PITTORI DI MARINA - J.W.M. Turner, “The Fighting Temeraire”
PITTORI DI MARINA
Eco del golfo Tigullio
LA QUADRERIA DE “IL MARE”
J.W.M. Turner, “The Fighting Temeraire”
Il Temeraire, un vascello a tre ponti della Royal Navy, venne varato nel 1798 all’arsenale di Chatham e faceva parte di una classe di quattro unità; fu presente alla battaglia di Trafalgar del 21 ottobre 1805.
Ci troviamo di fronte ad uno dei più celebri dipinti di marina anche se, in questo partico- lare caso, parlare di uno specifico ambito “di genere” è quanto meno riduttivo in ragione – come vedremo brevemente – dei numerosi significati e della valenza artistica del- l’opera, che va vista e studiata in considerazione della rilevanza dell’autore nel più vasto campo dell’arte pittorica britannica a cavallo tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento. Joseph Mallord William Turner (1775-1881), generalmente noto come J.W.M. Turner, è stato un pittore britannico preminente e significativo che, più di tanti artisti coevi, ha saputo coniugare le tematiche della pittura di marina con le istanze innovative e introspettive che hanno caratterizzato tutta l’arte europea (e, quindi, non soltanto il settore figurativo) nel pieno del periodo del romanticismo.
Le sue opere, quasi tutte olii su tela, vennero riconosciute come originate da un indiscusso talento già nei primi anni della sua attività artistica, e la fama di Turner – da allora – è sempre stata continua e riconosciuta non soltanto in Gran Bretagna ma anche all’estero: oggi numerose sue opere sono esposte nei principali musei e gallerie britannici ed eu- ropei, con la National Gallery di Londra e il National Maritime Museum di Greenwich fortunati possessori di molti suoi quadri, parecchi dei quali riconducibili al settore navale e a quello storico più in generale.
L’opera che oggi presentiamo raffigura un momento sempre triste per una nave: il rimorchio verso il cantiere di demolizione, al termine di una carriera spesso importante e ricca di avvenimenti ma inevitabilmente destinata, come la stessa vita umana, ad
un’ineluttabile conclusione: il titolo completo del quadro è, difatti, The Fighting Temeraire tugged to her last berth to be broken up, 1838, titolo che richiama, per l’appunto, gli ultimi momenti di vita di questa gloriosa unità.
Il Temeraire, un vascello a tre ponti della Royal Navy, venne varato nel 1798 all’arsenale di Chatham e faceva parte di una classe di quattro unità (con Neptune, Ocean e Dreadnought); fu presente alla battaglia di Trafalgar del 21 ottobre 1805 come seconda unità della linea di fila al comando dell’ammiraglio Horatio Nelson (sulla HMS Victory), e si distinse coadiuvando quest’ultima nel combattimento con il “tre ponti” francese Redoutable e catturando il similare Fouguex.
Come per tutte le navi, giunse però anche per il Temeraire il tempo della radiazione (1838), e il quadro di Turner raffigura proprio questo momento, con un rimorchiatore a vapore che traina l’ormai obsoleto vascello verso il cantiere di demolizione.
Le caratteristiche pittoriche dell’opera, con gli “sfumati” e i particolari appena accennati tipici di Turner, conferiscono all’insieme un melanconico sapore romantico, permeato dalla triste consapevolezza del trascorrere del tempo, con il passato sostituito dalla modernità che – spesso – non è in grado di ripeterne l’appeal emotivo, l’intimismo e la propensione per la cultura e la bellezza.
Infatti, il vascello Temeraire si trova in secondo piano delicatamente illuminato dalla luce del tramonto, mentre il rimorchiatore in primo piano è scuro (quasi nero!) e i maggior dettagli che lo contraddistinguono stanno quasi a rappresentare l’oggi che soppianta i giorni passati, dei quali a breve resterà soltanto il ricordo.
Il Fighting Temeraire è stato al centro, nel 1995, di una mostra ad esso dedicata proprio dalla National Gallery di Londra, che ha visto esposte numerose altre opere di Turner riferite alla storia navale britannica (e alla battaglia di Trafalgar in particolare), modelli, strumenti nautici e numerosi documenti originali dell’epoca. Chi scrive queste note ha avuto la fortuna di visitare, all’epoca, quell’eccezionale evento artistico (arricchito, tra l’altro, da uno splendido catalogo dovuto alla storica dell’arte Judy Edgerton): è quindi con grande piacere che presentiamo oggi ai lettori de “Il Mare” The Fighting Temeraire nella consapevolezza di trovarci di fronte ad uno dei “quadri di marina” destinati a fama imperitura e ad un’ampia conoscenza tra studiosi, critici e semplici appassionati di ogni tempo e paese.
Maurizio BRESCIA
Direttore del mensile
Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco
Rapallo,10 Dicembre 2018
PITTORI DI MARINA - “Al largo di Valparaiso” (“Off Valparaiso”)
PITTORI DI MARINA
Eco del golfo Tigullio
LA QUADRERIA DE “IL MARE”
“Al largo di Valparaiso” (“Off Valparaiso”)
La nave raffigurata dal pittore Thomas J. Somerscales è un tipico tre alberi con scafo in ferro, largamente impiegato dalle principali marinerie sul finire dell’Ottocento, le cui forme di scafo e la cui velatura sono mutuate da quelle dei famosi “clipper” del the e della lana in attività alcuni decenni prima.
La pittura di marina di scuola britannica è sicuramente la più vasta e di qualità in questo specifico genere, e sono numerosissimi gli artisti inglesi che, dal Settecento ai giorni nostri, hanno raggiunto nel settore vette artistiche e documentali di più che considerevole valenza.
In particolare, tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del secolo scorso, oltremanica si è assistito ad un’autentica fioritura artistica in questo ambito, con pittori quali William M. Willie, Charles Pears e Norman Wilkinson le cui opere rientrano di diritto tra la migliore produzione del periodo e raggiungono notevoli quotazioni nelle aste britanniche e statunitensi, oltre ad essere esposte nelle più quotate gallerie londinesi e del Regno Unito.
In questo panorama, la figura di Thomas J. Somerscales è abbastanza atipica e “indipendente”: figlio di un capitano di lungo corso, nacque a Kingston upon Hull nel 1847 e ben presto iniziò una carriera di insegnante tecnico con la Royal Navy. In quel periodo diede avvio, su basi del tutto autodidatti che, ad un’attività collaterale di pittore amatoriale: caratteristica di famiglia, dato che il padre e uno zio erano essi stessi grafici dilettanti, disegnatore il primo e pittore il secondo.
Nel 1864 Somerscales visitò Valparaiso, in Cile per la prima volta, e si stabilì in quella stessa città nel 1869, dopo aver contratto la malaria nel corso di un viaggio ai tropici nell’Oceano Pacifico. In Cile, Somerscales proseguì la sua attività artistica su basi professionali, partecipando a numerose mostre e esposizioni di pittura di marina e guadagnandosi una fama che, ben presto, lo rese noto anche in patria.
Rientrò nel 1915 in Gran Bretagna, stabilendosi nella città natale di Kingston upon Hull ove, sino alla sua morte (1927), proseguì l’attività di pittore di marina; il suo quadro più famoso è sicuramente “Off Valparaiso” (“Al largo di Valparaiso”), realizzato in Cile nel 1899, che qui presentiamo.
L’opera (olio su tela), è oggi esposta alla Tate Gallery di Londra, che la acquistò dopo che questa era stata esposta alla Royal Academy nei primi anni Venti, e presenta tutti gli aspetti che meglio evidenziano l’arte di Thomas J. Somerscales, ossia un’eccezionale fusione tra elementi naturali (il mare e il cielo), nautici (la corretta raffigurazione di scafi, alberature e manovre) e una “dinamicità” che coinvolge l’appassionato, l’osservatore e chi per mare ha navigato e conosce la realtà di questi elementi.
Una “nave attrezzata a nave” (cioè un veliero a tre alberi con vele quadre) naviga al gran lasco al largo di Valparaiso, e si prepara ad imbarcare il pilota, la cui imbarcazione (siamo in Sud America alla fine dell’Ottocento...) è una semplice lancia a remi che sfida le onde dell’Oceano Pacifico.
Va evidenziata la corretta disposizione della velatura, in riferimento alla situazione in cui il tre alberi è raffigurato. Come detto, il bastimento naviga al gran lasco ma deve mantenere rotta e stabilità, riducendo nel contempo la velocità. I due fiocchi portati “a farfalla” favoriscono quindi il mantenimento della rotta con un’andatura portante, ma le scotte delle vele superiori dei tre alberi sono state allascate per ridurre la velocità e lo sbandamento: velaccino e controvelaccino (al trinchetto), velaccio e controvelaccio (alla maestra), belvedere e controbelvedere (alla mezzana) sono quindi già sventati e il veliero, maestosamente, riduce l’abbrivo e si prepara a ricevere il pilota a bordo.
La nave raffigurata è un tipico tre alberi con scafo in ferro, largamente impiegato dalle principali marinerie sul finire dell’Ottocento, le cui forme di scafo e la cui velatura sono mutuate da quelle dei famosi “clipper” del the e della lana in attività alcuni decenni prima.
Maurizio BRESCIA
Direttore del mensile
Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco
Rapallo, 4 Dicembre 2018
HELEANNA - Una ferita che brucia ancora
M/n HELEANNA - UNA FERITA CHE BRUCIA ANCORA
Il comandante Dimitrios Anthipas, un pessimo esempio di Comandante
Il 28 agosto 1971, a 15 miglia da Monopoli, un incendio scoppiò a bordo del traghetto greco “Heleanna”. Si trattò della più drammatica e funesta sciagura marittima accaduta in Adriatico nel dopoguerra. La tragedia costò la vita a 25 turisti imbarcati; 16 furono i dispersi, 271 feriti tra i 1089 i superstiti.
Sono trascorsi 42 anni dall’incendio della HELEANNA, ma il ricordo é sempre vivo, specialmente tra coloro che seguirono da vicino le operazioni di salvataggio, ma anche da tutti coloro che ben presto si resero conto che a bordo del traghetto viaggiavano 1174 passeggeri, quasi il doppio dei 620 consentiti, e duecento automobili. A quel punto l’apprensione si trasformò in pura rabbia e la stampa di allora definì “negrieri del mare” il comandante Antypas Dimitrios ed il suo armatore Efthymiadis.
Da dove uscì quel maxi-traghetto con la ciminiera a poppa come una petroliera?
Negli anni ’60 l’armatore greco Constantino S. Efthymiadis comprò quattro petroliere svedesi per convertirle in traghetti passeggeri:
la MARIA GORTHON (rinominata PHAISTOS), nel 1963;
la SOYA-MARGARETA (rinominata MINOS), nel 1964;
la SOYA-BIRGITTA (rinominata SOPHIA), nel 1965;
la MUNKEDAL (rinominata HELEANNA), nel 1966.
Nel 1954 la nave cisterna Munkedal fu costruita dai cantieri Götaverken di Göteborg-Svezia. Ma il suo destino fu segnato dalla chiusura del Canale di Suez* che costrinse le petroliere a compiere il lungo e costoso periplo dell’Africa, linea che sarebbe risultata economica soltanto con l’introduzione del “gigantismo navale”. Così fu, e tutte le stazze minori, tra cui le petroliere svedesi sopra citate, furono messe fuori mercato.
* Nota: Dopo la GUERRA DEI SEI GIORNI del 1967, il canale rimase chiuso fino al 5 giugno 1975).
Da sempre i greci sono considerati validissimi marinai, ma anche un po’ spregiudicati. L’armatore C.S.Efthymiadis era un fedele garante di questa tradizione. La sua intuizione gli permise, infatti, di trasformare e reclamizzare la nuova unità come “il più grande traghetto del mondo”.
Nel 1966, mantenendo il suo aspetto esteriore, la petroliera Munkedal fu ridisegnata al suo interno per la sistemazione di numerose cabine/passeggeri, mentre sulle fiancate dello scafo furono installati portelloni con rampe di nuova concezione per l’imbarco/sbarco di auto al seguito e mezzi pesanti. Rinominata Heleanna, il traghetto entrò in linea sulla rotta Patrasso–Brindisi-Ancona e ritorno.
La cronaca dell’incidente
Al momento del disastro l’Heleanna si trovava 25 miglia nautiche a Nord di Brindisi, a 9 miglia al largo di Torre Canne, più verso Monopoli. Proveniva da Patrasso ed era diretta ad Ancona con 1174 passeggeri e 200 mezzi (auto, tir e autobus).
Tutto ebbe inizio alle 05.30 del 28 agosto 1971 quando una fuga di gas dai locali della cucina, fra la panetteria, la riposteria ed il locale ristoro provocò un incendio a poppa. Si parlò di un corto circuito, forse una manovra errata di accensione dei polverizzatori della cucina, oppure di uno spandimento di gas liquido, ma anche di una possibile fuoriuscita di nafta dalla cassa di alimentazione della calderina.
Alcuni testimoni affermarono che l’incendio prese il sopravvento solo quando il fuoco lambì le bombole di ossigeno facendole esplodere. Poco dopo successe un fatto molto anomalo: in una cala di poppa vicino al timone, scoppiò un’altra bombola d’ossigeno che bloccò istantaneamente l’organo di governo che era, in quel momento, posizionato 15° a dritta. Il traghetto, ormai in panne, ma ancora abbrivato, compì un’ampia accostata in cui il vento propagò l’incendio a tutta la nave.
L’Heleanna aveva in dotazione 12 scialuppe di salvataggio sufficienti per 600 persone, la metà delle persone imbarcate. Le inchieste promosse dalle Autorità dimostrarono che metà delle lance erano inutilizzabili per via degli argani bloccati dalla ruggine. Tra quelle calate a mare, una si ribaltò e precipitò in mare probabilmente per il sovraccarico.
Gli idranti antincendio e i tutti i sistemi di soccorso non erano funzionanti. Le inchieste che seguirono dimostrarono che il traghetto, dal punto di vista della sicurezza, era da considerarsi sub-standard.
Il disastro causò 25 morti, 16 dispersi e 271 feriti, alcuni anche in modo grave. Le vittime erano di nazionalità italiana, greca e francese. Non appena il Comandante della nave lanciò l’SOS, soccorsi aerei e navali partirono da Brindisi, Bari, Monopoli e Grottaglie.
I soccorsi aeronavali partirono da Brindisi, Bari, Monopoli, Taranto e Grottaglie, anche con la partecipazione di alcuni pescherecci privati (Laura, Madonna della Madia, Angela Danese, Nuova Vittoria, S. Cosimo) che si attivarono con molta efficacia nella ricerca dei dispersi in mare ed al soccorso dei naufraghi.
L’incendio venne domato dopo molte ore. Il relitto fu rimorchiato verso porto di Brindisi e fu ormeggiato nei pressi del castello Alfonsino.
I feriti sarebbero stati più numerosi se non fosse scattata con grande tempestività l’opera dei soccorritori. Il personale dei rimorchiatori locali della Società Barretta dovette avvicinarsi fino a pochi metri dalla nave per rendere efficace il getto delle proprie spingarde, sfidando temperature altissime e respirando gas di scarico e fumi micidiali, ma dovettero farlo per domare le lingue di fuoco che fuoriuscivano da tutta la nave minacciando di far esplodere i serbatoi di benzina degli oltre 200 mezzi che si trovavano nel garage. Fatto che purtroppo avvenne con tutte le sue tragiche conseguenze.
Anche la città di Monopoli si prodigò per confortare i superstiti, dando una dimostrazione di grande generosità offrendo aiuto e accoglienza ai naufraghi dell’Heleanna.
Il 15 ottobre del 1972 il Capo dello Stato Giovanni Leone conferì alla città la Medaglia d’Argento al Merito Civile in riconoscimento dell’antica tradizione di ospitalità e di civismo della sua popolazione.
“Quando siamo arrivati sul posto” – raccontò il proprietario di un peschereccio – “ci siamo trovati di fronte ad uno spettacolo agghiacciante. Lunghe lingue di fiamme uscivano dalla poppa impedendoci di avvicinarci troppo. Sul ponte del traghetto dilagava il panico. Centinaia di persone tentavano di calare le scialuppe senza riuscirvi, altre che scendevano con le barche liberate, rimanevano poi sospese e bloccate a mezz’aria. Altre barche ancora, arrivavano in mare ma non sapevano come governarle. I più si gettavano direttamente in mare saltando dal ponte. Su decine di corde, calate dalle fiancate, c’erano grappoli di uomini appesi, molti erano senza salvagente. Diversi battellini di gomma, sparpagliati in mare, erano difficili da raggiungere ma anche più difficile riuscire a salirvi dentro. Dalle navi che erano accorse – racconta un altro marinaio – erano state calate delle scialuppe, ma rimanevano vuote perché la gente in mare, sfinita non riusciva a raggiungerle. Allora, molti di noi, si sono buttati in acqua per aiutarli. Mai avevo visto tanta gente disperata, annientata dal dolore per aver perso, magari un attimo prima, un amico, un congiunto. Intanto, sulle banchine dei porti di Monopoli, Brindisi e Bari, viene predisposto un imponente servizio di soccorso”.
Centinaia di privati misero a disposizione i loro mezzi, altri portarono in Capitaneria indumenti e coperte. L’incendio fu domato prima di notte e l’Heleanna fu tenuta prudentemente in rada mentre gli inquirenti tentarono di accertare le responsabilità dell’accaduto.
Pare che nella confusione generale, il Comandante del traghetto sia stato il primo a perdere la testa. Alcuni testimoni, infatti, affermarono che il capitano Anthipas abbia lasciato la nave subito dopo l’allarme, mentre la moglie, che era con lui sul traghetto, sostenne il contrario. Per la verità, un’evidenza ci fu e molti la testimoniarono in diverse sedi: il comandante Dimitrios Anthipas, giovanissimo e senza esperienza, giunse “asciutto” sulla banchina di Brindisi, e il 29 agosto del 1971 cercò addirittura la fuga, ma venne arrestato al varco frontaliero del porto di Brindisi, poco prima d’imbarcarsi furtivamente con la moglie su una nave diretta in Grecia. Il comandante venne arrestato con l’accusa di omicidio colposo e per abbandono della nave.
Dimitrios Anthipas sarà poi estradato in Grecia mentre chi ha perso tutto: auto, bagagli, valori, la stessa vita di moglie, figli, genitori e parenti non sarà neppure risarcito. Gli assicuratori si rifiuteranno di pagare per l’evidente violazione, da parte della nave, delle norme stabilite nelle polizze assicurative.
All’epoca del “sinistro”, le acque territoriali comprendevano una fascia di 6 miglia nautiche (11.112 KM), poi modificate per legge in 12 miglia dal 27 febbraio 1973), per cui il disastro avvenne in acque internazionali. Ma le Autorità italiane dichiararono la loro competenza a processare il comandante della nave poiché alcune vittime del disastro erano perite in acque territoriali italiane ed almeno una era morta in ospedale a Brindisi. Anche le autorità greche furono interessate al processo, in quanto la nave batteva bandiera ellenica.
L’Heleanna in fiamme
Notare la vicinanza del rimorchiatore che punta le spingarde antincendio sulla poppa dell’Heleanna
Targa commemorativa del naufragio a Monopoli
Dopo due anni e mezzo di sosta forzata nel porto di Brindisi, per il relitto dell’Heleanna giunse il momento del congedo, dell’ultimo trasferimento verso un Cantiere di Spezia che aveva il compito di demolirne una parte e trasformarne il resto in una chiatta portuale multipurpose.
Il rimorchiatore genovese ESPERO in navigazione
Rimorchiatore incaricato dell’ultimo viaggio apparteneva alla Società Rimorchiatori Riuniti di Genova, si chiamava ESPERO, era l’ultimo nato della flotta, 5.000 CV di razza, con una strumentazione d’avanguardia: elica intubata, towing winch(troller) modernissimo, elica di manovra a prora(bowthruster) ed una elettronica up to date applicata a tutti i suoi apparati. Chi scrive, era già stato per sette anni al comando di rimorchiatori portuale d’altomare; per motivi d’anzianità toccò a lui collaudare questo moderno “fuoriclasse”. Come? Per un puro caso, si presentò una duplice occasione.
Si trattava di rimorchiare in successione, due relitti, entrambi da Brindisi a La Spezia che all’epoca era il primo porto nazionale della demolizione navale.
Il primo era la petroliera SAN NICOLA della famosa Società Garibaldi, che aveva subito un’esplosione nella cisterna n.10 che squarciò la coperta della nave dando di sé una immagine terrificante.
La seconda era il traghetto passeggeri HELEANNA di cui ci siamo occupati in questo drammatica ricostruzione.
Lo squarcio in coperta della petroliera San Nicola
Testimonianza dell’autore:
Quando salii a bordo del “traghettone” per controllare la situazione generale e studiare gli attacchi di rimorchio, cercai invano di trovare un metro di lamiera liscia ed intatta.
In pratica, l’interno dello scafo era stato devastato completamente dalle altissime temperature provocate dall’incendio. Le lamiere dei ponti erano ondulate e bugnate come la pelle di un lebbroso. Delle 200 autovetture ancora presenti nel lunghissimo garage, erano rimasti gli scheletri deformati da un fuoco impietoso che era durato a lungo causando, purtroppo, vittime e sofferenze indescrivibili.
Avevo già compiuto un’ottantina di rimorchi in tutto il mondo, ma non mi ero mai trovato davanti a tanta devastazione, desolazione e tristezza.
Manovra d’uscita della HELEANNA da Brindisi
1° Problema
Quando andai sul castello di prora per approntare gli attacchi di rimorchio mi trovai di fronte ad una strana situazione: non sapevo dove attaccarmi. Il copertino deformato aveva piegato le bitte, sollevato il salpancore e indebolito ogni centimetro del castello.
Alla fine decisi di far passare alcune grosse cravatte d’acciaio da quei due passacavi in alto che sembrano
due occhi ai lati del tagliamare (vedi foto). Era come prendere un toro per le narici e vi assicuro che non
c’era altro da fare. Come attacco di riserva presi al “lazo” tutto il castello di prora evitando gli spigoli con coppi di gomma, legno, tanto grasso e sacchi di juta.
2° Problema
In precedenza ho accennato all’esplosione di una serie bombole di ossigeno sistemate vicino al timone
della nave; fu proprio questa la causa che bloccò l’organo di governo 15° a dritta costituendo un grande problema per la navigazione a rimorchio.
La soluzione del problema era nelle mani di un’officina specializzata che avrebbe raddrizzato il timone, ma dentro un bacino di carenaggio che nessuno era disposto a pagare…..
Mi dovetti rassegnare, pur sapendo che avevamo davanti 800 miglia di “navigazione manovrata”.
Infatti, appena allungammo il cavo e ci mettemmo in tiro, il rimorchio accostò sulla sua dritta.
Quando doppiammo Santa Maria di Leuca, il vento rinforzò e ci accompagnò fino all’arrivo.
Riuscimmo a tenere una velocità intorno alle 6 miglia, ma quando il vento aumentava nelle golfate, l’Heleanna ce la vedevamo al traverso e per rimettercela di poppa dovevamo allascare le bozze, far venire il cavo da rimorchio in bando e poi dovevamo ripartire “alla gran puta” per andare a riprendere il toro per le corna e rimettercelo di poppa.
Questa era la navigazione manovrata in cui si rischiava di strappare sia le bozze che il cavo da rimorchio.
Pendolammo per 20 ore a ridosso dell’Isola di Ischia, sia per controllare l’attrezzatura, ma soprattutto per
far scivolare verso Est una forte depressione che spingeva il rimorchio fino a sorpassarci, costringendoci
a vere acrobazie per non farci “prendere per il c…” Un’espressione marinara che rende perfettamente
l’idea di ciò che può succedere quando il rimorchio, non essendo in assetto di navigazione, prende il sopravvento, infrangendo quelle poche ma importanti regole
marinaresche, che si dovrebbero sempre rispettare.
Il 16.2.74 arrivammo finalmente a Spezia, e quando il mio amico pilota Nino Casaretto, il quale aveva subito l'esplosione nella cisterna n.10 che squarciò la coperta della nave dando di sé una immagine terrificante, venne a bordo per la manovra di consegna del relitto ai rimorchiatori locali, mi disse in dialetto:
“Ma non ti vergogni d’andare in giro con questo accidente... attaccato al sedere” ?
“Vergogna no! – gli risposi – A brindisi non vedevano l’ora di levarselo dal sedere e trovarne un altro
disposto al sacrificio. Dicono che nella vita bisogna provarle tutte! Eccomi qui, felice e contento d’essere arrivato!”
APPENDICE:
Rapporto Viaggio
Mi spiace! L'immagine non è leggibile, i numeri sono lì... fidatevi! Purtroppo i morti sono altrove. Che Dio li benedica!
UNO SCAMPATO PERICOLO....
La nostra socia Marinella Gagliardi Santi, notissima scrittrice e Skipper di lungo corso, dopo aver letto questo articolo, ha voluto rilasciarci la sua ESISTENZIALE TESTIMONIANZA. per la quale non possiamo che unirci felicemente a questa fantastica coppia di “marinai” per lo scampato pericolo!
"Il ricordo di quella tragedia mi ha toccato da vicino ancora di più, perché Rinaldo ed io, allora non ancora fidanzati, avremmo dovuto imbarcarci proprio sull'Heleanna! Mi aveva invitato ad andare in Grecia insieme a lui ma gli avevano detto che non c'era posto sull'aereo: al ritorno non ci sarebbe stato alcun problema perché avremmo preso proprio quel traghetto! Così io non sono partita con lui, lui si è imbarcato su un aereo in realtà completamente vuoto, e per il ritorno ha preso nuovamente l'aereo.
Pericolo scampato per un pelo, la sorte ha voluto così!"
Carlo-GATTI
Rapallo, 21.3.2013 / Rielaborato nella nuova versione del sito, venerdì 17 Maggio 2024
PITTORI DI MARINA-La grande battaglia navale di Chesapeake
PITTORI DI MARINA
Eco del golfo Tigullio
LA QUADRERIA DE “IL MARE”
La grande battaglia navale di Chesapeake
La tela raffigura la “Battaglia dei due capi” che avvenne in Virginia nel 1781, è opera dello statunitense Valter Zveg
I quadri riferiti alle grandi battaglie navali della marineria velica non risalgono soltanto ad un passato più o meno lontano, ma anche ai nostri giorni taluni artisti contemporanei risaltano nel pur non vastissimo panorama della “pittura di marina” con opere ben realizzate, precise, dalla considerevole valenza artistica e dall’effetto scenico non comune.
Il più noto tra questi “sea painters” contemporanei è - probabilmente - il britannico Geoff Hunt (nato nel 1948 è per alcuni anni presidente della Royal Society of Marine Artists), noto anche al grosso pubblico soprattutto per le immagini di copertina dei numerosi volumi di Patrick O’Brian a soggetto navale, con protagonista il comandante Jack Aubrey dell’era napoleonica. Tuttavia, Hunt non è il solo pittore di vaglia in questo settore ed altri artisti, senz’altro meno noti ma ugualmente abili e preparati, fanno della precisione e dell’attendibilità un punto di forza delle loro opere.
È questo il caso dello statunitense Valter Zveg (in realtà artista poco noto e sotto taluni aspetti misconosciuto) attivo tra gli anni Quaranta e gli anni Ottanta dello scorso secolo, che ha sempre collaborato con continuità con la Marina degli Stati Uniti e con numerosi musei e istituzioni storico navali della costa atlantica degli USA.
Il suo quadro che qui presentiamo è attualmente esposto all’Hampton Roads Naval Museum di Norfolk (Virginia) ed è classificato tra le opere di interesse storico dal Naval History and Heritage Command dell’US Navy, ossia l’Ufficio Storico della Marina degli Stati Uniti.
Il quadro (datato 1963) raffigura un momento della battaglia navale di Chesapeake del 5 settembre 1781, nota anche come “Battaglia dei due capi” in quanto svoltasi nelle acque fuori Norfolk comprese tra Cape Henry in Virginia e Cape Charles nel Maryland. Una squadra francese al comando del- l’ammiraglio Joseph Paul De Grasse (1722-1788) sconfisse in quell’occasione un’analoga formazione britannica guidata dall’ammiraglio Thomas Graves (1725- 1802): lo scontro è importante non soltanto perché si tratta di una delle rare vittorie conseguite dalla Marina francese contro la Royal Navy in ogni tempo ma anche perché, in seguito alla perdita della supremazia navale britannica in quel tratto di costa atlantica, il successivo 19 ottobre le truppe britanniche al comando di Lord Charles Cornwallis si arresero a Yorktown dando avvio al definitivo processo di indipendenza delle ex-colonie degli Stati Uniti dalla corona britannica.
Il quadro raffigura il momento culminante della battaglia, con la squadra francese (a sinistra) in linea di fila che - seppure sottovento alla squadra britannica - riesce nell’in- tento di arrecare gravi danni a quest’ultima. Le due navi in primo piano sono, verosimilmente, il “due ponti” francese Ville de Paris da 74 cannoni (nave di bandiera di De Grasse) e il similare London, nave di bandiera di Graves.
È notevole la precisione dei dettagli delle varie unità e della loro attrezzatura: da notare la corretta raffigurazione della velatura, con i trevi di trinchetto e maestra serrati per favorire il tiro delle artiglierie principali e dei fucilieri di marina presenti a bordo, come pure la navigazione “al lasco” delle due linee di fila in presenza del vento fresco da Nord- Nord Est che caratterizzò tutto lo scontro.
In effetti, uscendo da Norfolk. De Grasse fu costretto ad operare sempre sottovento alle unità britanniche, la cui linea di fila si trovava già al largo della costa. Tuttavia, ciò risultò favorevole per le sue unità, i cui cannoni del lato sinistro beneficia- vano in tal modo di un “alzo supplementare” dovuto al fatto che queste si trovavano - per l’appunto - sotto- vento ai vascelli britannici, le cui artiglierie impiegate nello scontro (vale a dire quelle del lato dritto) non potevano fare fuoco con continuità contro il nemico trovandosi spesso le bocche dei cannoni rivolte verso l’acqua, anche al massimo alzo.
Maurizio BRESCIA
Direttore del mensile
Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco
Rapallo, 27 Novembre 2018
LA CAMPANA DELLA FREGATA H.M.S. LUTINE
LA CAMPANA DELLA FREGATA H.M.S. LUTINE
EX FREGATA FRANCESE LA LUTINE
"I LLOYD'S di LONDRA"
LE CARATTERISTICHE GENERALI DELLA FREGATA LA LUTINE
Sotto bandiere Francese
23 ottobre 1778…… - Ordinata una fregata di classe Margicienne LA LUTINE presso il Cantiere navale di Toulone
11 settembre 1779 - Varata
8 agosto 1793 ….. – Catturata dagli inglesi
Sotto bandiera britannica
Prende il nome di HMS LUTINE
Agosto 1793 ………………………… - Acquisita
9 ottobre 1799 ………………………..- Naufragata
Dislocamento …………………………..- 600 tonn.
Dislocamento a pieno carico…… - 1.000 tonn.
Lunghezza……………………………….. - 44,2 mt.
Baglio………………………………………. – 11,2 mt.
Armamento:
26 cannoni da 12 libbre
6 cannoni da 6 libbre
Dal sito della Casina dei Capitani di Meta di Sorrento, riportiamo una breve sintesi da un saggio di Fortunato Imperato.
Tale campana, apparteneva all'ex fregata francese "La Lutine" che, arresasi nel 1793 agli inglesi nel porto di Tolone, venne da quest'ultimi fatta navigare come "H.M.S. LUTINE" sotto loro bandiera. Essa era coperta da assicurazione dai Lloyd's quando, con un carico di lingotti d'oro e d'argento naufragò, nel 1799, sulle coste danesi. Mantenendo fede agli impegni assunti, i Lloyd's pagarono il relativo indennizzo pari a un milione di sterline dell'epoca, rimanendo padroni del relitto il cui ricupero divenne molto difficoltoso. Soltanto nel 1859 furono ricuperati diversi oggetti, tra cui la campana della nave e, dal quel momento, essa fu posta nella sede dei Lloyd's a Londra, assolvendo fino al 1981, la funzione di "Avviso". Da allora, con il progresso informatico e delle comunicazioni satellitari, è diventata superflua e viene usata solo in particolari cerimonie, come per il 1996 eseguendo quindi tre rintocchi per distinguerli da quelli usati tradizionalmente prima.
1996 - Il Chairman suona eccezionalmente la campana (Lutine Bell) per annunciare il nuovo piano di risanamento e sviluppo della società. La campana della nave (incisa "ST JEAN - 1779") fu recuperata il 17 luglio 1858. Fu trovata fu trovata impigliata nelle catene. La campana pesa oltre 45 chili si trova tuttora nella sede dei Lloyds di Londra a Lime Street.
La "Lutine Bell", la campana della nave "Lutine", è la famosa campana che, posta nella sala delle contrattazioni dei Lloyd's, ha annunciato per quasi un secolo, le notizie buone o cattive, a tutti gli operatori interessati. Ciò avveniva quando un assicuratore non avendo più notizie di una nave da lui assicurata, nel dubbio di dover pagare, riassicurava tali rischi con un altro membro dei Lloyd's ed i rintocchi della campana permettevano a tutti di essere avvisati contemporaneamente dell'evolversi della situazione.
La campana della nave fu ritrovata nel 1858 e portata nella Underwriting Room (Sala delle sottoscrizioni) dei Lloyd’s (l’assicurazione) e divenne tradizione farla suonare tutte le volte che una nave era in ritardo.
1. La campana veniva suonata una volta se la nave era affondata.
2. La campana veniva suonata due volte se la nave in arrivo in porto, ERA STATA CONSIDERATA DISPERSA.
Questo serviva a far sapere la situazione a tutti i brokers nell’edificio.
I Lloyd's di Londra* hanno conservato la sua campana salvata - la Lutine Bell - che ora viene usata per scopi cerimoniali nella loro sede di Londra.
La campana ora ha delle crepe e non viene più suonata regolarmente, viene però suonata se muore un membro della famiglia reale o in seguito a grandi disastri come l’attacco alle Twin Towers o lo tsunami in Asia.
BREVE DIVAGAZIONE…
Durante la seconda guerra mondiale, il propagandista della radio nazista Lord Haw-Haw* asserì che la campana veniva suonata continuamente a causa delle perdite di spedizione alleate durante la Battaglia dell’Atlantico. Infatti, la campana fu suonata una volta, con un anello, durante la guerra, quando la BISMARCK fu affondata.
Nell'ottobre del 1799 fu impiegata nel trasporto di circa 1,2 milioni di sterline in lingotti e monete (equivalenti in valore a £ 108 milioni nel 2018), da Yarmouth a Cuxhaven per fornire alle banche di Amburgo i fondi per impedire il crollo del mercato azionario e, possibilmente, per pagare le truppe nell'Olanda Settentrionale. La sera del 9 ottobre 1799, durante una forte burrasca da Nord Ovest, il Comandante Lancelot Skynner, perse il governo della nave quando entrò nel vortice delle maree presenti nel Waddenzee, e naufragò su un banco di sabbia a Vlie, al largo dell'isola di Terschelling, nelle Isole della frisia Occidentale. In quel mare in tempesta morirono 240 membri dell'equipaggio. Era il 9 ottobre 1799. La maggior parte del carico non fu mai recuperata.
NOTE:
*Lloyd's di Londra
Lloyd's Assicurazioni è una corporazione inglese di assicurazioni nata verso la fine del XVII secolo e situata nel principale distretto finanziario della City. Inizialmente, armatori e uomini d'affari cominciarono a riunirsi nella caffetteria di Edward Lloyd a Londra, vicino al fiume Tamigi, al fine di assicurare le loro navi. Al giorno d'oggi è conosciuta come uno dei più importanti mercati assicurativi del mondo, e ci riferisce alla corporazione come "I Lloyd's.
I Lloyd's non sottoscrivono assicurazioni in proprio nome, che sono invece lasciate ai membri. La corporazione opera in modo efficace come un regolatore del mercato, stabilendo regole in base alle quali i membri possono operare e offrire servizi centralizzati agli altri operatori iscritti. Ci sono due categorie di persone e imprese che operano presso i Lloyd's. I primi sono soci o dei fornitori di capitale, gli underwriters , i secondi sono agenti, broker e altri professionisti che sostengono i soci, sottoscrivono i rischi, e rappresentano i clienti all'esterno.
*Haw-Haw
1945: William Joyce in ambulanza sotto scorta armata, prima di essere trasferito dal quartier generale della Seconda Armata britannica in un ospedale.
Lord Haw-Haw era il soprannome conferito a William Joyce d’origine irlandese, il quale trasmetteva giornalmente la propaganda nazista dalla Germania durante la Seconda guerra mondiale. Le trasmissioni si aprivano con la frase: "Germania che chiama, Germania che chiama", pronunciata con accento aristocratico (posh).
Lo stesso soprannome fu applicato anche ad altre emittenti tedesche di propaganda in lingua inglese, ma è Joyce con il quale il nome è ora identificato in modo schiacciante. Ci sono varie teorie sulla sua origine.
Una fregata di tipo MARGICIENNE
il 10 ottobre Portolock, il comandante dello squadrone britannico di VLIELAND, riportò la perdita della fregata, scrivendo all’ammiragliato di Londra:
H.M.S. LUTINE in difficoltà nella tempesta
“Signore, è con estremo dolore che devo dichiararle il malinconico destino della HMS Lutine, che la nave ha corso durante il passaggio sulla riva esterna dell'Isola del Fly (un'anglicizzazione di "Vlie") nella notte tra il 9 ed il 10 durante una forte burrasca da NNW, e temo che l'equipaggio sia perito, con l'eccezione di un uomo, che è stato salvato su una parte del relitto. Quest'uomo, una volta salvato, era quasi esausto. Attualmente si sta riprendendo e riferisce che la Lutine lasciò Yarmouth Roads la mattina del 9 con a bordo una considerevole quantità di denaro.
Il vento che soffiava forte da NNW, e la marea sottovento, ha reso impossibile ogni tentativo di salvataggio con gli Schowts (schuits, navi da pesca locali) o altre barche locali.
Userò ogni sforzo per salvare ciò che posso dal naufragio, ma dalla situazione in cui si trova, temo che poco sarà recuperato”.
Tre ufficiali, incluso il capitano Skynner, furono sepolti nel cimitero di Vlieland, e circa duecento dello stesso equipaggio furono sepolti in una fossa comune vicino al faro di Brandaris a Terschelling. Nessun monumento commemorativo ricorda queste tombe.
Il capitano Lancelot Skynner proveniva da Easton on the Hill, vicino a Stamford, in Inghilterra, dove suo padre era stato rettore per molti anni. Nella ex canonica del paese esistono alcune targhe che la ricordano come Lutine House, mentre nella chiesa é commemorato il capitano Skynner.
Anche il recupero dell’oro ha una sua lunga odissea storica…. Ma appunto, é un’altra storia!
Carlo GATTI
Rapallo, 7 Novembre 2018
IL PORTO DI CLASSE - RAVENNA
IL PORTO DI CLASSE
RAVENNA
Ricostruzione dell’abitato di Classe (in primo piano), una delle principali città portuali dell’Adriatico e del territorio circostanze nel VI sec. Sullo sfondo la città di Ravenna.
Civitas Classis è il nome antico di CLASSE (Ravenna), un centro abitato nel comune di Ravenna. (2.000 abitanti c.ca).
Il suo toponimo deriva dal latino Classis, “FLOTTA MILITARE”. Dove oggi c'è il centro abitato, infatti, in epoca romana vi era un porto che ospitava una flotta permanente della Marina Militare dell’Impero Romano. In epoca bizantina il porto divenne la sede principale della flotta di Costantinopoli in Occidente.
Il porto di Classe. Mosaico della Basilica di Sant’Apollinare Nuovo. (inizio del VI secolo).
Cammeo – Tiberio Claudio
Tiberio Claudio celebrò nella sede della flotta ravennate le sue vittorie sui Britanni, venne eretto un arco trionfale (noto come Porta Aurea) prospiciente il bacino portuale. Dall’arco, tramite il suo principale asse stradale, si accede al foro della città, in cui probabilmente si colloca l’ara della gens Iulia, di cui si conservano alcune lastre decorative.
Il porto di Classe aveva una struttura simile a quello di Miseno, (Golfo di Napoli), dove aveva sede la flotta del Mediterraneo occidentale. Le lagune di Ravenna erano separate dal mare da una moltitudine di dune costiere dove i romani progettarono un canale per mettere in comunicazione il porto con il mare.
La Fossa Augusta, congiungeva Classe con Ravenna. Prolungata verso nord, la Fossa Augusta collegava Ravenna alla laguna veneta.
Un’ampia zona da Classe ad Aquileia divenne navigabile per circa 250 km. Praticamente in bonaccia di vento e di mare.
Classe era collegata a Ravenna anche da una strada, la Via Caesaris. Costruita nel I secolo a.C., iniziava a Ravenna da Porta Cesarea e, seguendo un tratto rettilineo, attraversava Classe e terminava il suo corso nella via Popilia. (vedi carte digitali)
Lungo la Fossa Augusta c’era l’arsenale che costruì navi fino all’epoca di Teodorico. Lo sviluppo delle banchine raggiungeva i 3 chilometri e poteva ospitare fino a 250 imbarcazioni.
Purtroppo, A causa del cedimento del terreno, l’area ravennate divenne progressivamente paludosa. All'inizio del IV secolo, tale fenomeno fu così evidente che le banchine, i cantieri e le strade di accesso al porto erano diventate inservibili. Considerate queste condizioni, l’imperatore Costantino decise di trasferire la base della flotta a Bisanzio.
LA FLOTTA ed il suo organico
Il numero degli effettivi si aggirava intorno ai 10.000 tra legionari e ausiliari.
Praefectus classis Ravennatis era il comandante in capo della flotta. Sub praefectus era il subordinato del praefectus, affiancato a sua volta da una serie di praepositi.
Navarchus princeps ricopriva il grado di contrammiraglio. Nel III secolo fu poi creato il Tribunus classis con le funzioni del Navarchus princeps, più tardi tribunus liburnarum.
Il Trierarchus era il comandante di una singola imbarcazione equipaggiata da rematori e da una centuria di marinai-soldati (manipulares / milites liburnarii).
(Classiari o Classici) costituivano il personale della flotta che riusultava diviso in due reparti distinti: gli addetti alla navigazione ed i marines, si chiamerebbero oggi.
Il servizio durava 26 anni (contro i 20 dei legionari ed i 25 degli auxilia). Dal III secolo la ferma fu aumentata fino a 28 anni. Al momento del congedo (Honesta missio) ai marinai erano date: una liquidazione, dei terreni e di solito anche la cittadinanza romana, provenendo essi dalla condizione di peregrini al momento dell'arruolamento. Il matrimonio, invece, era permesso loro solo al termine del servizio attivo permanente.
Si ricordano alcuni Praefecti classis Ravennatis:
· al tempo dell'Imperatore Nerone, era Publio Clodio Quirinale.
· al tempo della guerra civile degli anni 68-69, l'imperatore Vitellio affidò il comando delle flotte Ravennatis e Misenis a Sesto Lucillo Basso.
· sotto Vespasiano, il comando passò nelle mani del sostenitore dei Flavi, Cornelio Fusco. Con i marinai della flotta Ravennatis, nel 70 d.C. fu formata una nuova legione, la II Adiutrix.
· Tito Appalio Alfino Secondo, verso la seconda parte del II secolo;
· Tito Cornasidio Sabino, tra la fine del II e la prima parte del III secolo;
· al tempo di Settimio Severo e Caracalla: Gneo Marcio Rustio Rufino
Il sito archeologico corrisponde all'area portuale dell’antica città di Classe e comprende una serie di magazzini edificati lungo le banchine di un canale, prospicienti una strada lastricata in trachiti euganee.
La storia ci racconta che Ravenna, città di mare, era stata fondata dagli etruschi-umbri. Fu colonia romana nel II secolo a.C. e destinata, per decisione finale di Augusto, ad avere, nel suo immediato ambito geografico di mare, terre, canali e fiumi: IL PORTO MILITARE PER LA FLOTTA PRETORIA. Ravenna venne quindi scelta dall’imperatore in persona come sede della seconda flotta militare, la Classis Ravennatis alla quale venne assegnato il compito strategico di controllare il Mediterraneo orientale: l’Adriatico, lo Ionio, l’Egeo.
Ravenna deve pertanto a Roma e all’Impero Romano tutta la sua importanza raggiunta (con merito) nella storia navale. La sua fedele e stabile Alleanza con Roma fu cementata dall’unione delle due FLOTTE: la classis Ravennatis e la classis di Capo Miseno sotto un unico comando, di cui ci siamo già occupati nella stessa sezione storica di questo sito: Mare Nostrum Rapallo.
L’asse strategico (Ravenna - Roma - Capo Miseno - Napoli), disegnava il dominio di tutti mari italiani fornendo una connotazione precisa ed essenziale della strategia militare su cui si era basata per secoli la storia imperiale di Roma.
Abbiamo appena accennato all’importanza militare di Ravenna, ma per comprendere interamente l’eredità del suo patrimonio, dobbiamo anche citare e aggiungere la sua immensa VICENDA ARTISTICA E CULTURALE che Roma delegò a questa città sentendosi ad essa unita da profonde connessioni storiche e relazioni geopolitiche.
L’imperatore Claudio (grande esperto di portualità) costruì la porta Aurea (arco di trionfo), ripianificò il porto, i canali e la flotta. Nel 42 d.C. Vespasiano (eletto con la flotta di Ravenna) promosse al ruolo di prefetto, simultaneamente di Ravenna e Miseno, Lucilio Basso per la conclusione della guerra giudaica trasferendolo da Roma a Miseno ed infine a Gerusalemme (70 d.C.)
L’imperatore Traiano, negli anni 110-113, costruì l’acquedotto ravennate per la flotta, le truppe classiarie e per la città servendosi ripetutamente della città e del porto di Ravenna per le spedizioni in Dacia, tuttora immortalate sulla Colonna Traiana di Roma.
A questo punto della storia Ravenna, pur restando una realtà di Roma e dell’Impero, assunse una connotazione di collegamento con l’Oriente: un blasone che prolungherà la durata dell’Impero Romano.
Di questa Ravenna “romana” rimangono otto monumenti dichiarati dall’UNESCO-patrimonio-dell’umanità:
Il mausoleo di Galla Placidia – Le basiliche di San Vitale – di S.Apollinare Nuovo e S.Apollinare in Classe - Il Battistero Ortodosso - Il Battistero degli Ariani - La Cappella arcivescovile, cioè i sette edifici di culto cattolico e ariano in cui vi sono pareti in mosaico, oltre al mausoleo di Teodorico in pietra d’Istria. Questo patrimonio ha una eccezionale unità di tempo e di luogo. (vedi sotto: Album fotografico)
La navigazione, i porti, le navi e gli equipaggi costituiscono il patrimonio culturale da cui nasce la Storia di Ravenna.
Le sue colonne, capitelli, sarcofagi, lastre e transenne provengono dalle cave del Proconneso (mar di Marmara), dalle officine di Costantinopoli e da altri siti del medio-Oriente.
Secondo lo studioso Viktor Lazarev: “Ravenna trasse profitto dall’attività edilizia e dalla munificenza di Onorio, di Galla Placidia, di Valentiniano III, di Odoacre, di Teodorico e di Giustiniano. Si é conservato così un complesso, unico nel suo genere, di monumenti del V, del VI e del VII secolo, di cui non esiste l’eguale in alcun’altra città”.
Ricostruzione digitali di Ravenna Antica
Ricostruzioni 3D Ravenna Antica dal I al VI secolo
Caio Giulio Cesare Ottaviano, Augusto per volere del Senato di Roma dal 27 a.C., è considerato il primo imperatore romano, colui che segnò la storia di Roma concludendo la fase delle guerre civili e favorendo il passaggio dell'Urbe dall'era repubblicana a quella imperiale.
Ravenna da Augusto a Giustiniano: Ricostruzioni digitali per comprendere la città.
Prendiamo a prestito, a scopo divulgativo e per una maggiore comprensione storica ed architettonica di Ravenna-Classe, un corposo lavoro elaborato per la ” fondazione RavennAntica” e l’Accademia di Belle Arti di Ravenna: la storia delle modificazioni urbane e territoriali delle città di Ravenna e Classe dal I al VI secolo d.C. raccontate attraverso delle vedute aree di un'area di oltre 60 kmq. Il materiale è visibile presso il museo TAMO a Ravenna.
Ricostruzioni 3D Ravenna Antica dal I al VI secolo
L’età di Augusto e Claudio (I – II secolo d.C.)
Ravenna viene scelta da Ottaviano Augusto come sede della seconda flotta militare, la Classis Ravennatis. Alla flotta ravennate viene assegnato il compito di sorvegliare il Mediterraneo orientale: l’Adriatico, lo Ionio, l’Egeo.
Città federata legata a Roma da un trattato di alleanza per motivi logistico e politico, si trova a ridosso della linea di costa ed è inserita nel sistema delle lagune del delta padano. Questo la collega attraverso il Po ai principali centri della pianura padana, sino a Torino, e attraverso le lagune adriatiche sino ad Aquileia.
Per collegare il Po al bacino portuale viene strutturata la Fossa Augusta di cui parla Plinio il Vecchio, che fu prefetto della flotta di Miseno. La presenza di diecimila militari accrebbe il potenziale del territorio agricolo circostante, soprattutto le aree centuriate a sud e ovest della città, sviluppando una intensa e florida economia agraria.
Per desiderio dell’imperatore Tiberio Claudio, viene eretto un arco trionfale, meglio noto come Porta Aurea rivolto verso il bacino portuale.
La città di Ravenna, nel corso del II secolo conosce un momento di frenetica attività militare, a causa della guerra che Traiano si trova a combattere sul confine orientale dell’impero, finalizzata a contenere le spinte delle popolazioni della Pannonia e della Dacia.
Numerosi classiari, della flotta pretoria ravennate, come testimoniano i loro documenti funerari, provengono da quelle zone e hanno grande conoscenza della navigazione fluviale. Molti vengono dislocati nei territori di guerra e si rende necessario anche un distaccamento stabile di Ravennati sul mar Nero.
La costruzione dell’acquedotto, lungo il corso del Bidente-Ronco, porta finalmente l’acqua potabile a Ravenna.
Ravenna viene scelta da Ottaviano Augusto come sede della seconda flotta militare, la Classis Ravennatis. Alla flotta ravennate viene assegnato il compito di sorvegliare il Mediterraneo orientale: l’Adriatico, lo Ionio, l’Egeo.
Rispetto all’antico oppido di origine repubblicana la città si estende maggiormente verso oriente, al di là del Padenna, sistemato da Augusto per la navigazione interna della flotta, e verso settentrione, oltre il Flumisellum. L’incremento del sobborgo di Cesarea, che collega Ravenna a Classe, è fortemente legato alla presenza e alle attività degli impianti portuali.
La lunga epoca del ristagno
(III – IV secolo d.C.)
Il III secolo è considerato un periodo critico dal punto di vista politico ed economico. Questi fattori causano una prolungata anarchia militare, legata a devastanti invasioni di popolazioni barbariche, che si verificano soprattutto nella seconda metà del secolo.
Il governo della Tetrarchia, durante la riorganizzazione dell’impero voluta da Diocleziano, Ravenna riesce a rimanere attiva grazie al suo porto e tramite la navigazione endolagunare garantisce il collegamento commerciale con Aquileia e le regioni settentrionali, come indica l’editto sui prezzi.
La flotta è ancora al servizio imperiale anche se, una parte viene trasferita a Costantinopoli, la “nuova Roma” fondata da Costantino I nel 330.
A Ravenna, sono documentati incendi, abbattimenti e distruzioni di edifici privati urbani: un incendio devasta la domus su cui venne poi eretto il palazzo imperiale già nella seconda metà del II secolo; mentre risale all’inizio del IV secolo l’abbandono della domus d’età augustea addossata alle mura repubblicane.
L’acquedotto e le fogne sono fra i primi servizi a cadere in disuso, con forte degrado della vita urbana; anche le acque dei canali interni alla città risentono della perdita di costante controllo delle attività idriche.
Ravenna, divenuta capitale, si dovrà aspettare la fine del IV secolo perché abbia un nuovo aureo sviluppo.
Capitale dell’impero d’occidente
(V secolo d.C.)
Nel 402 d.C. Ravenna diviene capitale dell’impero romano d’occidente. Il trasferimento della corte genera investimenti e crescita, mentre tutte le altre città italiane incominciano la loro lenta, o repentina decadenza. Dal nuovo status di capitale la città riceve nuovo impulso e destina le sue energie nel definire un nuovo impianto urbanistico fondato su una grande attività edilizia pubblica, investendo sulle strutture e sulle attività portuali.
Gran parte delle attività funzionali e di governo convergono lungo l’asse costituito dalla Platea Maior, ossia il tratto urbano della via Popilia, e il corso del Padenna – Fossa Augusta, che, per il progressivo interramento dei bacini interni, avvenuto per cause naturali e per la mancata manutenzione, viene ripensata l’articolazione della città. Le strutture portuali sono gli arti di questo sistema. Il porto di nord est è la porta verso l’insicuro settentrione, mentre il porto di Classe, detiene il ruolo di scalo più importante nei rapporti con l’Oriente. Ravenna viene chiusa entro le mura. Classe assume una sua autonoma identità urbana e commerciale, anch’essa cinta dalle mura, mentre il sobborgo di Cesarea, da sempre legato al rapporto funzionale tra la città e Classe, si struttura con una propria identità funzionale e residenziale. Ravenna viene eletta capitale dell’impero romano d’occidente come roccaforte difensiva.
L’impronta di Teodorico (VI secolo d.C.)
Nel VI secolo Ravenna è capitale del regno dei Goti con Teodorico e successivamente centro dell’amministrazione bizantina in Italia. (dal 540 fino al 751) La città è ancora preziosa, per varie ragioni la sua posizione rimane strategica; i benefici apportati dalle infrastrutture realizzate nel secolo precedente sono ancora validi; è ancora attiva una tradizione militare navale di lungo corso e l’impianto della città, pensato per ruoli di grande importanza nel secolo precedente, viene consolidato con nuovo fervore costruttivo. In definitiva rimane sotto la dipendenza politica di Costantinopoli, Teodorico inquadra la propria opera edilizia nella tradizione politica romana del Principe, attraverso l’attività di restauro e di recupero. È in quest’ottica che si procede, per esempio, al restauro dell’acquedotto realizzato al tempo dell’imperatore Traiano, e di altri monumenti ed edifici romani, come la basilica di Ercole.
Se per Sidonio Apollinare nel V secolo Ravenna è una città duplice, nel VI secolo Giordane (Getica, 151) la descrive come una città tripartita, ossia composta da Ravenna, dal sobborgo di Cesarea e da Classe. Gli edifici di culto al servizio della comunità locale aumentano in un prodigio costruttivo che ne attesta la vitalità. In particolare l’evoluzione in senso urbano di Classe è compiuta, tanto da essere appellata Civitas Classis nel celeberrimo mosaico in Sant’Apollinare Nuovo.
Queste immagini digitali ci danno la possibilità di capire l’espansione di RAVENNA, di origine repubblicana, oltre le mura con domus private sempre più ricche; vennero effettuati interventi architettonici e innalzati edifici pubblici, in linea col sistema di propaganda della politica augustea. Per specifico desiderio dell’imperatore Tiberio Claudio, desideroso di celebrare nella sede della flotta ravennate le sue vittorie sui Britanni, fu eretto un arco trionfale (noto come Porta Aurea) prospiciente il bacino portuale. Dall’arco, tramite il suo principale asse stradale, si accede al foro della città, in cui probabilmente si colloca l’ara della gens Iulia, di cui si conservano alcune lastre decorative.
Anche le abitudini funerarie della popolazione si adeguarono al volere imperiale: la cremazione dei corpi sostituì quasi del tutto il rito dell’inumazione; nelle estese necropoli poste sulle dune marine, fuori dal contesto urbano, vennero innalzati importanti monumenti sepolcrali vicino a sepolture più modeste, di cui rimane il segno nelle numerose stele commemorative.
L'area portuale
Il porto di Classe era simile per conformazione a quello di Miseno, (Golfo di Napoli), dove aveva sede la flotta per il Mediterraneo occidentale, ma nel suo complesso non era del tutto naturale. Le lagune, interne rispetto alla costa, erano separate dal mare da un sistema di dune costiere. Per mettere in comunicazione il porto con il mare, i romani scavarono un canale tra le dune. Un secondo canale, la Fossa Augusta, congiungeva Classe con Ravenna. Prolungata verso nord, la Fossa Augusta collegava Ravenna alla laguna veneta.
Divenne così possibile navigare ininterrottamente da Classe ad Aquileia (circa 250 km) in acque calme e a regime costante.
Classe era collegata a Ravenna anche da una strada, la Via Caesaris. Costruita nel I secolo a.C., iniziava a Ravenna da Porta Cesarea e, seguendo un tratto rettilineo, attraversava Classe e terminava il suo corso nella via Popilia.
In città, lungo la Fossa Augusta, si trovava la fabbrica delle navi: l’arsenale. Esso fu attivo fino al tempo del re goto Teodorico. Attorno ai bacini si potevano vedere depositi a perdita d'occhio; lo sviluppo delle banchine raggiungeva i 3 chilometri e poteva ospitare fino a 250 imbarcazioni. La base militare ebbe poi alcuni distaccamenti nei principali porti del Mediterraneo, come ad esempio nel Mar Egeo, a il Pireo-Atene, o nel mare Adriatico ad Aquileia.
A causa dell’abbassamento del terreno, il territorio ravennate, divenne progressivamente paludoso. All'inizio del IV secolo, tale fenomeno fu così evidente che le banchine, i cantieri e le strade di accesso al porto erano diventate inservibili. Considerate queste condizioni, l’imperatore Costantino decise di trasferire la base della flotta a Bisanzio.
Il corpo Militare
Anche per la flotta ravennate il numero degli effettivi si aggirava intorno ai 10.000 tra legionari e ausiliari.
Il comandante della flotta era il Praefectus classis Ravennatis ovvero il comandante dell'intero bacino dell’Adfrioatico, appartenente all’Ordine Equestre. A sua volta il diretto subordinato del praefectus era un sub praefectus, a sua volta affiancato da una serie di praepositi, ufficiali posti a capo di ogni pattuglia per singola località.
Altri ufficiali erano poi il Navarchus princeps, che corrisponderebbe al grado di contrammiraglio di oggi. Nel III secolo fu poi creato il Tribunus classis con le funzioni del Navarchus princeps, più tardi tribunus liburnarum.
La singola imbarcazione era poi comandata da un trierarchus (ufficiale), dai rematori e da una centuria di marinai-combattenti (manipulares / milites liburnarii). Il personale della flotta (Classiari o Classici) era perciò diviso in due gruppi: gli addetti alla navigazione ed i soldati. Il servizio durava 26 anni (contro i 20 dei legionari ed i 25 degli auxilia). Dal III secolo la ferma fu aumentata fino a 28 anni. Al momento del congedo (Honesta misssio) ai marinai erano date: una liquidazione, dei terreni e di solito anche la cittadinanza romana, provenendo essi dalla condizione di peregrini al momento dell'arruolamento. Il matrimonio, invece, era permesso loro solo al termine del servizio attivo permanente.
Si ricordano alcuni Praefecti classis Ravennatis:
· al tempo dell'Imperatore Nerone, era Publio Clodio Quirinale.
· al tempo della guerra civile degli anni 68-69, l'imperatore Vitellio affidò il comando delle flotte Ravennatis e Misenis a Sesto Lucillo Basso.
· sotto Vespasiano, il comando passò nelle mani del sostenitore dei Flavi, Cornelio Fusco. Con i marinai della flotta Ravennatis, nel 70 d.C. fu formata una nuova legione, la II Adiutrix.
· Tito Appalio Alfino Secondo, verso la seconda parte del II secolo;
· Tito Cornasidio Sabino, tra la fine del II e la prima parte del III secolo;
· al tempo di Settimio Severo e Caracalla: Gneo Marcio Rustio Rufino
Il porto di Classe, come abbiamo visto, poteva ospitare in rada e lungo le banchine portuali fino a 250 navi da guerra. Lungo il canale artificiale e attorno ai bacini si scorgevano arsenali e depositi per molti chilometri. Il numero di militari che vivevano stabilmente a Classe era di circa 10.000. Il loro sostentamento era garantito da una azienda agricola di grandi dimensioni.
Il paese di Classe si estese attorno alle caserme dei soldati di marina (i classari), ai depositi di armi e alle officine navali.
Nel II secolo, il centro abitato divenne cittadina.
Nel III-IV secolo comparve una prima difesa, una specie di cinta muraria a forma di semicerchio attorno all'abitato.
Nel IV secolo, agli inizi, s’aggravò il fenomeno della subsidenza ed il territorio iniziò ad abbassarsi trasformandosi in palude.
In poco tempo sparirono i moli, i cantieri e le strade di accesso alle varie attività portuali che avevano dato per più di tre secoli assistenza a migliaia di navi dell’Impero Romano.
Nel 330 l'imperatore Costantino I decise di trasferire la base della flotta nella nuova capitale dell'impero, Costantinopoli.
ALBUM FOTOGRAFICO
Degli otto monumenti di RAVENNA dichiarati dall’UNESCO patrimonio dell’umanità
· Basilica di San Vitale
· Basilica di Sant'Apollinare Nuovo
· Basilica Sant'Apollinare in Classe
· Battistero degli Ariani
· Battistero Neoniano
· Cappella Arcivescovile
· Mausoleo di Galla Placidia
· Mausoleo di Teodorico
Sono otto i monumenti iscritti nella World Heritage List, la Lista del Patrimonio Mondiale, che rendono la città di Ravenna un vero e proprio scrigno di tesori da scoprire.
Per l'inestimabile valore delle testimonianze storiche e artistiche, Ravenna, città del mosaico, è stata riconosciuta Patrimonio Mondiale dall'UNESCO con queste motivazioni: "l'insieme dei monumenti religiosi paleocristiani di Ravenna è di importanza straordinaria in ragione della suprema maestria artistica dell'arte del mosaico. Essi sono inoltre la prova delle relazioni e dei contatti artistici e religiosi di un periodo importante della storia della cultura europea".
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La Basilica di San Vitale - Interni
^ BASILICA DI SAN VITALE ^
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Il cielo stellato di Galla Placidia
Mosaici del Mausoleo di Galla Placidia
Sant’Apollinare Nuovo - Corteo delle Vergini
^ MAUSOLEO DI GALLA PLACIDIA ^
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^ BASILICA DI SANT’APOLLINARE NUOVO ^
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Battistero Neoniano - Cupola, particolare del Battesimo
^ BATTISTERO NEONIANO ^
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Cappella Arcivescovile - Cristo Guerriero
^ CAPPELLA ARCIVESCOVILE ^
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Battistero degli Ariani - Particolare – Battesimo di Cristo
^ BATTISTERO DEGLI ARIANI ^
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Mausoleo di Teodorico - Interno particolare della vasca
^ MAUSOLEO DI TEODORICO ^
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Basilica di Sant’Apollinare in Classe - La croce centrale dell’abside
^ BASILICA DI SANT’APOLLINARE IN CLASSE ^
LA TOMBA DI DANTE
Questo Mausoleo non fa parte del patriomonio dell'umanità dell'UNESCO perché si trova al di sopra di questa pur valente istituzione ...
Ravenna è famosa anche per essere una città dantesca, e più precisamente la città che ospitò il Sommo Poeta negli ultimi anni della sua vita, celebrandone il funerale presso la chiesa di San Francesco nel 1321. Uno dei monumenti più visitati a Ravenna è infatti la Tomba di Dante, posta proprio vicino alla chiesa ed piazza San Francesco.
CARLO GATTI
Rapallo, 21 Settembre 2018
UNA PICCOLA GRANDE STORIA DI MARE
UNA PICCOLA GRANDE STORIA DI MARE
Dalla rubrica settimanale PARLO CIAEO creata e condotta da Andrea Acquarone, é emersa dalla polvere depositata dalla storia la lettera di Rinaldo ed una bella quanto realistica ricerca dello scrittore Roberto Polleri.
L’importanza e la bellezza di questa storia consiste nella rappresentazione drammatica della vita quotidiana di un veliero vista e raccontata dal marinaio Rinaldo che vive l’approssimarsi del naufragio che non avviene per puro miracolo…
Ringrazio l’amico Andrea Acquarone per la freschezza del suo racconto in lingua genovese e per avermi fatto conoscere Roberto Polleri: una buona penna marinara! Ringrazio infine L’Agenzia Bozzo di Camogli da cui abbiamo preso l’unica fotografia esistente del brigantino a palo Mac Diarmid.
Carlo Gatti
PARLO CIAEO 03 giugno 2018
L’urtimo viagio da Mac Diarmid. Finiva coscì l’epoca di bregantin
di Andrea Acquarone
In zeneise se ciammavan ascì co’unna poula ingleise, scippe, comme à dî: o barco pe eccelensa. E de fæti i bregantin, avanti do vapô, an fæto a fortuña da nòstra marineria; za verso a fin do secolo l’atro, però, ean in sciâ via do declin, coscì che quande o Roberto Polleri o m’à contou l’avventua da Mac Diarmid, visciua da-o Rinaldo Pistarino (nònno de seu moggê) do 1924, ghe son arrestou doe vòtte. A no l’ea solo unna stöia de mâ de quelle epiche, ma a l’ea ascì feua da-o tempo.
A Mac Diarmid o l’ea un bregantin scosseise con scaffo in äsâ do 1884, che passando de man in man o l’arriva dòppo a primma guæra a-a famiggia Dufour. I 23 de luggio do 1924 a parte donca da Zena pe Montevideo carrega de sâ, e i 14 d’agosto, comme previsto, son à largo do Senegal. Ma da lì in avanti, primma ghe picca addòsso un monson ch’o dua un meise, dapeu pe un atro meise no se mescian pe farta de vento, tant’è che i 30 de settembre se treuvan ancon à l’ertessa da Guinea, quande i mouxi de unna borrasca scciancan doî di erboi. Con tutto, riescian à anâ avanti, e i 8 de ottobre son à 100 miggia da-o Brasile, ma ecco che unn’atra boriaña a î piggia, e unn’atra ancon i 23 de ottobre. Un tòcco de coverta a sata e i òmmi veddan a fin: à bòrdo manca tutto, sorviatutto a speransa. Però strenzan i denti, fan di tappolli pe riparâ i danni, mangian i bagoin pe no moî de famme, scinché o no l’arriva un bon vento fresco che o î pòrta à sarvamento à Montevideo i 4 de novembre. Tutti pensavan che a Mac Diarmid a fïse naufragâ, aivan za fæto dî de messe…
O Rinaldo Pistarino o l’aiva dixineuv’anni quande o l’à visciuo sta traversâ. Tanto pe capî o personaggio, quattr’anni avanti o l’ea scappou de cà pe imbarcâse, e o l’ea za in sciô meu quande un amigo de famiggia ô conosce e o ô ripòrta in derê. A stöia da Mac Diarmid â conoscemmo graçie à lê, ch’o l’à contâ pe lettia à sò fræ (unna lettia tanto bella ch’a dovieiva stâ a-o MUMA). Dòppo avei descrito i seu “cento giorni tra acqua e cielo” o finisce coscì: “mai paura buon marinaio”.
Lescico
Apreuvo: seguenti
Arrestou: (ghe son): sono rimasto sorpreso
Äsâ: acciaio
Bagoin: scarafaggi
Erboi: alberi
Farta: mancanza
Guæi: molto
Mescian: muovono
Mouxi: marosi
Picca: picchia
Sâ: sale
Scciancan: schiantano
UNA PICCOLA, GRANDE STORIA DI MARE
SULL'OCEANO A BORDO DELLA
MAC DIARMID
di Roberto Polleri
La “Mac Diarmid” era un brigantino a palo, dotato di tre alberi con scafo in acciaio, per ben 1.622 tonnellate di stazza. Viene varata il 16 ottobre 1883 dal cantiere dell'Armatore Mac Millan di Dumbarton in Scozia il quale dopo tre anni di navigazione la rivende all'Armatore Michele Amoroso, italiano, che ne affidava il comando al Capitano Cremonini.
Tra i suoi viaggi, nel 1886 la nave veniva registrata a San Francisco (USA) con carico di grano per Queenstown, in Australia. Alla morte dell'armatore Amoroso, gli eredi vendettero il bastimento a George Karran di Castletown (Isola di Man). Nel 1907, il bastimento era partito da Newcastle (Australia) per il Cile, dove incappava in una violenta tempesta che lo disalberava. La nave raggiungeva fortunosamente Auckland in Nuova Zelanda, dove rimaneva abbandonata per due anni finché l'Armatore Capitano Giuseppe Mortola di Camogli, detto "Sanrocchin", probabilmente per la sua origine dalla frazione di San Rocco della cittadina ligure, il quale intuiva che l’acquisto della nave poteva essere un buon affare e diveniva quindi proprietario della “Mac Diarmid” per la cifra di circa 2.400 sterline inglesi, pari a circa 56.000 lire, al cambio del 1909 che indicativamente potrebbero essere attuali 200.000 euro.
Il Capitano Giuseppe Mortola era il maggior armatore italiano di navi a vela di tutti i tempi: era proprietario di venticinque grandi navi e di una trentina di vascelli minori oltre alle quote in altre società di navigazione ed alle numerose carature possedute nei vascelli di diverse famiglie di armatori di Camogli. Acquistato il Mac Diarmid, il "Sanrocchin" lo faceva riarmare e dal 1910 il bastimento riprendeva a navigare ancora proficuamente. Nel 1914 partiva da Marsiglia per Rio de Janeiro in Brasile, con carico generale.
Da li, proseguiva in zavorra, ovvero riempiendo le stive di acqua di mare per stabilizzare la navigazione, in direzione Newcastle (Australia) dove caricava per il Cile da dove proseguiva poi per le Isole del Guano, quali Lobos de Afuera dove caricava il guano, ovvero escrementi di uccelli marini, utilizzato in Europa sia come potente fertilizzante sia come base da cui estrarre il salnitro, elemento necessario alla creazione di polvere da sparo.
La Mac Diarmid sopravvive alla Grande Guerra, al termine della quale fu venduto alla famiglia Dufour di Genova i quali lo utilizzeranno esclusivamente per trasportare sale di Cadice ai saladeros argentini ritornando a Genova con estratto di “quebracho”, una sostanza ricca di tannino utile per la concia delle pelli.
La carriera della nave si conclude nel 1926 a Genova, dove viene disarmato e rimane al molo Duca degli Abruzzi sino al 5 dicembre 1928 quando viene rimorchiato a Savona per essere demolito.
E' uno dei rari casi in cui una nave, nonostante il passaggio a diversi proprietari, non ha mai cambiato il suo nome nei 45 anni di vita e di navigazione.
Il viaggio
La nave lascia il porto di Genova diretta verso l’Uruguay il 23 luglio, già in assenza di vento, con rotta verso ovest per lo stretto di Gibilterra. Dopo circa un mese di navigazione, il bastimento arriva in dirittura delle isole di Madera, Comore e Capoverde, al largo della costa africana all’altezza del Senegal, senza problemi di sorta. E’ il 14 agosto. Da quel giorno in poi, per circa un mese la nave si trova in balia del vento e della pioggia, ci vorrà un altro mese per superare la linea equatoriale, quando la fatica e le avversità iniziano a provare l’intero equipaggio. Eppure il peggio deve ancora arrivare: a fine settembre, il 27 per l’esattezza la nave si trova al largo del golfo della Guinea, zona a forte rischio per la presenza di pirati, dove il bastimento deve navigare a sufficiente distanza dalla costa per scongiurare attacchi.
L’evento più importante di tutto il viaggio è il temporale del 30 settembre. Mare e vento spezzano gli alberi principali e danneggiano seriamente la “Mac Diarmid”. Due mesi di mare e danni all’apparenza tali da far presagire un imminente naufragio. Nonostante i danni, gli uomini stremati e la scarsezza di cibo ed acqua, la nave prosegue la sua rotta verso il Brasile, che in data 8 ottobre è a circa 100 miglia di distanza. Anche qui, però una nuova tempesta sembra dare il colpo di grazia al brigantino. Nuovi danni allo scafo ed al morale degli uomini che vedono ormai vicina la fine. Ottanta giorni in mezzo al mare ed il porto che appare lontano ed irraggiungibile. Nonostante tutto si procede tra i flutti, e si arriva così al 23 ottobre, all’alba del terzo mese trascorso a bordo, quando di nuovo la violenza del mare e del vento segnano profondamente la nave. Una parte della coperta viene sradicata dalla forza della natura. Mancano ormai solo 700 miglia da Montevideo, destinazione dell’imbarcazione.
In tre giorni di vento buono e di mare calmo si potrebbe giungere in porto, ma con la nave così provata dalle intemperie anche il minimo spostamento diventa una fatica enorme per lei e per chi la conduce. Adesso si sta toccando davvero il fondo. A bordo manca tutto, cibo, acqua ma soprattutto la speranza di vedere ancora terra. Per fortuna il vento cambia, i danni sono rattoppati alla meglio con ciò che si ha a bordo e la nave fa rotta verso l’Uruguay.
È l’alba del 3 novembre quando l’urlo liberatorio “Terra! Terra!” risuona sulla tolda e riaccende gli animi dei marinai. Alle 14.00 del 4 novembre 1924, dopo 105 giorni di navigazione, la “Mac Diarmid” tocca il molo di Montevideo. L’equipaggio è interamente salvo anche se decisamente prostrato dall’incredibile viaggio. Eppure, la forza d’animo dei marinai e la forza quasi magica sprigionata dalla “misteriosa Mac Diarmid”, come la definirà Rinaldo, che nonostante le avversità riesce comunque a raggiungere la propria destinazione. A terra, le maestranze si stupiscono dell’arrivo del bastimento che davano per naufragato nell’oceano per il così lungo tempo trascorso dalla partenza.
L’autore della lettera
Rinaldo Pistarino era nato a Voltri il 23 agosto 1905. Aveva solo quindici anni quando scappa da casa con un piccolo fagottino sulle spalle diretto verso il porto di Genova pronto per imbarcarsi e assecondare la sua grande passione per il mare e la navigazione. Giunto su uno dei moli, viene riconosciuto da un amico di famiglia che ne intuisce la fuga e, prendendolo letteralmente per il colletto lo carica a forza su una delle carrozze dirette verso il ponente genovese, affidandolo al cocchiere e pregando quest’ultimo di tenerlo d’occhio fino all’arrivo nella sua abitazione dove poi di persona si sarebbe sincerato del suo rientro. Il primo tentativo di diventare marinaio finiva così un po’ miseramente...
Eppure, era solo questione di tempo. La sua voglia di partire lo avrebbe condotto in mare aperto a vivere tutto ciò che abbiamo letto nelle sue parole. La sua passione per il mare terminerà solo quando l’incontro con la sua futura moglie lo porterà a decidere di trovare un lavoro sulla terraferma. Il “buon marinaio” è morto a Voltri il 24 maggio 1989.
La lettera
Montevideo, 18 dicembre 1924.
Carissimo Fratello,
vuoi tu dunque conoscere le avventure mie e di questo lungo viaggio? Ebbene, il tuo desiderio in certo qual modo sarà esaudito, ne avrei da raccontarti e forse più che sufficiente sono i particolari, per poter compilare un vero romanzo di avventure e a te farà molto piacere leggere questa mia, dato che sei sempre stato un po’ amante delle avventure più strane e più soddisfazione proverai pensando che chi scrive è tuo fratello, tuo fratello che ha intrapreso un viaggio non privo di emozioni, ma che ora tutto è tornato alla tranquillità.
Immagina si parte dal cantiere il mattino del 23 luglio con poco vento, alla sera siamo già in bonaccia completa e di questa ne abbiamo per tre giorni, siamo sempre in vista della costa spagnola, ma ecco che al quarto giorno una leggera brezza da nord ovest ci fa filare verso questa immensa pianura senza fine e piena di misteri e dopo qualche giorno di questo buon vento si entra, per così dire, nella zona della brezza costante (vento che scende da nord est) questo vento è buonissimo per noi, dato che è in poppa e dovrebbe accompagnarci quasi all’Equatore, per poi prendere l’altra brezza da sud est e quest’ultima dovrebbe accompagnarci sino all’altra parte per poi navigare alla ventura e con venti diversi fino alla meta, ma ecco, che come invece sentirai, tutto il previsto è andato a vuoto.
Entrati che siamo nella prima brezza cioè quella da nord est che ci fa filare e delizioso è il navigare con si buon vento e così si arriva al 17 agosto, durante questo frattempo siamo passati al largo di qualche isola.
Il 6 agosto l’isola di Madera, l’11 agosto le Comore, il 14 l’isola di Capoverde che si trova al 13° di latitudine a nord, tutte però invisibili ad occhio nudo.
Ed eccoci al 17 agosto, dopo aver navigato per circa un mese senza incidenti di sorta, si comincia e potrei paragonare che da oggi non si naviga più come cristiani ma da vere bestie.
Eccoci al primo temporale, vento forte da prua, pioggia e mare grosso, si tenta di bordeggiare ma il tempaccio non ci permette, ora devo spiegarti in gergo marinaresco certe manovre, non potendo altrimenti ci mettiamo alla trinca dopo che la furia del vento ci asportò qualche vela dopo vari giorni il vento si rinforza e pare che dica voglio vincere io, infatti qualche altro disastro succede.
Questo ventaccio dopo aver soffiato a volontà ci regala un po’ di calma, ma ci rimane ancora i colpi di mare i quali non ci assicurano di stare in coperta, sempre piove, siamo al 14 settembre, ossia da 52 giorni che siamo in mare e da 27 che siamo sotto una pioggia continua e che non si vede il sole. La notte dal 14 al 15 settembre altro vento forte di prua e di questo ne abbiamo per qualche giorno ancora e ti confesso che noi tutti siamo quasi esausti, forse già troppo siamo stati provati da questi elementi, eppure non è ancora finita.
Finalmente eccoci al 18 settembre e abbiamo un po’ di calma. Ora ti spiego brevemente che cos’è questo ammassamento di vento furioso e continuo.
Il suo nome è Munson e proviene dall’Oceano Indiano attraversa l’Africa Equatoriale e con impeto di forza si butta nell’Atlantico tra il 13° di latitudine nord e l’Equatore e si perde poi credo nella Cordigliera delle Ande, la sua durata in generale è di sei mesi fra i quali ha 53 giorni e 16 ore di maggior violenza, e questo massimo si sente in detta posizione dal 10 di agosto al 20 ottobre circa.
Ora siamo al 15 settembre, si sta tirando un lungo bordeggio con prua verso la costa africana, oggi stesso si taglia l’Equatore, ossia si lascia l’emisfero nord per inoltrarsi all’emisfero sud onde ci attendono altri disastri.
Il caldo si fa sentire ed è insopportabile da 45 a 50 gradi ma grazie ai continui piovaschi, che sono per noi un vero sollievo, del Munson più nessuna traccia, ormai abbiamo oltrepassato la sua zona devastatrice e siamo nella continua bonaccia equatoriale.
Al 27 settembre siamo vicini al Golfo della Guinea, con calma di vento e corrente forte che ci spinge sempre più nel golfo, questo è un po’ pericoloso dato che è frequentato da piroghe di indigeni della Guinea i quali assaltano depredandoli i bastimenti che per disgrazia trovansi in questi paraggi, ma grazie a un po’ di brezza la quale ci da modo di allargarci alquanto da questo brutto posto.
Il 28 settembre, un po’ di vento buono ci fa guadagnare cammino, ma eccoci al 30 altra giornataccia, alle 4 pare si navighi con il vento in poppa, questo in un batter d’occhio cambia e di poppa si gira e si ferma di prua, tutto questo succede senza che nessuno se ne avveda, così che le vele invece di essere gonfie alla buona, ossia come si vorrebbe dire in gergo marinaresco, si rigonfiano al rovescio, in modo che i due alberi delle vele quadre, trinchetto e maestra, oscillano e si teme da un momento all’altro abbiano a cascare in mare, intanto si sentono scricchiolii di cavi che si spezzano, griglie del sartiame che come la grandine cadono in coperta, vele che si strappano completamente e se ne vanno con il vento, ma nemmeno qui ci diamo per vinti, non è ancora trascorso un minuto dall’ira di tutto ciò, che si sente una voce gridare con tutta la forza, coraggio e sangue freddo, è la voce del comandante che grida dando gli ordini più opportuni, lascio a te immaginare il momento che si sta passando, sembriamo matti furiosi, ma ognuno ha il suo compito, il suo dovere da compiere e con sangue freddo riusciamo per vero miracolo ad evitare una vera catastrofe, bastavano pochi minuti e poi addio Mac Diarmid e i suoi uomini, nota che tutto questo è successo in pochi minuti.
Questo temporale del 30 settembre era infortunale e come abbiamo appreso al nostro arrivo a Montevideo perì con il suo equipaggio una nave tedesca proveniente dall’Europa e diretta come noi a Montevideo e un piroscafo inglese, tutti e due naufragarono proprio il 30 settembre.
All’indomani il vento cessa e si ritorna alla bonaccia, dopo nuovamente vento e si rifà cammino, tanto che il 7 ottobre siamo già vicini alla costa del Brasile, il giorno 8 siamo a 100 miglia e qua subito di gira di bordo e nuovamente al largo.
Eccoci alla notte fra 8 e 9 ottobre un altro disastro che merita di essere spiegato a parte.
Il suo nome è Pampero, la sua origine credo nasca dal Messico, poi con velocità e forza incalcolabile scende verso l’America Meridionale seguendo la Cordigliera delle Ande, fino alla Terra del Fuoco, ossia al Capo Diurno, colà le montagne fanno specie di gomito in modo che questo vento è obbligato a buttarsi in Atlantico e ritorna indietro per via mare, con una forza tale che ora sentirai.
Dunque siamo alla notte tra 8 e 9 ottobre, il vento soffia tanto forte e con una potenza tale che buona parte delle vele viene asportata, i colpi di mare devastano tutto ciò che trovano in coperta, dopo qualche giorno vento e mare prendono forza con un aspetto tale che non sappiamo proprio a che Santo votarci per raccomandarci, sono circa 80 giorni che siamo in mare, si avrebbe bisogno di un po’ di riposo, il giorno dell’arrivo è ancora lontano, anzi per dirti il vero e per dirti tutto ora aspettiamo con rassegnazione da un momento all’altro il fatale momento.
La nave sembra non abbia più la forza di resistere, è un vero disastro perché prima il velaccio poi trinchetto e parrocchetto, dell’albero di trinchetto, velaccio gabbia e maestra dell’albero maestro tutto è stato asportato dal vento, non contento di questo, la forza del mare e del vento provocano la rottura di due stralli, cavi d’acciaio abbastanza grossi e un paterazzo della grossezza del braccio di un uomo, per questo l’albero maestro minaccia di cascare, ma grazie ad un tentativo ancora si riesce provvisoriamente a riparare.
Il 16 ottobre abbiamo un po’ di calma, e così via fino al 22, in questo giorno ecco un’altra volta il Pampero e con altra violenza che ci mette in serio pericolo, specie per certe manovre che dobbiamo fare in coperta vere montagne d’acqua si rovesciano in coperta, con una violenza tale che si vede la fine.
All’alba del 23 un’ondata più potente stacca dalla salda imperniatura circa 10 metri di bordo al lato sinistro della prora, non ci batte pure contro il boccaporto di maestra arrecando altri danni, siamo a circa 700 miglia da Montevideo ci basterebbero tre giorni di vento buono per coprire questa distanza ed essere a salvamento ma invece no, l’infuriare del vento e del mare non ci permettono nemmeno di stare alla trinca, così che si è obbligati ad appoggiare e perdere il cammino, che sudore di sangue ci costò e così in questa corsa vertiginosa, pensa con una vela sola si passano le 18 miglia all’ora e si va verso il Capo di Buona Speranza, la punta estrema dell’Africa, qua abbiamo un altro disastro, il pennone gabbia spezza i cavi di sostegno e pericola di cascarci in coperta ma anche qui si riesce a riparare, siamo al 25 ottobre, il vento sembra concederci un po’ di calma, ma Dio mio quale disastro si presenta.
I viveri cominciano a scarseggiare, quindi mano alla cinghia, ogni giorno stringo sempre di più e l’indizio di buon vento e dell’arrivo non si presenta. Gli scarafaggi diventano il nostro cibo. Ormai ogni speranza è per noi perduta, da 100 giorni siamo tra cielo ed acqua.
Eccoci al 29 ottobre, abbiamo un po’ di vento a favore, questo si rinfresca sempre più se continuasse così ora si fila verso quella terra che porta il nome di America.
Ecco il buon vento salvatore continua anche oggi.
Siamo al 1 novembre a 500 miglia da Montevideo, all’alba del 3 vediamo in lontananza terra e tutti a una voce si grida Terra! Terra! Non ci speravamo proprio più, seppur sfiniti e malconci la speranza si riaccende in ognuno di noi.
Verso sera siamo in vista dell’Isola Flores, all’alba del 4 avvistiamo l’Isola dei Lovi e alle 2 pomeridiane si giunge nella rada di Montevideo finalmente!
La nave, dico io, misteriosa Mac Diarmid.
Appena arrivati è venuto un rimorchiatore portandoci viveri e notizie, infatti ci siamo sentiti dire che ormai non ci aspettavano più e che una S. Messa era stata celebrata in nostro suffragio, tanto più che qualche giorno prima una nave tedesca completamente disalberata causa una forte pamperada. Sul giornale (La Stampa) venne pubblicato un articolo sul temporale che infierì da queste parti e venne pure segnalata la perdita di qualche veliero.
Anche i nostri cari ormai non avevano più speranze di poterci rivedere, così appena giunti a Montevideo il nostro capitano ha mandato subito un telegramma alla compagnia e questa tempestivamente avvisò le nostre famiglie tranquillizzandole.
Potevamo proprio dire di essere stati fortunati.
E qui finisce il mio racconto che ormai non è che un ricordo.
(Mai paura buon marinaio)
Rinaldo
Brigantino a Palo MAC DIARMID
Epoca della foto: anno 1928 |
Fotografo: sconosciuto |
Origine: Archivio Cap. Pro Schiaffino, Camogli |
La nave Mac Diarmid fotografata nel porto di Genova nel 1928. Scafo in acciaio, stazzava 1.622 tonnellate. Venne varata il 16 ottobre 1883 dal cantiere dell'Armatore Mac Millan di Dumbarton il quale dopo tre anni la rivendette all'Armatore Michele Amoroso che ne diede il comando al Cap. Cremonini. Ottimo e robusto bastimento, navigò per molti anni su tutti gli oceani. Nel 1886 è registrato a San Francisco sotto carico di grano per Queenstown. Alla morte dell'Armatore gli eredi vendettero il bastimento a George Karran di Castletown (Isola di Man). Nel 1907, partito da Newcastle (Australia) per il Cile, incappò in una violenta tempesta che lo disalberò. Raggiunta fortunosamente Auckland (N. Z.), vi rimase abbandonato per due anni finché l'Armatore Cap. Giuseppe Mortola di Camogli, detto "Sanrocchin", fiutò l'affare ed acquistò il Mac Diarmid per £st. 2.400 pari a lire 56.000 al cambio del 1909. Il Cap. Giuseppe Mortola è stato il maggior armatore italiano di navi a vela di tutti i tempi: era proprietario di venticinque grandi navi e di una trentina di vascelli minori oltre alle quote in altre società di navigazione ed alle numerose carature possedute nei vascelli di diverse famiglie di armatori di Camogli. Acquistato il Mac Diarmid, il "Sanrocchin" lo fece riarmare e dal 1910 il bastimento riprese a navigare ancora proficuamente. Nel 1914 partiva da Marsiglia per Rio de Janeiro con carico generale. Lì giunto proseguiva in zavorra per Newcastle (Australia); caricava per il Cile da dove proseguiva poi per le Isole del Guano. A Lobos de Afuera caricava guano per l'Europa. Sopravvisse alla Grande Guerra, al termine della quale fu venduto ai Dufour di Genova i quali lo ridussero a brigantino a palo e lo utilizzarono esclusivamente per trasportare sale di Cadice ai saladeros argentini ritornando a Genova con estratto di quebracho per la concia delle pelli. Disarmato nel 1926 in Genova, rimase al molo Duca degli Abruzzi sino al 5 dicembre 1928 quando venne rimorchiato a Savona dove fu infine demolito. E' uno dei rari casi in cui una nave, nonostante il passaggio a diversi proprietari, non cambiò mai il suo nome nei suoi 45 anni di vita. |
A cura di
CARLO GATTI
Rapallo, 6 Giugno 2018
BATTAGLIA DELLA MELORIA
BATTAGLIA DELLA MELORIA
6 Agosto 1284
PREMESSA:
Anche tra RAPALLO e i Pisani c’é stato un lungo contenzioso…
Scrive Antonio Calegari:
…..Così nel maggio 1087 i pisani vi piombano sopra “viriliter” (come scrisse l’Unghelli) smantellando il castello, incendiando la Chiesa e facendo schiavi uomini e donne.
…..Così nel 1284 Rapallo è duramente provata dalla flotta veneto-pisana, comandata da Alberto Morosini e da Loto Donoratico, figlio quest’ultimo del ben noto conte Ugolino. Pisa è la nemica di Rapallo, la quale arma alcune galere per contrastarne le forze, sempre in unione alla flotta genovese. Fin dal 1229 Rapallo si è volontariamente assoggettata a Genova.
Infatti nell’anno 1284 navi rapallesi partecipano valorosamente alla famosa battaglia della Meloria nella quale i pisani subirono così dura sconfitta.
Galea genovese
La storia della Repubblica di Genova, dai suoi esordi fino al suo epilogo nel 1797, s’intreccia con la storia di queste imbarcazioni particolari. Le galee dominano il Mediterraneo per oltre mille anni: ad esse sono legate le più importanti battaglie navali combattute in questo periodo, dalla Meloria a Lepanto. In questa lunghissima storia, i genovesi svolgono un ruolo importante: apportano innovazioni e modifiche, diventano tra i costruttori più apprezzati di questi scafi.
Ma la storia delle galee non è solo una storia di tecniche costruttive e militari: alle galee è legato un mondo, quello dei vogatori, in origine liberi e volontari, ma a partire dal XVI secolo, per lo più schiavi e forzati.
Lo stemma di Pisa
Lo stemma della città è rappresentato dalla bandiera rossocrociata. La bandiera rossa, inizialmente priva di croce, fu concessa alla Repubblica di Pisa da Federico Barbarossa. La città fu costantemente fedele all'impero e almeno dal 1242 fu portata in mare. La croce bianca, che simboleggia il popolo pisano, fu aggiunta successivamente. Nel 1406, la città perse l'indipendenza e da allora la bandiera simboleggia il Comune. Oggi lo stemma della città è inglobato sugli stemmi e le insegne marittime italiane insieme a quelli delle altre tre repubbliche marinare.
Galea biremi pisana
Scrive Georg Caro:
Ma negli anni precedenti si ha notizia di galere rapallesi; nel 1232, quando Rapallo invia una galera a Genova per essere incorporata nella flotta destinata ad aiutare i cristiani di Ceuta minacciati dai saraceni; ed in seguito negli anni 1258, 1262, 1265, 1270, numerosi legni da guerra si affiancano alle navi di San Giorgio nella lotta contro i comuni nemici. Parallelamente nei secoli XIII e XIV, quei di Rapallo sviluppano una rilevante attività commerciale-marittima, soprattutto col Levante, a quanto è lecito supporre, per esempio, dalla numerosa colonia rapallese dislocata a Cipro. In essa emergono, come naviganti, armatori e commercianti, i nomi della casata dei Ruisecco e dei Pastene. Un Domenico Pastene (fine del ‘300) diventa il più grande commerciante dell’isola, viaggia molti anni in Egitto, Siria, Asia Minore, Mar Nero, sino al golfo Persico, inviando interessanti relazioni diplomatico-commerciali alla Repubblica di Genova, lasciando infine tutte le sue ricchezze al Banco di San Giorgio. E Rapallo manda persino sulle rive del Lemano alcuni suoi figli, un Sacolosi ed un Andreani, quali maestri d’ascia per la costruzione di galee sabaude. Pure alla fine del ‘300 un Antonio Colombo di Rapallo è comandante di galee. (Su questo argomento ci siamo già occupati su questo sito).
Faro della Meloria
(foto di S. Guerrieri - archivio Area Marina Protetta)
Torre della Meloria
(foto di S.Guerrieri - archivio Area Marina Protetta)
Per il racconto della Battaglia della Meloria (1284) abbiamo preso come testo di riferimento:
“BENEDETTO ZACCARIA”
di Roberto S. LOPEZ
Ediz. CAMUNIA Editrice 1996 - Firenze
« Benedetto Zaccaria è una delle splendide figure di un tempo nel quale non mancavano spiccate personalità...Il mare era la sua patria; egli aveva percorso tutte le coste del Mediterraneo alla testa di galere da guerra, ora al servizio di Genova, ora al soldo di principi stranieri »
La battaglia della Meloria ci é stata raccontata in tante versioni tra le quali, per la verità, emergono numerose discordanze, imprecisioni e direi anche suggestioni più o meno di parte…
Per la nostra ricerca ci siamo messi nelle mani di una GUIDA sicura, un Pilota di razza: lo studioso genovese Roberto S. Lopez che nacque a Genova nel 1910 – si laureò in Storia Medievale nel 1932 con la tesi: Benedetto Zaccaria, ammiraglio e mercante. Genova marinara nel Duecento, che pubblicò nel 1933.
Nella prefazione di questo libro la celebre storica genovese Gabriella Airaldi ha scritto:
“Quando vide la luce nel 1933 il Benedetto Zaccaria del giovanissimo Lopez rappresentò per molti aspetti una novità. In esso, infatti, le intenzioni dell’autore facevano della vicenda dell’uomo anche uno strumento nuovo per leggere le forme di vita di una delle grandi potenze medievali, Genova, alla luce di un “medioevo degli orizzonti aperti”. D’altra parte, la capacità di leggere e d’interpretare con raffinato metodo un ampio spettro di testimonianze e le brillanti capacità espositive collocarono subito Lopez nel ristretto Olimpo di questi scienziati capaci allo stesso tempo di colloquiare con l’accademia e con un più vasto pubblico”.
Perché Benedetto Zaccaria? Chi era costui?
Per lo storico Lopez, e per altri autori, è stato un personaggio poliedrico: uno dei più abili ammiragli del Medioevo, vero vincitore della Battaglia della Meloria, mercante, scrittore, diplomatico, politico.
MELORIA (A. T., 24-25-26 bis). - Con questo nome si designa, più che uno scoglio, una zona di bassifondi sabbiosi e fangosi, disseminati di rocce a 2-5 m. di profondità, e di scogli affioranti, su uno dei quali a circa 7 km. a ponente di Livorno sorge un'antica torre, edificio a base quadrata ad archi, alto 20 m., eretto dai Pisani a uso di faro; 200 m. più a S. sorge il faro moderno in ferro, le cui coordinate geografiche sono di 43° 32′ 45″ lat. N. e 10° 13′ 10″ long. E. I bassifondi si estendono per circa 6 km. da N. a S.
La battaglia della Meloria. - Fu la più cruenta e decisiva delle battaglie navali combattute tra le due repubbliche di Genova e di Pisa, nella secolare lotta per il dominio del Tirreno.
Nell’anno 1284, la guerra tra le due Repubbliche Marinare era già in atto da oltre due anni.
Già un violentissimo scontro era avvenuto nelle acque di Sardegna, a Tavolara, tra Enrico de' Mari, capitano della scorta d'un ricco convoglio genovese, e un'armata pisana agli ordini di Guido Zaccia, con la perdita di dieci galee pisane.
La parola a Roberto S. Lopez:
Il 22 aprile 1284, presso l’isola di Tavolara, tredici navi da guerra pisane furono prese e una affondata da un convoglio mercantile di cui faceva parte una galea da carico di Benedetto e Manuele Zaccaria. Proseguendo nel loro viaggio, i vincitori catturarono ancora due navi nemiche, e ne vendettero l’equipaggio a Siracusa, per dileggio, in cambio di cipolle. Ecco dunque che si formava, nel Tirreno come nell’Egeo, quella stretta catena nella quale corsari, mercanti e militari si davano la mano.
Poco dopo i Genovesi, agli ordini di Benedetto Zaccaria, bloccarono il porto di Pisa; ma approfittando di una momentanea assenza della squadra di blocco, tutta l'armata pisana, forte di 72 galee (secondo altre fonti 75), uscì al largo agli ordini del podestà, il veneziano Albertino Morosini, col proposito d'impedire la congiunzione della squadra dello Zaccaria con un'altra di 52 galee che si stava frettolosamente armando a Genova agli ordini di Oberto D'Oria. Il Morosini condusse l'armata nelle acque di Genova, schierandosi a sfida dinnanzi al porto (31 luglio); ma il sopraggiungere dello Zaccaria costrinse il podestà di Pisa ad allontanarsi per non essere preso in mezzo tra le due squadre nemiche.
La parola a Roberto S. Lopez:
Quattro giorni dopo la partenza (da Tavolara), Benedetto Zaccaria era già a Porto Pisano, a dare la mala Pasqua ai cittadini di Pisa; incrociò molto tempo in quel mare, fu visto alla Gorgona alla fine di giugno, perlustrò i mari di Corsica e di Sardegna…. Mentre quelle di Pisa non s’arrischiavano a lasciare i sicuri ormeggi del porto…. Ammiraglio e mercante, lo Zaccaria comprese che per colpire a morte la città nemica occorreva anzitutto paralizzare il suo commercio, separarla dalle colonie di Sardegna e del Levante, tagliarle i rifornimenti marittimi. …. In tre mesi nemmeno una nave di Pisa andò a cadere nelle reti del genovese.
L’apparente inerzia dei Pisani… doveva soltanto servire a dar tempo di allestire la grande armata che avrebbe vendicato fin nel porto di Genova l’onta di Tavolara…. Anima della riscossa pisana era il nuovo podestà, entrato in carica dal 1° di marzo, uomo di grande valore anche a detta de’ suoi nemici; il veneziano Alberto Morosini.
Alla metà di luglio l’INVINCIBILE ARMADA era pronta: 65 galee e 11 galeoni.
A bordo erano stati caricati in gran numero quei famosi trabocchetti che avrebbero dovuto infliggere a Genova l’umiliazione di un bombardamento.
Pisa s’era svuotata di difensori per equipaggiare le galee, sulle quali era salito il fiore della nobiltà e molti popolari della città e del contado; v’erano il podestà, tutto il collegio dei giudici, il conte Ugolino col figlio lotto della Gherardesca e col nipote Anselmuccio.
L’animosità e la brama di rivincita avevano fatto commettere a Pisa una grande sciocchezza: giocare il tutto per il tutto in una sola spedizione che, se fosse fallita, non avrebbe potuto essere rinnovata; mentre Genova, più popolosa, anche dopo aver persa una flotta poteva senza troppo aggravio metterne in mare un’altra.
Già attivo e conosciuto nel III e II secolo a.C., il porto pisano nasce in una zona abitata già in ere precedenti alla nascita di Roma. Si hanno cenni di popolazioni stanziali dedite alla pesca nel territorio oggi pisano, nei secoli IX e VIII a.C.. La zona rappresentava un ampio golfo formato dalle foci del fiume Arno e Serchio. Nel corso dei secoli l’area fu interessata da forte insabbiamento che formò ampie zone paludose distinguendo nettamente le foci dei due fiumi. Il Portus Pisanus comincia ad essere citato come tale nel II secolo d.C. alludendo come ad una delle più importanti strutture portuali della vasta area lagunare. Altro centro portuale di questa zona era posto nei pressi di San Piero a Grado, probabilmente con caratteri di scalo fluviale, dove la leggenda narra sia sbarcato San Pietro nel luogo ove sorge la mirabile Basilica di San Piero a Grado. Il Portus Pisanus, probabilmente fu base della flotta romana in azione nel Mar Ligure.
Com’é noto, Pisa non si trova sul mare, essa è costruita sul fiume Arno e per difendere la sua flotta costruì un faro a Porto Pisano nel XII secolo ma ben presto l’erosione marina e l’insabbiamento resero inutilizzabile sia il porto sia il faro. A questa distruzione aveva contribuito anche la terribile battaglia che Pisa combatté nel 1284 contro i genovesi tra le secche della Meloria. I Pisani nel frattempo, intorno al 1200, avevano eretto una nuova torre su una di queste pericolose secche, circa quattro miglia al largo della costa, come una sentinella notturna per prevenire i naufragi fra quelle pericolose rocce.
La parola a Roberto S. Lopez:
I Pisani pensarono di uscire di sorpresa dal porto, annientare con forze preponderanti le navi di Benedetto Zaccaria e piombare sulla città nemica impreparata e ancora sotto il colpo della sconfitta. Cogliere i Genovesi di sorpresa non era difficile: avvezzi ormai alle gradassate dei Pisani, sebbene venisse loro riferito che una grande flotta stava per muovere da Pisa, non ci credettero. Ma una tempesta inchiodò per molti giorni la flotta pisana alla bocca dell’Arno. La sorpresa era fallita: Benedetto Zaccaria, che probabilmente stava da tempo sull’avviso, ricevette dal Comune lettere di richiamo, mentre era nel porto di Tizzano in Corsica e si preparava ad assalire Sassari; senza indugio egli fece vela per Genova.
Il Morosini, uscito da Bocca d’Arno il 22 luglio, pensò che lo Zaccaria sarebbe tornato per la Riviera di Ponente, puntò direttamente su Albenga per tentar di tagliargli la strada: ma l’ammiraglio genovese rimpatriò per La Riviera di Levante.
Il 31 luglio la squadra del Morosini, senza aver incontrato quella dello Zaccaria, comparve dinanzi a Genova. Ma la città aveva avuto il tempo di mobilitare i marinai delle due Riviere, e in poche ore – quante occorsero ai nemici per giungere da Varazze, dove erano stati avvistati la mattina, alle adiacenze del porto – furono pronte 58 galee e 8 panfili, sotto il comando di Oberto d’Oria.
LE ARMI USATE SULLE GALEE
Non mancavano i mezzi per scagliare grosse
pietre a distanza: le galee avevano a bordo gran numero di arnesi di lancio meccanico: catapulte, mangani, trabocchetti, balestre fisse, gatti, briccole, alcuni dei quali gettavano proiettili di trenta libbre e anche più. I Genovesi, anzi, erano famosi come balestrieri e costruttori di balestre; e poiché anche allora le armi navali più pesanti erano dello stesso genere di quelle usate nella tecnica d'assedio terrestre, oltre che pietre, dalle navi si scagliavano liquidi bollenti (olio, pece, calce viva, anche sapone liquido per far scivolare gli uomini sul ponte);
Non mancavano anche altri ordigni bizzarri, come quell'«arganel» rotante, che aveva per braccia una quantità di spade affilate, che fu visto alla battaglia della Meloria sulla prua d'una galea pisana. I Pisani s'erano ripromessi di sorprendere i Genovesi con questo nuovo strumento d'offesa, ma s'ingannarono: galea e arganello andarono a ingrossare i trofei della vittoria nemica."
La parola a Roberto S.Lopez
Forzare l’entrata di un porto così ben munito non pareva possibile; né il d’Oria volle uscire a dar battaglia con forze di tanto inferiori, sebbene i Pisani lo aizzassero con clamori e vituperi. …. Non c’é ragione di dubitare che, ( i pisani) trovandosi così vicini alla città nemica, non abbiano adoperato i famosi trabocchetti per far piovere” a grandigia dentro le mura palle coperte di panno scarlatto” o balestrarvi “quadrella d’argento”.
Comunque fu breve trionfo: la sera medesima Benedetto Zaccaria, sfuggito alla caccia delle navi pisane, da Portofino entrava sano e giulivo nel porto di Genova.
La situazione era rovesciata: e tutto il merito era dello Zaccaria. Se egli avesse perso qualche ora, gli avvenimenti avrebbero preso una piega molto diversa….
Ormai era tardi: se il Morosini avesse aggredito lo Zaccaria prima che entrasse in porto, certamente Oberto d’Oria lo avrebbe preso in mezzo, con forze preponderanti.
La sola salvezza dei Pisani, trionfatori la mattina, stava ormai in una precipitosa ritirata. La parola FUGA ripugnava a una flotta che era partita per compiere una spedizione punitiva: i cronisti pisani asseriscono che i loro connazionali si staccarono dalle acque nemiche per via del vento contrario…quasiché le navi di Benedetto Zaccaria fossero state intessute d’Eolo e di brezze.
La notte medesima Oberto d’Oria, lasciato sgombro il porto, andò a ormeggiarsi davanti alla spiaggia di Sturla. Quando le due flotte genovesi riunite giunsero nelle acque del Porto Pisano, i Pisani vi erano dal giorno prima. Si raccontò più tardi che la loro squadra era rientrata in città, che gli equipaggi erano stati passati in rivista fra i due ponti sull’Arno e benedetti dall’arcivescovo Ruggeri: e che durante la solenne cerimonia il globo con la croce posto sullo stendardo era caduto a terra. Terribile presagio; ma gli orgogliosi Pisani gridando “battaglia, battaglia!” erano usciti incontro al nemico e avevano disprezzato il celeste avvertimento. Favole: i Pisani il tempo di muoversi da porto Pisano prima che arrivassero i Genovesi lo avevano avuto: la croce dello stendardo cadde realmente dall’asta, ma prima ancora che l’armata partisse per il bombardamento di Genova.
Estate 1284: nel braccio di mare di fronte alle Secche della Meloria, le due Repubbliche Marinare si contendono l’egemonia sul Mediterraneo.
La sera del 6 agosto 1284 il mare davanti a Livorno era rosso di sangue e ingombro di cadaveri che galleggiavano tra remi spezzati, vele strappate, gomene tagliate, scialuppe rovesciate. La potenza della Repubblica Marinara di Pisa era tramontata, schiacciata da Genova.
Alla loro volta i Genovesi inseguirono i Pisani che, dopo avere volteggiato verso Capo Corso, erano tornati a Porto Pisano. Per attirare i nemici a battaglia, il d'Oria ricorse a uno stratagemma, ordinò cioè allo Zaccaria di calare le vele e gli alberi e di nascondersi con una parte dell'armata (forse presso Montenero di Livorno): sicché, contate le vele nemiche e vistele molto inferiori di numero alle sue, il Morosini deliberò di accettare il combattimento, e uscì dal Porto Pisano dirigendosi verso il nemico. La battaglia avvenne il 6 agosto presso le secche della Meloria (pare che Iacopo Doria chiamasse Veronica lo scoglio), e dapprima parve volgere in favore ai Pisani, le cui 102 tra galee e navi minori erano molto superiori alle 60 del d'Oria, e appoggiate alle secche presentavano un aspetto formidabile. Ma a un tratto ecco avanzarsi contro la formazione pisana la squadra dello Zaccaria, che dava ai Genovesi, se non la superiorità del numero, il vantaggio della sorpresa. Era ormai per i Pisani troppo tardi per ritirarsi ed evitare l'avvolgimento di una delle ali, comandata da Andreotto Saraceno. Si combatté disperatamente, non più per la vittoria, bensì per la salvezza.
Ma quando lo Zaccaria con due galee accoppiate, fra le quali era tesa una grossa catena, venne a investire la capitana pisana, troncandone di netto al primo urto lo stendardo bianco con l'immagine della Vergine, la linea pisana cominciò a spezzarsi; poi, dopo disperata resistenza, fu rotta. E incominciò l'inseguimento e la strage. Solo l'ala sinistra, grazie all'abilità e alla prudenza di Ugolino della Gherardesca, che la comandava, poté mettersi in salvo, riparando nel porto e conservando così a Pisa una parte delle sue forze navali, circa venti galee. Delle altre, come dice l'iscrizione apposta sulla facciata di S. Matteo, chiesa dei D'Oria, 33 furono prese, 7 affondate. Le perdite dei Pisani furono di circa 5000 morti e, secondo l'iscrizione, di 1272 prigionieri. Tra essi il podestà Morosini e Lotto, figlio di Ugolino. Le perdite genovesi furono anch'esse molto gravi; ma mentre Pisa senza retroterra non poteva più rialzarsi e, circondata com'era da feroci nemici (Lucca, Siena, Firenze), era destinata irrimediabilmente a perdere libertà e dominio, Genova, avendo nelle due riviere inesauribile riserva di uomini, poté ben presto riparare ai vuoti.
Torre della Meloria luogo della Battaglia
«La battaglia della Meloria», un dipinto di Giovanni David (1743-1790) collocato a Genova sopra l’ingresso del Salone del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale
La sera del 6 agosto 1284 il mare davanti a Livorno era rosso di sangue e ingombro di cadaveri che galleggiavano tra remi spezzati, vele strappate, gomene tagliate, scialuppe rovesciate. La potenza della Repubblica Marinara di Pisa era tramontata, schiacciata da Genova. Le due città erano in lotta perché i loro interessi commerciali si sovrapponevano sia nel Mare Tirreno (entrambe aspiravano al controllo di Sardegna e Corsica) sia nel resto del Mediterraneo (tutte e due avevano colonie in oriente e si contendevano i flussi di spezie e seta). Il confronto era impari perché Genova, stretta tra mare e montagna, non doveva fronteggiare nemici in terraferma, mentre Pisa, avvantaggiata dal fatto di sorgere alla foce dell’Arno, sbocco sul mare per tutta l’economia toscana settentrionale, era braccata da città ostili (Lucca per prima) sempre pronte ad attaccarla.
LA FATAL BATTAGLIA
Di Roberto S.Lopez
La flotta genovese, comparsa il 5 agosto di sera davanti alla Meloria, vide la mattina dopo i vascelli pisani ancorati sotto la protezione delle torri di Porto Pisano, dietro le catene che ne chiudevano l’accesso.
Perché i nemici credessero di avere davanti a sé la sola squadra di Oberto d’Oria, le galee di Benedetto Zaccaria ammainarono le vele e seguirono il grosso dell’armata a una certa distanza, in modo da poter essere scambiate per quelle barche che di solito accompagnavano le navi da guerra: non però così lontane da non poter intervenire a tempo nella mischia.
Era il giorno di San Sisto, data consacrata per tradizione alle battaglie navali.
I Pisani abboccarono all’amo. L’armata della riscossa, tornata senza gloria e a mani vuote, non poteva rientrare a Pisa, e tollerare per di più lo sfregio della presenza dei Genovesi davanti al porto…
(Ingannato dallo stratagemma) Morosini giudicò avere quella leggera superiorità numerica che gli avrebbe accordato parecchie galee favorevoli sui Genovesi, i quali dovevano essere anche stanchi del viaggio.
La flotta pisana uscì dal porto sicuro e si schierò di fronte a quella nemica. Da quel momento l’esito della lotta fu deciso.
La battaglia della Meloria é stata narrata più e più volte da altri, cosicché non ci attarderemo troppo a descriverla. Come é noto i Pisani, usciti dal porto alla mattina, non potevano muovere all’assalto perché erano coperti d’armi pesantissime, e imbarcati su vascelli carichi dei trabocchetti già destinati all’onta dei Genova, e resi ancor più grevi dalla corazzatura degli scudi. Ne approfittarono i genovesi per lasciar cuocere gli avversari fino a vespro, sotto il solleone d’agosto; poi, distribuito pane e vino ai marinai ormai riposati dal viaggio, attaccarono.
Da ambo le parti si combatté con grande valore; si scagliavano dardi, sapone liquido, calce polverizzata a nuvole che oscuravano l’aria, mentre il mare si tingeva di sangue; ma poco dopo l’inizio della battaglia – mentre, a detta d’un cronista poco sospettoso perché appartenente a una città neutrale, i Pisani vincevano – sopraggiunse Benedetto Zaccaria a far tracollare la bilancia dalla parte dei Genovesi. La loro galea capitana era venuta a battaglia con quella dei Pisani: subito lo Zaccaria accorse in aiuto del supremo comandante, intuendo che là si decideva la lotta. I Pisani avevano due stendardi, uno dei quali issato sulla nave ammiraglia: lo Zaccaria, legata una catena agli alberi di due galee, le fece passare l’una a destra l’altra a sinistra della ammiraglia; nell’urto il pennone fu falciato e cadde il drappo vermiglio recante l’immagine della Madonna, che vi sventolava. Nello stesso tempo la galea di S. Matteo – dove erano saliti, a quanto pare, duecentocinquanta persone della famiglia d’Oria, fra le quali i generi di Benedetto e Manuele Zaccaria, Paolino e Niccolò – assaliva il vascello pisano sul quale sventolava la bandiera del Comune, che fu tosto lacerata: ma solo dopo lunghi sforzi si poté abbattere l’asta ricoperta di ferro.
La caduta dei due stendardi segnò il principio della rotta: i Genovesi, fatta prigioniera la galea ammiraglia nemica, diedero l’assalto generale; e i Pisani, che sino allora avevano combattuto con disparata tenacia, cercarono salvezza nella fuga. Fu detto che per primo fuggisse il conte Ugolino, con tutta una sezione dell’armata: ma il suo non fu tradimento, ché anzi valse a salvare alla Repubblica almeno una piccola parte di quella superba flotta, che ormai era votata alla distruzione.
Sette galee erano state sommerse. Trentatré vascelli; una moltitudine di prigionieri (contando anche quelli catturati nelle precedenti battaglie, più di novemila) fra i quali il podestà Morosini, tutto il collegio di giudici, il conte Lotto che solo grazie alla prigionia poté poi sfuggire alla morte nel carcere della Fame; il sigillo del podestà, lo stendardo, la cancelleria del Comune pisano: questa la preda superba dei Genovesi.
Ma anche i vincitori avevano subite perdite gravissime, cosicché non tentarono un assalto alla città – l’avrebbero trovata indifesa e prostrata sotto il peso delle sciagure, che avevano colpita in essa quasi ogni famiglia – e ritornarono subito a Genova senza celebrare con grandi feste un trionfo per cui tante famiglie dovevano vestir gramaglie.
A CHI VA ATTRIBUITO IL MERITO D’AVER IMMAGINATO LO STRATAGEMMA CHE PROCURO’ LA VITTORIA? AL COMANDANTE SUPREMO DELLA SPEDIZIONE GENOVESE OBERTO D’ORIA OPPURE A BENEDETTO ZACCARIA?
Ce lo spiega Roberto S. LOPEZ
In genere si credette, e si crede, che la gloria spettasse al capitano del popolo, ammiraglio supremo della squadra: Oberto d’Oria, tanto più che la sua famiglia, a ragione considerata fra le più illustri di Genova, si fece il panegirico da sé nella famosa iscrizione della chiesa di San Matteo. Anche l’Annalista di Genova – Jacopo d’Oria, fratello dell’ammiraglio – attribuisce il piano di battaglia a Oberto: ma, considerata la stretta parentela che lo univa a lui, non c’é da stupirsene.
Piuttosto può sembrare strano che negli Annali si trovi solo un vago accenno alla disposizione delle galee dello Zaccaria, cosicché noi la ignoreremmo senza il chiaro racconto di un altro cronista. Si direbbe che Jacopo d’Oria abbia a bella posta lasciato in ombra un accorgimento che non fu dovuto a suo fratello.
Ma confrontiamo il curriculum vitae di Benedetto Zaccaria con quello di Oberto d’Oria. Questi prima del 1284 aveva compiuto un saccheggio dell’indifesa isola di Candia, e due volte, nel 1271 e nel 1283, uscito in forze dal porto, era tornato senza nemmeno aver combattuto.
La medesima irresolutezza si palesa dopoché i Pisani hanno tentato di bombardare Genova: superiore a loro per forze, invece di costringerli a battaglia tende loro un trabocchetto abbastanza grossolano, e perde un tempo prezioso prima d’inseguirli. La Meloria, se non é il battesimo del fuoco per il d’Oria, é per lo meno la sua prima battaglia. E anche l’ultima: nel 1295, ottenuto di nuovo il comando di una flotta – la più grande che Genova avesse armato, centosessantacinque galere – se ne servì soltanto per giungere a Messina, aspettarvi inutilmente diciotto giorni la squadra veneta (con grande stupore dei Siciliani, che non vedevano l’ombra di un veneziano) e tornare indietro senza aver torto un capello o bruciato una chiatta al nemico.
Non é dunque un capitano così dubbioso, esitante, scialbo che poteva aver concepito il piano e la condotta della battaglia fatale ai Pisani. Un altro uomo accanto a lui, con attribuzioni di comando quasi indipendenti, aveva l’esperienza e l’ingegno necessari: Benedetto Zaccaria.
Uno storico eminente ha osservato che la formazione della flotta genovese alla Meloria era uguale ad una di quelle trattate fin dal secolo IX da un tattico greco, Leone il Filosofo: coincidenza fortuita, o non piuttosto vestigio dell’opera di un ammiraglio educato alla scuola di Bisanzio? E, quand’anche le imprese dello Zaccaria contro i pirati dell’Egeo non fossero arra (garanzia) bastante per proclamare il suo genio militare, le vittorie smaglianti che più tardi riportò contro i Saraceni del Marocco sono ben degna di quella che nel 1284 troncò la secolare gloria di Pisa, e mutò così la storia del mare.
La formazione tattica usata per la prima volta nel 1284, da Benedetto Zaccaria, divenne classica e si radicò nell’arte militare di Genova: le più belle vittorie ch’essa riportò in seguito, Curzola e Pola, furono combattute seguendo la medesima strategia.
Cronotassi dei principali avvenimenti
· 1237 - prima battaglia della Meloria (3 maggio) con vittoria pisana che fa prigionieri 4.000 genovesi
· 1254 – fondazione dell’eremo di San Jacopo ad opera degli Agostiniani su autorizzazione del capitano del porto
· 1267 – Carlo d’Angiò distrugge gran parte del Porto Pisano e dei suoi dintorni con le pievi, monasteri, spedali, borghi, dogana, ecc.
· 1270 – Corradino di Svevia s'imbarca sulla flotta pisana per la spedizione punitiva in Sicilia contro Carlo d'Angiò; scomunica papale alla repubblica pisana
· 1282 - è eretta una torre a Salviano per difendere il porto dal lato terra
· 1284 - il 6 agosto si combatte la seconda Battaglia della Meloria, con la disfatta pisana; il porto in gran parte distrutto dalle armi genovesi e circoscritto dal progressivo interramento viene limitato tra la foce dell'Ugione e il borgo di Livorno
· 1284 - viene eretta la nuova torre Rossa a difesa del porto
· 1285 - sono erette le torri di difesa Maltarchiata e Fraschetta; la cala portuale può contenere ancora un centinaio di galee; un nuovo attacco genovese dal mare e lucchese da terra danneggia gran parte del porto
· 1286 - i genovesi distruggono la torre-faro della Meloria
· 1289 - nuovo attacco della flotta genovese che taglia la catena del porto e a pezzi la porta a Genova
· 1290 - nuove distruzioni ad opera dei genovesi, fiorentini e lucchesi che danneggiano le torri e tentano di insabbiare l'ingresso del porto
· 1303 - i provveditori delle fabbriche del porto, Lando Eroli e Jacopo da Peccioli, fanno erigere il nuovo Fanale (attuale faro di Livorno), vengono costruite nuove opere portuali e fortificazioni, posta una nuova catena all'ingresso e risarcito l'acquedotto di Santo Stefano che fornisce l'acqua alle navi
· 1339 - si comincia a citare in modo distinto il porto dallo scalo di Livorno
· 1360 - in previsione della guerra con Firenze si rafforzano le fortificazioni del porto e sono restaurate le torri Rossa e Castelletto
· 1363 - assalto di galee genovesi al soldo di Firenze, molti edifici sono distrutti, la catena è nuovamente tagliata e i suoi pezzi appesi alle colonne di porfido del battistero fiorentino
· 1364 - ultimo grande scorreria nel porto ad opera dei fiorentini Monforte, Manno Donati e Bonifacio Lupi
TRACCE DI PISA A GENOVA DOPO LA MELORIA
Come abbiamo appena letto, il 6 agosto 1284: in una delle più grandi battaglie navali del medioevo, la Battaglia della Meloria, la flotta pisana, comandata dal Podestà, il veneziano Alberto Morosini (ma è partecipazione individuale, Venezia non interviene), è pressoché annientata.
Genova sconfigge la rivale Pisa per merito di Oberto Doria e del suo esperto collaboratore Benedetto Zaccaria. Un'impressione di stupore quasi mistico si produce a Genova dalla grande vittoria e dal grande numero di prigionieri (oltre 9000) da far nascere il notissimo proverbio «chi vuol vedere Pisa vada a Genova».
Tuttavia le trattative di pace languivano finché il 15 aprile 1288 fu firmato a Genova l'atto di pace, che Pisa ratificò il 13 maggio successivo.
Le condizioni dettate dai Genovesi erano gravissime e non pareva proprio che i Pisani volessero eseguirle. Così il 23 agosto 1290 la flotta genovese comandata da Corrado Doria salpò da Genova per raggiungere il Porto Pisano; ne abbatté le torri e mentre i Lucchesi devastavano Livorno e la campagna pisana, i Genovesi distrussero dalle fondamenta Porto Pisano, otturando con pietre e con una nave piena di mattoni le bocche dell'Arno. Fu in quella occasione che i Genovesi si impossessarono delle Catene di Porto Pisano.
Secondo le cronache, fu il genovese Noceto Ciarli (o Chiarli) ad aver avuto l'idea di accendere un fuoco sotto di esse, in modo da poter indebolire il metallo e da rompere facilmente gli anelli che chiudevano il porto. L'astuta mossa dei genovesi permise loro di entrare nel Porto di Pisa e di raderlo al suolo, interrandolo e cospargendolo di sale (esattamente come i Romani avevano fatto con Cartagine), in modo da renderlo totalmente infertile ed inutilizzabile.
La catena che avrebbe dovuto proteggere il porto fu spezzata in varie parti e portata a Genova; queste vennero appese in varie chiese ed edifici della città, a scherno dei pisani e a monito della potenza dell'omonima repubblica.
Franco Bampi, presidente de A COMPAGNA - Genova, ha stilato questo interessante elenco intitolato:
Da dove pendevano
le catene di Porto Pisano
a Genova
1. Chiesa di San Torpete
Fu San Torpete la chiesa della comunità pisana di Genova, sulla cui facciata nel 1290 furono sospesi alcuni anelli della catena del porto pisano, infranta dai fabbri della flotta genovese guidata da Corrado Doria la quale il 10 settembre 1290 aveva forzato il porto rivale.
2. Palazzo del Capitano del Popolo (Palazzo San Giorgio)
Al di là della via Filippo Turati scorgiamo il palazzo fatto costruire dal capitano del Popolo Guglielmo Boccanegra negli anni intercorrenti dal 1257 al 1262 e divenuto, dopo la deposizione di costui, il palazzo del Comune sulla cui facciata, tra un arco e l'altro, pendevano tredici anelli della già menzionata catena.
3. Chiesa.di.Santa.Maria.di.Castello
Il nostro itinerario ci conduce alla chiesa di santa Maria di castello, anch'essa ornata con quattro anelli della catena di porto pisano, la quale ebbe il primo fonte battesimale di Genova, secondo un'antica tradizione.
4. Chiesa.del.Santissimo.Salvatore
Risaliamo in piazza Sarzano sostando dinanzi alla chiesa del Santissimo Salvatore sul cui prospetto stavano altri tre anelli della catena che chiudeva il porto di Pisa...
5. Porta.Soprana
...e, per l'antica strada di Ravecca, giungiamo in vista della Porta Soprana appartenente alla cinta muraria costruita dal 1157 al 1159; da sotto il suo arco pendevano quattro anelli dell'anzidetta catena il cui ricordo ancora ci lega alla città di Pisa.
6. Bassorilievo.in.Borgo.Lanaiuoli
Ridiscesi nello scomparso vico dritto Ponticello, ci ricordiamo di una casa che formava angolo con il Borgo Lanaiuoli; su di essa era murato un bassorilievo, che risaliva al 1290, raffigurante tre moli chiusi da catena sormontati da tozze torri rotonde e circondati da fortificazioni; da esso pendevano due anelli della stessa catena del porto pisano rappresentato dallo stesso bassorilievo.
7. Porta.degli.Archi
Oltre questa s'apriva la piazza di Ponticello sul cui lato opposto era situato l'ospedale di Santo Stefano che prospettava la strada direttamente alla Porta degli Archi: anche su questo edificio erano stati posti alcuni anelli della menzionata catena.
8. Chiesa.della.Maddalena
Scendendo lungo la via ai quattro canti di San Francesco, la quale anticamente era detta Mansura o contrada dei Mussi, arriviamo alla chiesa della Maddalena dinanzi a cui sostiamo perché sopra il suo ingresso stavano sospesi altri quattro anelli della catena.
9. Salita.di.Sant'Andrea
Da Luccoli, per uno dei vicoli che ascendevano alla Domoculta, saliamo idealmente alla scomparsa salita di Sant'Andrea oer rammentare i quattro anelli della catena del porto pisano che pendevano dalla sua facciata.
10. Chiesa.di.Sant'Ambrogio
Mediante il vico di Borgo sacco si scendeva nella strada dei sellai dove la chiesa di Sant'Ambrogio recava anch'essa sulla sua fronte gli anelli della stessa catena.
11. Chiesa.di.San.Matteo
Per la contrada delle prigioni detta più anticamente strada dei Toscani, corrispondente all'odierna via Tomaso Reggio, e per la salita all'arcivescovato scendiamo alla chiesa di San Matteo la quale, oltre ad esporre i consueti anelli, conservava un cimelio della battaglia della Meloria ricordato da Agostino Giustiniani: «Il stendardo Pisano col sigillo del Podestà fu riposto nella chiesa di S. Matheo».
12. Chiesa.di.Santa.Maria.delle.Vigne
Poco lungi da questa chiesa vi è quella di Santa Maria delle Vigne che si fregiava per essa degli anelli recati da Pisa nel 1290.
13. Chiesa.di.San.Donato
Compiendo il già percorso cammino il nostro itinerario ci conduce alla chiesa di San Donato dove nel 1290 furono sospesi, allo spigolo esterno del suo portale, quattro anelli della catena recata a Genova quale trofeo di guerra.
14. Porta.dei.Vacca
E per le strade di Giustiniani, Canneto il Curto, Banchi, San Luca, Fossatello e del Campo, incontriamo nuovamente le mura del XII secolo le quali avevano nella Porta dei Vacca il varco in direzione della riviera di ponente. Anche su questa porta si trovavano quattro anelli della catena suddetta i quali pendevano dall'apice sottostante all'arco esterno.
15. Chiesa.di.San.Sisto
Per la lunga strada di Pré si perviene alla chiesa di san Sisto, un'altra delle chiese già fregiate con detti anelli.
16. Commenda.di.San.Giovanni.di.Pré
Il nostro percorso si conclude di fronte alla commenda di San Giovanni di Pré, anch'essa onorata degli anelli che già avevano serrato il porto di Pisa. liguria@francobampi.it
ALBUM FOTOGRAFICO
“Alcuni pezzi delle catene di Porto Pisano, restituite dai genovesi nel 1860, oggi custodite nel cimitero monumentale di Pisa”.
Porta Soprana-Genova ritratta alla metà del XIX secolo da Domenico Cambiaso. Al centro dell'arco pendono alcuni anelli delle catene di Porto Pisano.
Maglie di catena del Porto Pisano a Murta, nel territorio del Comune di Genova.
Maglie delle Catene di Porto Pisano a Moneglia
(...) Come alleata di Genova contro Pisa, Moneglia, nel 1284 intervenne con sue navi alla battaglia della Meloria, ne sono testimoni due maglie della catena che chiudeva Porto Pisano, distrutto dai genovesi dopo la vittoria, ancora ben visibili sulla facciata della chiesa di Santa Croce, portate dal monegliese Trancheo Stanco. Parte di quelle antiche catene erano infisse sui principali monumenti genovesi, ma furono restituite all'antica rivale dopo l'Unità d'Italia.
Traduzione della lapide:
Nel nome del Signore così sia
Anno 1290
Questa catena fu portata via
dal porto di Pisa
la lapide fu posta dal signor
TRANCHEO STANCO DI MONEGLIA
battaglia della Meloria 1284
CAMPO PISANO – Genova
Una storia tanto gloriosa, quanto lugubre.
Una delle piazze più suggestive e meno note del centro storico, sempre avaro di spazi aperti, deve il suo nome e la sua storia a una delle pagine più gloriose e al tempo stesso tragiche della storia di Genova. Parliamo di Campo Pisano, la piazza a risseu sotto Sarzano, con i suoi alti palazzi che la chiudono a emiciclo. Vuole la tradizione, suggestiva ma probabilmente sbagliata, che l’appellativo “pisano” venga dalla battaglia della Meloria e da quello che ne seguì.
Tra migliaia di morti lasciati nel mare di Toscana, i genovesi catturarono circa 10 mila soldati nemici, compreso il comandante veneziano Alberto Morosini (Pisa per tradizione sceglieva un podestà straniero) e quel Rustichello che scriverà “Il Milione” per conto di Marco Polo, durante la prigionia genovese. I pisani condotti in città vennero sistemati in quest’area: ricchi e nobili vennero riscattati e riuscirono a salvarsi, mentre agli altri il destino riservò la morte, per stenti, per fame, per omicidio e il campo dei pisani divenne – anche, e soprattutto – il camposanto dei pisani. Passarono ben 13 anni prima che i pochi sopravvissuti (non più di qualche centinaia) venissero liberati, mentre nasceva il detto, drammatico e beffardo allo stesso tempo, “Se vuoi vedere Pisa vai a Genova”. Quello che era uno spazio libero e aperto venne edificato nel Cinquecento, poco prima di essere compreso tra le mura.
Campo Pisano
l nome deriva dal fatto che lì furono concentrati migliaia di prigionieri pisani, catturati dai genovesi al tempo delle Repubbliche Marinare.
Dal sito di Miss Fletcher:
La storica rivalità con la città di Pisa per il predominio del Mediterraneo sfociò, nel 1284, nella battaglia navale della Meloria, durante la quale i genovesi, sotto la guida di Oberto Doria, Benedetto Zaccaria ed Oberto Spinola, inflissero ai nemici una bruciante sconfitta.
I genovesi se ne tornarono a casa baldanzosi e trionfanti, portandosi via la catena del porto di Pisa come trofeo e l’appesero sulle Mura di Porta Soprana come simbolo visibile della loro vittoria, arrivarono persino a scioglierne le maglie per esporne gli anelli sui palazzi e sulle chiese più importanti della città.
Oltre a ciò, fecero di più: oltre novemila prigionieri tra i pisani, deportati e rinchiusi qui, in questa zona, in questa piazza.
Qui vissero, qui morirono e vi furono sepolti, da questo nasce il nome di questo angolo così suggestivo di Genova.
Sotto Campopisano c’è la sua storia, lì c’è il destino delle persone che vi hanno abitato, che laggiù hanno sognato e sofferto, nel ricordo della loro città natale che non avrebbero mai più rivisto.
Fa una certa impressione, almeno a me, camminare sui suoi ciottoli.
Che gente dura, i genovesi: sono aspri, di poche parole, sono schivi, chiusi, è proprio nel carattere dei liguri questo tratto così marcato, è il nostro segno distintivo.
E sono gente tosta i genovesi.
Se avete dei dubbi, guardate quale perentoria affermazione si trova incisa su un portale in Via di Santa Croce.
“Mi piego ma non mi spezzo”
Certo il padrone di casa doveva essere uno che sapeva farsi rispettare, non conveniva questionare con lui, senza dubbio avrà avuto dei dirimpettai mansueti ed accomodanti che, preso atto del motto di famiglia, avranno accuratamente evitato fastidiosi quanto inutili dissidi condominiali.
Il famoso Risseu di Campo Pisano
Camposanto Pisano a Genova dei prigionieri pisani della Meloria. La storia dei fantasmi di Campo Pisano ha la sua origine nel 1284 con la vittoria dei genovesi su Pisa nella battaglia della Meloria.
Questa piazza e la zona circostante viene edificata a partire dal XV secolo; successivamente essa venne inglobata nelle mura del XVI secolo. La piazza ha la forma di una ansa con le case alte e il pavimento a “risseu” bianchi e blu (i risseu sono “ricami di pietra” fatti utilizzando ciottoli marini usati a Genova e in Liguria per decorare le pavimentazioni dei selciati e delle piazze cittadine).
Il turista che oggi arriva in questa piazza viene colto dalla bellezza del luogo, con le sue alte case quasi intente ad abbracciare il viandante e il mare che compare in uno spiraglio tra le case che portano alla Marina. Ebbene, tutto questo romanticismo deve esser sfuggito ai novemila prigionieri pisani che vennero rinchiusi in questo luogo, i quali, a causa del rigido inverno e delle precarie condizioni nelle quali erano costretti a vivere, morirono quasi tutti e lì vennero seppelliti.
Le loro anime senza pace son ancora presenti in zona e c’è chi afferma che nelle notti di tempesta si possano ancora scorgere le sagome dei prigionieri pisani che in catene risalgono la scalinata che dalla Marina porta in Campo Pisano.” (tratto da http://www.isegretideivicolidigenova.com/ )
LA PIETRA DELLA CATENA PISANA
Il bassorilievo raffigurante il porto di Pisa con le due torri, Magnale e Formice, e la lunga catena stesa tra le stesse
(foto di Antonio Figari)
Particolare del bassorilievo raffigurante le catene del porto di Pisa
(foto di Antonio Figari)
“Le battaglie si vincono e si perdono con identico cuore. Io faccio rullare i tamburi per tutti i morti, per essi faccio squillare le trombe in tono alto e lieto, Vivan coloro che caddero, viva chi perde in mare i propri vascelli. Vivan coloro che affondano con essi. Vivan tutti i generali sconfitti e tutti gli eroi schiacciati e gli innumerevoli eroi sconosciuti, uguali ai più grandi conosciuti eroi.”
Walt Whitman
LE REPUBBLICHE MARINARE
(breve sintesi)
La definizione di repubbliche marinare, nata nel 1800, si riferisce alle città portuali italiane che nel Medioevo, a partire dal IX secolo, godettero, grazie alle proprie attività marittime, di autonomia politica e di prosperità economica.
La definizione è in genere riferita in particolare alle quattro città italiane i cui stemmi sono riportati nelle bandiere della Marina Militare e della Marina Mercantile: Amalfi, Genova, Pisa e Venezia. La bandiera della marina si fregia degli stemmi di queste quattro città dal 1947. Oltre alle quattro più note, tra le repubbliche marinare si annoverano però anche Ancona, Gaeta, Noli e la repubblica dalmata di Ragusa; in certi momenti storici esse ebbero un'importanza non secondaria rispetto ad alcune di quelle più conosciute.
Mappa delle Repubbliche Marinare Maggiori e Minori
Elementi che caratterizzarono una repubblica marinara sono:
l'indipendenza (de iure o de facto);
autonomia, economia, politica e cultura basate essenzialmente sulla navigazione e sugli scambi marittimi;
il possesso di una flotta di navi;
la presenza nei porti mediterranei di propri fondachi e consoli;
la presenza nel proprio porto di fondachi e consoli di città marinare mediterranee;
l'uso di una moneta propria accettata in tutto il Mediterraneo e di proprie leggi marittime;
la partecipazione alle crociate e/o alla repressione della pirateria.
Localizzazione e antichi stemmi delle repubbliche marinare
Venezia
La Repubblica di Venezia, detta "La Serenissima", ebbe per secoli un ruolo fondamentale nel commercio tra l'Europa e il Mediterraneo orientale; nel momento della sua massima espansione territoriale era riuscita a conquistare gran parte dell'Italia del Nord-Est, arrivando a pochi chilometri da Milano. Lungo le coste mediterranee si impossessò della penisola istriana, dell'intera Dalmazia (ma Ragusa fu veneziana solo per centocinquant'anni) e di vaste regioni della Grecia: le isole Ionie, la Morea (attuale Peloponneso, anche se solo temporaneamente), Creta, Cipro, Negroponte (attuale Eubea) e diverse altre isole dell'Egeo.
Genova
L'antagonista per eccellenza di Venezia fu Genova che nel 1298 sconfisse la flotta veneziana. La Repubblica di Genova ebbe vari epiteti in base alle proprie caratteristiche economiche, commerciali e navali: La Superba, La Dominante, La Dominante dei mari e La Repubblica dei Magnifici. Oltre ad una presenza significativa in Oriente e nel Mar Nero, aveva il monopolio dei commerci nel Mediterraneo occidentale. Notevole la sua massima espansione territoriale, che oltre alla Liguria e l'Oltregiogo, comprese Corsica, Sardegna, Crimea, Tabarca, Rodi, Creta, vaste aree della Grecia e della Turchia, Gibilterra, alcune zone della penisola Iberica, della Sicilia, alcune isole dell'Egeo e Pera, la colonia nell'odierna Istanbul di Galata a Costantinopoli.
Pisa
La Repubblica di Pisa ebbe una notevole importanza, anche per le conquiste territoriali che nel momento della sua massima espansione comprendevano la Sardegna, la Corsica e le isole Baleari; era attiva soprattutto in Occidente; la rivalità con Genova e le guerre con Firenze le furono fatali.
Amalfi
Amalfi ebbe una storia gloriosa e pre coce di potenza marittima, e le navi amalfitane battevano i mari insieme a quelle veneziane quando le altre repubbliche ancora dovevano affermarsi. La città campana non occupò mai vasti territori ma ebbe il dominio commerciale nel Mediterraneo meridionale ed orientale molto prima di Venezia. Se la sua storia di indipendenza e di navigazione iniziò molto presto, anche la decadenza arrivò presto, principalmente a causa dell'arrivo dei Normanni nel Meridione, che soppressero le autonomie locali per dar vita al grande stato del Regno di Sicilia, oltre che per la rivalità delle nascenti repubbliche di Pisa e Genova.
L'attuale stemma della Marina Militare, così come rinnovato nel dicembre 2012
Lo stemma rinnovato
Lo stemma della Marina Militare è stato rivisto completamente, in particolar modo il quarto di Venezia, la croce pisana e la corona, dall'araldista Michele d'Andrea, autore, tra l'altro, del primo tentativo di modifica del leone di Venezia fatto durante la realizzazione della bandiera collonnella del Reggimento “San Marco”. Essendo i decreti del 1941 e del 1947 molto approssimativi, gli interventi di modifica del nuovo stemma non hanno richiesto un nuovo decreto, potendosi muovere tra le larghe maglie interpretative dei due testi;[11] lo stemma rinnovato è infatti stato ufficializzato con un semplice foglio d'ordine della marina, il n. 52 del 16 dicembre 2012.
È stata data nuova volumetria alle prue, prima quasi ridotte a dei bassorilievi, mentre per il loro disegno si è fatto riferimento alle prue bronzee che ornano il basamento delle aste portabandiera del Vittoriano. Le torri laterali mostrano una maggiore tridimensionalità e sono state pensate per essere più fedeli alla vista laterale del castelletto ligneo collocato nella porzione anteriore delle navi militari romane. L'ancora centrale è stata rimpicciolita e nel cerchio della corona sono scomparse le cordonate.
Il leone di San Marco è diventato più muscoloso e leonino, con una criniera più folta, zampe più possenti e una coda meno rigida. Il nimbo è stato ridisegnato, così come il mare (cinque righe di onde) che lambisce una visibile terraferma dove è poggiato, sotto la zampa anteriore sinistra del leone, il libro chiuso rilegato in cuoio rosso. Il simbolo di Pisa è stato privato delle nervature interne ed i pomi ora non hanno più le linee di contorno, come se fossero saldati alla croce, ora più dilatata (anche se non esistono regole per definire le proporzioni e gli angoli di detta croce).
Infine, è stato ridotto lo spessore del cavo torticcio d'oro per far risaltare i simboli araldici.
CARLO GATTI
Rapallo, 30 Maggio 2018
Bibliografia:
- “BENEDETTO ZACCARIA” - di Roberto S. LOPEZ - Ediz. CAMUNIA Editrice 1996 - Firenze
- Enciclopedia TRECCANI
- T.C.I - Toscana
- Genova e La Liguria - Insediamenti e culture Urbane - di Paolo Stringa. CA.RI.GE
- Enciclopedia Della Liguria - (IL SECOLO XIX) - 2000
- Genova - (IL SECOLO XIX) - 1992
- MEDIOEVO - Repubbliche Marinare - Il Clan dei Genovesi - De Agostini 1998
- Vari siti Web citati di volta in volta nel saggio
SULLE ROTTE DEL GUANO
SULLE ROTTE DEL GUANO
A cura di Pietro BERTI
Queste bottiglie, conservate per tanto tempo in alcune case di Camogli sono state donate al Museo dal Cap. Ag. De Gregori, Rosa Marciani, Davide De Ferrari e Gemma Cuneo. Come abbiamo visto, il traffico del guano contò su una vasta presenza italiana e soprattutto ligure. In quest’ambito i camogliesi fecero la loro parte, pur se impegnati a maggior titolo in altre rotte, egualmente lucrose. Tra i camogliesi citati assume comunque un ruolo di rilievo l’armatore Ansaldo che, stando a questi dati,fu il maggior interessato all’impresa del guano. Il traffico del guano durò alcuni decenni e lo stesso Gropallo conclude il capitolo citando gli ultimi velieri destinati a questa attività, e soprattutto alle Ballestas e a Lobos de Tierra e de Afuera. Questi velieri furono il Regina Elena, Giacomo, Erminia, Emanuele Accade, Antonio Padre, e probabilmente ultimo in assoluto il Mae Diarmid, presente alle isole ancora nel 1914. Inutile dire che buona parte di quest’ultimo gruppo di velieri fu anch’esso armato o comandato da camogliesi. Pur non disponendo di una piùcompleta documentazione in merito, siamo riusciti ad individuare due scritti che ci consentiranno di illustrare meno vagamente il caricamento del guano. Nello scritto “ A peruvian guano island “ apparso nel volume “ The pictorial tour of the world “, un volume stampato presumibilmente nell’ultimo quartondell’800 da James Sangster di Londra, apprendiamo come, dopo aver sfruttato il deposito di guano dell’isola Ichaboe (Africa) gli inglesi abbiano volto la prora delle loro navi verso le isole Chinchas e come veniva caricato il guano nelle stesse. La descrizione offerta concorda, salvo un dettaglio non indifferente, con quella data dal Gropallo ne “ Il romanzo della vela “. Molto interessante è pure la stampina Xilografata che appare nel testo e che ci mostra la fase essenziale del caricamento.
Dato che lo sfruttamento del guano era monopolio dello Stato peruviano, le navi adibite a questo traffico dovevano sostare a Callao per ritirare l’autorizzazione governativa, quindi partire per le isole, dove, se il posto era libero e il tempo lo permetteva, si procedeva al carico. Le isole si presentavano come enormi scogli brulli, quasi del tutto inaccessibili, con alti strapiombi sul mare e nessuna cala ad uso di porto. In questi luoghi torridi non pioveva mai,non cresceva vegetazione e non v’era acqua. La vita doveva essere organizzata con provviste portate periodicamente da navi, ma l’accosto di queste era sempre precario perché la forte risacca rischiava di sbatterle sugli scogli. Il guano ricopriva tutto e, deposto da secoli, formava uno spesso strato, una vera miniera. Sull’orlo dello strapiombo, sfruttando le naturali fratture del terreno, si formava un vasto deposito di guano già estratto da altri punti dell’isola. Sul margine esterno di questo deposito, trattenuta da pali piantati nel guano e rafforzati con catene, vi era l’imboccatura di una manichetta di robusta tela, sufficientemente ampia di modo da far cadere il guano per gravità, fino al livello del mare. La bocca inferiore della manichetta era fissata ad una apposita boa e poteva essere strozzata per mezzo di una apposita cima. Secondo il testo inglese il corpo inferiore della manichetta era assicurato sull’albero maestro della nave sotto carico e la sua bocca passava alternativamente da una mastra di stiva all’altra in modo da caricare regolarmente la nave e di consentire al personale di stivare bene il carico ricevuto. Per compiere questa operazione la nave doveva accostarsi quanto più possibile allo strapiombo ormeggiandosi saldamente con cavi ed ancore. Secondo lo scritto del Gropallo la nave restava ancorata più al largo, mentre le barche di bordo si recavano sotto la manichetta a caricare il guano, che, una volta giunta la barca sottobordo, veniva trasbordato in stiva per mezzo di coffe. Quest’ultimo sistema, forse più sicuro per la nave, rendeva la caricazione molto più lunga, mentre il primo metodo, a detta dell’autore consentiva di caricare una nave di 7/800 tonnellate in 2 o 3 giorni. Il lavoro in stiva e a terra era svolto dai “ coolies “ cinesi, un’insieme di contadini rovinati dalla siccità, debitori insolventi, galeotti liberati e altro ancora, che avevano lasciato la Cina, allettati da promesse di facili guadagni.In realtà, già all’atto dell’imbarco su navi che poco differivano dai vascelli negrieri, questi si accorgevano dell’inganno subito. Non a caso su alcune di queste navi scoppiarono delle sanguinose rivolte che portarono all’uccisione di interi equipaggi. Ricordiamo ad esempio il caso del Perseveranza, veliero il cui maggior caratista era la Casa Figari del callao (Perù).
Nel marzo del 1867, 500 cinesi, reclutati a Macao, si rivoltarono provocando la “scomparsa“ di 4 ufficiali e 45 marinai. Alle isole poi le condizioni di vita erano miserissime ed i “coolies“ morivano come mosche. Basti pensare che lavoravano con lunghi orari sia diurni che notturni, con un’alimentazione razionata anche per le difficoltà di approvvigionamento, e che normalmente vivevano dentro una nube incessante di polvere di guano, fonte di infezioni patogene e di malattie respiratorie. Anche per i naviganti la vita non era facile: pesava su loro la doppia rimontata di Capo Horn, il clima torrido, e il pericolo delle lnghe attese al largo con la minaccia di maremoti e tempeste. Ricordiamo ad esempio il 7 luglio 1877, quando per un improvviso gonfiarsi del mare finirono contro gli scogli 7 velieri, mentre altri 25 subirono gravi avarie. Una volta fatto il carico, le navi dopo u viaggio di circa 120/140 giorni, raggiungevano l’Inghilterra, il maggior cliente ricevitore di questa merce. E’ evidente come i velieri del guano cercassero zone di carico alternative a quelle sudamericane. La nave camogliese Fedeltà, costruita a Saint Malò come Ange Marie nel 1868, armata da Fasce e Gardella e comandata in periodi diversi da G.B. Fasce e Lorenzo Gardella, fu tra quelli. Questa nave divenne nota nell’ambiente marittimo dell’epoca per un rapporto sul caricamento del guano all’isola Browse (stretto di Torres - Australia), presentato al console italiano di Londra dal cap. Gardella il 5 aprile 1886, e parzialmente pubblicato, su cinque pagine della “ Rivista marittima “ di quell’anno. In questo rapporto il gardella si lamenta di come gli equipaggi delle navi fossero costretti ad eseguire da loro stessi il carico del guano. Giunto all’isola il 14 giugno 1885, ancora la nave vicino un barco inglese il cui comandante cerca praticamente di dissuaderlo dal caricare, lamentando il troppo lavoro da fare in confronto al risultato. Nonostante tale quadro pessimo, il Gardella, il 18 giugno, dopo aver portato la nave in altra zona dell’isola dov’era possibile scaricare, sbarca con una parte dell’equipaggio per preparare il lavoro a terra. L’isola è di forma circolare, ampia circa un chilometro, e l’unico posto libero per cavae guano è distante 300 metri dalla piccola ferrovia attrezzata per portare il guano alla spiaggia. Oltre a questo, per poter accedere alla cava si debbono rimuovere circa 250 tonnellate di corallo spezzato, ammucchiato dalla gente arrivata prima.Questa operazione viene compiuta comunque in tre interi giorni di lavoro. Scrive il Gardella: “ ……la cava si presentava come un muro alto 7 piedi inglesi (metri 2,24 circa) formato da strati di corallo bianco e di guano. Un primo strato di corallo di circa 2 piedi e mezzo (cm. 70 circa) alla superfice, mezzo piede di guano secco e soffice, un secondo strato di corallo di circa un piede, un altro strato di guano umido di circa due piedi, quindi la roccia. Il lavoro più faticoso è la rottura della prima crosta di corallo (omissis). Il mezzo più agevole era quello di scavare sotto questa crosta (la prima NdA) lo strato di guano, e romperla poi a forza di mazza del peso di 25 libbre inglesi (kg.5,443 – NdA) (omissis). Ottenuto il primo strato di guano e franta la crosta di corallo, si rompeva col piccone il secondo stato di corallo, lo si asportava e si levava il secondo strato di guano che per essere umido bisognava allagare a parte per farlo asciugare. Insaccato quindi il guano bisognava portarlo a spalle per una distanza di 300 metri (distanza che col procedere del lavoro sarebbe aumentata), caricare i sacchi sui carri della ferrovia, trascinare questi per mezzo miglio alla spiaggia, e quindi nuovamente a spalle per 40 metri di spiaggia di sabbia e corallo rotto. Quest’ultima operazione era oltre che faticosa, pur anche dolorosa per i pezzi di corallo rotto e tagliente che il mare getta con forza nelle gambe dell’uomo carico. Se si considera poi che tutto questo lavoro viene fatto sotto la sferza del sole cocente, si avrà idea della fatica che costa, e non faràmeraviglia come, lavorando con sei o sette uomini dalle 4 del mattino alle 7 della sera si arrivi a imbarcare una media di 8 tonnellate di guano.
Anche per la squadra di bordo i guai non sono lievi, perché la risacca, se il mare è appena mosso, rischia di far affondare la lancia di bordo con carico e uomini, La stessa nave da parte sua rischia di arare con le ancore perdendosi contro la scogliera, specie nei momenti in cui il mare ingrossa, ma per fortuna, grazie ai provvedimenti presi dal Gardella, che non citiamo per brevità, tutto alla fine và per il meglio. Nel rapporto il Gardella si lamenta pure per L’atteggiamento dei capitani delle altre navi, e del manager della Compagnia Melbourne, a causa dei limiti delle cave e delle precedenze sull’uso della ferrovia, .2 ma, come egli scrive, la costanza colla quale si lavorava, senza riguardo a ore, e domeniche, che era di incoraggiamento e di esempio ai loro equipaggi, ed i favori di cui potei loro essere utile essendo meglio fornito, me li resero da ultimo amici “. Dopo 125 giorni il carico, ormai sufficiente, permette la partenza della nave, il 18 ottobre 1885 viene mandata a bordo l’ultima lancia di guano, il 19 gli attrezzi e il 20 alle 10 del mattino, la nave finalmente leva l’ancora. “ Dopo cento e sette giorni di navigazione felice – scrive ancora – arrivai a Falmouth, avendo prima toccato Cape Town per rifornirmi di provviste”. L’articolo termina avvertendo che “ secondo il capitano Gardella, l’isola Browse deve considerarsi oggi come sfruttata”. Esaminando le date dell’articolo possiamo calcolare la durata del viaggio, tra l’arrivo all’isola e l’arrivo a Falmouth, in circa 8 mesi ai quali va aggiunto un mese circa che corrisponde tra l’arrivo a Falmouth e la data del rapporto al console italiano a Londra. Per la parte precedente del viaggio e per il rientro in Italia non abbiamo documentazioni.
ALBUM FOTOGRAFICO
A cura di Carlo GATTI
Raccolta del guano
Il guano visto da vicino
Rocce ricoperte di guano
Isole Ballestas. Questo Non é un ponte crollato, ma un pontile da cui si carica il guano sulle navi che le navi trasporteranno in Europa. Qui sarà venduto come fertilizzante - concime.
Una bella immagine...
No comment...
Montagne di guano
Neve? No – Guano!
Rapallo, 22 Maggio 2015
CAPO MISENO LA PIU’ POTENTE BASE MILITARE DELL’ANTICHITA’
CAPO MISENO
LA PIU’ POTENTE BASE MILITARE DELL’ANTICHITA’
PREMESSA STORICA
All'inizio del 1800 La Spezia era un piccolo borgo dell'impero napoleonico, con una popolazione, di circa 3000 persone. Napoleone Bonaparte, intuì l'importanza strategica del Golfo e fece progettare la costruzione di un grande Arsenale, ma le sue sconfitte a Lipsia e a Waterloo ne impedirono la realizzazione.
Dopo la caduta dell'Impero napoleonico, i territori dell'antica Repubblica di Genova furono incorporati dal Regno di Sardegna.
Il 3 febbraio 1851 segnò una data importante per il decollo del porto e quindi di tutte le attività industriale e commerciali genovesi; Cavour, allora Ministro della Marina, Agricoltura e Commercio presentò al Parlamento Subalpino il progetto di legge per il trasferimento a La Spezia degli stabilimenti militari marittimi e programmò per Genova un deposito franco per il miglioramento dei commerci via mare, l’operazione, come sappiamo andò a buon fine!
L'idea di Napoleone fu ripresa tout court da Camillo Benso Conte di Cavour che ottenne nel 1857 il trasferimento della Marina Militare da Genova a La Spezia e il finanziamento per la costruzione di un Arsenale Militare.
La costruzione dell'arsenale militare marittimo di Taranto fu comunque decisa dal Parlamento Italiano con la legge n. 833 del 29 giugno 1882, per rimediare alla sempre crescente necessità di difesa dell'Italia protesa verso il Mar Mediterraneo.
Nel 1864, Camillo Benso Conte di Cavour fu il primo politico italiano a comprendere la valenza strategica di Augusta, come possibile sede di base navale della Regia Marina; ma il quel momento storico il pericolo per la giovane Nazione Italiana era percepito da est e da nord e quindi si preferì puntare sull’Adriatico e il Tirreno e sviluppare la base di Taranto.
Il grande statista piemontese, così come fece Napoleone Bonaparte, s’ispirò alla strategia degli ANTICHI ROMANI: la base di Miseno fu strutturata come una potentissima macchina militare cui era affidato il controllo sull'intero Mediterraneo occidentale, dalle coste tirreniche dell'Italia alle colonne d'Ercole e oltre. Si trattava di uno dei due principali punti di appoggio del potere imperiale: l'altro era costituito dalla flotta basata a Ravenna, competente per il Mediterraneo orientale. Dati i mezzi di trasporto dell'epoca, le due armate di mare costituivano i reparti dell'esercito imperiale che più rapidamente potevano raggiungere località, anche lontane, dove si manifestavano focolai di crisi o dove, comunque, era necessario, far sentire la presenza militare di uno Stato vastissimo e cosmopolita quale era l'Impero Romano.
Baia (ricostruzione)
Pozzuoli (ricostruzione)
Campi Flegrei
Veduta da Monte di Procida con la spiaggia di Miliscola, Capo Miseno e il bacino interno dell'antico porto di Miseno.
Il porto di Miseno sorgeva su un precedente cratere vulcanico allagato dal Mar Tirreno.
La parte più interna del porto, un lago naturale, quasi chiusa da una lingua di terra, sulla quale era posto il castrum dei classiarii.
Il porto di MISENO (Misenum) si trovava presso l’attuale Bacoli e l’omonimo Capo Miseno, simile per conformazione a quello di Ravenna. Poteva contenere almeno fino a 250 imbarcazioni, come quello di Classe a Ravenna. In età augustea, in seguito all’impraticabilità del precedente porto militare di Portus Iulius nella baia di Puteoli (utilizzato da Ottaviano e Agrippa durante la guerra contro Sesto Pompeo), la vicina Miseno divenne la più importante base militare della flotta romana a guardia del bacino del Mediterraneo occidentale.
L’Imperatore Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto
(Roma 23 settembre 63 a.C. – Nola, 19 agosto 14)
Fondatore della Praetoria Classis Misenenis (Flotta Imperiale Romana)
Battaglia di Azio
Augusto, dopo la battaglia di Azio (2 settembre 31 a.C.), decise di compiere una radicale riforma della marina militare. La flotta fu organizzata come un vero e proprio esercito sul mare e coloro che prima erano volontari, divennero professionisti impegnati a servire la flotta prima per sedici e poi per vent'anni. Nel 6 d.C. creò l’aerarium militare, ovvero delle risorse finanziare permanenti che ne permettessero il finanziamento-autonomo.
La flotta all’inizio venne dislocata in Gallia Narbonese, a Forum Iulii, (oggi Fréjus, in Francia sulla costa mediterranea) ma questa base venne sciolta durante la dinastia giulio-claudia e vennero lasciate solo due flotte Praetoriae. Una a Capo Miseno, per la difesa del Mediterraneo occidentale, con la Classis Misenensis composta da circa cinquanta natanti e circa diecimila marinai classiarii, quasi due legioni terrestri. L’altra a Ravenna, la Classis Ravennatis, per la difesa del Mare Nostrum orientale. Le due Classis erano al comando di un prefetto e ad esse si affiancavano le flotte delle provincie a supporto delle armate terrestri: la Classis Alexandrina in Egitto, la Classis Germanica sul fiume Reno e la Classis Pannonica nel bacino Danubio-Rava e Sava.
OTTAVIANO AUGUSTO
MISENO
Per cinque secoli a presidio di un Impero
L’OPERA che segue é un documento di rara importanza e bellezza! Tratta delle Norme destinate ai comandanti di una flotta.
Le LIBURNE di stanza presso la Campania erano agli ordini del comandante della flotta di Miseno; quelle che navigavano nel mare Ionio, invece, erano guidate dal comandante della flotta ravennate; in sottordine ad entrambi i comandanti erano dieci tribuni delegati da ogni singola coorte.
Ogni liburna aveva il proprio capitano, vale a dire il nocchiero, che oltre alle incombenze della marineria aveva cura di addestrare quotidianamente i timonieri, rematori, i combattenti.
Il seguente documento composto di 16 Capitoli, non solo abbraccia gran parte del SAPERE di un Capitano di mare di parecchi secoli fa, ma costituisce nello stesso tempo la summa degli elementi fondanti della scienza nautica futura per chi intenda andar per mare, sia egli un militare oppure un navigante mercantile!
PRÆCEPTA di Vegezio (dal libro IV del De re militari) [1] |
versione italiana e note a cura di DOMENICO CARRO
Sommario:
- XXXI: Precetti della guerra navale.
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XXXI. PRECETTI DELLA GUERRA NAVALE.
Per ordine della tua Maestà, o invitto imperatore, avendo portato a termine il trattato relativo alla guerra terrestre, manca ancora, a mio avviso, quella parte che riguarda la guerra navale ["navalis belli"], sulla cui dottrina c’è pochissimo da dire, giacché, essendo da un pezzo pacificato il mare ["pacato mari"], non si tratta che di condurre contro i barbari delle battaglie terrestri ["terrestre certamen"].
Il popolo romano, per il suo prestigio e per le esigenze della sua grandezza, pur non essendovi costretto da alcun imminente pericolo, in ogni tempo mantenne allestita la flotta ["classem"], onde averla sempre pronta ["praeparatam"] ad ogni necessità. Indubbiamente, nessuno osa sfidare o arrecare danno a quel regno o popolo, che sa essere pronto a combattere e risoluto a resistere ed a vendicarsi.
Pertanto, con le flotte ["cum classibus"] erano stanziate una legione presso Miseno ed una presso Ravenna, sia perché non si allontanassero eccessivamente dalla difesa di Roma, sia perché, all’insorgere di un’esigenza, potessero recarsi con le navi ["navigio"], senza indugio e senza dover aggirare la Penisola, in qualsiasi parte del mondo.
Infatti la flotta Misenense ["Misenatium classis"] aveva nelle sue vicinanze la Gallia, le Spagne, la Mauretania, l'Africa, l'Egitto, la Sardegna e la Sicilia. La flotta Ravennate ["classis Ravennatium"] soleva raggiungere con navigazione diretta ["directa navigatione"] l'Epiro, la Macedonia, la Grecia, la Propontide, il Ponto, l'Oriente, Creta e Cipro. Ciò perché nelle operazioni belliche la celerità giova di solito più del valore.
XXXII. DENOMINAZIONE DEI COMANDANTI IN UNA FLOTTA.
Il comandante della flotta ["praefectus classis"] Misenense era preposto alle navi da guerra ["liburnis"] che erano di base in Campania, mentre il comandante della flotta Ravennate reggeva quelle che erano nelle acque del mare Ionio [incluso l’Adriatico].
Alle dipendenze di ciascuno di loro vi erano dieci tribuni ["deni tribuni"] delegati per le singole coorti.
Ogni galea aveva il proprio comandante ["navarchus"], che è all’incirca l’equivalente dell’armatore ["navicularius", per le navi mercantili], il quale, oltre agli altri compiti nautici ["nautarum officiis"], curava l’addestramento quotidiano dei timonieri ["gubernatoribus"], dei rematori ["remigibus"] e dei militi navali ["militibus"].
XXXIII. ORIGINE DEL NOME DI LIBURNA.
Diverse provincie, nelle varie epoche, furono molto potenti per mare; vi furono quindi diversi tipi di navi ["genera navium"]. Sennonché, avendo Augusto combattuto la battaglia navale d'Azio, poiché Antonio venne sconfitto con il concorso determinante dei Liburni, con l'esperienza di sì gran battaglia si rese manifesto che le navi liburniche erano migliori di tutte le altre, avendone dunque ripreso la foggia e il nome, gli imperatori romani costruirono le loro flotte avvalendosi di quel modello. La Liburnia, che fa parte della Dalmazia, è amministrata dalla città di Iadera [odierna Zara], ad imitazione della quale si costruirono le navi da guerra e si chiamarono liburne["liburnae"].
XXXIV. PRECAUZIONI NELLA COSTRUZIONE DELLE NAVI DA GUERRA.
Se nella costruzione delle case è richiesta la buona qualità della sabbia e delle pietre, tanto più nel costruire le navi ["fabricandis navibus"] deve essere diligentemente ricercato ogni materiale, giacché, qualora difettosa, costituisce un maggior pericolo una nave piuttosto che una casa.
La galea si compone principalmente di legno di cipresso e di pino domestico o selvatico, di larice e di abete, ed è più utile che sia connessa con chiodi di rame anziché di ferro. Sebbene la spesa sembri alquanto più gravosa, tuttavia, tenuto conto della maggior durata, ne risulta invece un guadagno; infatti, con il caldo e l’umidità, i chiodi di ferro vengono presto consumati dalla ruggine; quelli di rame si conservano invece integri anche in mezzo ai flutti.
Occorre principalmente assicurare che gli alberi utilizzati per costruire le navi da guerra siano tagliati dal quindicesimo al ventitreesimo giorno dopo la luna nuova, poiché soltanto il legname tagliato in questi otto giorni si conserva immune al tarlo. Tagliato in altri giorni anche nello stesso anno, corroso internamente dai vermi si converte in polvere, come ci ha insegnato la stessa arte e la pratica quotidiana di tutti gli architetti, e come apprendiamo anche dalla considerazione della religione , alla quale piacque celebrare soltanto questi giorni per l'eternità.
XXXVI. MESI NEI QUALI SI TAGLIANO LE TRAVI.
Le travi si tagliano utilmente dopo il solstizio di estate, nei mesi di luglio e di agosto, e nell’equinozio di autunno, sino alle calende [cioè il 1°] di gennaio, poiché in questi mesi, asciugatasi l’umidità, il legname è più secco e quindi più resistente.
Occorre inoltre evitare che le travi si seghino subito dopo l’abbattimento dell’albero, e che appena segate non si pongano in opera per la costruzione della nave, giacché il legno degli alberi ancora interi e quello in tavole, per diventare più asciutto, merita una doppia essiccazione. Infatti, le tavole che si commettono verdi, quando abbiano trasudato l'umidità naturale, si contraggono e formano delle fessure più larghe: nulla è più pericoloso ai naviganti ["navigantibus"] che una tavola verde.
XXXVII. TIPI DI NAVI DA GUERRA.
Per quanto attiene alle dimensioni, le navi da guerrae più piccole hanno un sol ordine di remi ["remorum singulos ordines"], due ["binos"] quelle un poco più grandi; quelle di dimensioni convenienti possono averne tre o quattro ["ternos vel quaternos"], e in qualche caso anche cinque ["quinos"]. Né ciò sembri qualcosa di straordinario: difatti si narra che alla battaglia navale d'Azio abbiano partecipato vascelli ["navigia"] di gran lunga maggiori, muniti anche di sei o più ordini di remi ["senorum vel ultra ordinum"].
In ogni modo, alle navi da guerra più grandi si associano delle unità sottili da esplorazione ["scaphae exploratoriae"], con dieci remi per lato, che i Britanni chiamano picati [cioè impeciati]. Queste si usano per fare incursioni e talvolta per intercettare delle vettovaglie delle navi nemiche, mentre, esercitando la sorveglianza, si scopre l’avvicinamento o le intenzioni delle stesse navi nemiche.
Tuttavia, affinché la presenza degli esploratori ["exploratoriae naves"] non sia tradita dal loro stesso chiarore, si tingono le vele ed i cavi delle manovre di colore azzurro ["veneto"], che somiglia a quello delle onde marine ["marinis fluctibus"], e vi si spalma anche quella cera che si usa per gli scafi delle navi.
Inoltre, i marinai ["nautae"] ed i militi navali ["milites"] indossano abiti azzurri, per rimanere più facilmente occulti all’osservazione nemica, non solo di notte, ma anche di giorno.
XXXVIII. DENOMINAZIONE DEI VENTI E LORO NUMERO.
Chiunque trasporti un esercito con le navi ["armatis classibus"] deve saper riconoscere i presagi delle tempeste, poiché le navi da guerra andarono miseramente a fondo più spesso a causa delle burrasche e dei marosi che per la forza dei nemici. In ciò si deve adoperare tutta la perizia della filosofia naturale, poiché dalla conoscenza del cielo si desume la natura dei venti e delle tempeste. E quando il mare infuria, come la cautela protegge i previdenti, così l’incuria distrugge i negligenti.
Pertanto, l’arte della navigazione ["ars navigandi"] deve anzitutto considerare attentamente il numero ed i nomi dei venti. Gli antichi credevano che, conformemente alla posizione dei punti cardinali, vi fossero solo quattro venti principali, spiranti dalle singole parti del cielo; ma l'esperienza posteriore ne trovò dodici. Di questi, per rimuovere ogni dubbio, forniamo non solo i nomi greci, ma anche quelli latini; così, dopo aver mostrato i venti principali, indicheremo quelli che sono ad essi contigui a destra e a sinistra.
Cominciamo pertanto dal solstizio di primavera, cioè dal punto cardinale Est, dal quale si origina il vento Afeliote, vale a dire il Subsolano; alla sua destra è contiguo al Cecia, o Euroboro; alla sua sinistra l’Euro o Volturno.
Il punto cardinale Sud ha il Noto, cioè l'Austro, alla cui destra vi è il Leuconoto, cioè il "bianco Noto"; alla sua sinistra il Libonoto, cioè il Coro.
Il punto cardinale Ovest possiede lo Zeffiro, cioè il Subvespertino, alla cui destra è contiguo il Lips, ossia l'Africo; a sinistra il Giapice, ossia il Favonio.
Al Nord toccò in sorte l'Aparzia o Settentrione, al quale è contiguo a destra il Trascia o Circio, a sinistra il Borea o Aquilone.
Questi venti soffiano spesso da soli, qualche volta in coppia, e nelle grandi tempeste anche in tre simultaneamente. Per il loro impeto, i mari, che sono per loro natura tranquilli e quieti, infuriano con onde ribollenti; quando spirano alcuni di essi, a seconda delle stagioni e delle regioni, dalla tempesta ritorna il sereno, e di nuovo questo si tramuta in burrasca.
Con il vento favorevole le navi ["classis"] raggiungono il porto desiderato, con quello contrario sono costrette a fermarsi, o tornare indietro, o affrontare una prova decisiva. Pertanto, difficilmente compie un naufragio chi ha esaminato con diligenza la natura dei venti.
XXXIX. MESI PIÙ SICURI PER LA NAVIGAZIONE.
Proseguiamo con la trattazione dei mesi e dei giorni, giacché il vigore e la durezza del mare non tollera tutto l'anno i naviganti ["navigantes"], ma per legge di natura alcuni mesi sono adattissimi alle flotte ["classibus"], altri dubbi, altri intollerabili.
La navigazione si reputa sicura ["secura navigatio creditur"] … dopo che sono sorte le Pleiadi, dal giorno VI prima delle calende di giugno [27 maggio] fino al sorgere di Arturo, cioè fino al giorno XVIII prima delle calende di ottobre [14 settembre], giacché per beneficio dell'estate si mitiga l’asprezza dei venti.
Successivamente, la navigazione è incerta ["incerta navigatio est"], e quindi piuttosto critica, fino al giorno III prima delle idi di novembre [11 novembre], giacché dopo le idi di settembre [13 settembre] nasce Arturo, stella rabbiosissima; poi, il giorno VIII prima delle calende di ottobre [24 settembre] sopraggiunge il pungente maltempo equinoziale, verso le none di ottobre [7 ottobre] appaiono i Capretti piovosi e il giorno V prima delle idi di tale mese [11 ottobre] appare il Toro.
Dal mese di novembre, poi, il tramonto invernale delle Vergilie, le navi ["navigia"] con frequenti tempeste. I mari vengono dunque chiusi alla navigazione dal giorno III prima delle idi di novembre [11 novembre] fino al giorno VI prima delle idi di marzo [10 marzo]. In effetti, la luce diurna ridotta al minimo, la notte prolungata, la densità delle nubi, l'oscurità dell'aria, la raddoppiata violenza dei venti, delle piogge o delle nevi, respingono non solo le flotte ["classes"] dalle rotte marittime, ma anche i viandanti dai viaggi terrestri.
In realtà, dopo la ripresa della navigazione ["natalem navigationis"], che viene celebrata con solenni giochi e pubblici spettacoli presso molte popolazioni, permane pericoloso cimentarsi in mare fino alle idi maggio [15 maggio], a causa di molteplici costellazioni e della stessa stagione; non lo dico perché cessi il traffico mercantile ["negotiatorum"], ma perché occorre adoperare una maggior cautela quando l'esercito naviga con le navi da guerra, che quando l'audacia accelera i profitti dei commerci privati.
XL. OSSERVAZIONE DEGLI ASTRI RECANTI TEMPESTE.
Inoltre, il sorgere ed il tramontare di molte altre stelle suscitano violentissime tempeste ["tempestates"], di cui sono stati indicati i precisi giorni, per attestazione di molti autori. Tuttavia, poiché tali giorni vengono alquanto cambiati da svariate cause, e poiché, bisogna confessarlo, alla natura umana non è consentito conoscere compiutamente i fenomeni celesti, lo studio delle osservazioni nautiche ["nauticae observationis"] è stato diviso in tre parti. Si è infatti scoperto che le tempeste avvengono o nel giorno stabilito, o prima, o dopo. Quindi, quelle che nascono nel giorno stabilito si chiamano con parola greca cheimaton, quelle che precedono procheimaton, le susseguenti metacheimaton. Comunque, elencare per nome ogni cosa apparirebbe lungo o inopportuno, dato che molti autori hanno descritto non solo la natura dei mesi, ma anche dei giorni.
Anche i transiti degli astri che chiamano pianeti, quando lungo il loro percorso prestabilito per volere divino entrano ed escono da un segno zodiacale, usano spesso turbare il sereno. Per contro, i giorni di interlunio sono valutati, non solo dalla scienza, ma anche dall’esperienza popolare, pieni di tempeste e da temersi al massimo grado da parte dei naviganti ["navigantibus"].
Da molti altri segni si preannuncia l’arrivo delle burrasche dalla calma, e della bonaccia dalle tempeste; tali eventi sono mostrati sul disco della Luna come in uno specchio. Il colore rubicondo annunzia i venti; il ceruleo, le piogge; un colore intermedio, nuvoloni e furenti burrasche. Il disco giocondo e lucente promette alle navi ["navigiis"] la serenità ch’esso reca nel suo stesso aspetto, soprattutto se al primo quarto e non sia né rosseggiante con i corni smussati, né offuscato dall’umidità.
Anche del Sole che sorge o che tramonta, è interessante osservare se splende con raggi uniformi o diversificati da una nube interposta, se è fulgido del consueto splendore o ardente per i venti incalzanti, se è pallido o macchiato per la pioggia imminente.
Indubbiamente anche l'aria e lo stesso mare, così come la grandezza e la qualità delle nuvole, forniscono istruzioni ai marinai ["nautas"] preoccupati.
Alcuni segni vengono indicati dagli uccelli, altri dai pesci: Virgilio, con ingegno quasi divino, li incluse nelle Georgiche e Varrone li perfezionò diligentemente nei sui libri navali ["libris navalibus"] .
I timonieri ["gubernatores"] dichiarano di sapere queste cose, ma le conoscono così come le appresero dall’esperienza pratica, e non rafforzate da una più elevata dottrina.
L’elemento marino costituisce la terza parte del mondo, e si anima, oltre che per il soffio dei venti, anche per un suo proprio respiro e movimento. Infatti, a certe ore, di giorno come di notte, un certo moto del mare, che chiamano marea, scorre in un senso e nell'altro e, come un torrente o un fiume, ora inonda le terre, ora rifluisce in alto mare. Questa ambiguità del moto alterno, se favorevole, giova alla rotta delle navi ["cursum navium"], se contrario, la ritarda.
Ciò deve essere evitato con grande cautela da chi sta per combattere. Infatti non si vince con l’ausilio dei remi l'impeto della marea, cui talvolta cedono anche i venti. E poiché nelle varie regioni, nei diversi stati della luna crescente o calante, a certe ore questi fenomeni variano, quindi chi sta per sostenere un combattimento navale ["proelium navale"] deve, prima dell’ingaggio, conoscere la natura del mare e del luogo.
XLIII. CONOSCENZA DELLE ACQUE E IMPORTANZA DEI REMATORI.
La perizia dei marinai ["nauticorum"] e dei timonieri ["gubernatorum"] consiste nel prendere conoscenza delle acque nelle quali si naviga e dei porti, onde evitare i luoghi pericolosi per gli scogli affioranti o sommersi, i bassi fondi e le secche; infatti, si avrà tanta maggior sicurezza quanto il mare sarà più profondo.
Nei comandanti navali ["navarchis"] si predilige la diligenza, nei timonieri ["gubernatoris"] l’esperienza, nei rematori ["remigibus"] la valentia. Infatti, la battaglia navale ["navalis pugna"] si combatte in mare tranquillo; e la mole delle navi da guerra, non per il soffio dei venti, ma per impulso di remi percuote con il rostro gli avversari e schiva invece il loro impeto. In tali circostanze, i muscoli dei rematori ["remigum"] e l'arte del pilota che regge il timone ["clavum regentis magistri"] sono i principali artefici della vittoria.
XLIV. ARMI E MACCHINE BELLICHE NAVALI.
La battaglia terrestre richiede indubbiamente molti generi di armi, ma la lotta navale ["navale certamen"], non solo esige un maggior numero di armi, ma anche macchine d’assalto ["machinas"] e macchine da lancio ["tormenta"], come se si dovesse combattere sulle mura e sulle torri. Che cosa vi è di più crudele, infatti, di un attacco navale ["congressione navali"] in cui gli uomini sono uccisi dalle acque e dalle fiamme?
Pertanto, la principale cura deve essere posta per le armature, di modo che i militi siano protetti da corazze metalliche o di cuoio, ed anche da elmi e schinieri. Nessuno può dolersi del peso delle armi, poiché combatte a bordo delle navi ["in navibus"] mantenendosi sul posto. Si impiegano anche gli scudi più ampi e più resistenti ai colpi delle pietre, oltre che alle falci ["falces"], ai ramponi ["harpagones"] ed agli altri tipi di armi da getto navali ["navalia genera telorum"].
Da parte nostra, si schierano frecce, armi da getto, fionde, mazzafromboli, palle di piombo, onagri, balestre, scorpioni, con proiettili e sassi; e, cosa più importante, coloro che sono resi temerari dal proprio coraggio, accostate le navi da guerra e gettate le passerelle, passano sulle navi avversarie ed ivi, come suol dirsi, ai ferri corti, combattono corpo a corpo con le spade.
Inoltre, nelle navi da guerra più grandi si stabiliscono ripari e torri, per poter più agevolmente ferire o uccidere i nemici dai tavolati più alti, come da un muro. Con le balestre si infiggono nelle carene delle navi nemiche delle frecce avvolte con stoppa – imbevuta di olio incendiario, zolfo e bitume – ed infiammate; e le tavole spalmate di cera, pece e resina, con tanto alimento d'incendio repentinamente prendono fuoco. Alcuni sono uccisi dalla spada e dalle pietre, altri sono costretti ad ardere tra le onde; tuttavia, fra tanti generi di morte, il caso più crudele è quello dei corpi che rimangano insepolti, in pasto ai pesci.
XLV. CRITERI PER TENDERE INSIDIE PER MARE.
A somiglianza dei combattimenti terrestri, si conducono degli assalti improvvisi contro gli equipaggi ["nauticis"] che non se l’aspettano, o si tendono degli agguati negli opportuni passaggi ristretti fra le isole.
E per annientare più facilmente coloro che vengono presi alla sprovvista, si procede come segue: se i marinai nemici ["hostium nautae"] sono affaticati dal lungo vogare, se vengono travagliati dal vento contrario, se la corrente di marea è a favore dei nostri rostri, se i nemici dormono senza alcun sospetto, se l’ancoraggio che occupano non ha vie d’uscita, se si verifica l’auspicata occasione di combattere, allora con il favore della sorte si deve andare all’ingaggio e attaccare battaglia come opportuno.
E a questo proposito, se la cautela dei nemici, evitate le insidie, opponga un combattimento ordinato, allora si deve disporre la formazione delle navi da guerra non in linea retta come sul terreno, ma incurvata a mezza luna, in modo che la forza navale, con i due corni in avanti, sia incavata in centro; così, se i nemici tentassero di sfondare, circondati dalla stessa formazione saranno affondati. D’altra parte, nei corni si pone il nerbo insigne delle navi da guerra e dei militi.
XLVI. CRITERI PER LA BATTAGLIA NAVALE.
Inoltre, è utile che la tua flotta ["classis"] si mantenga sempre al largo ["alto et libero mari"] e spinga verso costa quella nemica, poiché quelli che sono ricacciati a terra perdono l'ardore di combattere. È stato accertato che in tali combattimenti giovarono moltissimo alla vittoria tre generi di armi: le stanghe, le falci e le bipenni.
Si chiama stanga ["asser"] quella trave sottile e lunga, che è appesa all'albero ["malo"] come un pennone ["antemnae"] ed ha entrambe le estremità ferrate. Le navi nemiche, accostandosi da destra o anche da sinistra, sono da essa colpite con forza, come da un ariete; ed essa senza dubbio abbatte ed uccide i combattenti ["bellatores"] o i marinai ["nautas"] nemici, e più spesso sfonda la stessa nave.
La falce ["falx"] è un ferro affilatissimo e curvo come una falce agricola, il quale, fissato su pertiche delle più lunghe, recide d'un tratto le drizze ["chalatorios"] – sono le manovre ["funes"] che tengono sospeso il pennone ["antemna"] – e, avendo fatto cadere le vele della galea avversaria, la rende più indolente ed inutile.
La bipenne ["bipennis"] è una scure che ha una lama larghissima ed affilatissima da entrambe le parti. Con queste armi, nel pieno fervore del combattimento, i marinai ["nautae"] o i militi ["milites"] più esperti, imbarcatisi sulle più piccole imbarcazioni ["scafulis"], tagliano di nascosto i cavi ["funes"] con i quali sono tenuti i timoni ["gubernacula"] delle navi nemiche. Fatto ciò, queste vengono immediatamente catturate, come se fossero navi inermi ed impotenti; e, infatti, quale mezzo di salvezza rimane a chi ha perduto il timone ["clavum"]?
Delle navi fluviali ["lusoriis"], che tutelano posti di confine con la vigilanza quotidiana sul Danubio, stimo preferibile tacere, poiché dal loro più frequente uso recente, l'arte nautica ha scoperto più di quanto l'antica dottrina avesse insegnato.
Eruzione del Vesuvio del 79 d.C. – La morte di Plinio il Vecchio
Testimonianze storiche:
FUGA DAL VESUVIO - In questo paradiso naturale, già apprezzato e frequentato all'epoca dei Romani (e certamente anche prima che l’egemonia romana si estendesse sulla penisola) nell'estate del 79 d.C. successe il “finimondo”.
È quanto racconta Plinio il Giovane (61 d.C. – 112 d.C.), testimone oculare dei fatti, nella seconda delle due lettere inviate a Tacito (lo storico dell’Impero romano). Dice, infatti, lo scrittore romano che “fra quelli che fuggivano da Miseno per mettersi in salvo, ce n'erano molti che si disperavano dicendo che quella era l'ultima notte del mondo". E Miseno è a più di 20 km da Ercolano, e a circa 30 km da Pompei!
Nell'anno 79 d.C. (data della catastrofe pompeiana, secondo una probabile ricostruzione storica), sotto l'imperatore Tito Flavio Vespasiano, figlio di Vespasiano, a Capo Miseno, più esattamente nell'insenatura di Baia, si trovava di stanza la flotta romana al comando del navarca (ammiraglio) Plinio (il Vecchio), uomo politico e letterato, oltre che valente naturalista. Con lui c'era la sua famiglia, costituita dalla sorella e dal diciottenne figlio di lei.
Il ragazzo, anch’egli Plinio (il Giovane), in quanto adottato dallo zio, dovette conservare il nome gentilizio della famiglia, a scapito di quello del padre naturale. Successivamente, divenuto a sua volta un importante uomo pubblico, nel 107 (si era frattanto al tempo dell'imperatore Traiano) inviò due lettere a Tacito in cui gli descrive l'eruzione del Vesuvio; e, tra le altre cose, racconta anche come in quella occasione era morto suo zio; nella speranza che Tacito, il quale in quegli anni andava pubblicando le sue Storie, se ne servisse come documentazione.
Plinio il Giovane, nella prima lettera a Tacito, descrive così l'inizio dell'eruzione e lo sviluppo della colonna eruttiva, che egli, insieme allo zio, osserva da Miseno:
Era a Miseno [Plinio il Vecchio] e, presente, governava la flotta. Il 24 agosto era trascorsa appena un'ora dopo mezzogiorno e mia madre gli mostra una nuvola che allora appariva, mai vista prima per grandezza e figura. [...] La nube si levava, non sapevamo con certezza da quale monte, poiché guardavamo da lontano; solo più tardi si ebbe la cognizione che il monte fu il Vesuvio. La sua forma era simile ad un pino più che a qualsiasi altro albero.
Come da un tronco enorme la nube svettò nel cielo alto e si dilatava e quasi metteva rami. Credo, perché prima un vigoroso soffio d'aria, intatto, la spinse in su, poi, sminuito, l'abbandonò a se stessa o, anche perché il suo peso la vinse, la nube si estenuava in un ampio ombrello: a tratti riluceva d'immacolato biancore, a tratti appariva sporca, screziata di macchie secondo il prevalere della cenere o della terra che aveva sollevato con sé.
Segue, nella lettera, il racconto degli eventi che portarono alla morte di Plinio il Vecchio. Questi, attratto dallo straordinario fenomeno, decide di avvicinarsi, con una piccola imbarcazione, alla zona interessata. Nel frattempo riceve un messaggio con un invocazione di aiuto da parte di amici (Rettina, moglie di Tascio) che si trovano nell'area vesuviana.
Egli cambia idea: all'ansia dello scienziato subentra lo spirito dell'eroe. Fa scendere a mare le quadriremi, vi prende posto. Egli vuole portare soccorso non solo a Rettina, ma a molti, perché la ridente contrada era frequentata.
S'affretta là donde altri fuggono e tiene dritta la rotta e il timone diritto verso il pericolo, senza traccia di paura al punto che dettava e annotava tutte le variazioni di quel male, tutte le figure che i suoi occhi avevano sorprese.
Plinio dirige le sue navi verso Torre del Greco, ma non riuscendo a sbarcare, fa rotta su Stabia, dove si trova la villa dell'amico Pomponiano:
Già sulle navi la cenere cadeva, più calda e più fitta man mano che si avvicinavano; già cadevano anche i pezzi di pomice e pietre annerite ed arse e spezzettate dal fuoco; già, inatteso, un bassofondo e la riva, per la rovina del Monte impedisce lo sbarco. Ebbe un momento di esitazione, se dovesse tornare indietro e il pilota così lo consigliava, ma egli subito disse: "la Fortuna aiuta i forti. Raggiungi Pomponiano!"
[...]
Lì Pomponiano aveva fatto caricare su navi il bagaglio ed era determinato a fuggire, se il vento contrario si fosse placato. Per mio zio, invece, il vento soffia molto propizio ed egli riesce a sbarcare. Abbraccia il trepido amico, lo consola, gli fa coraggio.
[...]
Frattanto dal Monte Vesuvio rilucevano in più di un punto estesi focolai di fiamme ed alte colonne di fuoco: il loro fulgore spiccava più chiaro sulle tenebre della notte.
Quella notte Plinio, ospitato nella villa dell'amico, si ritirò nel suo appartamento, e si addormentò. Ma...
[...] il cortile da cui si accedeva all'appartamento, per cumulo di cenere e lapilli, aveva tanto accresciuto il suo livello che egli, se avesse ancora indugiato nella stanza, non sarebbe potuto uscirne più. Perciò fu svegliato. Venne fuori e si ricongiunse a Pomponiano e gli altri che mai avevano ceduto al sonno.
Discutono tra loro se sia interesse comune rimanere dentro l'abitazione o vagare all'aperto. La casa, infatti, vacillava per frequenti e violente scosse di terremoto, e, quasi divelta dalle sue fondamenta, pareva ondeggiare ora qui ora là, e poi ricomporsi di nuovo in quiete.
D'altronde, all'aperto si temeva la caduta di lapilli, anche se lievi e corrosi. Tuttavia si confrontarono i rischi e si scelse di uscire all'aperto. In lui pensiero su pensiero prevalse, negli altri paura su paura. Mettono dei guanciali sul capo e li legano fortemente con teli: in tal modo si difendevano dalla pioggia di lapilli.
Già altrove era giorno, lì era notte: una notte più fitta e più nera di tutte le notti. Tuttavia la rischiaravano molte bocche di fuoco e varie luci.
Deliberarono di raggiungere la spiaggia e di vedere dal punto più vicino possibile se ormai il mare consentisse un tentativo di fuga. Ma il mare ancora grosso continuava ad essere contrario. Lì egli buttò giù un telo e vi si sdraiò...
Plinio il Vecchio, probabilmente intossicato dai gas, viene colpito da un malore e, non potendo continuare la fuga, viene abbandonato dai compagni. Il suo corpo sarà ritrovato solo tre giorni più tardi. La lettera si conclude con una postilla:
Tutta la mia narrazione è fondata sull'esperienza diretta e sulle notizie udite immediatamente dopo la catastrofe, quando la memoria degli eventi è prossima alla verità. Tu farai una selezione dei fatti più importanti, perché scrivere una lettera non è lo stesso che scrivere una storia, come scrivere per un amico non è lo stesso che scrivere per tutti.
Tacito si mostrò, invece, molto interessato alla vicenda personale dell'amico e lo pregò di scrivergli ancora, per fargli conoscere come egli visse, a Miseno, quei tragici eventi. Così Plinio il Giovane scrisse la seconda lettera, in cui è riportata la descrizione di intensi fenomeni che si sarebbero verificati anche nell'area flegrea in occasione dell'eruzione del 79 d.C. Infatti, lui, sua madre e molti altri abitanti di Miseno abbandonarono le abitazioni per cercare riparo nelle campagne circostanti. Egli scrive:
Precedentemente, per la durata di molti giorni, la terra aveva tremato senza però che ci spaventassimo troppo, perché i terremoti sono un fenomeno consueto in Campania. Ma quella notte, la terra tremò con particolare violenza e si ebbe l'impressione che ogni cosa veniva non scossa, ma rivoltata sottosopra.
[...]
Già il giorno era nato da un' ora e la luce era ancora incerta e quasi languiva. Già le case intorno erano sconquassate. L'ambiente in cui ci trovavamo, pur all'aperto, era tuttavia angusto e la paura di un crollo era forte, anzi certa.
Solo allora decidemmo di abbandonare la città di Miseno.
[...]
Una volta fuori del centro abitato, sostiamo. Molti spettacoli prodigiosi vediamo, molte angosce patiamo. I carri che ci facemmo portare con noi, anche se erano su un terreno assolutamente piano, sobbalzavano ora in una, ora in un'altra direzione e, pur puntellati con sassi, non rimanevano fermi nel medesimo punto.
Inoltre vedevamo il mare ritirarsi, quasi ricacciato dal terremoto. Senza dubbio, il litorale si era allungato e sulle aride sabbie era rimasto al secco un gran numero di pesci.
[...]
Dalla parte orientale, un nembo nero e orrendo, squarciato da guizzi sinuosi e balenanti di vapore infuocato, si apriva in lunghe figure di fiamme: queste fiamme erano simili a folgori, anzi maggiori delle folgori.
[...]
Non molto tempo dopo quel nembo discende sulle terre, copre la distesa del mare. Avvolse Capri e la nascose, sottrasse al nostro sguardo il promontorio di Miseno.
[...]
Rischiarò un poco: non riappariva la luce del giorno, ma era un indizio che il fuoco stava per avventarsi sopra di noi. Ma il fuoco, a dire il vero, si fermò abbastanza lontano. Fu tenebra di nuovo: fu cenere di nuovo, fitta e pesante. Noi ci alzavamo ripetutamente e ci scrollavamo di dosso la cenere. Altrimenti ne saremmo stati coperti e il suo peso ci avrebbe anche soffocato.
[...]
Alla fine quella tenebra diventò quasi fumo o nebbia e subito ritornò la luce del giorno, rifulse anche il sole: un sole livido come suole essere quando si eclissa. Dinanzi ai miei occhi spauriti tutto appariva mutato: c'era un manto di cenere alta come di neve.
LE ARMI DELLA FLOTTA ROMANA
Rostro di nave romana della battaglia delle Egadi 241 a.C. - Trapani Museo Pepoli
IL ROSTRO
Il rostro era una micidiale arma in dotazione alle navi da guerra romane. Era formato da un pezzo fuso in bronzo che si andava ad inserire nel punto di congiunzione tra la parte finale della chiglia e la parte più bassa del dritto di prua. La parte anteriore del rostro disponeva di un possente fendente verticale rafforzato da fendenti laminari orizzontali. Esso serviva come strumento per irrompere con forza sulle fiancate delle navi nemiche allo scopo di affrettarne drasticamente l’affondamento. A volte potevano essere di due o più punte, in bronzo e simboleggiavano la testa di un animale.
LIBURNA
Fra i diversi tipi di naves longae, troviamo un modello che si conquistò il podio delle navi da guerra, la liburna, che era stata chiamata così dal nome degli allora molto famosi per le scorribande piratesche, i dalmati Liburni. Probabilmente era la nave migliore della flotta romana. Venne introdotta la prima volta nella battaglia di Azio, ma fu Augusto che, apprezzandone le capacità belliche, ad impiegarla stabilmente nella flotta, facendone un modello. Con una carenatura stretta, risultava molto veloce, era agile nelle manovre, ottima negli inseguimenti, adatta anche a trasportare velocemente le truppe. Ve ne erano vari modelli, dai più piccoli a due ordini di remi, ai più grandi sei ordini di remi.
ALCUNE INTERESSANTI CURIOSITA’
Queste navi erano costruite solo con legni preziosi come l’abete, il pino, sia silvestre che domestico, il cipresso e il larice e i chiodi utilizzati erano in bronzo, per prevenire la ruggine, col ferro inevitabile. Vegezio ci narra dettagliatamente, rivelandoci anche dei particolari inconsueti, come dovevano venir costruite le navi liburne: il legno doveva essere tagliato solo tra la quindicesima e la ventiduesima luna, perché in questo periodo si conserva meglio, evitando la corrosione in acqua, che avverrebbe certamente se il legno venisse segato negli altri giorni. Ma non basta: il legno andava tagliato solamente a luglio e agosto e tra l’equinozio d’autunno fino non oltre gli inizi di gennaio, perché in questi periodi il legno è più asciutto. Non solo: dopo aver tagliato il legno, bisognava lasciarlo riposare per un certo arco di tempo, perché arrivasse a quella giusta secchezza che consentiva le prestazioni migliori.
BIREME E TRIREME
Più antica, derivante dalle imbarcazioni ellenistiche e utilizzata anche dai Fenici, vi era la bireme. Lunga e stretta (con circa 24 metri di lunghezza e solamente 3 di larghezza), aveva due file di rematori, 60 per lato, posti tutti su un’unica lunga panca. Erano a loro volta divisi in 30 e 30, metà in alto e metà in basso. Oltre ai remi, queste navi avevano anche un albero con vela quadrata e per questo, con la loro forma aerodinamica e la leggerezza, raggiungevano una notevole velocità. Le bireme furono le navi dell’antichità, sostituite in età più moderna dalle trireme, che svolsero una funzione determinante nella flotta romana.
Anche queste navi avevano una forma aerodinamica, con la loro lunghezza di 40 metri per 6 di larghezza: quindi grandi tanto da poter contenere armi e una flotta di una centuria di fanti di marina.
Tre erano qui i livelli dei rematori, con 30 uomini ciascuno, in tutto quindi erano 180, posizionati sotto il ponte, certamente in condizioni non ottimali. Probabilmente inventata dai Fenici e raffigurata per la prima volta su alcuni bassorilievi assiri dell’VIII secolo a.C., la bireme fu utilizzata come unità militare fino alla fine dell’età romana e nel corso della prima età bizantina.
TRIREME
Queste navi, costituivano la vera "spina dorsale" della marina romana. Potevano trasportare una centuria (80 uomini) di fanti di marina.
QUADRIREMI E QUINQUEREMI
Di dimensioni analoghe (45 metri di lunghezza e 8 di larghezza e un pescaggio, ovvero la parte immersa, di un metro circa la quadrireme e un poco di più la quinquereme) possiamo considerarle come una sorta di corazzate dell’epoca. Su queste navi vi erano sempre: due corvi, uno a poppa e uno prua, e molte armi sul ponte, destinate agli assedi, come baliste, onagri e armi da lancio. Erano costituite da una o due torri dove stazionavano gli arcieri, pronti al lancio dei dardi incendiari. 240 vogatori, 15 marinai e 75 milites classiarii erano imbarcati sulle quadrireme, mentre la quinquireme aveva 300 vogatori e 120 milites classiarii. È noto che sia nella seconda guerra punica che nella battaglia di Milazzo le quadrireme avessero due livelli di rematori, ed erano più basse delle quinquiremi, pure essendo della stessa larghezza (circa 5,6 m). Il dislocamento era intorno alle 60 tonnellate e poteva trasportare circa 75 fanti di marina. Era estremamente apprezzata per la grande velocità e manovrabilità, mentre il suo relativamente scarso pescaggio la rendeva ideale per le operazioni costiere.
La quadrireme fu classificata come “grande nave” dai romani (maioris formae). Le quinqueremi erano molto più difficili da stabilizzare di quanto non lo fossero già le triremi, e non fornivano un aumento di velocità corrispondente, in quanto l’uso di più uomini per ciascun remo riduceva lo spazio disponibile e non permetteva a tutti i rematori di manovrare con tutta la forza; d’altro canto garantivano una protezione migliore contro gli speronamenti e permettevano di portare più fanti di marina.
ESAREME
L’Imperatore, gli ufficiali, lo Stato maggiore della marina romana, salivano solo sulle esareme, di dimensioni imponenti e che avevano una funzione principalmente dimostrativa, allo scopo di impressionare il nemico nelle battaglie, utilizzata anche per il trasporto del princeps in parata militare. Nonostante non partecipasse alle battaglie era una nave di grande impatto: grandiosa e maestosa, perfettamente equipaggiata in armi. Nella flotta vi era una sola esareme che rappresentava l’ammiraglia. Nella battaglia di Azio, esaremi erano presenti in entrambe le flotte. Era un tipo di nave pesante di cui non si conosce con certezza se fosse con sei ordini di remi per lato oppure una trireme con due rematori per remo. Plutarco, Cassio Dione e Floro ci narrano che vi furono anche navi con nove o dieci ordini di remi durante la battaglia di Azio, ma non vi sono riscontri archeologici a confermarlo.
Navi da trasporto
Tra le navi da trasporto vi era la navis actuaria, che trasportava le truppe di terra e la cavalleria. Particolarmente capienti ma non eccessivamente grandi (21 metri la lunghezza e 6,50 la larghezza, con una linea di galleggiamento di meno di un metro), potevano trasportare anche fino a 800 soldati. Generalmente avevano quindici remi per lato e avevano anche alberi da vela. Inoltre, una loro caratteristica era quella di avere la chiglia piatta e montare timoni posteriormente e anteriormente.
L’imperatore Giuliano, durante la campagna sasanide del 363, pare ne utilizzò un migliaio, costruite in loco sull’Eufrate, al fine di trasportare approvvigionamenti, legname e anche macchine d’assedio. Infine, troviamo le navi onerariae o corbitae, anch’esse impiegate nel trasporto merci e approvvigionamento
LE ARMI NAVALI
IL CORVO
Il corvo era un congegno di abbordaggio navale utilizzato dai Romani nelle battaglie navali della Prima Guerra Punica contro Cartagine.
Nel libro III delle Storie, Polibio descrive il corvo come una passerella mobile larga 1,2 m e lunga 10,9 m, con un piccolo parapetto su entrambi i lati. Il ponte era dotato di uncini alle estremità che agganciavano la nave nemica, consentendo alla fanteria di combattere quasi come sulla terraferma.
La nuova arma fu ideata per compensare la mancanza di esperienza in battaglie fra navi e consentì una tecnica di combattimento che permetteva di sfruttare la conoscenza delle tattiche di combattimento terrestri in cui Roma era maestra. L'efficienza di quest'arma fu provata per la prima volta nella Battaglia di Milazzo, la prima vittoria navale romana; e continuò ad essere provata negli anni successivi, specialmente nella dura Battaglia di Capo Ecnomo.
In seguito, con la crescita dell'esperienza romana nella guerra navale, il corvo fu abbandonato a causa del suo impatto sulla navigabilità dei vascelli da guerra.
IL ROSTRUM
Sperone di ferro a tre punte localizzato a prua, che serviva a speronare le navi nemiche e facilitarne l'abbordaggio,(ogni nave, inoltre, era munita di un antirostro una sorta di speroni che evitavano l’eccessivo inserimento nel corpo della nave nemica speronata, e che permetteva di sganciare facilmente il rostro dopo l’attacco).
I corvi erano una sorta di ponte elevatoio girevole situato a prua terminante in un uncino che venivano abbassati grazie ad un sistema di carrucole sulla nave nemica per permettere l'aggancio il passaggio dei soldati romani che si riversavano così sulla nave nemica.
Quando il Corvo cominciò ad essere ingombrante e pericoloso per la stabilità della nave venne sostituito dall'harpax: quest'ultimo era semplicemente un dardo con un uncino che scagliato da una balista o da uno scorpione si conficcava nella nave avversaria per poi essere tirato portando le due navi a contatto, delle torrette presenti a poppa su cui si posizionavano gli arcieri (che scagliavano frecce di fuoco) in modo che potessero tirare da una posizione rialzata e quindi più vantaggiosa.
ONAGRO
Era una sorte di catapulta che sparavano vasi pieni di carboni ardenti e di pece. Mentre le balistae sparavano frecce di 1m di lunghezza a oltre 200m di distanza.
BALISTA
Era la macchina da guerra più complessa dell'antichità e vennero ideate e costruite per la prima volta dai Greci. Esse potevano scagliare dardi di 3 cubiti (132 cm) che potevano viaggiare per 650 metri prima di toccare il suolo.
Scorpione
SCORPIONE
I Romani, per essere precisi, non usavano sempre le balistae, ma una loro semplificazione più piccola e compatta: lo scorpione che poteva scagliare dardi standardizzati fino a 3 spanne (69 cm), che potevano essere scagliati con precisione ad una distanza di 100 metri, mentre la gittata utile era di 400 metri. Normalmente vi erano più scorpioni o balistae su una singola nave a seconda della sua mole.
Stanga
La Stanga era una trave sottile e lunga, con entrambe le estremità di ferro, appesa all'albero della nave come un'antenna. Le navi, quando si scontravano, lanciavano con violenza le loro stanghe a destra o a sinistra, quasi fossero degli arieti, uccidendo i marinai nemici e sfondando la nave stessa.
La Falce era un ferro ricurvo ed appuntito, come una vera e propria falce, che era montato su lunghe aste, atto a recidere l'attrezzatura velica avversaria, rendendo le navi più lente.
La Bipenne è invece una scure, con alle due estremità una punta in ferro molto larga ed appuntita, che i classiarii utilizzano durante la battaglia per tagliare di nascosto le funi alle quali erano legati i timoni delle navi nemiche. Ciò rendeva la nave nemica ingovernabile e quindi facilmente catturabile e disarmabile.
SEZIONE MACCHINE DA GUERRA
Balista
BALISTA
Macchina bellica impiegata, soprattutto negli assedi, per lanciare giavellotti, pietre, frecce o dardi infuocati, palle di piombo, mediante lo scatto di un arco di grandi dimensioni. L’ arco della balista romana era costituito da due aste di legno, imperniate in un telaio posto su un cavalletto. Queste due aste erano tenute in pressione da due fasci di fibre intrecciate, che fungevano da mezzo di propulsione, essendo tese al massimo, come molle. Una robusta corda, agganciata alle due aste, veniva tesa e fissata all’ estremità di un carrello mobile, trattenuta da un grilletto o pernio. Il giavellotto, o altro, era collocato in una scanalatura del carrello, cosi che, sganciando di colpo dal pernio la corda tesa dalle due aste dell’arco, veniva spinto violentemente in avanti e scagliato ad una distanza di qualche centinaio di metri (un giavellotto o dardo fino a m. 350; una pietra di 800 grammi fino a m. 180).
La struttura della balista era mobile, entro certi limiti, sia nel piano orizzontale che in quello verticale, in modo tale che il lancio del proiettile poteva essere orientato secondo le necessità.
Posta su un apposito carro, trainato da cavalli, la balista era impiegata anche in battaglie campali e, in tal caso, era denominata CARROBALISTA.
Questa macchina non è una invenzione romana, dato che era già conosciuta dagli Assiri, dai Greci e dagli Egiziani.
Onagro
ONAGRO
Macchina bellica da assedio, impiegata per lanciare grossi sassi o proiettili di piombo a distanza. Era simile alla catapulta, ma differiva da questa per avere una traiettoria di lancio molto più curva, tale che l’oggetto scagliato poteva superare ostacoli alti e colpire i nemici riparati dietro recinti o all’ interno delle mura della città assediata. Era inoltre impiegata per l’indebolimento delle fortificazioni o contro le truppe d’ attacco e l’artiglieria nemica. La macchina era così chiamata per la violenta scossa che aveva nello sparo, paragonata al calcio di un onagro, asino selvatico allora presente in Grecia.
Nell’ onagro il palo che imprimeva la forza propulsiva al proiettile terminava in un secchiello appeso a funi e nel cui cavo veniva collocato l’oggetto da scagliare. Il palo, in posizione orizzontale prima del lancio, liberato dal gancio che lo tratteneva e tirato da un fascio di fibre in tensione, scattava in verticale e andava con un colpo secco ad urtare contro una barra. Nel contraccolpo lasciava partire dal suo alloggiamento il proiettile che, salendo ad una altezza di circa 40 metri cadeva a parabola ad una distanza di circa 30 metri. L’ oggetto piombando con tutto il suo peso nel bel mezzo di un gruppo di nemici, provocava conseguenze devastanti, sia in senso fisico, sia come effetto psicologico, poiché nessuno si sentiva più sicuro all’ interno di una cinta muraria.
Il peso del proiettile, secondo Vitruvio, poteva arrivare fino a 60-80 Kg. Secondo Vegezio ogni legione recava con sé 10 onagri trainati da cavalli o buoi. Ma le macchine più grandi spesso venivano costruite sul posto oppure portate in pezzi e montate poi sul campo di battaglia.
Catapulta
CATAPULTA
Macchina d’ assedio, usata per scagliare grossi sassi (anche di un quintale), proiettili o sostanze infiammabili, con molta violenza. Era costituita da un braccio di legno che terminava con un secchio contenente il proiettile. L’ altra estremità era inserita in corde torte che fornivano al braccio la forza propulsiva. Le catapulte venivano solitamente assemblate o del tutto costruite sul luogo dell’ assedio, impiegando il legno ivi disponibile.
NAVE LUSORIA
Una navis lusoria (che in latino significa danza/nave giocosa, era una piccola nave militare del tardo Impero Romano fungeva da trasporto truppe che avevano il compito di pattugliare il LIMES (il confine) dalle orde barbariche che si nascondevano nelle foreste e assalivano all’improvviso le legioni romane. Era alimentato da una trentina di soldati di guerra e da una vela ausiliaria. Agile, maneggevole e veloce, dimostrò la sua fama nel pattugliamento dei fiumi settentrionali Reno e Danubio vicino al Limes Germanicus, il confine germanico. Lo storico romano Ammiano Marcellino menzionò la navis lusoria nei suoi scritti, ma non si poteva averne un’idea precisa fino alla scoperta di queste barche a Mainz (Magonza) in Germania nel 1981-82.
Ricostruzione della Navis lusoria (della Classis Germanica) nel Museo delle navi romane di Magonza (Mainz).
La nave romana di Mainz (Magonza)
Nel novembre del 1981, durante gli scavi nel corso di una costruzione di un hotel Hilton a Magonza, furono trovati e identificati resti di legno come parti di una vecchia nave. Prima che la costruzione riprendesse tre mesi dopo, il sito produsse resti di cinque navi datate al IV secolo usando la dendrocronologia. I relitti furono misurati, smontati e, nel 1992, portati al Museo dell’antica marineria (in tedesco: Museum für Antike Schifffahrt ) del Museo Centrale Romano-Germanico ( Römisch-Germanisches Zentralmuseum ) per ulteriore conservazione e studio.
Scientificamente i relitti venivano chiamati Mainz 1 attraverso Mainz 5 e generalmente chiamati Mainzer Römerschiffe, le navi Mainz Roman. Furono identificati come vascelli militari che appartenevano alla flottiglia romana in Germania, la Classis Germanica. Le navi possono essere classificate in due tipi, ovvero piccoli trasporti di truppe (Mainz 1, 2, 4, 5) denominati navis lusoria e una nave pattuglia (Mainz 3). La lusoria è più stretta della actuaria navis, un tipo precedente e più ampio di nave da carico romana.
Una nave ricostruita a grandezza naturale è esposta al Museum of Ancient Seafaring, a Mainz, e serve come rappresentante della lusoria. Per la ricostruzione di questa nave in particolare Mainz 1 e 5 sono serviti come modelli. La replica misura 21,0 per 2,8 m mentre il parapetto misura 0,96 m Di nuovo si usa la quercia. Le doghe hanno uno spessore di 2 cm, generalmente 25 cm (10 in) e sono costruite in carreggiate.
La chiglia ha uno spessore di soli 5 cm e è costituita da tavole; contiene un canale centrale per la raccolta dell'acqua. Il mast-frame contiene un foro per posizionare l'albero. Mentre la nave poteva essere navigata, il metodo principale di propulsione era il canottaggio di una fila aperta di rematori su ciascun lato. L'effetto protettivo dei cannoni è ulteriormente esteso dagli scudi dei soldati appesi all'esterno. Le barche erano guidate da un doppio timone a poppa. Una navis lusoria era armata dal timoniere, due uomini per maneggiare la vela e circa 30 soldati che manovravano i remi.
È stato calcolato che la lusoria stretta e relativamente lunga poteva raggiungere una velocità di marcia da 11 a 13 km / h (da 6 a 7 nodi) e una velocità massima di 18 km / h (10 nodi).
Bibliografia
- I Porti Romani sul Mare - Imperium Romanun
- Miseno Bacoli – Classis misenensis – ARCHEO rivista archeologica
- I Porti Romani dei Campi Flegrei – ARCHEO FLEGREI
- L'arte della guerra romana Flavio Renato Vegezio
- Testimonianza storiche dell’eruzione di Pompei del 79 d.C.- Plinio il Vecchio
Osservatorio Vesuviano-L’Italo Americano
- L’Evoluzione navale – Imperium Romanun
- Armi d’assedio- Storia Romana – Approfondimenti-Circolo dei Saggi
- La Marina Militare Romana tra il I e il III Sec. D.C. di Roberto Petriaggi
- Le navi lusorie di Alberto Angela
- Le Liburne – Varie font
Carlo GATTI
Rapallo, 17 Maggio 2018