni e quadri sono oggi conservati anche al Rijksmuseum di Amsterdam.

Maurizio BRESCIA

Direttore del mensile

Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco

Rapallo, 23 Gennaio 2019


 

 


UNA SERATA SUL RIMORCHIATORE "STORICO" PLÖN

UNA SERATA SUL RIMORCHIATORE STORICO

PLÖN


PLÖN - Burrasca di prora



Il Rimorchiatore PLÖN ormeggiato al  Muggiano di punta, poppa a terra. La barca da pesca di Renato é affiancata al rimorchiatore.

Renato Rozzi, Comandante (Cap.l.c.) vecchia conoscenza dei tempi dell'armatore Lolli Ghetti, dopo un po’ di anni di silenzio, ha convocato un gruppo di vecchi Amici per aggiornarli sulla sua “vita di bordo” a tutto campo!

Questo omone dal carattere mite e “nostalgico” per tante cose del passato, pur parlando poco, com’é nel suo carattere, è riuscito ad emozionarci con non poche sorprese.

La prima riguarda la sua famigliola: La dolcissima moglie Zoila, di Santo Domingo e due bellissimi ragazzi, Caterina e Mario. Insieme hanno accettato di vivere stabilmente a bordo del rimorchiatore tedesco PLÖN per condividere le stesse passioni per il MARE e per il lavoro sul mare.

Renato, tra le comodità che offre oggi la società e quelle che può offrire un rimorchiatore di 76 anni ci passa un bel mare di cose… Rifaresti questa tua scelta?


Motore IVECO da 650 CV.

- La vita é quella che ti scegli!  Dagli altri… tu sai a chi mi riferisco, non mi aspetto nulla. Quindi conto soltanto sulle mie braccia di pescatore e sull’amore della mia famiglia.

Ma per rispondere alla tua domanda vengo subito al sodo con un esempio che taglia la testa al toro. Mi sono venduto un appartamento per comprare il nuovo motore che ho installato sul rimorchiatore, un IVECO di quasi 700 CV. -

L’idea é molto originale, piena di suggestioni ed esprime tutto il tuo coraggio di essere in una sola persona: armatore, comandante e dipendente-lavoratore imbarcato H24.

- Per la verità tutto si svolge entro limiti ben precisi: in estate, a richiesta, faccio qualche viaggetto  portando soci e membri di importanti Associazioni verso mete rinomate della zona portuale e del golfo di Spezia. Negli intervalli, in pratica sempre, faccio il pescatore e modestamente anche il cuoco, ovviamente cucino pesci, ma le mie migliori performance le ottengo a bordo, nel mio ambiente naturale, con il mio pescato dedicato agli Amici, come stasera. Presto capirai a cosa mi riferisco! Ti premetto che senza l’aiuto di mia moglie, della sua mente organizzatrice e naturalmente dell’essere una cuoca provetta, non vi avrei invitati. -

 

Levami una curiosità: come ha fatto tua moglie ad adattarsi a questa vita per certi versi eroica?

 

Labaro dei Fratelli della Costa

- Certamente non viviamo su un Yacht di lusso, questo lo sappiamo entrambi, ma in questo modo abbiamo meno da pulire e nessuno da stipendiare… Mia moglie é nata sugli scogli di Santo Domingo ed é più ”marinaio” di me! -

 

Non ricordavo nulla della tua manualità da operaio specializzato. Oggi mi sento veramente sorpreso davanti alle cose che sai fare. Dove hai fatto pratica?

Notturno

- Come vedi ho avuto l’autorizzazione per ormeggiarmi qui di punta al Muggiano. Siamo all’interno di uno dei maggiori Cantieri navali del nostro Paese. Tutti mi conoscono ed io conosco tutti. In caso di necessità non mi mancano gli Amici. E’ vero! Appartengo alla sezione ”coperta”, ma le mie mani hanno imparato a fare di tutto, anche il macchinista, l’elettricista, l’idraulico il carpentiere, il nostromo ecc... Acquistai il PLÖN dieci anni fa a Savona, ed era la classica ”barca da lavoro” giornaliera. Per renderla adatta ai nostri scopi, ho dovuto attuare modifiche un po’ dappertutto: sotto coperta, nella zona di poppavia per ricavarne alloggi per la mia famiglia  e, naturalmente, per le nostre esigenze di lavoro. Nulla, comunque, che modificasse la fisionomia e la personalità eccezionale del PLÖN. -

La seconda sorpresa Renato ce la serve sul piatto d’argento della storia. Già! Si tratta dell’incredibile storia del PLÖN che ora andiamo a sintetizzare.

Renato, prima di addentrarci nei meandri del PLÖN, ti vorrei subito porre una domanda: nell’Ambiente degli Arditi Incursori del Varignano, di cui mio figlio John ha fatto parte, circola la voce che il PLÖN sia stato costruito con l’acciaio della Bismarck. Riporto quanto scritto su un sito:

 

"Alle tredici, sempre di domenica, siamo a bordo del rimorchiatore “PLÖN”, costruito nel 1939 con l’acciaio della corazzata Bismarck; lì troviamo un altro caro amico Renato Rozzi, insieme ad alcuni giovani ragazzi…..ecc…."

- Mi è stato riferito di questa possibile origine del PLÖN. So che sono state fatte ricerche presso l’Archivio Storico della Germania del Nord. Ma non ho nulla in mano per certificarne o meno la verità.-

 

Dal momento che l’affondamento della Bismarck è successivo al varo del PLÖN, penso piuttosto che l’accostamento storico delle due unità sia nato dal fatto che la prima era ritenuta “inaffondabile” dalla propaganda, mentre per la seconda è il tempo che continua a testimoniare la sua “inaffondabilità”.

Possiamo vedere la documentazione del PLÖN?

 

- La ricostruzione storica, da quando il rimorchiatore PLÖN fu varato, è scritta in queste due pagine che un amico tedesco mi ha inviate dalla Germania, sono scritte in tedesco e per fortuna anche in inglese.-


Stemma della città di Elmshorn

PLÖNFu costruito nel Cantiere S.W. Kremer nella città di Elmshorn (Schleswig-Holstein/Germania del Nord) come RIMORCHIATORE MILITARE denominato BODDEN.

 

Caratteristiche dell’unità al momento dell’entrata in servizio il 18.7.1940 presso la Marinehafenbauamt-Rügen:

 

Stazza lorda:…….101 tonn.

Lunghezza f.t.:…..22,02 mt

Larghezza:……………5,18 mt

Motore:…………….260 CV. (6 cilindri-4 tempi)

Velocità:…………….10 nodi

Equipaggio…………. 8 membri

 

Nel Volume 6° di GRÖNER:  (Die deutschen Kriegsschiffe 1815-1945)

a  pag.100, viene riportata una annotazione del periodo bellico in cui risulta che il PLÖN fu attivo sotto diversi Comandi operativi.

 

Nel 1941 fu trasferito presso la Hafenbaudirektion di Gotenhafen. (Polonia occupata - oggi città e porto polacco di Gdynia), dove rimase in servizio, per periodi alterni, fino alla resa della Germania agli Stati Uniti. In seguito l’unità rimase sotto la direzione del Porto di Brema fino al termine del conflitto.

 

31.1.1946 .....in charter presso la WSD di Kiel

16.8.1946..... in charter presso la Società Rimorchiatori URAG

23.2.1948 .....viene acquistato dalla DDG Hansa-Bremen

18.5.1948..... rinominato BOMBAY

20.10.1954... passa alla Guardia Costiera Tedesca (Bundesgrenzschutz) come pattugliatore di frontiera.

Maggio 1955.. Viene rinominato PLÖN

1.7.1956....... Passa alla Marina Militare Tedesca

19.8.1970..... L’unità viene radiata

8.7.1972...... PLÖN é venduto all’Olanda e rinominato PIRANHA

1975.............Viene venduto ad una Società di Savona.

1996............ Viene acquistato dal sig. Renato Rozzi di La Spezia.

 

 

 

 

Nota storica

Quanto segue è stato ripreso da un saggio che l’autore di questo articolo ha scritto sul sito di Mare Nostrum Rapallo il 2.8.2012, dopo aver effettuato un viaggio di studio nel Mar Baltico, e s’intitola:

Da BORNHOLM a PEENEMÜNDEMare Nostrum in giro per il BALTICO. (Sezione- Storia Navale).

Peenemünde dista soltanto 35 miglia nautiche da Rügen, circa due ore di traghetto da Bornholm e circa quattro ore da Gdynia, cioè l’intera zona che fu battuta dal PLÖN nel periodo bellico.

“Gli alleati, come si seppe in seguito, erano completamente allo scuro di ciò che accadeva nella vicina Peenemünde, (isola di Usedom nel Land del Maclemburgo-Pomerania anteriore che dista solo 115 km in linea d’aria da Bornholm), dove una sezione speciale di scienziati del Terzo Reich, guidata da Wernher von Braun, costruiva e sperimentava lanci di armi micidiali note con le sigle: V-1  e  V-2, ma anche aerei a reazione che superavano in velocità gli Hurricane e gli Spitfire inglesi di oltre 200 K/h e almeno altri 20 tipi di armi tra cui minisommergibili, giganteschi cannoni, fucili che sparavano dietro agli angoli delle case. Anche la bomba teleguidata PC-1.4400X (Fritz) che colpì la corazzata italiana Roma era stata progettata e testata a Peenemünde.


 

Regione del Mecklenburg-Pomerania. L’isola di Rügen a sinistra in alto, Peenemünde al centro.


Un esemplare di V-1 sulla rampa di lancio a Peenemünde


Un esemplare di V-2 sulla rampa di lancio a Peenemünde

Nei paraggi di questo sito segreto, si parla della vicina isola di Rügen dove si sarebbero sperimentati gli effetti della prima bomba atomica ‘sporca’ (sulla pelle di chi, non é ancora dato di sapere?) come sostiene lo storico berlinese Rainer Karlsch nel suo saggio Hitlers Bombe pubblicato nel marzo 2005.

Le informazioni destinate agli Alleati erano molto precise e dettagliate essendo ravvicinati gli avvistamenti di ordigni volanti che si proiettavano sempre più spesso sui cieli di Bornholm. A volte lo erano anche troppo: secondo alcune testimonianze, pare infatti che alcuni razzi fallirono la traiettoria e caddero sull’isola danese (più vicina alla Svezia che alla Danimarca). Sulla stessa Bornholm, i tedeschi costruirono speciali sistemi di antenne collegate alle sperimentazioni di Peenemünde che furono puntualmente sabotate da uomini della Resistenza locale. L’occupazione nazista durò ben cinque anni, una vera angoscia per questa minoranza di danesi staccata dalla madrepatria.

Il momento peggiore si verificò, tuttavia, negli ultimi giorni di guerra, quando l’Armata Rossa,  temendo che i tedeschi ritardassero la resa per consegnarsi ‘soltanto’ agli americani, attaccò l’isola dal cielo. Il 7 maggio 1945 L’aviazione di Stalin sganciò sull’isola un numero esagerato di bombe che danneggiarono gravemente le città, in particolare Rønne e Nexø. Nel capoluogo, furono completamente distrutte 250 case su 3400, 23 incendiate e 3000 più o meno danneggiate. A Nexø fu distrutto quasi tutto il centro cittadino ed il porto dove erano ammassate le difese militari tedesche. I morti si contarono a centinaia.

Ancora oggi, gli isolani di una certa età ricordano con grande rabbia la vigilia della liberazione da parte dei sovietici e provano a raccontarne l’orrore a tutti coloro che s’intrattengono sull’argomento.

Bornholm fu liberata dai Russi ma non fece mai parte dei Paesi che varcarono  la ‘cortina di ferro’ amministrata  dalla Unione Sovietica.

Renato, sembra addirittura incredibile che il tuo rimorchiatore PLÖN sia sopravvissuto ai massicci bombardamenti anglo-americani piovuti dal cielo proprio nell’area di massimo interesse per l’evoluzione strategica (missilistica ed atomica) che si stava sviluppando in quel momento.

 

- Ogni nave, come ogni persona, ha il proprio destino. Non conosco le ragioni ultraterrene che determinano questi meccanismi. Nessuno le conosce! Tuttavia ognuno di noi può farsene una ragione. Personalmente ritengo che il mio PLÖN, possa degnamente rappresentare, come essere vivente e ancora navigante, a 76 anni dal suo varo, la memoria di quei 55.000.000 che morirono per un ideale nella Seconda guerra mondiale. Il PLÖN é un Mausoleo Navigante che merita di essere conosciuto e rispettato come un anziano guerriero che da tempo ha abbassato le armi nel nome della pace e della convivenza pacifica.-

 

Renato, ti ringrazio insieme alla tua famiglia per l’accoglienza, per l’umanità del tuo pensiero e per averci fatto vivere un pezzo di storia del tuo PLÖN che non conoscevo.

 

Concludo questa piacevole conversazione presentando il menù con il quale Renato e Zoila ci hanno deliziato.

-       Frittelle di muscoli

-       Insalata di polpi e patate

-       Insalata di acciughe, peperoni, sedano e pomodori

-       Gamberoni alla piastra

-       Linguine con sugo di muscoli

-       Muscoli

-       Vino bianco locale

-       Caffé

-       Liquore di Santo Domingo MAMA UANA (miscela di Rum,  vino rosso, miele)

Ringrazio il Comandante Renato Rozzi e la sua famiglia per l’ospitalità a noi riservata a bordo del “mausoleo navigante” e per le sue sorprendenti scelte esistenziali che ci avvicinano, ancor più, a quello spirito marinaro che ormai alberga soltanto in pochi rari esemplari…

Ringrazio caldamente gli amici della Tavola Fratelli della Costa: il suo Luogotenente Rolando Spezia, Luciano Brighenti membro nazionale Commissione degli esperti, Marcello Bedogni dal 2007 al 2013 Gran Commodoro della Fratellanza, il caro amico Renzo Bagnasco che insieme ad altri Fratelli mi hanno “rimorchiato” sul “leggendario PLÖN”.

 

ALBUM FOTOGRAFICO



Sala Nautica

Ruota del timone


Salpancore





Renato, l’armatore-comandante tuttofare é in piedi a destra


Crest del PLÖN


 

Carlo GATTI

Rapallo, 17 settembre 2013