TOSCANA - Una nave, una storia
P.fo TOSCANA
dal 1935 al 1961
Fu la nave della
“SPERANZA, della SALVEZZA e della RINASCITA”!
Non era una nave grande, non era una nave veloce, non era una nave lussuosa, non è stata famosa per le sue caratteristiche, e in definitiva non era neanche una bella nave. Eppure, molti sono i libri ed gli articoli dedicati a questa nave che sarebbe rimasta del tutto "anonima" se non fosse stata coinvolta in eventi che hanno segnato la nostra storia e sui quali ancora oggi poco è stato scritto. Il piroscafo TOSCANA fu costruito in Germania nel 1923 col nome Saarbrùcken ma per noi la sua storia comincia nel 1935, come trasporto truppe per l'avventura africana, continua con la guerra civile spagnola, l'occupazione dell'Albania e poi, come nave ospedale, con la tragica seconda guerra mondiale. Fra i pochi sopravvissuti alla guerra fu quindi coinvolto nei primi collegamenti con le Isole maggiori, con il rimpatrio di nostri prigionieri dal Nord Africa e con il drammatico esodo di Pola come conseguenza di un iniquo trattato di pace. Finalmente ripristinato al servizio civile e posto in linea regolare dal Lloyd Triestino fra Trieste e l'Australia il Toscana contribuì in modo determinante all'esodo di circa 22.000 Triestini e Giuliani verso quel grande e lontano paese.
TIPO: Piroscafo Misto (1923-1935 e 1945-1961) Nave Ospedale (1941-1945)
PROPRIETA’: Norddeutscher Lloyd (1923-1935)-Italia Flotte Riunite (1935-1936)- Lloyd Triestino (1936-1943)
CANTIERE: AG Weser, Bremen – Impostazione: 1922 – Varo 1923 ed entra in servizio lo stesso anno come nave civile. 1° febbraio 1941 come nave militare.
GESTIONE: dalla-FlottaLauro nel-1938-1939
REQUISITO: Regia-Marina nel-1941-1945
Co.Ge.Na. (Comitato ministeriale Gestione Navi) 1945-1947
CIME (Comitato Intergovernativo per le Migrazioni Europee) 1947-1961
Nome precedente: P/s Saarbrücken – Radiata nel 1961 – Demolita nel 1962
Stazza Lorda: 9442 tsl - Lunghezza: 146,2 mt – Larghezza: 17,57 mt – Pescaggio: 9,52 mt.
Propulsione: 5 caldaia a carbone (poi dal 1947 a nafta) – Potenza: 4200 CV – 2 Eliche – Velocità 12,5 nodi Capacità carico: 9142 tonn.
Equipaggio: 176 – Passeggeri: (nel 1923) 198+142 - (Nel 1947) 826
UN PO’ DI STORIA
Militari in partenza per le colonie italiane sul TOSCANA
In vista della guerra d’Etiopia, il governo italiano decise di acquistare un certo numero di navi passeggeri per destinarle al Trasporto Truppe ribattezzandole con nomi delle regioni italiane. Sul mercato europeo c’era la Saarbrücken, che rientrava nelle specifiche previste per quell’impiego. Fu comprata nel 1935 e fu ribattezzata TOSCANA. La nave trasportò truppe dapprima nella guerra d’Etiopia e poi nella guerra civile spagnola trasportando ogni volta 1990 uomini, per un totale di 80.000 uomini e 4.000 veicoli.
Data in gestione alla Flotta Lauro, nel novembre 1938 la nave venne impiegata per qualche mese nel trasporto di 1720 famiglie italiane verso la Libia per un totale di 20.000 coloni; nel maggio 1939, la nave fu inviata in Spagna per rimpatriare 1900 militari italiani.
DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE IL TOSCANA FU CONVERTITA IN NAVE OSPEDALE
Per esigenze belliche, nel dicembre 1940, la Regia Marina decise la trasformazione della TOSCANA in Nave Ospedale. Fu ridipinta secondo le norme stabilite dalla Convenzione di Ginevra per le navi ospedale, fu fornita di adeguate attrezzature sanitarie, di 700 posti letto, imbarcò il personale medico ed entrò in servizio nel marzo 1941.
Nel corso di questi mesi compì molte missioni umanitarie e subì anche numerosi bombardamenti aerei notturni.
Il 2 dicembre 1942 il Toscana, insieme alle piccole navi soccorso Capri e Laurana nonché a diversi cacciatorpediniere, venne inviata alla ricerca dei superstiti delle navi del Convoglio “H” che fu quasi totalmente distrutto in uno scontro notturno contro una formazione navale inglese presso SKERKI – costa tunisina. Complessivamente vennero tratti in salvo circa 1.100 naufraghi, un terzo del totale degli uomini imbarcati sulle navi del convoglio.
Il 28 aprile 1943 il Toscana trasse in salvo 72 naufraghi dell’equipaggio del piroscafo italiano Teramo, incendiato quello stesso giorno da motosiluranti britanniche ed aerei Kittyhawk durante la navigazione da Napoli a Tunisi carico di benzina (il relitto alla deriva si arenò il 29 aprile a sud di Capo Bon).
Il 29 aprile il Toscana, mentre rientrava dalla Tunisia con a bordo 938 tra feriti e malati, venne nuovamente attaccata con lancio di bombe e mitragliamenti – nonostante la trasmissione di segnali radio di riconoscimento – e fu stavolta colpita, con 15 feriti tra il personale medico e l'equipaggio, alcuni dei quali di notevole gravità.
Nel luglio-agosto 1943 la nave prese parte alle operazioni di evacuazione sanitaria della Sicilia, dopo lo Sbarco Alleato. Nel mese di luglio il Toscana e le navi ospedale Aquileia e Virgilio effettuarono cinque missioni, imbarcando circa 3.400 tra feriti e malati gravi sia tedeschi che italiani, radunati sulle spiagge di Sant’Agata e Ganzirri (Stretto di Messina). In agosto le stesse tre navi compirono altre tre missioni sino al giorno della caduta di Messina.
Il 17 agosto recuperarono altri 3.000 infermi. La Toscana e l'Aquileia furono le ultime navi ospedale ad abbandonare le rive dello stretto di Messina, sotto reiterati attacchi aerei.
Alla Proclamazione dell’Armistizio il Toscana si trovava a Gaeta da dove salpò la sera del 9 settembre 1943, mentre le truppe tedesche occupavano la piazzaforte, riuscendo così ad evitare la cattura.
Tra il settembre ed il dicembre 1943, il Principessa Giovanna e Toscana effettuarono in tutto sei missioni di trasporto di feriti e malati sia britannici (per i due terzi) che italiani (per il rimanente terzo).
Di fatto, tuttavia, il Toscana (a differenza del Principessa Giovanna), benché formalmente iscritta nei registri britannici come Hospital Ship N.59, continuò ad essere impiegata per conto del Comando navale italiano del Levante sino alla fine del 1945, quando venne derequisita. Il 16 febbraio 1945 la Toscana venne inviata a Yarrow e vi rimase per tre settimane, venendo sottoposta ad un turno di lavori .
Nel corso della seconda guerra mondiale la Toscana aveva svolto complessivamente 54 missioni come nave ospedale, trasportando 4.720 tra feriti e naufraghi e 28.684 ammalati.
IL DOPOGUERRA E L’ESODO ISTRIANO
UNA PAGINA DI DOLORE E DI TRISTEZZA
Tornata a Napoli il 4 dicembre 1945 ed issata nuovamente la bandiera italiana, il TOSCANA venne utilizzata dal Co.Ge.Na. (Comitato ministeriale Gestione Navi) per conto del governo italiano, svolgendo collegamenti d'urgenza tra Napoli, Palermo e Cagliari. Restituita formalmente al Lloyd Triestino nell'ottobre 1946, la nave venne impiegata per il rimpatrio da Libia e Tunisia di profughi ed ex prigionieri. Nello stesso periodo la nave trasportò anche da Napoli a Massaua, via Suez e Porto Said, ex coloni italiani che tornavano in Africa Orientale dopo esserne partiti nel 1942, a seguito dell'occupazione britannica. Ad inizio gennaio 1947 il governo decise di impiegare il Toscana per l'evacuazione dei profughi di Pola, intenzionati a lasciare la città prima che questa venisse annessa alla Iugoslavia.
La nave TOSCANA durante l'abbandono di Pola (1947)
Una giovane esule italiana in fuga trasporta, insieme ai propri effetti personali, una bandiera tricolore (1945)
I VIAGGI DEI PROFUGHI ISTRIANI SUL TOSCANA
L'esodo giuliano-dalmata, noto anche come esodo istriano, coinvolse la maggioranza dei cittadini di etnia e di lingua italiana dalla Venezia Giulia e dalla Dalmazia; iniziò alla fine della Seconda guerra mondiale (1945) e continuò negli anni successivi. Si stima che i giuliani, i fiumani e i dalmati italiani che emigrarono dalle loro terre di origine ammontino a un numero compreso tra le 250.000 e le 350.000 persone.
Il fenomeno, conseguente agli eccidi noti come massacri delle foibe, coinvolse in generale tutti coloro che diffidavano del nuovo governo jugoslavo e fu particolarmente rilevante in Istria e nel Quarnaro, dove interi villaggi e cittadine si svuotarono dei propri abitanti. Nell'esilio forzato, furono coinvolti tutti i territori ceduti dall’Italia alla Jugoslavia in base al Trattato di Parigi, compresa la Dalmazia dove vivevano i dalmati italiani.
I massacri delle foibe e l'esodo giuliano-dalmata sono ricordati dal:
Giorno del Ricordo
solennità civile nazionale italiana che si celebra il 10 febbraio di ogni anno.
Questo modesto articolo é dedicato anche alla loro memoria!
I VIAGGI DEL RITORNO IN PATRIA:
- Giunta a Pola, al comando del Capitano Caro agli inizi di febbraio, il TOSCANA imbarcò 1.865 profughi e ripartì dal Molo Carboni alle 8.30 del 2 febbraio 1947 diretta a Venezia.
- Dopo aver sbarcato i profughi, la nave tornò a Pola il 5 febbraio, imbarcando 2.085 persone e ripartendo il 7 febbraio alla volta di Venezia.
- Il 9 febbraio la nave fece ritorno nel capoluogo istriano, dove prese a bordo 1.550 persone salpando verso Venezia l'11 febbraio.
- Tornato a Pola il 14 febbraio, il piroscafo ne ripartì il 16 febbraio con 2.300 profughi a bordo, per poi tornare il 18.
- La successiva partenza (per Ancona e non per Venezia) del Toscana, che aveva imbarcato 2.156 profughi (tra cui 16 malati, 50 lattanti e 120 bambini con meno di quattro anni, oltre a numerosi anziani) era prevista per il 19, ma causa il maltempo venne inizialmente rimandata al 20 febbraio e poi, persistendo le condizioni meteorologiche avverse, poté infine avvenire solo il 21 febbraio.
- Rientrata a Pola il 23 febbraio, la nave ripartì il 26 febbraio con il sesto carico di profughi istriani.
- Il 2 marzo 1947 il Toscana partì da Pola per Venezia con 1.580 profughi in quello che avrebbe dovuto essere l'ultimo viaggio;
- ma il 4 marzo la nave tornò di nuovo nel porto istriano. Il 7 marzo, con un giorno di ritardo a causa di problemi tecnici, il Toscana ripartì da Pola, portando a bordo, oltre a 1.400 profughi.
- Negli ultimi due viaggi la nave trasportò soprattutto personale rimasto a Pola per le operazioni di evacuazione della città, che si presentava a bordo provvisto di documenti con apposito timbro di riconoscimento.
- Il 13 marzo il Toscana si presentò ancora una volta a Pola, con a bordo il capo della Pontificia Commissione di Assistenza. Ripartì il 14 marzo alla volta di Ancona, nuovamente carico di profughi.
- Il 17 marzo il Toscana fece ritorno a Pola per l'ultimo viaggio. La partenza era prevista per il 19, ma in realtà la nave partì con un giorno di ritardo. Dopo aver ricevuto dal Comitato di Liberazione Nazionale e dal Comitato di Assistenza per l'Esodo una PERGAMENA MINIATA in segno di riconoscenza, il Toscana lasciò Pola per l'ultima volta il 20 marzo 1947. (vedi foto sotto)
In dieci viaggi tra il 2 febbraio ed il 20 marzo 1947, il piroscafo aveva trasportato complessivamente 16.800 profughi istriani.
- (più del numero inizialmente previsto) -
Terminato il suo mandato di evacuazione degli Italiani dal Nord Adriatico, il Toscana riprese il servizio di rimpatrio di profughi ed ex prigionieri dall’Africa Settentrionale.
UNA BREVE PARENTESI STORICA
L'Italia nel 1796
Le tonalitè verdi della cartina, indicano le modifiche del confine orientale italiano dal 1920 al 1975.
Il Litorale Austriaco poi ribattezzato Venezia Giulia fu assegnato all'Italia nel 1920 con il TRATTATO DI RAPALLO (con ritocchi del suo confine nel 1924 dopo il Trattato di Roma) e che fu poi ceduto alla Jugoslavia nel 1947 con i Trattati di Parigi.
In verde - Le Aree annesse all'Italia nel 1920 e rimaste italiane anche dopo il 1947. - Aree annesse all'Italia nel 1920, passate al Territorio Libero di Trieste nel 1947 con i trattati di Parigi e assegnate definitivamente all'Italia nel 1975 con l'infelice Trattato di Osimo.
In giallo - Aree annesse all'Italia nel 1920, passate al Territorio Libero di Trieste nel 1947 con i trattati di Parigi e assegnate definitivamente alla Jugoslavia nel 1975 con il trattato di Osimo.
La folla festante per il ritorno di Trieste all'Italia, 26 ottobre 1954
Nella parte finale della Seconda guerra mondiale e durante il successivo dopoguerra ci fu la contesa sui territori della Venezia Giulia tra Italia e Jugoslavia, che è chiamata "questione giuliana" o "questione triestina". Trieste era stata occupata dalle truppe del Regno d'Italia il 3 novembre del 1918, al termine della Prima guerra mondiale, e poi ufficialmente annessa all'Italia con la ratifica del Trattato di Rapallo del 1920.
Al termine della Seconda guerra, con la sconfitta dell'Italia, ci furono infatti le occupazioni militari della Germania e poi della Jugoslavia.
L'occupazione jugoslava fu ottenuta grazie alla cosiddetta “corsa per Trieste”, ovvero all'avanzata verso la città giuliana compiuta in maniera concorrenziale nella primavera del 1945 da parte della quarta armata jugoslava e dell’ottava armata britannica.
Territorio libero di Trieste: con il trattato di Osimo (1975), la zona A fu definitivamente assegnata all'Italia, mentre la zona B alla Jugoslavia
Il 10 febbraio del 1947 fu firmato il trattato di pace dell’Italia, che istituì il Territorio Libero di Trieste, costituito dal litorale triestino e dalla parte Nord Occidentale dell'Istria, provvisoriamente diviso da un confine passante a sud della cittadina di Muggia ed amministrato dal Governo Militare Alleato (zona A) e dall'esercito jugoslavo (zona B), in attesa della creazione degli organi costituzionali del nuovo stato.
Nella regione la situazione si fece incandescente e numerosi furono i disordini e le proteste italiane: in occasione della firma del trattato di pace, la maestra Maria Pasquinelli uccise a Pola il generale inglese Robin De Winton, comandante delle truppe britanniche. All'entrata in vigore del trattato (15 settembre 1947) corse addirittura voce che le truppe jugoslave della zona B avrebbero occupato Trieste. Negli anni successivi la diplomazia italiana cercò di ridiscutere gli accordi di Parigi per chiarire le sorti di Trieste, senza successo.
La situazione si chiarì solo il 5 ottobre 1954 quando col Memorandum di Londra la Zona "A" del TLT passò all'amministrazione civile del governo italiano, mentre l'amministrazione del governo militare jugoslavo sulla Zona "B" passò al governo della Repubblica socialista. Gli accordi prevedevano inoltre alcune rettifiche territoriali a favore della Jugoslavia fra cui il centro abitato di Albaro Vescovà/Škofije con alcune aree appartenenti al Comune di Muggia (pari a una decina di km²). Il trattato fu un passo molto gradito alla NATO, che valutava particolarmente importante la stabilità internazionale della Jugoslavia.
IL RITORNO DEL TOSCANA
AL SERVIZIO CIVILE
Emigranti italiani a bordo del Toscana a Trieste nel 1954, in partenza per l'Australia
Nell'estate 1947 Il TOSCANA fu restituito FINALMENTE alla navigazione mercantile. Il piroscafo subì un turno di grandi lavori di rimodernamento eseguiti presso il Cantiere San Marco di Trieste. I bruciatori delle caldaie, alimentati a carbone, vennero convertiti alla nafta, venne sostituito il fumaiolo con uno più basso e tozzo (la velocità tuttavia non mutò, restando di 12 nodi) La stazza fu portata a 9.584 tsl. Anche le sistemazioni passeggeri vennero ampliate, potendo quindi alloggiare 826 persone.
Il TOSCANA, superate le prove di collaudo, tornò in servizio di linea e il 7 febbraio 1948 gli venne assegnato il collegamento diretto da Trieste a Durban. alle rotte dell'Estremo Oriente via Suez.
Dal 19 ottobre 1948 fu destinato al trasporto di emigranti (tra cui numerosi giuliani ed istriani, esuli dalle loro terre annesse alla Iugoslavia.
Nel 1954, 20.000 triestini che, dopo la restituzione della città all'Italia avevano lasciato Trieste perché disoccupati, raggiunsero Perth-l’Australia, a disposizione del CIME (Comitato Intergovernativo per le Migrazioni Europee), partendo inizialmente da Napoli e successivamente da Trieste (capolinea). I
Il 14 settembre 1960 l'anziana nave TOSCANA lasciò Trieste per l'ultimo viaggio di linea.
Disarmato a Trieste sul finire del 1961, il Toscana venne infine demolito, sempre a Trieste, nel 1962.
E' nostro parere che il TOSCANA avrebbe dovuto continuare a vivere nel tempo come NAVE MUSEO a perenne ricordo di TANTE SOFFERENZE, patite dagli italiani, proprio a TRIESTE, città che tutti noi di una certa età abbiamo tuttora nel cuore.
CONCLUSIONE
Siamo giunti al termine di questa breve carrellata storica in cui lo shape del transatlantico TOSCANA si staglia come emblema di una Italia “confusa” che mandò i suoi coloni in Africa a cercare lavoro e fortuna, poi a raccogliere feriti nel Mediterraneo nelle vesti di crocerossina, ed infine a riportare in Patria 350.000 profughi, ESODO GIULIANO-DAMATA per cui si é meritato il seguente riconoscimento:
Le missioni di pace e di speranza del TOSCANA si concluse, come abbiamo visto, con i viaggi degli emigranti triestini diretti a Fremantle-Perth, Australia.
Questo articolo lo abbiamo dedicato soprattutto a questo PIROSCAFO che, a distanza di molti decenni, dopo la decantazione naturale di errori infarciti di odio e stragi tra i Paesi belligeranti, ancora oggi ci riempie il cuore di stupore e di affetto per aver svolto un ruolo protettivo, direi MATERNO per migliaia e migliaia di militari e civili, anche non italiani, talvolta persino nemici.
Il TOSCANA, nell’arco della sua esistenza sui mari, fu davvero la nave della
“SPERANZA, della SALVEZZA e della RINASCITA”!
LA FIGURA DEL COMANDANTE
ERNANI ANTONIO ANDREATTA
S’INCROCIA CON LA VITA DEL TOSCANA
Nel frattempo sono proseguite le nostre ricerche sulla M/n TOSCANA e, con grande sorpresa, abbiamo scoperto che il Comandante Ernani Antonio Andreatta di Chiavari ha comandato la celebre nave per un lungo periodo sia durante la guerra che nel dopoguerra.
E’ stato proprio il figlio, il noto Fondatore e Curatore del Museo Marinaro di Chiavari: Comandante Ernani Andreatta a sottoporci in visione l’estratto matricolare di suo padre del quale riportiamo alcune parti:
Capitano Nave Date IMBARCO MESI GIORNI Qualifica
SBARCO
Se stesso TOSCANA 14.2.39/9.3.39 - 24 Com.te
Se stesso TOSCANA 31.10.39/8.3.40 4 09 Com.te
Se stesso TOSCANA 20.8.49/8.8.50 11 09 Com.te
Se stesso TOSCANA 29.11.52/30.4.53 05 01 Com.te
A metà circa della pagina allegata si legge: Sbarcato a Napoli il 3.9.1946 rimpatriato dalla prigionia in Siam (Tainlandia), già imbarcato sulla M/n SUMATRA”…
(notare la data: ….fu rimpatriato quando la guerra era finita da un anno e mezzo!)
Gli ultimi imbarchi del Comandante Ernani Antonio Andreatta, da come si evince dall’estratto matricolare, li ha effettuati sulle moderne motonavi della Compagnia di Navig. Lloyd Triestino di cui si conservano i modelli nel Museo Marinaro di Chiavari.
Il Comandante Ernani Antonio Andreatta con i gradi di 1° Ufficiale
In questa stupenda immagine scattata nel 1926 sul ponte di Comando di una nave passeggeri del Lloyd Sabaudo, si vedono due personaggi della nostra Riviera di Levante: in primo piano, davanti al timoniere, il 1° Ufficiale chiavarese ERNANI ANDREATTA (Sr), un Commissario di bordo ed il celebre ANTONIO LENA Comandante del CONTE DI SAVOIA. Infine a destra tre passeggeri della 1a classe.
Carlo GATTI
Rapallo, 6 febbraio 2019
PITTORI DI MARINA-WILLEM VAN DE VELDE IL VECCHIO E IL GIOVANE
PITTORI DI MARINA
Eco del Golfo Tigullio
LA QUADRERIA DEL MARE
WILLEM VAN DE VELDE IL VECCHIO
E
WILLEM VAN DE VELDE IL GIOVANE
Dall’Olanda alla corte di Sua Maestà: i Willem van de Velde
Willem van de Velde padre (noto anche come “il vecchio” 1611-1693) e figlio (noto come “il giovane”, 1633-1707) sono senza ombra di dubbio i pittori di marina seicenteschi più completi e preparati.
Dopo la ben più numerosa “dinastia” marsigliese dei Roux, descritta in questa rubrica su “Il mare” dello scorso febbraio, ci avviciniamo oggi a un altro gruppo famigliare, numericamente più ristretto ma di grande importanza per la storia della pittura in generale e per quella di marina in particolare: i pittori olandesi (omonimi) Willem van de Velde padre e figlio che - nel contesto culturale e storico del XVII secolo - rivestono un’importanza fondamentale che trascende dai già eccellenti aspetti qualitativi della loro attività artistica.
Nativi di Leiden (Leida) in Olanda, Willem van de Velde padre (noto anche come “il vecchio”, 1611-1693) e figlio (noto anche come “il giovane”, 1633-1707) sono senza ombra di dubbio i pittori di marina seicenteschi più completi e preparati e tali da aver saputo “traghettare” questo specifico genere dalle ridondanze barocche verso un più moderno neoclassicismo, che raggiungerà la sua più completa maturità nella pittura di marina britannica del successivo secolo XVIII.
Willem van de Velde padre nacque in una famiglia di comandanti dello shipping mercantile olandese e, anzi, talune biografie riportano che in giovinezza praticò questa professione prima di dedicarsi alla pittura di marina come apprendista nello studio di Simon De Vlieger (1601-1653), artista di quel genere piuttosto rinomato all’epoca, soprattutto a Rotterdam. Analoga fu la scelta artistica del figlio che, anzi, dette avvio ad una fattiva collaborazione con l’Ammiragliato delle “Province Unite” divenendo, al pari del padre, pittore ufficiale della Flotta olandese.
Da sinistra: Willem van de Velde il vecchio (incisione di G. Sibelius, ca. 1689) e Willem van de Velde il giovane (olio su tela di Lodewijk van der Helst, ca, 1665-1670, Rijksmuseum, Amsterdam).
L’attività dei van de Velde si svolse quindi, in particolare ad Amsterdam, in abbinamento con quella della Marina dei Paesi Bassi all’epoca delle guerre anglo-olandesi: tre conflitti che - tra il 1652 e il 1674 - ebbero come protagoniste le sette “Provincie Unite” e la Gran Bretagna per motivi di preminenza marittima e commerciale sulle rotte dell’Europa settentrionale e dell’Oceano Atlantico. Nella fattispecie, Willem van de Velde padre fu presente alla “Battaglia dei quattro giorni” (giugno 1666) e alla “Battaglia di San Giacomo (o “dei due giorni”) del luglio successivo, scontri navali che videro contrapposte le flotte olandese e britannica con la prima vincitrice ai “quattro giorni” e la seconda ai “due giorni”. Ad entrambi gli scontri il pittore partecipò a bordo di una piccola unità a remi, prendendo appunti e realizzando schizzi che avrebbe poi utilizzato per la realizzazione di successive opere pittoriche.
Willem van de Velde il vecchio: “Studio del due ponti olandese De Zeven Provincien” (disegno a matita e inchiostro grigio, ca, 1665-1668, National Maritime Museum, Greenwich via Sotheby’s).
Nel 1672, con un repentino “cambio di campo” in parte dovuto anche al rischio di un attacco francese ai Paesi Bassi, subito dopo lo scoppio della terza guerra anglo-olandese i van de Velde trasferirono la propria attività in… Gran Bretagna, passando al servizio della corte inglese - anche in questo caso come pittori ufficiali di marina - al fine di celebrare, per l’innanzi, le glorie e le vittorie della Royal Navy. Gli attuali canoni etici potrebbero far considerare una mossa del genere un vero e proprio tradimento ma così non era nell’Europa dei secoli XVI e XVII, quando il concetto di “guerra totale” era ben lungi dall’essere acquisito e tra Stati belligeranti rimanevano sempre in essere rapporti artistici, culturali (e talvolta anche politici) che non interrompevano taluni interscambi economici e passaggi di personalità, anche di rilievo, da un Paese all’altro a discapito della nazionalità.
Willem van de Velde il vecchio: “Consiglio di guerra a bordo del De Zeven Provincien, 10 giugno 1666” (olio e inchiostro su tela, 1667, Rijksmuseum, Amsterdam). Da un’osservazione diretta dell’artista nell’imminenza della “Battaglia dei quattro giorni”, vinta dalla flotta olandese su quella britannica.
Willem van de Velde il vecchio: “La flotta olandese in navigazione”, opera probabilmente riferita alla spedizione navale olandese del 1667 verso la Medway e Sheerness. Alcuni lavori dei van de Welde sono esposti anche in musei italiani. Questo inchiostro su pergamena fu acquistato nel 1674 dal cardinale Leopoldo dei Medici e fa oggi parte delle collezioni di palazzo Pitti a Firenze.
Willem van de Velde il giovane: “Resa del tre ponti britannico Prince Royal alla Battaglia dei quattro giorni” (olio su tela, da un disegno a inchiostro su carta di Willem van de Velde il vecchio, ca. 1666-1667, Rijksmuseum, Amsterdam). Si noti, sulla destra, il Prince Royal con le vele “a collo” mentre alcune lance olandesi si avvicinano al suo lato sinistro. Le bandiere bianche dell’unità britannica non sono un’indicazione di resa, ma attestano l’appartenenza della nave al “White Squadron” della Royal Navy, all’epoca divisa in tre gruppi operativi (White, Red e Blue Squadron), contraddistinti per l’appunto da bandiere bianche, rosse e blu.
Willem van de Velde il giovane: “Uno yacht del Servizio di Stato olandese , con navi e chiatte mercantili in calma di vento” (olio su tela, ca. 1660, New York, Newhouse Galleries sino al 1991, ora collezione privata).
Willem van de Velde il giovane: “Il due ponti britannico HMS St. Andrew in navigazione” (olio su tela, 1673, National Maritime Museum, Greenwich). Dopo il passaggio al servizio della Corte inglese i van de Velde si dedicarono alla raffigurazione di unità della Royal Navy: il St. Andrew faceva parte, come indicato dalle bandiere a riva, del “Blue Squadron” della Marina britannica.
In alto - Willem van de Velde il giovane: “Navi olandesi in calma di vento” (olio su tela, 1665, Rijksmuseum, Amsterdam). In basso - Willem van de Velde il giovane: “L’HMS Royal Sovereign spara una cannonata di saluto in calma di vento”, 1701, Weston Park, collezione privata). Cambiano i tempi, i committenti e le Marine di riferimento ma lo stile resta il medesimo… Si notino i colori più vivi del quadro del 1701, indici di un rinnovato stile che influenzerà tutta la pittura di marina settecentesca in Gran Bretagna; il Royal Sovereign e lo “Yacht” in primo piano a sinistra hanno inferita sull’asta di poppa la bandiera del “Red Squadron” della Royal Navy.
I van de Velde furono attivissimi alla corte di Carlo II sino al 1688, quando la “Glorious Revolution” portò sul trono britannico Guglielmo III di Orange che - verosimilmente anche per le sue origini olandesi e senz’altro meno interessato all’arte e alla pittura di marina - privò i due pittori di alcuni privilegi. Cionondimeno, l’attività di Willem van de Velde padre e figlio proseguì senza particolari contraccolpi grazie alle loro eccellenti doti artistiche, sempre più apprezzate dalla committenza pubblica e da quella privata.
Mentre Willem padre si specializzò in grandi “cartoni” disegnati a penna con inchiostro scuro, Willem figlio sviluppò un vero e proprio talento nella realizzazione di olii su tela che, in parte, erano ispirati a precedenti disegni a penna del padre. Le opere di entrambi i pittori, al di là della loro indubbia valenza artistica, permettono di apprezzare nel dettaglio ogni aspetto delle navi dell’epoca, e consentono agli storici navali di acquisire preziose informazioni sull’allestimento, sulle manovre, sulla velatura, sull’armamento e su ogni altro dettaglio delle unità navali seicentesche che, a tutti gli effetti, possono essere considerate le antesignane dei celebri vascelli a due e a tre ponti del Settecento, l’”epoca d’oro” della marina velica sino all’era napoleonica.
Non stupisce quindi che, grazie al trasferimento a Londra dei Van de Velde (e del loro ricchissimo archivio di disegni, appunti e quadri) il maggior depositario di loro opere - più di ottocento! - sia il National Maritime Museum di Greenwich, anche se non pochi cartoni e quadri sono oggi conservati anche al Rijksmuseum di Amsterdam.
Maurizio BRESCIA
Direttore del mensile
Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco
Rapallo, 23 Gennaio 2019
UNA SERATA SUL RIMORCHIATORE "STORICO" PLÖN
UNA SERATA SUL RIMORCHIATORE STORICO
PLÖN
PLÖN - Burrasca di prora
Il Rimorchiatore PLÖN ormeggiato al Muggiano di punta, poppa a terra. La barca da pesca di Renato é affiancata al rimorchiatore.
Renato Rozzi, Comandante (Cap.l.c.) vecchia conoscenza dei tempi dell'armatore Lolli Ghetti, dopo un po’ di anni di silenzio, ha convocato un gruppo di vecchi Amici per aggiornarli sulla sua “vita di bordo” a tutto campo!
Questo omone dal carattere mite e “nostalgico” per tante cose del passato, pur parlando poco, com’é nel suo carattere, è riuscito ad emozionarci con non poche sorprese.
La prima riguarda la sua famigliola: La dolcissima moglie Zoila, di Santo Domingo e due bellissimi ragazzi, Caterina e Mario. Insieme hanno accettato di vivere stabilmente a bordo del rimorchiatore tedesco PLÖN per condividere le stesse passioni per il MARE e per il lavoro sul mare.
Renato, tra le comodità che offre oggi la società e quelle che può offrire un rimorchiatore di 76 anni ci passa un bel mare di cose… Rifaresti questa tua scelta?
Motore IVECO da 650 CV.
- La vita é quella che ti scegli! Dagli altri… tu sai a chi mi riferisco, non mi aspetto nulla. Quindi conto soltanto sulle mie braccia di pescatore e sull’amore della mia famiglia.
Ma per rispondere alla tua domanda vengo subito al sodo con un esempio che taglia la testa al toro. Mi sono venduto un appartamento per comprare il nuovo motore che ho installato sul rimorchiatore, un IVECO di quasi 700 CV. -
L’idea é molto originale, piena di suggestioni ed esprime tutto il tuo coraggio di essere in una sola persona: armatore, comandante e dipendente-lavoratore imbarcato H24.
- Per la verità tutto si svolge entro limiti ben precisi: in estate, a richiesta, faccio qualche viaggetto portando soci e membri di importanti Associazioni verso mete rinomate della zona portuale e del golfo di Spezia. Negli intervalli, in pratica sempre, faccio il pescatore e modestamente anche il cuoco, ovviamente cucino pesci, ma le mie migliori performance le ottengo a bordo, nel mio ambiente naturale, con il mio pescato dedicato agli Amici, come stasera. Presto capirai a cosa mi riferisco! Ti premetto che senza l’aiuto di mia moglie, della sua mente organizzatrice e naturalmente dell’essere una cuoca provetta, non vi avrei invitati. -
Levami una curiosità: come ha fatto tua moglie ad adattarsi a questa vita per certi versi eroica?
Labaro dei Fratelli della Costa
- Certamente non viviamo su un Yacht di lusso, questo lo sappiamo entrambi, ma in questo modo abbiamo meno da pulire e nessuno da stipendiare… Mia moglie é nata sugli scogli di Santo Domingo ed é più ”marinaio” di me! -
Non ricordavo nulla della tua manualità da operaio specializzato. Oggi mi sento veramente sorpreso davanti alle cose che sai fare. Dove hai fatto pratica?
Notturno
- Come vedi ho avuto l’autorizzazione per ormeggiarmi qui di punta al Muggiano. Siamo all’interno di uno dei maggiori Cantieri navali del nostro Paese. Tutti mi conoscono ed io conosco tutti. In caso di necessità non mi mancano gli Amici. E’ vero! Appartengo alla sezione ”coperta”, ma le mie mani hanno imparato a fare di tutto, anche il macchinista, l’elettricista, l’idraulico il carpentiere, il nostromo ecc... Acquistai il PLÖN dieci anni fa a Savona, ed era la classica ”barca da lavoro” giornaliera. Per renderla adatta ai nostri scopi, ho dovuto attuare modifiche un po’ dappertutto: sotto coperta, nella zona di poppavia per ricavarne alloggi per la mia famiglia e, naturalmente, per le nostre esigenze di lavoro. Nulla, comunque, che modificasse la fisionomia e la personalità eccezionale del PLÖN. -
La seconda sorpresa Renato ce la serve sul piatto d’argento della storia. Già! Si tratta dell’incredibile storia del PLÖN che ora andiamo a sintetizzare.
Renato, prima di addentrarci nei meandri del PLÖN, ti vorrei subito porre una domanda: nell’Ambiente degli Arditi Incursori del Varignano, di cui mio figlio John ha fatto parte, circola la voce che il PLÖN sia stato costruito con l’acciaio della Bismarck. Riporto quanto scritto su un sito:
"Alle tredici, sempre di domenica, siamo a bordo del rimorchiatore “PLÖN”, costruito nel 1939 con l’acciaio della corazzata Bismarck; lì troviamo un altro caro amico Renato Rozzi, insieme ad alcuni giovani ragazzi…..ecc…."
- Mi è stato riferito di questa possibile origine del PLÖN. So che sono state fatte ricerche presso l’Archivio Storico della Germania del Nord. Ma non ho nulla in mano per certificarne o meno la verità.-
Dal momento che l’affondamento della Bismarck è successivo al varo del PLÖN, penso piuttosto che l’accostamento storico delle due unità sia nato dal fatto che la prima era ritenuta “inaffondabile” dalla propaganda, mentre per la seconda è il tempo che continua a testimoniare la sua “inaffondabilità”.
Possiamo vedere la documentazione del PLÖN?
- La ricostruzione storica, da quando il rimorchiatore PLÖN fu varato, è scritta in queste due pagine che un amico tedesco mi ha inviate dalla Germania, sono scritte in tedesco e per fortuna anche in inglese.-
Stemma della città di Elmshorn
PLÖN – Fu costruito nel Cantiere S.W. Kremer nella città di Elmshorn (Schleswig-Holstein/Germania del Nord) come RIMORCHIATORE MILITARE denominato BODDEN.
Caratteristiche dell’unità al momento dell’entrata in servizio il 18.7.1940 presso la Marinehafenbauamt-Rügen:
Stazza lorda:…….101 tonn.
Lunghezza f.t.:…..22,02 mt
Larghezza:……………5,18 mt
Motore:…………….260 CV. (6 cilindri-4 tempi)
Velocità:…………….10 nodi
Equipaggio…………. 8 membri
Nel Volume 6° di GRÖNER: (Die deutschen Kriegsschiffe 1815-1945)
a pag.100, viene riportata una annotazione del periodo bellico in cui risulta che il PLÖN fu attivo sotto diversi Comandi operativi.
Nel 1941 fu trasferito presso la Hafenbaudirektion di Gotenhafen. (Polonia occupata - oggi città e porto polacco di Gdynia), dove rimase in servizio, per periodi alterni, fino alla resa della Germania agli Stati Uniti. In seguito l’unità rimase sotto la direzione del Porto di Brema fino al termine del conflitto.
31.1.1946 .....in charter presso la WSD di Kiel
16.8.1946..... in charter presso la Società Rimorchiatori URAG
23.2.1948 .....viene acquistato dalla DDG Hansa-Bremen
18.5.1948..... rinominato BOMBAY
20.10.1954... passa alla Guardia Costiera Tedesca (Bundesgrenzschutz) come pattugliatore di frontiera.
Maggio 1955.. Viene rinominato PLÖN
1.7.1956....... Passa alla Marina Militare Tedesca
19.8.1970..... L’unità viene radiata
8.7.1972...... PLÖN é venduto all’Olanda e rinominato PIRANHA
1975.............Viene venduto ad una Società di Savona.
1996............ Viene acquistato dal sig. Renato Rozzi di La Spezia.
Nota storica
Quanto segue è stato ripreso da un saggio che l’autore di questo articolo ha scritto sul sito di Mare Nostrum Rapallo il 2.8.2012, dopo aver effettuato un viaggio di studio nel Mar Baltico, e s’intitola:
Da BORNHOLM a PEENEMÜNDE – Mare Nostrum in giro per il BALTICO. (Sezione- Storia Navale).
Peenemünde dista soltanto 35 miglia nautiche da Rügen, circa due ore di traghetto da Bornholm e circa quattro ore da Gdynia, cioè l’intera zona che fu battuta dal PLÖN nel periodo bellico.
“Gli alleati, come si seppe in seguito, erano completamente allo scuro di ciò che accadeva nella vicina Peenemünde, (isola di Usedom nel Land del Maclemburgo-Pomerania anteriore che dista solo 115 km in linea d’aria da Bornholm), dove una sezione speciale di scienziati del Terzo Reich, guidata da Wernher von Braun, costruiva e sperimentava lanci di armi micidiali note con le sigle: V-1 e V-2, ma anche aerei a reazione che superavano in velocità gli Hurricane e gli Spitfire inglesi di oltre 200 K/h e almeno altri 20 tipi di armi tra cui minisommergibili, giganteschi cannoni, fucili che sparavano dietro agli angoli delle case. Anche la bomba teleguidata PC-1.4400X (Fritz) che colpì la corazzata italiana Roma era stata progettata e testata a Peenemünde.
Regione del Mecklenburg-Pomerania. L’isola di Rügen a sinistra in alto, Peenemünde al centro.
Un esemplare di V-1 sulla rampa di lancio a Peenemünde
Un esemplare di V-2 sulla rampa di lancio a Peenemünde
Nei paraggi di questo sito segreto, si parla della vicina isola di Rügen dove si sarebbero sperimentati gli effetti della prima bomba atomica ‘sporca’ (sulla pelle di chi, non é ancora dato di sapere?) come sostiene lo storico berlinese Rainer Karlsch nel suo saggio Hitlers Bombe pubblicato nel marzo 2005.
Le informazioni destinate agli Alleati erano molto precise e dettagliate essendo ravvicinati gli avvistamenti di ordigni volanti che si proiettavano sempre più spesso sui cieli di Bornholm. A volte lo erano anche troppo: secondo alcune testimonianze, pare infatti che alcuni razzi fallirono la traiettoria e caddero sull’isola danese (più vicina alla Svezia che alla Danimarca). Sulla stessa Bornholm, i tedeschi costruirono speciali sistemi di antenne collegate alle sperimentazioni di Peenemünde che furono puntualmente sabotate da uomini della Resistenza locale. L’occupazione nazista durò ben cinque anni, una vera angoscia per questa minoranza di danesi staccata dalla madrepatria.
Il momento peggiore si verificò, tuttavia, negli ultimi giorni di guerra, quando l’Armata Rossa, temendo che i tedeschi ritardassero la resa per consegnarsi ‘soltanto’ agli americani, attaccò l’isola dal cielo. Il 7 maggio 1945 L’aviazione di Stalin sganciò sull’isola un numero esagerato di bombe che danneggiarono gravemente le città, in particolare Rønne e Nexø. Nel capoluogo, furono completamente distrutte 250 case su 3400, 23 incendiate e 3000 più o meno danneggiate. A Nexø fu distrutto quasi tutto il centro cittadino ed il porto dove erano ammassate le difese militari tedesche. I morti si contarono a centinaia.
Ancora oggi, gli isolani di una certa età ricordano con grande rabbia la vigilia della liberazione da parte dei sovietici e provano a raccontarne l’orrore a tutti coloro che s’intrattengono sull’argomento.
Bornholm fu liberata dai Russi ma non fece mai parte dei Paesi che varcarono la ‘cortina di ferro’ amministrata dalla Unione Sovietica.
Renato, sembra addirittura incredibile che il tuo rimorchiatore PLÖN sia sopravvissuto ai massicci bombardamenti anglo-americani piovuti dal cielo proprio nell’area di massimo interesse per l’evoluzione strategica (missilistica ed atomica) che si stava sviluppando in quel momento.
- Ogni nave, come ogni persona, ha il proprio destino. Non conosco le ragioni ultraterrene che determinano questi meccanismi. Nessuno le conosce! Tuttavia ognuno di noi può farsene una ragione. Personalmente ritengo che il mio PLÖN, possa degnamente rappresentare, come essere vivente e ancora navigante, a 76 anni dal suo varo, la memoria di quei 55.000.000 che morirono per un ideale nella Seconda guerra mondiale. Il PLÖN é un Mausoleo Navigante che merita di essere conosciuto e rispettato come un anziano guerriero che da tempo ha abbassato le armi nel nome della pace e della convivenza pacifica.-
Renato, ti ringrazio insieme alla tua famiglia per l’accoglienza, per l’umanità del tuo pensiero e per averci fatto vivere un pezzo di storia del tuo PLÖN che non conoscevo.
Concludo questa piacevole conversazione presentando il menù con il quale Renato e Zoila ci hanno deliziato.
- Frittelle di muscoli
- Insalata di polpi e patate
- Insalata di acciughe, peperoni, sedano e pomodori
- Gamberoni alla piastra
- Linguine con sugo di muscoli
- Muscoli
- Vino bianco locale
- Caffé
- Liquore di Santo Domingo MAMA UANA (miscela di Rum, vino rosso, miele)
Ringrazio il Comandante Renato Rozzi e la sua famiglia per l’ospitalità a noi riservata a bordo del “mausoleo navigante” e per le sue sorprendenti scelte esistenziali che ci avvicinano, ancor più, a quello spirito marinaro che ormai alberga soltanto in pochi rari esemplari…
Ringrazio caldamente gli amici della Tavola Fratelli della Costa: il suo Luogotenente Rolando Spezia, Luciano Brighenti membro nazionale Commissione degli esperti, Marcello Bedogni dal 2007 al 2013 Gran Commodoro della Fratellanza, il caro amico Renzo Bagnasco che insieme ad altri Fratelli mi hanno “rimorchiato” sul “leggendario PLÖN”.
ALBUM FOTOGRAFICO
Sala Nautica
Ruota del timone
Salpancore
Renato, l’armatore-comandante tuttofare é in piedi a destra
Crest del PLÖN
Carlo GATTI
Rapallo, 17 settembre 2013
PITTORI DI MARINA-"CHARLES PEARS“-La nave da battaglia HMS Howe
PITTORI DI MARINA
Eco del Golfo Tigullio
LA QUADRERIA DEL MARE
CHARLES PEARS
“La nave da battaglia HMS Howe nel Canale di Suez, 1944”
Charles Pears (1873-1958) è una figura emblematica nel campo della pittura di marina d’oltremanica a cavallo tra Ottocento e Novecento, avendo incarnato molte “anime” di questo particolare settore artistico in Gran Bretagna e risultando un attento testimone degli sviluppi tecnici, storici, marinareschi ed emozionali tanto nel settore della marina militare quanto in quello della marina mercantile.
Un poster di Charles Pears realizzato nei primi anni Trenta: intitolato “Gibraltar”, propagandava per l’Empire Marketing Board le linee delle Compagnie di navigazione britanniche per il trasporto passeggeri attive all’epoca.
Nativo dello Yorkshire, già nel 1890 era attivo come illustratore navale per la stampa periodica e, dopo il suo trasferimento a Londra nel 1904, differenziò le sue tecniche pittoriche e grafiche dagli acquerelli, agli olii e alle incisioni e fu autore, nel contempo, di alcuni testi di tecnica marinaresca e di navigazione da diporto. Ufficiale dei Royal Marines durante la Grande Guerra, entrò a far parte della Royal Society of Marine Artists e fu ufficialmente inserito nel novero dei “War Artists” britannici, operando in questo ruolo già tra il 1914 e il 1918 come pure all’epoca del secondo conflitto mondiale.
Al di là della già ricordata differenziazione delle tecniche utilizzate e della specializzazione nell’ambito della pittura di marina più strettamente intesa, l’opera di Charles Pears fu anche rivolta alla realizzazione di manifesti pubblicitari per compagnie di navigazione e ferroviarie. In particolare, tra il 1926 e il 1933 collaborò con l’Empire Marketing Board, un ente governativo che, in quegli anni, era preposto alla promozione turistica e commerciale di compagnie di navigazione e di altri soggetti economici del Regno Unito e dell’Impero. A questo periodo va anche fatta risalire una sua vasta produzione di advertisement per importanti società (P & O, White Star, Cunard) del trasporto passeggeri, attività che proseguì anche nel secondo dopoguerra.
Verso la fine della sua carriera Pears si ritirò in Cornovaglia, ma sino a dopo la metà degli anni Cinquanta continuò a dare vita ad una vasta produzione avente per soggetto ciò che maggiormente lo appassionava, ossia le navi militari e mercantili e l’ambiente marinaresco più largamente inteso, con tutte le sue opere sempre contraddistinte da una particolare ma efficace rappresentazione del mare nei suoi vari stati, delle onde e dell’ambiente oceanico.
L’olio su tela che qui presentiamo, oggi conservato al National Maritime Museum di Greenwich, è contraddistinto dalla firma “Chas Pears”, un’abbreviazione del nome proprio presente in moltissime opere di questo autore; l’opera raffigura la nave da battaglia HMS Howe, mimetizzata, nel 1944 (e fu verosimilmente realizzata in quell’anno) durante il passaggio del Canale di Suez. È possibile datare l’evento con una certa precisione, in quanto l’unità operò sempre nell’Atlantico e nel Mediterraneo sino a quando, tra il gennaio e l’aprile del 1944, fu sottoposta ad un ciclo di lavori di raddobbo nell’arsenale di Devonport al cui termine raggiunse Scapa Flow. L’Howe lasciò questa base nelle Isole Orcadi il 1° luglio 1944 diretta a Ceylon, con l’attraversamento del Mediterraneo, ed è quindi verosimile che il suo transito nel canale di Suez verso il Mar Rosso sia avvenuto tra il 10 e il 15 di quel mese.
Un’incisione di Charles Pears risalente al 1917 e raffigurante una nave trasporto truppe in Atlantico (National Gallery of Victoria, Melbourne)
La nave da battaglia Howe faceva parte della classe “King George V”, cinque unità (King George V, Anson, Duke of York, Prince of Wales e, per l’appunto, Howe) entrate in servizio tra il 1940 e il 1942; con un dislocamento a pieno carico superiore alle 45.000 tonnellate, erano armate con dieci cannoni da 356/45 su due torri quadruple e una binata. Il Prince of Wales, veterano dello scontro con la corazzata Bismarck durante il quale l’unità tedesca affondò l’incrociatore da battaglia Hood, andò a sua volta perduto (insieme all’incrociatore da battaglia Repulse) a dicembre 1941 nello stretto di Malacca, pochi giorni dopo l’inizio delle operazioni militari giapponesi che avrebbero portato alla caduta di Singapore. Le altre quattro unità furono attive nei più importanti settori operativi nel corso della seconda guerra mondiale e vennero tutte radiate nel 1957, quando ormai la nave da battaglia era stata soppiantata dalla portaerei nel ruolo di capital ship delle moderne flotte militari.
Una rara immagine, da una diapositiva a colori originale di fonte statunitense, raffigurante la nave da battaglia HMS King George V nel 1941
Maurizio BRESCIA
Direttore del mensile
Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco
Rapallo, 17 Gennaio 2019
PITTORI DI MARINA-EX VOTO A RAPALLO E NEL MEDITERRANEO
PITTORI DI MARINA
Eco del golfo Tigullio
LA QUADRERIA DEL MARE
"EX-VOTO A RAPALLO E NEL
MEDITERRANEO"
In concomitanza con le celebrazioni in onore di N.S. di Montallegro, in programma all’inizio del prossimo mese di luglio, oggi l’attenzione di questa nostra rubrica non può non essere rivolta ai numerosi “ex-voto”, soprattutto di ambito marittimo e navale, conservati all’interno del celebre Santuario che sovrasta Rapallo.
Quella dell’”ex-voto” è una tradizione che affonda le sue radici nell’antichità. In ambito archeologico sono noti e documentati numerosi elementi riconducibili a questa categoria: già nell’era fenicio-punica, e poi in quelle ellenico-classica e romana non mancano esempi di statuette e monili offerti - anche allora “per grazia ricevuta” - ad una certa qual divinità, tradizione poi proseguita e accresciuta con l’avvento della cristianità dall’epoca medievale sino ai giorni nostri.
Il Santuario di Montallegro e la sua ricchissima galleria di “ex-voto” marinari rappresentano quindi il punto di partenza di un percorso che parte dal Tigullio e dal Golfo Ligure per poi “espandersi” non soltanto nel Mediterraneo ma anche negli Oceani e nei mari più esotici e lontani.
La costruzione del Santuario di Montallegro trae origine da motivazioni non soltanto devozionali che - all’epoca della Controriforma - portarono alla realizzazione di numerosi luoghi di culto, soprattutto nell’Europa meridionale e mediterranea. Tuttavia, questo particolare Santuario acquisì sin da subito una particolarissima e ulteriore valenza che ne fece l’ideale punto di riferimento morale e spirituale per tanti marinai di Rapallo impegnati sui mari del globo: prima sui “barchi” a vela, poi sui “vapori” ed oggi su unità moderne e tecnologicamente avanzate.
Da questa religiosità popolare e allo stesso tempo artistica è nata la grande quadreria di “ex-voto” marinari, che - a partire dai secoli passati - è stata arricchita nel tempo da opere che, tutte, accomunano il ringraziamento e l’affetto che tanti rapallesi hanno voluto testimoniare alla Madonna di Montallegro. Ciò ha portato alla creazione di autentiche opere d’arte che venivano commissionate ai più quotati pittori di marina in attività, soprattutto in ambito ottocentesco.
Angelo Arpe, Domenico Gavarrone e Antonio Luzzo, beneficiano oggi di una fama a livello nazionale e internazionale: del tutto meritata poiché le loro opere (comprese quelle esposte al Santuario di N.S. di Montallegro) si confrontano - in parecchi casi su un piano vincente - con quelle di accreditate scuole pittoriche, come il “circolo” francese della famiglia Roux (già approfondito in questa rubrica su “Il mare” dello scorso mese di marzo) ed anche con non pochi quadri a soggetto navale di noti artisti britannici dell’Ottocento e del primo Novecento.
Tuttavia, l’appassionato di cose di mare (come pure il semplice visitatore della quadreria di Montallegro) non potranno non rilevare come - tra i numerosi “ex-voto” del Santuario - ve ne siano alcuni che, ancorché diversi da quelli più “classici” per tipologia, stile pittorico e caratteristiche morfologiche, riconducono a importanti eventi della storia navale del nostro paese, dai primi anni dell’Unità d’Italia sino alla seconda guerra mondiale.
Infine, a Montallegro sono custoditi alcuni ex voto che si discostano dall’iconografia più “tradizionale” di questo settore (anche perché realizzati su base fotografica anziché pittorica) ma che, proprio perché riferiti a particolari e significativi eventi della storia navale del nostro paese, ci permettono non soltanto di rivisitare importanti vicende, affondamenti e battaglie in cui si trovarono coinvolte famose navi della Regia Marina, ma di evidenziare - una volta di più - la devozione e la riconoscenza di tanti rapallesi che su di esse furono imbarcati.
Altri “ex-voto” di non secondaria importanza sono costituiti da modelli di navi di ogni foggia e dimensione e dalle più disparate caratteristiche qualitative: molti santuari liguri conservano, spesso appesi al soffitto di navate e cappelle, modelli di galere e velieri di grandi dimensioni e di ottima fattura che - in aggiunta alla tradizionale valenza religiosa - sono anche importanti elementi documentali sulle tecniche costruttive, le alberature, le attrezzature e i dettagli di navi del passato.
Queste forme alternative di “ex-voto” sono diffuse non soltanto in Italia ma anche in tutte le nazioni rivierasche cristiane della costa settentrionale del Mediterraneo, dalla Spagna alla Grecia passando per l’Italia, la costa orientale dell’Adriatico e l’Isola di Malta: testimonianze non certo mute, anzi, ricche di significati religiosi, e talvolta personali ed addirittura allegorici, ma sempre denominatore comune di un “sentire” intimo e mai venuto a mancare che accomuna la gente di mare di ogni tempo e paese.
ALBUM FOTOGRAFICO
1
Al Santuario di Montallegro a Rapallo è conservato questo ex-voto di Domenico Gavarrone risalente al 1849, donato all’istituzione religiosa “per grazia ricevuta” dal capitano Filippo Campodonico, raffigurante il brigantno Granduca Leopoldo che scampa al naufragio.
2
Santuario N.S. di Montallegro (Rapallo),
Battaglia di Lissa, 20 luglio 1866.
Piccolo acquerello su carta di donatore ignoto - probabilmente ricavato da una litografia contemporanea dell’evento - in cui il primo, sfortunato, scontro tra la Marina italiana e l’Imperial Regia Marina austro-ungarica è raffigurato secondo il gusto delle stampe popolari dell’epoca. Interessante la presenza, in basso a sinistra, dell’ “ariete corazzato” Affondatore, nave di bandiera dell’ammiraglio Persano durante la battaglia navale.
3
Santuario N.S. del Boschetto, Camogli-Genova
Un “ex-voto” particolare, dovuto all’abile mano dello ship painter genovese Giuseppe Roberto, attivo nel capoluogo ligure nei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento. Questo quadro del piroscafo Antonio al traverso del promontorio di Portofino nacque - verosimilmente - come uno ship portrait tradizionale e la rappresentazione religiosa venne inserita in alto a sinistra solo in un secondo tempo, come ringraziamento “cumulativo” per dodici anni di servizio prestati a bordo della nave dal capitano P. Massa.
4
Santuario N.S. di Montallegro (Rapallo)
Affondamento del R. Ct. Antoniotto Usodimare, 8 giugno 1942
Questo disegno a china con fotografia, di donatore ignoto, ci riconduce ad un particolare, tragico, episodio della guerra navale nel Mediterraneo del giugno 1942, quando il cacciatorpediniere Antoniotto Usodimare fu silurato e affondato per errore dal sommergibile Alagi, anch’esso italiano. Tra i sopravvissuti all’affondamento vi fu uno sconosciuto marinaio di Rapallo che volle testimoniare la sua riconoscenza con queste semplici parole: “Quando - – quando torno, sempre guardo al tuo monte con grande amore, o Madre Celeste”.
5
Santuario N.S. della Misericordia (Savona)
Modello di nave a palo (ossia con tre alberi a vele quadre ed uno più a poppa, con vele auriche) appeso nel cielo della navata sinistra del più importate santuario savonese, anch’esso ricco di “ex-voto” marinari.
6
Un antico “ex-voto” francese (1741)
Conservato a La Rochelle, sulla costa dell’Atlantico, quindi in un ambiente etno-geografico che si discosta da quello tradizionale del Mar Mediterraneo. L’opera è di autore ignoto e, abbastanza curiosamente, in luogo della tradizionale icona della Madonna compare quella del Cristo. Con ogni probabilità, l’”ex-voto” è riferito ad un incidente occorso durante la manovra di una delle vele, dato che gli sguardi degli uomini dell’equipaggio sono rivolti verso l’alto.
7
Nella chiesa parrocchiale di Zabbar (Isola di Malta) è conservato questo “ex-voto” tardo-seicentesco, commissionato ad un pittore locale dall’equipaggio di un vascello dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, attaccato da imbarcazioni ottomane e dal fuoco di postazioni di artiglieria costiera durante un raid sulle coste di un’isola dell’Egeo in mano ottomana.
8
Santuario di Maria SS. della Libera (Rodi Garganico, Foggia)
Anche l’Italia meridionale è ricca di “ex-voto” nei numerosi santuari che popolano le coste tirreniche, ioniche, adriatiche e siciliane. Nel Santuario di Maria SS. della Libera è esposto questo “ex-voto” relativo allo scampato naufragio (27 gennaio 18590) dell’equipaggio di un piccolo “due alberi” da cabotaggio costiero, dalle linee prodiere e poppiere tipiche delle imbarcazioni da carico adriatiche.
9
Santuario di Maria SS. della Libera (Rodi Garganico, Foggia)
Ancora un “x-voto”, di gusto e realizzazione sicuramente “popolari”, per un altro scampato naufragio occorso il 17 febbraio 1875.
Maurizio BRESCIA
Direttore del mensile
Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco
Rapallo, 30 Gennaio 2019
PITTORI DI MARINA - LA DINASTIA MARSIGLIESE DEI ROUX
PITTORI DI MARINA
Eco del golfo Tigullio
LA QUADRERIA DEL MARE
La “dinastia” marsigliese dei
ROUX
La famiglia francese, a partire dalla metà del secolo XVIII, si specializzò nella realizzazione di testi e tavole a soggetto idrografico e cartografico soprattutto grazie all’attività del capostipite Joseph Roux, fornitore della Marina francese e della Royal Navy britannica.
Ange-Joseph Antoine Roux (1725-1793) – La fregata britannica Camilla, Norfolk, Mariners’ Museum.
Nell’ambito artistico della pittura, e di quella di marina in particolare, non si riscontrano molti casi di “dinastie” famigliari ove più artisti si tramandano - di padre in figlio - i segreti di un’arte e, soprattutto, la passione per soggetti peculiari e comunque “difficili” quali sono, per l’appunto, le opere pittoriche riferite alle navi, alla loro storia e alle loro caratteristiche tecniche.
Un’eccezione è costituita dai pittori olandesi Willem van de Velde padre e figlio che, per tutto il Seicento, seppero imprimere alla pittura di marina (fiamminga prima e britannica poi) una nuova vitalità che influenzò questo specifico settore artistico per tutto il secolo successivo.
L’esempio “dinastico” quantitativamente (ma in non pochi casi anche qualitativamente) più rilevante è costituito dalla famiglia marsigliese Roux che, dalla metà del Settecento sin verso la fine dell’Ottocento, costituì non soltanto una scuola pittorica di rilevanza europea ma che - grazie ad alcuni dei suoi più importanti esponenti - seppe anche indicare alla pittura di marina una nuova via verso la modernità e nuove forme didascaliche e artistiche.
La famiglia Roux di Marsiglia, a partire dalla metà del secolo XVIII, si specializzò nella realizzazione di testi e tavole a soggetto idrografico e cartografico soprattutto grazie all’attività del capostipite Joseph Roux (1725-1793), fornitore tanto della Marina francese quanto della Royal Navy britannica. Il figlio Ange-Joseph Antoine (1765-1823) si dedicò invece alla pittura di marina dando vita al nuovo genere dello ship portrait, ossia la raffigurazione dettagliata e precisa di una nave a vela, spesso richiesta dal comandante o dall’armatore in un’epoca in cui la fotografia non aveva fatto ancora la sua comparsa nell’ambito mediatico e documentale nell’importante ruolo che oggi tutti le riconoscono.
Mathieu (detto Antoine) Roux (1799-1872) - Il brigantino a palo italiano Mortola (circa 1865), Norfolk, Mariners’ Museum.
Mathieu (detto Antoine) Roux (1799-1872) - Il brigantino francese Dauphin (1825), Norfolk, Mariners’ Museum.
Il figlio di Ange-Joseph Antoine (Mathieu, 1799-1872, che spesso firmava le sue opere “Antoine Roux” creando talvolta anche ai giorni nostri, taluni problemi nell’attribuzione della “paternità” di alcune specifiche tele), indirizzo anch’egli la sua attività artistica verso gli ship portraits. Parimenti, il fratello François Joseph Frédéric (1805-1870) già da adolescente si era evidenziato per il suo talento nel campo della pittura di marina, aprendo nel 1835 uno studio nella citta portuale di Le Havre dove diede vita a un fiorente commercio di opere a stampa a soggetto idrografico e di quadri di marina tanto di ambito militare quanto mercantile.
Un altro figlio di Ange-Joseph Antoine (François Geoffroi, 1811-1882) seppe infine infondere nuova linfa all’arte dello ship portrait realizzando non soltanto viste laterali dei soggetti ritratti (quale in effetti è la principale caratteristica di questo specifico genere), ma anche vedute prospettiche di navi a vela che si evidenziano per l’ottima resa artistica e, nel contempo per i dettagli - precisi e realistici - della velatura, delle manovre fisse e correnti, dello scafo e di numerosi altri elementi dell’allestimento. Non a caso, di François Geoffroi Roux fu detto che era “… un profondo conoscitore delle navi a vela del suo tempo, tanto dal punto di vista progettuale e costruttivo quanto da quello di un esperto marinaio”.
François Geoffroi Roux (1811-1882) - il brigantino a palo francese Parnasse (1841), Salem, Peabody Museum. Un nuovo modo di intendere lo ship portrait, con una vista prospettica e dinamica dell’unità raffigurata.
Non ultimo, va ricordato che l’arte dello ship portrait (sviluppata dai principali membri della famiglia Roux, suoi più autentici precursori) influenzò in misura considerevole due importanti pittori italiani particolarmente dediti all’attenta e precisa raffigurazione artistica di navi a vela ed anche ”vapori”, attivi attorno alla seconda metà dell’Ottocento: Domenico Gavarrone e Angelo Arpe dei quali non mancheremo, in qualche prossima puntata di questa serie, di descrivere alcune delle opere più note e artisticamente rilevanti.
Maurizio BRESCIA
Direttore del Mensile
Rivista fondata nel 1992 da Erminio Bagnasco
Rapallo, 10 gennaio 2019
SAN FRUTTUOSO DI CAMOGLI: terra di eroine
SAN FRUTTUOSO DI CAMOGLI: terra d’eroine
Almeno una volta, ogni inverno, amo tornare a S. Fruttuoso di Camogli; lo faccio ormai da tanti anni.
Scelgo, per evitare il domenicale frastuono, una luminosa mattinata di giorno feriale; frequentemente, in quella stagione, il sole, pur alto, non riesce a scaldare l’aria resa tersa dalla tramontana. M’imbarco a Camogli assieme alle derrate e alla posta per San Fruttuoso, spesse volte unico passeggero e, ogni qualvolta il battello, doppiata Punta Torretta, mi rivela quel paesaggio, m’emoziono come fossi un turista che, per la prima volta, lo scopre.
Non posso fare a meno di pensare a cosa ha scritto, di questo posto, il poeta genovese Nicolò Bacigalupo:
Comme un datao de mâ ti pai serroù
Nell’enorme muagion de Portofin
Che zu a picco o pâ stato scopellòu
Dai Ciclopi in scë un mâ sempre turchin.
Libera traduzione: Come un dattero di mare sembri chiuso nell’enorme muraglione di Portofino che giù a picco sembra scalpellato dai Ciclopi su di un mare sempre turchino.
Imbottito come un baleniere mi piace sostare, allungandomi sulla sassosa, piccola spiaggia che separa gli archi dell’antica Abbazia dal mare; supino, su quel morbido pendio, avverto pienamente di appartenere a questa terra, lambito dal mare e immerso nei pini come sono. Alle spalle mi protegge la solida costruzione in pietra mentre, dalle finestrelle del “Giovanni”, già trapela la fragranza della cucina che sta preparando il pesce, che a mezzogiorno gusterò.
Ecco, so già che quest'immersione nella ligusticità mi appagherà poi per mesi e mesi; l’annuale ritorno in quest’utero verde, perché questo ho scoperto essere per me questa baia, m’infonde pace e serenità.
Tutt’attorno, un luminoso silenzio; non c’è anima viva. Hanno già ripulito dagli affronti abbandonati durante l’invasione dell’ultima domenica, così da levare ogni traccia di questa settimanale profanazione.
In direzione dell’orizzonte, dopo l’insenatura del Cristo, scorgo ogni tanto riaffiorare neri luccichii; sono i sub che silenziosamente si esercitano e, dolcemente, la mente si apre alla fantasia.
Questa zona, oggi Parco del Promontorio di Portofino, così come la vicina Cala dell’Oro e l’altra, quella della Chiappa, si vuole che ai primordi fosse popolata da mostri antropofagi; a me invece piace pensarli quando, in epoca successiva, erano luoghi di caccia con il falco da parte d’insigni cavalieri, rampolli delle famiglie patrizie locali, accompagnati da orgogliose dame.
Nel 1104 i Consoli del Comune di Genova stabilirono che i rapaci, colà magistralmente addestrati, appartenessero all’Abate reggente quel Monastero e non potessero essere diversamente utilizzati, se non per l’uso per il quale erano stati ammaestrati.
La mitologia, spesso frammista a qualche verità storica, ci ha lasciato detto che Ercole, figlio di Giove e di Alcinea, quando tornò dalla Spagna, una volta trionfalmente attraversata la Francia, fondò Montecarlo ma, quando arrivò qui, venne fermato dai Liguri; dopo di lui, negli anni, vi giunsero i Fenici e poi gli Etruschi, i Greci, i Cartaginesi e gli onnipresenti Romani.
Il primitivo monastero sorse, per opera di Prospero, vescovo di Taragona, nel 711, ma fu poi distrutto dai saraceni.
Carlo Magno, prima, (801) e Papa Leone III dopo (812), edificarono in zona una “statio” per segnalare, con fumi di giorno o fuochi di notte, alle altre due stazioni, quella di levante posta su Capo Manara e quella di ponente, sistemata sul Capo di Faro, lo stesso sul quale in seguito edificheranno la Lanterna di Genova, eventuali avvistamenti di predatori.
Proprio al traverso di San Fruttuoso, in mare aperto, nel 1431 si combattè una battaglia fra la flotta veneta e quella genovese, secondo l’uso dell’epoca di affrontare a viso aperto il concorrente commerciale e non, come oggi, a colpi di dossier occulti.
Pietro Loredano, il comandante veneziano, impose ai genovesi una tale cocente sconfitta da lasciare, nei perdenti, un doloroso duraturo ricordo; l’unica consolazione, per lenirne le ferite, fu che lo stesso vincitore riconobbe l’eroismo dei vinti, tanto che Francesco Spinola d'Ottobone, nell’occasione duce dei genovesi ma caduto anch’esso prigioniero dei veneziani, fu, alla fine, affrancato senza che gli fosse imposta l’onta di toglierli la spada e i suoi marinai furono sciolti dalle catene alle quali erano già stati vincolati, e tutto senza chiedere il pagamento d'alcun riscatto. Quest’ultimo gesto, se ben conosco i miei conterranei, fu certamente il più apprezzato.
Nel 1550 Papa Giulio III, con proprio “breve”, cocesse in <jus patronato > l’Abbazia di Capodimonte, questo era il vecchio toponimo del luogo, al Principe Andrea Doria, che la scelse come sacrario delle tombe della propria famiglia.
Questa preziosa scheggia di Liguria diede alla marineria uomini e soprattutto donne coraggiose e intrepide; per tutte valga l’episodio, che costì è ricordato con una lapide e con un ingrandimento di una litografia, appesa davanti al banco del bar attraverso il quale si deve passare, perché è contemporaneamente mescita ma anche strada pubblica, se si vuol raggiungere la Chiesa oggi restaurata e l’attuale Museo, entrambi gestiti dal Fondo Italiano per l’Ambiente.
E’ l’alba del 24 Aprile 1855. La pirofregata inglese <Croesus>, nave a propulsione a vapore, al comando del Signor Hall, salpa dal porto di Genova per portare in Crimea, dove si sta combattendo, 400 uomini freschi dell’Armata Sarda e 25 muli completamente equipaggiati, nonché le relative vettovaglie ed attrezzature; al traino, secondo la moda del tempo, ha la nave appoggio <Pedestrian >, carica di munizioni e ulteriori provviste a sostegno di chi, laggiù, combatte. Dopo due ore di navigazione il piccolo convoglio si trova proprio al traverso del promontorio di Portofino; in quello stesso istante si sente il lancinante segnale di <fuoco a bordo >. Il Comandante, resosi conto che è proprio la sala macchine a bruciare e, giudicando ormai impossibile spegnerla, ordina di tagliare immediatamente il cavo del traino per evitare che le munizioni al seguito possano scoppiare e, mentre dà ordine di approntare le scialuppe, cerca di individuare un arenile sul quale potervi indirizzare la prua così che, spiaggiando la nave anche se in fiamme, ne avrebbe potuto evitare l’affondamento.
Chi conosce la zona sa che non ce né e, le uniche due eventualmente adatte allo scopo, seppur nascoste alla vista perché al fondo di cale strettissime e schermate dai capi, sono quella dell’Oro, ormai lasciata a poppa del battello e, lì vicino, quella di San Fruttuoso. Per fortuna il comandante Hall vede spuntare, dietro Punta Torretta, la grigia cupola a spicchi dell’Abbazia e, facendo d’ogni necessità virtù, ordina di mettere al massimo le caldaie e, urlando nel megafono, <avanti tutta >, avventa la nave in quella direzione a lui sconosciuta ma che ritiene, viste le costruzioni, possa essere abitata e quindi dotata di un qualche approdo; non c’era altra scelta.
L’improvvisa messa in pressione delle caldaie, se dà un forte abbrivio alla pirofregata, mai nome raggruppò in sé due infausti segnali così apertamente premonitori, di contro n’accelera la paventata fine; uno scoppio, la cui ridondante eco rimbalza risalendo lugubre fra i valloni e i dirupi del Promontorio, sconquassa la nave. La ciminiera scoppia ripiovendo in mille frammenti incandescenti; la coperta, con le parti di legno ormai in fiamme, si squarcia aprendosi come una rossa gola di drago fiammeggiante e tutto il cielo si riempie di particelle incandescenti impazzite che, frammiste all’acre e irrespirabile fumo d'olio e pittura che bruciano, paiono lapilli di un’eruzione.
E’ facile immaginare cosa successe a bordo dove, pochi marinai di mestiere, avrebbero dovuto infondere calma ed ordine ad una quantità di giovani fanti, equipaggiati ancora con le pesanti divise di panno invernale che, non essendo marittimi, in un primo tempo si saranno sicuramente paralizzati dalla paura trasformatasi poi in panico all’udire il grido <al fuoco, al fuoco >.
Non c’è nulla di peggio, in un’emergenza in mare, che il farsi prendere dal panico; purtroppo invece è ciò che quasi sempre succede, causa prima delle tragedie che leggiamo sui quotidiani. Le urla di terrore e d’implorazione, frammiste a quelle dei primi ustionati e dei feriti, si sovrapposero agli ordini di servizio, alimentando il caos. La vista della vicina costa e il mare non agitato, anziché rincuorare i sopravvissuti, suscitò l’ingannevole stimolo a tentare di raggiungerla a tutti i costi; iniziano ad accalcarsi, schiacciandosi gli uni sugli altri, premuti anche da quelli più dietro che, ancora su per le scalette d’uscita dai boccaporti, non vogliono restare ultimi ad abbandonare la nave. S’ignorano e si calpestano pure i feriti e gli ustionati; tutto avviene sotto una pioggia di fuoco e in ambiente reso invivibile dalle strutture ormai surriscaldate e con le zone di calpestio, incandescenti.
Allertati da questa scena apocalittica, i pochi abitanti presenti in San Fruttuoso, gli uomini validi erano ancora a pesca, si attivano alla meglio; come capita spesso, sono le donne le prime ad intuire d’istinto il da farsi, così come s’allarmano le leonesse se ai loro piccoli si avvicina un qualche vecchio leone.
Le uniche due donne valide, le sorelle Maria e Caterina Avegno, la prima intenta ad allattare l’ultimo nato e l’altra a confezionare il <frugale pasto >, si precipitano alla spiaggetta, capiscono subito la situazione e varano la loro barchetta per raggiungere quell’inferno. Da esperte rematrici, così come la dura vita del borgo imponeva, corrono a portare soccorso.
Mentre armeggiava, Maria avrà certamente pensato a suo figlio Paolo, appena scampato ad un naufragio in terra di Spagna, e da quel ricordo avrà trovato nuova motivazione leonina mentre, davanti a loro, imponente e dominante appare l’alta prua squarciata e in fiamme della fregata, quasi sanguinolenta fauce d’orca fiocinata a morte sulla spiaggia. Tutte le braccia di quegli sventurati, troppo giovani per morire così ingloriosamente, si tendono verso la fragile barchetta governata dalle due ardimentose; molti ne salvano ma, più il tempo passa e più il panico strizza il cervello a quelli che ancora attendono soccorso. Non appena vedono alla loro portata quel fuscello, ritenendolo l’unica salvezza, tutti assieme irresponsabilmente, vi si aggrappano, appesantiti pure dalle spesse divise ormai pregne d’acqua, lottando e sgomitandosi sino a far capovolgere violentemente quel guscio.
Caterina, più fortunata, è notata da un bravo marinaio che, sapendo nuotare, la trae in salvo ma di Maria e del suo corpo trascinato sul fondo da quegli esagitati, non se ne saprà più nulla, almeno per quel giorno. Particolare toccante: tutta la rapida sequenza è seguita dal marito Giovanni Oneto che, sebbene avanti negli anni, anch’egli con un’altra barca, si sta prodigando. Soltanto la mattina del 29 Aprile, cinque giorni dopo, il mare, fedele al suo mesto ed immutabile rituale, restituirà il corpo della sfortunata che, inizialmente, pareva voler trattenere tutto per se. Il bilancio della tragedia si chiuse con 24 marinai morti.
San Fruttuoso (Camogli). Abbazia. Tomba di Maria Avegno e Militi Italici Ignoti
Le sarà accordato l’onore, per concessione dei Principi Doria, di essere tumulata fra loro nell’Abbazia, così come un’apposita lapide, oggi traslata nell’atrio del Museo Marinaro di Camogli, ricorda e, vicino le sarà posto uno dei pochi pezzi recuperati dal rogo. Il Comandante Hall, come vuole un’antica tradizione marinara, scenderà per ultimo dai resti di quello che sino a poco prima era stato il suo vascello; finalmente, solo quando sopraggiunge la notte, tutti i sopravvissuti sono in salvo.
Passeranno però altre notti con la baia sempre sinistramente arrossata dai tizzoni che ancora ardono qua e là, sulle ultime parti vive dello scafo; questo lento consumarsi, sembra voler perdurare per rischiarare il più a lungo possibile il mare, così da facilitare l’improbabile “ritorno” di Maria.
La Regina Vittoria conferì alla memoria di Maria la Victoria Cross, la più alta onorificenza militare britannica. Il Console inglese Brown consegnò 10 sterline alla superstite Caterina e 50 sterline alla famiglia di Maria Avegno.
Dobbiamo riportare, per completezza di cronaca che, alla famiglia dell’eroina, il Governo di Sua Maestà Britannica elargì una bella somma cui si aggiunse una pensione annuale, assegnatale dal Ministero dell’Interno Italiano mentre, Sua Maestà il Re conferiva, ad entrambe le sorelle, la medaglia d’oro; anche la Francia, alleata, fece pervenire al vedovo un discreto aiuto.
Oggi, di quel gesto, resta la testimonianza ufficiale anche a Genova, nell’atrio del Palazzo Comunale, immortalato in una lapide e pure il Comune di Camogli, competente per territorio, ha apposto l’epitaffio cui si è accennato, concedendo pure alle due eroine un <Distintivo d’onore in oro >.
Sono ancora coricato sulla spiaggia a guardare quel mare calmo e lucido, e m'é difficile immaginare una così violenta tragedia in un luogo che, invece, sembra creato apposta per fantasticare dolci sogni, avvolti come si è, nell’armonia dei suoi colori contrastanti.
Quel tragico rogo purpureo ritorna inconsciamente nella tavolozza d’Ubaldo Merello, il pittore che più di tutti ha intriso d’amore le sue vedute degli scorci di questi luoghi “reconditi e di divina bellezza”
Per dire delle mie sensazioni, basta la poesia d’Adriano Sansa, genovese per scelta, là dove nella sua <Un mattino di sole a Dicembre > scrive:
…Se quando sarà sera sentiremo
la voce che ci chiede spiegazione
di questa breve sosta consumata
contemplandoci vivi,non sapremo
dire se non che il sole qualche volta
martella duramente, ma quest’oggi
è stato dolce senza una ragione.
Renzo BAGNASCO
Rapallo 14 giugno 2016
PITTORI DI MARINA - JOHN EVERETT-"CONVOGLIO IN ATLANTICO,1918"
PITTORI DI MARINA
Eco del golfo Tigullio
LA QUADRERIA DE “IL MARE”
JOHN EVERETT
“Convoglio in Atlantico, 1918”
Nell’ambito della pittura di marina, l’artista britannico John Everett (1876-1949, familiarmente noto anche come Herbert John Everett) è considerato, forse a torto, una figura “minore”. Tuttavia, molti suoi quadri sono direttamente collegati a questo genere artistico e, recentemente, nel 2017 un inventario del Ministero della Cultura inglese ha anzi appurato che nei musei e nelle gallerie d’arte d’oltremanica le opere da lui realizzate sono numericamente superiori a quelle di qualsiasi altro artista, con una particolare prevalenza - per l’appunto - di quadri a soggetto marittimo e navale.
Nato a Dorchester, nel 1896 Everett si trasferì a Londra dopo la morte del padre, frequentando la “Slade School of Fine Art”; ben presto i suoi quadri a olio e ad acquerello iniziarono ad essere apprezzati e, insieme ad una visione moderna e innovativa del paesaggismo (influenzata dalle ultime correnti impressionistiche), Everett si accostò a correnti vicine alle avanguardie culturali e artistiche che permeavano gli anni a cavallo tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del secolo XX. Di questa sua rinnovata vena artistica sono testimoni molte opere realizzate nel corso del primo conflitto mondiale, in buona parte raffiguranti navi inglesi e statunitensi mimetizzate con le prime tecniche di camouflage realizzate nel corso della Grande Guerra
Lo sviluppo delle prime mimetizzazioni navali è dovuto ad un altro pittore di marina britannico, Norman Wilkinson (1878-1971, la cui attività non mancheremo di approfondire in una delle prossime puntate), che, tra il 1916 e il 1918 collaborò con l’Ammiragliato della Royal Navy al fine di sviluppare una serie di schemi mimetici aventi la funzione di contribuire a rendere meno riconoscibili e individuabili unità militari o mercantili in navigazione. Nella fattispecie, Wilkinson realizzò un gran numero di schemi detti alterativi che - con l’uso di pannelli, bande e poligoni di vari colori - tendevano a “spezzare” le linee costruttive e la silhouette stessa di una nave, rendendone difficile l’apprezzamento delle dimensioni e degli elementi del moto soprattutto nei confronti degli operatori delle centrali di tiro telemetriche delle unità nemiche.
Everett, pur non partecipando direttamente a questi studi, contribuì a pubblicizzare e rendere noti i primi camouflage navali anche da un punto di vista propagandistico, realizzando durante la guerra numerosi quadri che presentano non comuni caratteristiche di “modernità” nei tratti e nella concezione, potendo essere verosimilmente avvicinati alle correnti pittoriche dadaiste e futuriste che permeavano la vita culturale dell’Europa nei primi due decenni di inizio secolo.
Un altro olio su tela di John Everett risalente al 1918, raffigurante unità militari e mercantili in navigazione sul Tamigi con, sullo sfondo a sinistra il “Royal Naval Hospital” di Greenwich (g.c. National Maritime Museum, Greenwich)
Ne è la prova l’olio su tela che qui presentiamo (conservato al National Maritime Museum di Greenwich), che raffigura un convoglio di navi statunitensi facenti parte di un convoglio di mercantili in navigazione in Atlantico nel 1918, ove sono evidenti la modernità e l’innovazione dello stile, ma per il quale non può sfuggire ad un osservatore attento anche la natura pratica degli schemi mimetici applicati alle navi. Immaginandoci difatti nei panni, ad esempio, del comandante di un sommergibile nemico impegnato ad osservare il convoglio al periscopio, appare evidente la difficoltà di poter effettuare con precisione e certezza il lancio di un siluro, grazie anche all’evidente difficoltà nel “visualizzare” i bersagli causata dall’applicazione di queste colorazioni che, tecnicamente, erano definite “dazzle” (ossia alterative).
Anche nel corso della seconda guerra mondiale fu ampio e diversificato lo studio e l’impiego di colorazioni mimetiche navali di vario tipo: in Gran Bretagna Norman Wilkinson fu nuovamente molto attivo in questo settore, mentre la Marina degli Stati Uniti si avvalse della collaborazione di un altro pittore di marina (Everett L. Warner, 1877-1963) che, in collaborazione con gli Enti tecnici dell’US Navy, affrontò il problema della mimetizzazioni delle unità militari con un approccio ancor più sistematico e scientifico.
Il lato diritto del “liner” britannico Mauretania sul finire del 1917: il transatlantico, all’epoca utilizzato come trasporto truppe, era stato mimetizzato con un impressionante schema a bande e rombi a toni di grigio, blu, bianco e azzurro (coll. M. Brescia).
Maurizio BRESCIA
Direttore del Mensile
Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco
Rapallo, 3 gennaio 2019
PITTORI DI MARINA - WILLIAM LIONEL WYLLIE - SS TEUTONIC
PITTORI DI MARINA
Eco del golfo Tigullio
LA QUADRERIA DE “IL MARE”
WILLIAM LIONEL WYLLIE
SS TEUTONIC
Con questo olio su tela di William Lionel Wyllie (Londra, 1851 - Londra, 1931) le navi a vapore diventano per la prima volta protagoniste di questa rubrica di pittura di marina del nostro mensile.
L’autore può forse essere considerato il più significativo esponente di quella scuola che, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, dette i natali a un gran numero di pittori di marina giustamente celebrati per aver saputo interpretare al meglio, con la loro arte, un momento irripetibile della storia navale britannica: l’apogeo di un Impero che, nei traffici commerciali e nello sviluppo della marina mercantile da un lato e nella potenza della Royal Navy dall’altro, seppe esprimere al meglio una “marittimità” ineguagliata negli ultimi tre secoli della storia mondiale.
William Lionel Wyllie, dopo un inizio di carriera non scevro di difficoltà e di alcuni insuccessi (che lo portarono anche a considerare di abbandonare il campo artistico per intraprendere la carriera di ufficiale della marina mercantile), iniziò a vedere valorizzate le sue opere dalla Royal Academy e da altre istituzioni culturali britanniche, diventando membro della celebre Society of British Artists già nel 1875.
Da allora, la sua produzione nel campo della pittura di marina fu sempre più apprezzata in patria e all’estero, e nel 1889 fu infine nominato membro associato della Royal Academy.
Al di là della sua produzione artistica, Wyllie sostenne sempre le istanze tese alla valorizzazione storica del passato navale britannico: fu tra i maggiori sostenitori del re- stauro della HMS Victory, già nave ammiraglia di Nelson alla battaglia di Trafalgar, nonché socio fondatore dell’importante Society for Nautical Research, istituzione attiva ancora ai nostri giorni il cui organo è l’autorevole periodico “The Mariner’s Mirror”.
Nel 1930, poco prima della sua scomparsa, completò una grande tela raffigurante la battaglia di Trafalgar per il Museo dell’Arsenale di Portsmouth, inaugurata alla presenza del re Giorgio V.
L’olio su tela che qui presentiamo (da sempre esposto al National Maritime Museum di Greenwich) risale all’ultimo decennio del secolo XIX e raffigura il “liner” Teutonic in uscita dal porto di Liverpool - dopo essere stato costruito dai cantieri Harland & Wolff di Belfast - per il suo viaggio transatlantico inaugurale che ebbe inizio il 7 agosto 1889.
L’impianto generale e l’impostazione artistica del quadro sono tipici della preparazione tecnica e delle conoscenze marinaresche di un autore che, in tutte le sue opere, ha spesso saputo abbinare l’uso di colori tenui e sfumati ad una considerevole precisione nella rappresentazione di dettagli di scafi e attrezzature senza - però - mai dimenticare il contesto paesaggistico e il “bilanciamento” generale nella rappresentazione di velieri, barche da pesca, navi da guerra o “vapori”, come è per l’appunto il caso del Teutonic.
Nel quadro, il Teutonic esce maestosamente dall’avamporto di Liverpool e, tra le tante qualità di quest’opera, va rilevata la “profondità prospettica” su ben quattro piani individuati - rispettivamente - dalle barche e dalla chiatta in primo piano in basso a destra, dalla barca a vela sulla sinistra del Teutonic verso poppavia (elemento minimo, ma fondamentale per accentuare la profondità della visuale), dal Teutonic medesimo e, infine, dai dettagli sfumati della città e del porto di Liverpool sullo sfondo.
Il Teutonic e il gemello Majestic, immessi in servizio dalla White Star Line tra il 1887 e il 1889, furono non soltanto navi passeggeri lussuose e veloci (20 nodi di velocità massima), ma vennero progettati e costruiti per essere convertiti - in caso di necessità - in navi trasporto truppe e incrociatori ausiliari.
Il Teutonic, in particolare, fu impiegato come trasporto truppe nel 1900 in occasione della Guerra contro i Boeri e - tra il1914 e il 1918, armato con cannoni da 152 mm - fu utilizzato come incrociatore ausiliario inquadrato nel 10th Cruiser Squadron della Royal Navy.
Al termine del conflitto il Teutonic non riprese la sua attività di piroscafo di linea e, essendo ormai disponibili unità più grandi e veloci, fu demolito a Emden (Germania) nel 1921.
Maurizio BRESCIA
Direttore del Mensile
Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco
Rapallo, 27 Dicembre 2018
PITTORI DI MARINA - EL ULTIMO COMBATE DEL GLORIOSO
PITTORI DI MARINA
Eco del golfo Tigullio
LA QUADRERIA DEL "MARE"
AUGUSTO FERRER-DALMAU
EL ULTIMO COMBATE DEL GLORIOSO
La pittura di marina, per la buona sorte di tutti i suoi appassionati e cultori, non è un genere artistico che appartiene soltanto al passato: al contrario, non sono pochi i pittori contemporanei che si dedicano ad essa, spesso con risultati di assoluta qualità che ben poco hanno da invidiare a quadri realizzati nei secoli scorsi.
È sicuramente questo il caso della recentissima opera dell’artista spagnolo Augusto Ferrer-Dalmau che, in collaborazione con l’accademico e storico navale Arturo Pérez Reverte, nel 2014 ha realizzato per il Museo Navale di Madrid un grande olio su tela (cm 190 x 170) di notevole qualità, riferito all’ultimo combattimento del “due ponti” spagnolo da 70 cannoni Glorioso, nell’impari scontro del 17 ottobre 1747 al largo di Cabo San Vicente, con quattro fregate britanniche (HMSs King George, Prince Frederick, Princess Amelia e Duke) al comando del commodoro George Walker.
La vicenda va inquadrata nella cosiddetta “Guerra dell’Asiento”, nel corso della quale le Marine britannica e spagnola si scontrarono più volte per il predominio nell’Atlantico e nei Caraibi, nell’ambito della ben più vasta Guerra di Successione austriaca (1740-1748). Un conflitto, quest’ultimo - che, oltre a sancire con la pace di Aquisgrana la conclusione del ciclo imperiale degli Asburgo - vide contrapposte due coalizioni che, neppur poi tanto sorprendentemente, replicavano a grandi linee quelli che sarebbero stati gli schieramenti politico-militari del periodo napoleonico.
Precedentemente al combattimento del 17 ottobre 1747 (al termine del quale il Glorioso - disalberato e con numerosi morti e feriti a bordo - si arrese, non prima di aver affondato la fregata HMS Dartmouth nel frattempo giunta a dare manforte alle altre unità britanniche), il “due ponti” spagnolo, al comando di Don Pedro Mesia del la Cerda, a luglio e ad agosto aveva sostenuto due vittoriosi combattimenti contro la Royal Navy: il primo nella zona delle Isole Azzorre e il secondo fuori Capo Finisterre.
Questo quadro di Augusto Ferrer-Dalmau abbina le caratteristiche di “classici” combattimenti navali presenti nei lavori di pittori del Settecento e dell’Ottocento ad una cura del dettaglio di scafi e attrezzature veliche che troviamo in opere della più diversa natura dai Van Der Welde, a Buttersworth e ad autori anche più recenti.
Presentiamo quindi due immagini, al fine di meglio valutare un soggetto trattato con rara accuratezza: una vista d’insieme del dipinto e il dettaglio centrale del Glorioso, ormai semidistrutto, quasi al termine del combattimento. Nella raffigurazione generale sono visibili le unità britanniche che attorniano il Glorioso, anch’esse in parte danneggiate dal tiro della nave spagnola; il dettaglio del Glorioso, poi, consente di apprezzare la cura quasi certosina posta dal Ferrer-Dalmau nel raffigurare la nave spagnola con i danni causati dai colpi nemici sulle murate, l’alberatura ormai smantellata, la bandiera navale che sventola ancora a riva e - soprattutto - gli innumerevoli uomini dell’equipaggio ritratti in pose dinamiche, del tutto realistiche e per nulla “di maniera”.
Un quadro, quindi, realmente bello, accurato, di grande impatto emozionale e tale da reggere il confronto (se non addirittura di risultare superiore) con le giustamente rinomate opere del celebre pittore di marina britannico Geoff Hunt, noto - in particolare - per aver realizzato i quadri utilizzati come copertine di numerosi romanzi della saga di Horatio Hornblower dello scrittore C.S. Forester.
Maurizio BRESCIA
Direttore del Mensile
Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco
Rapallo, 20 Dicembre 2018