PITTORI DI MARINA-"CHARLES PEARS“-La nave da battaglia HMS Howe

PITTORI DI MARINA

Eco del Golfo Tigullio

LA QUADRERIA DEL MARE

CHARLES PEARS

“La nave da battaglia HMS Howe nel Canale di Suez, 1944

Charles Pears (1873-1958) è una figura emblematica nel campo della pittura di marina d’oltremanica a cavallo tra Ottocento e Novecento, avendo incarnato molte “anime” di questo particolare settore artistico in Gran Bretagna e risultando un attento testimone degli sviluppi tecnici, storici, marinareschi ed emozionali tanto nel settore della marina militare quanto in quello della marina mercantile.

Un poster di Charles Pears realizzato nei primi anni Trenta: intitolato “Gibraltar”, propagandava per l’Empire Marketing Board le linee delle Compagnie di navigazione britanniche per il trasporto passeggeri attive all’epoca.

Nativo dello Yorkshire, già nel 1890 era attivo come illustratore navale per la stampa periodica e, dopo il suo trasferimento a Londra nel 1904, differenziò le sue tecniche pittoriche e grafiche dagli acquerelli, agli olii e alle incisioni e fu autore, nel contempo, di alcuni testi di tecnica marinaresca e di navigazione da diporto. Ufficiale dei Royal Marines durante la Grande Guerra, entrò a far parte della Royal Society of Marine Artists e fu ufficialmente inserito nel novero dei “War Artists” britannici, operando in questo ruolo già tra il 1914 e il 1918 come pure all’epoca del secondo conflitto mondiale.

Al di là della già ricordata differenziazione delle tecniche utilizzate e della specializzazione nell’ambito della pittura di marina più strettamente intesa, l’opera di Charles Pears fu anche rivolta alla realizzazione di manifesti pubblicitari per compagnie di navigazione e ferroviarie. In particolare, tra il 1926 e il 1933 collaborò con l’Empire Marketing Board, un ente governativo che, in quegli anni, era preposto alla promozione turistica e commerciale di compagnie di navigazione e di altri soggetti economici del Regno Unito e dell’Impero. A questo periodo va anche fatta risalire una sua vasta produzione di advertisement per importanti società (P & O, White Star, Cunard) del trasporto passeggeri, attività che proseguì anche nel secondo dopoguerra.


Verso la fine della sua carriera Pears si ritirò in Cornovaglia, ma sino a dopo la metà degli anni Cinquanta continuò a dare vita ad una vasta produzione avente per soggetto ciò che maggiormente lo appassionava, ossia le navi militari e mercantili e l’ambiente marinaresco più largamente inteso, con tutte le sue opere sempre contraddistinte da una particolare ma efficace rappresentazione del mare nei suoi vari stati, delle onde e dell’ambiente oceanico.

L’olio su tela che qui presentiamo, oggi conservato al National Maritime Museum di Greenwich, è contraddistinto dalla firma “Chas Pears”, un’abbreviazione del nome proprio presente in moltissime opere di questo autore; l’opera raffigura la nave da battaglia HMS Howe, mimetizzata, nel 1944 (e fu verosimilmente realizzata in quell’anno) durante il passaggio del Canale di Suez. È possibile datare l’evento con una certa precisione, in quanto l’unità operò sempre nell’Atlantico e nel Mediterraneo sino a quando, tra il gennaio e l’aprile del 1944, fu sottoposta ad un ciclo di lavori di raddobbo nell’arsenale di Devonport al cui termine raggiunse Scapa Flow. L’Howe lasciò questa base nelle Isole Orcadi il 1° luglio 1944 diretta a Ceylon, con l’attraversamento del Mediterraneo, ed è quindi verosimile che il suo transito nel canale di Suez verso il Mar Rosso sia avvenuto tra il 10 e il 15 di quel mese.

Un’incisione di Charles Pears risalente al 1917 e raffigurante una nave trasporto truppe in Atlantico (National Gallery of Victoria, Melbourne)

La nave da battaglia Howe faceva parte della classe “King George V”, cinque unità (King George V, Anson, Duke of York, Prince of Wales e, per l’appunto, Howe) entrate in servizio tra il 1940 e il 1942; con un dislocamento a pieno carico superiore alle 45.000 tonnellate, erano armate con dieci cannoni da 356/45 su due torri quadruple e una binata. Il Prince of Wales, veterano dello scontro con la corazzata Bismarck durante il quale l’unità tedesca affondò l’incrociatore da battaglia Hood, andò a sua volta perduto (insieme all’incrociatore da battaglia Repulse) a dicembre 1941 nello stretto di Malacca, pochi giorni dopo l’inizio delle operazioni militari giapponesi che avrebbero portato alla caduta di Singapore. Le altre quattro unità furono attive nei più importanti settori operativi nel corso della seconda guerra mondiale e vennero tutte radiate nel 1957, quando ormai la nave da battaglia era stata soppiantata dalla portaerei nel ruolo di capital ship delle moderne flotte militari.


Una rara immagine, da una diapositiva a colori originale di fonte statunitense, raffigurante la nave da battaglia HMS King George V nel 1941

Maurizio BRESCIA

Direttore del mensile        

Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco

Rapallo, 17 Gennaio 2019


PITTORI DI MARINA-EX VOTO A RAPALLO E NEL MEDITERRANEO

PITTORI DI MARINA

Eco del golfo Tigullio

LA QUADRERIA DEL MARE

 

"EX-VOTO A RAPALLO E NEL

MEDITERRANEO"

 

In concomitanza con le celebrazioni in onore di N.S. di Montallegro, in programma all’inizio del prossimo mese di luglio, oggi l’attenzione di questa nostra rubrica non può non essere rivolta ai numerosi “ex-voto”, soprattutto di ambito marittimo e navale, conservati all’interno del celebre Santuario che sovrasta Rapallo.

Quella dell’”ex-voto” è una tradizione che affonda le sue radici nell’antichità. In ambito archeologico sono noti e documentati numerosi elementi riconducibili a questa categoria: già nell’era fenicio-punica, e poi in quelle ellenico-classica e romana non mancano esempi di statuette e monili offerti - anche allora “per grazia ricevuta” - ad una certa qual divinità, tradizione poi proseguita e accresciuta con l’avvento della cristianità dall’epoca medievale sino ai giorni nostri.

Il Santuario di Montallegro e la sua ricchissima galleria di “ex-voto” marinari rappresentano quindi il punto di partenza di un percorso che parte dal Tigullio e dal Golfo Ligure per poi “espandersi” non soltanto nel Mediterraneo ma anche negli Oceani e nei mari più esotici e lontani.

La costruzione del Santuario di Montallegro trae origine da motivazioni non soltanto devozionali che - all’epoca della Controriforma - portarono alla realizzazione di numerosi luoghi di culto, soprattutto nell’Europa meridionale e mediterranea. Tuttavia, questo particolare Santuario acquisì sin da subito una particolarissima e ulteriore valenza che ne fece l’ideale punto di riferimento morale e spirituale per tanti marinai di Rapallo impegnati sui mari del globo: prima sui “barchi” a vela, poi sui “vapori” ed oggi su unità moderne e tecnologicamente avanzate.

Da questa religiosità popolare e allo stesso tempo artistica è nata la grande quadreria di “ex-voto” marinari, che - a partire dai secoli passati - è stata arricchita nel tempo da opere che, tutte, accomunano il ringraziamento e l’affetto che tanti rapallesi hanno voluto testimoniare alla Madonna di Montallegro. Ciò ha portato alla creazione di autentiche opere d’arte che venivano commissionate ai più quotati pittori di marina in attività, soprattutto in ambito ottocentesco.

Angelo Arpe, Domenico Gavarrone e Antonio Luzzo, beneficiano oggi di una fama a livello nazionale e internazionale: del tutto meritata poiché le loro opere (comprese quelle esposte al Santuario di N.S. di Montallegro) si confrontano - in parecchi casi su un piano vincente - con quelle di accreditate scuole pittoriche, come il “circolo” francese della famiglia Roux (già approfondito in questa rubrica su “Il mare” dello scorso mese di marzo) ed anche con non pochi quadri a soggetto navale di noti artisti britannici dell’Ottocento e del primo Novecento.

Tuttavia, l’appassionato di cose di mare (come pure il semplice visitatore della quadreria di Montallegro) non potranno non rilevare come - tra i numerosi “ex-voto” del Santuario - ve ne siano alcuni che, ancorché diversi da quelli più “classici” per tipologia, stile pittorico e caratteristiche morfologiche, riconducono a importanti eventi della storia navale del nostro paese, dai primi anni dell’Unità d’Italia sino alla seconda guerra mondiale.

Infine, a Montallegro sono custoditi alcuni ex voto che si discostano dall’iconografia più “tradizionale” di questo settore (anche perché realizzati su base fotografica anziché pittorica) ma che, proprio perché riferiti a particolari e significativi eventi della storia navale del nostro paese, ci permettono non soltanto di rivisitare importanti vicende, affondamenti e battaglie in cui si trovarono coinvolte famose navi della Regia Marina, ma di evidenziare - una volta di più - la devozione e la riconoscenza di tanti rapallesi che su di esse furono imbarcati.

Altri “ex-voto” di non secondaria importanza sono costituiti da modelli di navi di ogni foggia e dimensione e dalle più disparate caratteristiche qualitative: molti santuari liguri conservano, spesso appesi al soffitto di navate e cappelle, modelli di galere e velieri di grandi dimensioni e di ottima fattura che - in aggiunta alla tradizionale valenza religiosa - sono anche importanti elementi documentali sulle tecniche costruttive, le alberature, le attrezzature e i dettagli di navi del passato.

Queste forme alternative di “ex-voto” sono diffuse non soltanto in Italia ma anche in tutte le nazioni rivierasche cristiane della costa settentrionale del Mediterraneo, dalla Spagna alla Grecia passando per l’Italia, la costa orientale dell’Adriatico e l’Isola di Malta: testimonianze non certo mute, anzi, ricche di significati religiosi, e talvolta personali ed addirittura allegorici, ma sempre denominatore comune di un “sentire” intimo e mai venuto a mancare che accomuna la gente di mare di ogni tempo e paese.

 

ALBUM FOTOGRAFICO

 

1

Al Santuario di Montallegro a Rapallo è conservato questo ex-voto di Domenico Gavarrone risalente al 1849, donato all’istituzione religiosa “per grazia ricevuta” dal capitano Filippo Campodonico, raffigurante il brigantno Granduca Leopoldo che scampa al naufragio.

 

2

 

Santuario N.S. di Montallegro (Rapallo),

Battaglia di Lissa, 20 luglio 1866.

Piccolo acquerello su carta di donatore ignoto - probabilmente ricavato da una litografia contemporanea dell’evento - in cui il primo, sfortunato, scontro tra la Marina italiana e l’Imperial Regia Marina austro-ungarica è raffigurato secondo il gusto delle stampe popolari dell’epoca. Interessante la presenza, in basso a sinistra, dell’ “ariete corazzato” Affondatore, nave di bandiera dell’ammiraglio Persano durante la battaglia navale.

3

Santuario N.S. del Boschetto, Camogli-Genova

Un “ex-voto” particolare, dovuto all’abile mano dello ship painter genovese Giuseppe Roberto, attivo nel capoluogo ligure nei decenni a cavallo tra Ottocento e Novecento. Questo quadro del piroscafo Antonio al traverso del promontorio di Portofino nacque - verosimilmente - come uno ship portrait tradizionale e la rappresentazione religiosa venne inserita in alto a sinistra solo in un secondo tempo, come ringraziamento “cumulativo” per dodici anni di servizio prestati a bordo della nave dal capitano P. Massa.

 

4

Santuario N.S. di Montallegro (Rapallo)

Affondamento del R. Ct. Antoniotto Usodimare, 8 giugno 1942

Questo disegno a china con fotografia, di donatore ignoto, ci riconduce ad un particolare, tragico, episodio della guerra navale nel Mediterraneo del giugno 1942, quando il cacciatorpediniere Antoniotto Usodimare fu silurato e affondato per errore dal sommergibile Alagi, anch’esso italiano. Tra i sopravvissuti all’affondamento vi fu uno sconosciuto marinaio di Rapallo che volle testimoniare la sua riconoscenza con queste semplici parole: “Quando - – quando torno, sempre guardo al tuo monte con grande amore, o Madre Celeste”.

5

Santuario N.S. della Misericordia (Savona)

Modello di nave a palo (ossia con tre alberi a vele quadre ed uno più a poppa, con vele auriche) appeso nel cielo della navata sinistra del più importate santuario savonese, anch’esso ricco di “ex-voto” marinari.

6

Un antico “ex-voto” francese (1741)

Conservato a La Rochelle, sulla costa dell’Atlantico, quindi in un ambiente etno-geografico che si discosta da quello tradizionale del Mar Mediterraneo. L’opera è di autore ignoto e, abbastanza curiosamente, in luogo della tradizionale icona della Madonna compare quella del Cristo. Con ogni probabilità, l’”ex-voto” è riferito ad un incidente occorso durante la manovra di una delle vele, dato che gli sguardi degli uomini dell’equipaggio sono rivolti verso l’alto.

7

Nella chiesa parrocchiale di Zabbar (Isola di Malta) è conservato questo “ex-voto” tardo-seicentesco, commissionato ad un pittore locale dall’equipaggio di un vascello dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, attaccato da imbarcazioni ottomane e dal fuoco di postazioni di artiglieria costiera durante un raid sulle coste di un’isola dell’Egeo in mano ottomana.

 

8

Santuario di Maria SS. della Libera (Rodi Garganico, Foggia)

Anche l’Italia meridionale è ricca di “ex-voto” nei numerosi santuari che popolano le coste tirreniche, ioniche, adriatiche e siciliane. Nel Santuario di Maria SS. della Libera è esposto questo “ex-voto” relativo allo scampato naufragio (27 gennaio 18590) dell’equipaggio di un piccolo “due alberi” da cabotaggio costiero, dalle linee prodiere e poppiere tipiche delle imbarcazioni da carico adriatiche.

9

Santuario di Maria SS. della Libera (Rodi Garganico, Foggia)

Ancora un “x-voto”, di gusto e realizzazione sicuramente “popolari”, per un altro scampato naufragio occorso il 17 febbraio 1875.

 

 

Maurizio BRESCIA

Direttore del mensile               

Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco

Rapallo, 30 Gennaio 2019

 


PITTORI DI MARINA - LA DINASTIA MARSIGLIESE DEI ROUX

PITTORI DI MARINA

Eco del golfo Tigullio

 

LA QUADRERIA DEL MARE

La “dinastia” marsigliese dei

ROUX

La famiglia francese, a partire dalla metà del secolo XVIII, si specializzò nella realizzazione di testi e tavole a soggetto idrografico e cartografico soprattutto grazie all’attività del capostipite Joseph Roux, fornitore della Marina francese e della Royal Navy britannica.

Ange-Joseph Antoine Roux (1725-1793) – La fregata britannica Camilla, Norfolk, Mariners’ Museum.

Nell’ambito artistico della pittura, e di quella di marina in particolare, non si riscontrano molti casi di “dinastie” famigliari ove più artisti si tramandano - di padre in figlio - i segreti di un’arte e, soprattutto, la passione per soggetti peculiari e comunque “difficili” quali sono, per l’appunto, le opere pittoriche riferite alle navi, alla loro storia e alle loro caratteristiche tecniche.

Un’eccezione è costituita dai pittori olandesi Willem van de Velde padre e figlio che, per tutto il Seicento, seppero imprimere alla pittura di marina (fiamminga prima e britannica poi) una nuova vitalità che influenzò questo specifico settore artistico per tutto il secolo successivo.

L’esempio “dinastico” quantitativamente (ma in non pochi casi anche qualitativamente) più rilevante è costituito dalla famiglia marsigliese Roux che, dalla metà del Settecento sin verso la fine dell’Ottocento, costituì non soltanto una scuola pittorica di rilevanza europea ma che - grazie ad alcuni dei suoi più importanti esponenti - seppe anche indicare alla pittura di marina una nuova via verso la modernità e nuove forme didascaliche e artistiche.

La famiglia Roux di Marsiglia, a partire dalla metà del secolo XVIII, si specializzò nella realizzazione di testi e tavole a soggetto idrografico e cartografico soprattutto grazie all’attività del capostipite Joseph Roux (1725-1793), fornitore tanto della Marina francese quanto della Royal Navy britannica. Il figlio Ange-Joseph Antoine (1765-1823) si dedicò invece alla pittura di marina dando vita al nuovo genere dello ship portrait, ossia la raffigurazione dettagliata e precisa di una nave a vela, spesso richiesta dal comandante o dall’armatore in un’epoca in cui la fotografia non aveva fatto ancora la sua comparsa nell’ambito mediatico e documentale nell’importante ruolo che oggi tutti le riconoscono.

Mathieu (detto Antoine) Roux (1799-1872) - Il brigantino a palo italiano Mortola (circa 1865), Norfolk, Mariners’ Museum.


Mathieu (detto Antoine) Roux (1799-1872) - Il brigantino francese Dauphin (1825), Norfolk, Mariners’ Museum.

Il figlio di Ange-Joseph Antoine (Mathieu, 1799-1872, che spesso firmava le sue opere “Antoine Roux” creando talvolta anche ai giorni nostri, taluni problemi nell’attribuzione della “paternità” di alcune specifiche tele), indirizzo anch’egli la sua attività artistica verso gli ship portraits. Parimenti, il fratello François Joseph Frédéric (1805-1870) già da adolescente si era evidenziato per il suo talento nel campo della pittura di marina, aprendo nel 1835 uno studio nella citta portuale di Le Havre dove diede vita a un fiorente commercio di opere a stampa a soggetto idrografico e di quadri di marina tanto di ambito militare quanto mercantile.

Un altro figlio di Ange-Joseph Antoine (François Geoffroi, 1811-1882) seppe infine infondere nuova linfa all’arte dello ship portrait realizzando non soltanto viste laterali dei soggetti ritratti (quale in effetti è la principale caratteristica di questo specifico genere), ma anche vedute prospettiche di navi a vela che si evidenziano per l’ottima resa artistica e, nel contempo per i dettagli - precisi e realistici - della velatura, delle manovre fisse e correnti, dello scafo e di numerosi altri elementi dell’allestimento. Non a caso, di François Geoffroi Roux fu detto che era “… un profondo conoscitore delle navi a vela del suo tempo, tanto dal punto di vista progettuale e costruttivo quanto da quello di un esperto marinaio”.

François Geoffroi Roux (1811-1882) - il brigantino a palo francese Parnasse (1841), Salem, Peabody Museum. Un nuovo modo di intendere lo ship portrait, con una vista prospettica e dinamica dell’unità raffigurata.

Non ultimo, va ricordato che l’arte dello ship portrait (sviluppata dai principali membri della famiglia Roux, suoi più autentici precursori) influenzò in misura considerevole due importanti pittori italiani particolarmente dediti all’attenta e precisa raffigurazione artistica di navi a vela ed anche ”vapori”, attivi attorno alla seconda metà dell’Ottocento: Domenico Gavarrone e Angelo Arpe dei quali non mancheremo, in qualche prossima puntata di questa serie, di descrivere alcune delle opere più note e artisticamente rilevanti.

Maurizio BRESCIA

Direttore del Mensile

Rivista fondata nel 1992 da Erminio Bagnasco

Rapallo, 10 gennaio 2019


SAN FRUTTUOSO DI CAMOGLI: terra di eroine

SAN FRUTTUOSO DI CAMOGLI: terra d’eroine

 


 

Almeno una volta, ogni inverno, amo tornare a S. Fruttuoso di Camogli; lo faccio ormai da tanti anni.

Scelgo, per evitare il domenicale frastuono, una luminosa mattinata di giorno feriale; frequentemente, in quella stagione, il sole, pur alto, non riesce a scaldare l’aria resa tersa dalla tramontana. M’imbarco a Camogli assieme alle derrate e alla posta per San Fruttuoso, spesse volte unico passeggero e, ogni qualvolta il battello, doppiata Punta Torretta, mi rivela quel paesaggio, m’emoziono come fossi un turista che, per la prima volta, lo scopre.

Non posso fare a meno di pensare a cosa ha scritto, di questo posto, il poeta genovese Nicolò Bacigalupo:

 

Comme un datao de mâ ti pai serroù

Nell’enorme muagion de Portofin

Che zu a picco o pâ stato scopellòu

Dai Ciclopi in scë un mâ sempre turchin.

Libera traduzione: Come un dattero di mare sembri chiuso nell’enorme muraglione di Portofino che giù a picco sembra scalpellato dai Ciclopi su di un mare sempre turchino.

 

Imbottito come un baleniere mi piace sostare, allungandomi sulla sassosa, piccola spiaggia che separa gli archi dell’antica Abbazia dal mare; supino, su quel morbido pendio, avverto pienamente di appartenere a questa terra, lambito dal mare e immerso nei pini come sono. Alle spalle mi protegge la solida costruzione in pietra mentre, dalle finestrelle del “Giovanni”, già trapela la fragranza della cucina che sta preparando il pesce, che a mezzogiorno gusterò.

Ecco, so già che quest'immersione nella ligusticità mi appagherà poi per mesi e mesi; l’annuale ritorno in quest’utero verde, perché questo ho scoperto essere per me questa baia, m’infonde pace e serenità.

Tutt’attorno, un luminoso silenzio; non c’è anima viva. Hanno già ripulito dagli affronti abbandonati durante l’invasione dell’ultima domenica, così da levare ogni traccia di questa settimanale profanazione.

 

 

In direzione dell’orizzonte, dopo l’insenatura del Cristo, scorgo ogni tanto riaffiorare neri luccichii; sono i sub che silenziosamente si esercitano e, dolcemente, la mente si apre alla fantasia.

Questa zona, oggi Parco del Promontorio di Portofino, così come la vicina Cala dell’Oro e l’altra, quella della Chiappa, si vuole che ai primordi fosse popolata da mostri antropofagi; a me invece piace pensarli quando, in epoca successiva, erano luoghi di caccia con il falco da parte d’insigni cavalieri, rampolli delle famiglie patrizie locali, accompagnati da orgogliose dame.

 


 

Nel 1104 i Consoli del Comune di Genova stabilirono che i rapaci, colà magistralmente addestrati, appartenessero all’Abate reggente quel Monastero e non potessero essere diversamente utilizzati, se non per l’uso per il quale erano stati ammaestrati.

La mitologia, spesso frammista a qualche verità storica, ci ha lasciato detto che Ercole, figlio di Giove e di Alcinea, quando tornò dalla Spagna, una volta trionfalmente attraversata la Francia, fondò Montecarlo ma, quando arrivò qui, venne fermato dai Liguri; dopo di lui, negli anni, vi giunsero i Fenici e poi gli Etruschi, i Greci, i Cartaginesi e gli onnipresenti Romani.

Il primitivo monastero sorse, per opera di Prospero, vescovo di Taragona, nel 711, ma fu poi distrutto dai saraceni.

Carlo Magno, prima, (801) e Papa Leone III dopo (812), edificarono in zona una “statio” per segnalare, con fumi di giorno o fuochi di notte, alle altre due stazioni, quella di levante posta su Capo Manara e quella di ponente, sistemata sul Capo di Faro, lo stesso sul quale in seguito edificheranno la Lanterna di Genova, eventuali avvistamenti di predatori.

Proprio al traverso di San Fruttuoso, in mare aperto, nel 1431 si combattè una battaglia fra la flotta veneta e quella genovese, secondo l’uso dell’epoca di affrontare a viso aperto il concorrente commerciale e non, come oggi, a colpi di dossier occulti.

Pietro Loredano, il comandante veneziano, impose ai genovesi una tale cocente sconfitta da lasciare, nei perdenti, un doloroso duraturo ricordo; l’unica consolazione, per lenirne le ferite, fu che lo stesso vincitore riconobbe l’eroismo dei vinti, tanto che Francesco Spinola d'Ottobone, nell’occasione duce dei genovesi ma caduto anch’esso prigioniero dei veneziani, fu, alla fine, affrancato senza che gli fosse imposta l’onta di toglierli la spada e i suoi marinai furono sciolti dalle catene alle quali erano già stati vincolati, e tutto senza chiedere il pagamento d'alcun riscatto. Quest’ultimo gesto, se ben conosco i miei conterranei, fu certamente il più apprezzato.

 

Nel 1550 Papa Giulio III, con proprio “breve”, cocesse in <jus patronato > l’Abbazia di Capodimonte, questo era il vecchio toponimo del luogo, al Principe Andrea Doria, che la scelse come sacrario delle tombe della propria famiglia.

Questa preziosa scheggia di Liguria diede alla marineria uomini e soprattutto donne coraggiose e intrepide; per tutte valga l’episodio, che costì è ricordato con una lapide e con un ingrandimento di una litografia, appesa davanti al banco del bar attraverso il quale si deve passare, perché è contemporaneamente mescita ma anche strada pubblica, se si vuol raggiungere la Chiesa oggi restaurata e l’attuale Museo, entrambi gestiti dal Fondo Italiano per l’Ambiente.

 


 

E’ l’alba del 24 Aprile 1855. La pirofregata inglese <Croesus>, nave a propulsione a vapore, al comando del Signor Hall, salpa dal porto di Genova per portare in Crimea, dove si sta combattendo, 400 uomini freschi dell’Armata Sarda e 25 muli completamente equipaggiati, nonché le relative vettovaglie ed attrezzature; al traino, secondo la moda del tempo, ha la nave appoggio <Pedestrian >, carica di munizioni e ulteriori provviste a sostegno di chi, laggiù, combatte. Dopo due ore di navigazione il piccolo convoglio si trova proprio al traverso del promontorio di Portofino; in quello stesso istante si sente il lancinante segnale di <fuoco a bordo >. Il Comandante, resosi conto che è proprio la sala macchine a bruciare e, giudicando ormai impossibile spegnerla, ordina di tagliare immediatamente il cavo del traino per evitare che le munizioni al seguito possano scoppiare e, mentre dà ordine di approntare le scialuppe, cerca di individuare un arenile sul quale potervi indirizzare la prua così che, spiaggiando la nave anche se in fiamme, ne avrebbe potuto evitare l’affondamento.

Chi conosce la zona sa che non ce né e, le uniche due eventualmente adatte allo scopo, seppur nascoste alla vista perché al fondo di cale strettissime e schermate dai capi, sono quella dell’Oro, ormai lasciata a poppa del battello e, lì vicino, quella di San Fruttuoso. Per fortuna il comandante Hall vede spuntare, dietro Punta Torretta, la grigia cupola a spicchi dell’Abbazia e, facendo d’ogni necessità virtù, ordina di mettere al massimo le caldaie e, urlando nel megafono, <avanti tutta >, avventa la nave in quella direzione a lui sconosciuta ma che ritiene, viste le costruzioni, possa essere abitata e quindi dotata di un qualche approdo; non c’era altra scelta.

L’improvvisa messa in pressione delle caldaie, se dà un forte abbrivio alla pirofregata, mai nome raggruppò in sé due infausti segnali così apertamente premonitori, di contro n’accelera la paventata fine; uno scoppio, la cui ridondante eco rimbalza risalendo lugubre fra i valloni e i dirupi del Promontorio, sconquassa la nave. La ciminiera scoppia ripiovendo in mille frammenti incandescenti; la coperta, con le parti di legno ormai in fiamme, si squarcia aprendosi come una rossa gola di drago fiammeggiante e tutto il cielo si riempie di particelle incandescenti impazzite che, frammiste all’acre e irrespirabile fumo d'olio e pittura che bruciano, paiono lapilli di un’eruzione.

E’ facile immaginare cosa successe a bordo dove, pochi marinai di mestiere, avrebbero dovuto infondere calma ed ordine ad una quantità di giovani fanti, equipaggiati ancora con le pesanti divise di panno invernale che, non essendo marittimi, in un primo tempo si saranno sicuramente paralizzati dalla paura trasformatasi poi in panico all’udire il grido <al fuoco, al fuoco >.

Non c’è nulla di peggio, in un’emergenza in mare, che il farsi prendere dal panico; purtroppo invece è ciò che quasi sempre succede, causa prima delle tragedie che leggiamo sui quotidiani. Le urla di terrore e d’implorazione, frammiste a quelle dei primi ustionati e dei feriti, si sovrapposero agli ordini di servizio, alimentando il caos. La vista della vicina costa e il mare non agitato, anziché rincuorare i sopravvissuti, suscitò l’ingannevole stimolo a tentare di raggiungerla a tutti i costi; iniziano ad accalcarsi, schiacciandosi gli uni sugli altri, premuti anche da quelli più dietro che, ancora su per le scalette d’uscita dai boccaporti, non vogliono restare ultimi ad abbandonare la nave. S’ignorano e si calpestano pure i feriti e gli ustionati; tutto avviene sotto una pioggia di fuoco e in ambiente reso invivibile dalle strutture ormai surriscaldate e con le zone di calpestio, incandescenti.

Allertati da questa scena apocalittica, i pochi abitanti presenti in San Fruttuoso, gli uomini validi erano ancora a pesca, si attivano alla meglio; come capita spesso, sono le donne le prime ad intuire d’istinto il da farsi, così come s’allarmano le leonesse se ai loro piccoli si avvicina un qualche vecchio leone.

Le uniche due donne valide, le sorelle Maria e Caterina Avegno, la prima intenta ad allattare l’ultimo nato e l’altra a confezionare il <frugale pasto >, si precipitano alla spiaggetta, capiscono subito la situazione e varano la loro barchetta per raggiungere quell’inferno. Da esperte rematrici, così come la dura vita del borgo imponeva, corrono a portare soccorso.

Mentre armeggiava, Maria avrà certamente pensato a suo figlio Paolo, appena scampato ad un naufragio in terra di Spagna, e da quel ricordo avrà trovato nuova motivazione leonina mentre, davanti a loro, imponente e dominante appare l’alta prua squarciata e in fiamme della fregata, quasi sanguinolenta fauce d’orca fiocinata a morte sulla spiaggia. Tutte le braccia di quegli sventurati, troppo giovani per morire così ingloriosamente, si tendono verso la fragile barchetta governata dalle due ardimentose; molti ne salvano ma, più il tempo passa e più il panico strizza il cervello a quelli che ancora attendono soccorso. Non appena vedono alla loro portata quel fuscello, ritenendolo l’unica salvezza, tutti assieme irresponsabilmente, vi si aggrappano, appesantiti pure dalle spesse divise ormai pregne d’acqua, lottando e sgomitandosi sino a far capovolgere violentemente quel guscio.

Caterina, più fortunata, è notata da un bravo marinaio che, sapendo nuotare, la trae in salvo ma di Maria e del suo corpo trascinato sul fondo da quegli esagitati, non se ne saprà più nulla, almeno per quel giorno. Particolare toccante: tutta la rapida sequenza è seguita dal marito Giovanni Oneto che, sebbene avanti negli anni, anch’egli con un’altra barca, si sta prodigando. Soltanto la mattina del 29 Aprile, cinque giorni dopo, il mare, fedele al suo mesto ed immutabile rituale, restituirà il corpo della sfortunata che, inizialmente, pareva voler trattenere tutto per se. Il bilancio della tragedia si chiuse con 24 marinai morti.

 


 

San Fruttuoso (Camogli). Abbazia. Tomba di Maria Avegno e Militi Italici Ignoti

 

Le sarà accordato l’onore, per concessione dei Principi Doria, di essere tumulata fra loro nell’Abbazia, così come un’apposita lapide, oggi traslata nell’atrio del Museo Marinaro di Camogli, ricorda e, vicino le sarà posto uno dei pochi pezzi recuperati dal rogo. Il Comandante Hall, come vuole un’antica tradizione marinara, scenderà per ultimo dai resti di quello che sino a poco prima era stato il suo vascello; finalmente, solo quando sopraggiunge la notte, tutti i sopravvissuti sono in salvo.

Passeranno però altre notti con la baia sempre sinistramente arrossata dai tizzoni che ancora ardono qua e là, sulle ultime parti vive dello scafo; questo lento consumarsi, sembra voler perdurare per rischiarare il più a lungo possibile il mare, così da facilitare l’improbabile “ritorno” di Maria.

 


La Regina Vittoria conferì alla memoria di Maria la Victoria Cross, la più alta onorificenza militare britannica. Il Console inglese Brown consegnò 10 sterline alla superstite Caterina e 50 sterline alla famiglia di Maria Avegno.

Dobbiamo riportare, per completezza di cronaca che, alla famiglia dell’eroina, il Governo di Sua Maestà Britannica elargì una bella somma cui si aggiunse una pensione annuale, assegnatale dal Ministero dell’Interno Italiano mentre, Sua Maestà il Re conferiva, ad entrambe le sorelle, la medaglia d’oro; anche la Francia, alleata, fece pervenire al vedovo un discreto aiuto.

Oggi, di quel gesto, resta la testimonianza ufficiale anche a Genova, nell’atrio del Palazzo Comunale, immortalato in una lapide e pure il Comune di Camogli, competente per territorio, ha apposto l’epitaffio cui si è accennato, concedendo pure alle due eroine un <Distintivo d’onore in oro >.


 

Sono ancora coricato sulla spiaggia a guardare quel mare calmo e lucido, e m'é difficile immaginare una così violenta tragedia in un luogo che, invece, sembra creato apposta per fantasticare dolci sogni, avvolti come si è, nell’armonia dei suoi colori contrastanti.

Quel tragico rogo purpureo ritorna inconsciamente nella tavolozza d’Ubaldo Merello, il pittore che più di tutti ha intriso d’amore le sue vedute degli scorci di questi luoghi “reconditi e di divina bellezza”

Per dire delle mie sensazioni, basta la poesia d’Adriano Sansa, genovese per scelta, là dove nella sua <Un mattino di sole a Dicembre > scrive:

…Se quando sarà sera sentiremo

la voce che ci chiede spiegazione

di questa breve sosta consumata

contemplandoci vivi,non sapremo

dire se non che il sole qualche volta

martella duramente, ma quest’oggi

è stato dolce senza una ragione.

 

 

Renzo BAGNASCO

 

Rapallo 14 giugno 2016

 


PITTORI DI MARINA - JOHN EVERETT-"CONVOGLIO IN ATLANTICO,1918"

PITTORI DI MARINA

Eco del golfo Tigullio

LA QUADRERIA DE “IL MARE”

JOHN  EVERETT

“Convoglio in Atlantico, 1918


Nell’ambito della pittura di marina, l’artista britannico John Everett (1876-1949, familiarmente noto anche come Herbert John Everett) è considerato, forse a torto, una figura “minore”. Tuttavia, molti suoi quadri sono direttamente collegati a questo genere artistico e, recentemente, nel 2017 un inventario del Ministero della Cultura inglese ha anzi appurato che nei musei e nelle gallerie d’arte d’oltremanica le opere da lui realizzate sono numericamente superiori a quelle di qualsiasi altro artista, con una particolare prevalenza - per l’appunto - di quadri a soggetto marittimo e navale.

Nato a Dorchester, nel 1896 Everett si trasferì a Londra dopo la morte del padre, frequentando la “Slade School of Fine Art”; ben presto i suoi quadri a olio e ad acquerello iniziarono ad essere apprezzati e, insieme ad una visione moderna e innovativa del paesaggismo (influenzata dalle ultime correnti impressionistiche), Everett si accostò a correnti vicine alle avanguardie culturali e artistiche che permeavano gli anni a cavallo tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del secolo XX. Di questa sua rinnovata vena artistica sono testimoni molte opere realizzate nel corso del primo conflitto mondiale, in buona parte raffiguranti navi inglesi e statunitensi mimetizzate con le prime tecniche di camouflage realizzate nel corso della Grande Guerra

Lo sviluppo delle prime mimetizzazioni navali è dovuto ad un altro pittore di marina britannico, Norman Wilkinson (1878-1971, la cui attività non mancheremo di approfondire in una delle prossime puntate), che, tra il 1916 e il 1918 collaborò con l’Ammiragliato della Royal Navy al fine di sviluppare una serie di schemi mimetici aventi la funzione di contribuire a rendere meno riconoscibili e individuabili unità militari o mercantili in navigazione. Nella fattispecie, Wilkinson realizzò un gran numero di schemi detti alterativi che - con l’uso di pannelli, bande e poligoni di vari colori - tendevano a “spezzare” le linee costruttive e la silhouette stessa di una nave, rendendone difficile l’apprezzamento delle dimensioni e degli elementi del moto soprattutto nei confronti degli operatori delle centrali di tiro telemetriche delle unità nemiche.

Everett, pur non partecipando direttamente a questi studi, contribuì a pubblicizzare e rendere noti i primi camouflage navali anche da un punto di vista propagandistico, realizzando durante la guerra numerosi quadri che presentano non comuni caratteristiche di “modernità” nei tratti e nella concezione, potendo essere verosimilmente avvicinati alle correnti pittoriche dadaiste e futuriste che permeavano la vita culturale dell’Europa nei primi due decenni di inizio secolo.


Un altro olio su tela di John Everett risalente al 1918, raffigurante unità militari e mercantili in navigazione sul Tamigi con, sullo sfondo a sinistra il “Royal Naval Hospital” di Greenwich (g.c. National Maritime Museum, Greenwich)

Ne è la prova l’olio su tela che qui presentiamo (conservato al National Maritime Museum di Greenwich), che raffigura un convoglio di navi statunitensi facenti parte di un convoglio di mercantili in navigazione in Atlantico nel 1918, ove sono evidenti la modernità e l’innovazione dello stile, ma per il quale non può sfuggire ad un osservatore attento anche la natura pratica degli schemi mimetici applicati alle navi. Immaginandoci difatti nei panni, ad esempio, del comandante di un sommergibile nemico impegnato ad osservare il convoglio al periscopio, appare evidente la difficoltà di poter effettuare con precisione e certezza il lancio di un siluro, grazie anche all’evidente difficoltà nel “visualizzare” i bersagli causata dall’applicazione di queste colorazioni che, tecnicamente, erano definite “dazzle” (ossia alterative).

Anche nel corso della seconda guerra mondiale fu ampio e diversificato lo studio e l’impiego di colorazioni mimetiche navali di vario tipo: in Gran Bretagna Norman Wilkinson fu nuovamente molto attivo in questo settore, mentre la Marina degli Stati Uniti si avvalse della collaborazione di un altro pittore di marina (Everett L. Warner, 1877-1963) che, in collaborazione con gli Enti tecnici dell’US Navy, affrontò il problema della mimetizzazioni delle unità militari con un approccio ancor più sistematico e scientifico.


Il lato diritto del “liner” britannico Mauretania sul finire del 1917: il transatlantico, all’epoca utilizzato come trasporto truppe, era stato mimetizzato con un impressionante schema a bande e rombi a toni di grigio, blu, bianco e azzurro (coll. M. Brescia).

Maurizio BRESCIA

Direttore del Mensile

Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco

Rapallo, 3 gennaio 2019


PITTORI DI MARINA - WILLIAM LIONEL WYLLIE - SS TEUTONIC

 

PITTORI DI MARINA

Eco del golfo Tigullio

 

LA QUADRERIA DE “IL MARE”

WILLIAM LIONEL WYLLIE

SS TEUTONIC

Con questo olio su tela di William Lionel Wyllie (Londra, 1851 - Londra, 1931) le navi a vapore diventano per la prima volta protagoniste di questa rubrica di pittura di marina del nostro mensile.

L’autore può forse essere considerato il più significativo esponente di quella scuola che, a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, dette i natali a un gran numero di pittori di marina giustamente celebrati per aver saputo interpretare al meglio, con la loro arte, un momento irripetibile della storia navale britannica: l’apogeo di un Impero che, nei traffici commerciali e nello sviluppo della marina mercantile da un lato e nella potenza della Royal Navy dall’altro, seppe esprimere al meglio una “marittimità” ineguagliata negli ultimi tre secoli della storia mondiale.

William Lionel Wyllie, dopo un inizio di carriera non scevro di difficoltà e di alcuni insuccessi (che lo portarono anche a considerare di abbandonare il campo artistico per intraprendere la carriera di ufficiale della marina mercantile), iniziò a vedere valorizzate le sue opere dalla Royal Academy e da altre istituzioni culturali britanniche, diventando membro della celebre Society of British Artists già nel 1875.


Da allora, la sua produzione nel campo della pittura di marina fu sempre più apprezzata in patria e all’estero, e nel 1889 fu infine nominato membro associato della Royal Academy.


Al di là della sua produzione artistica, Wyllie sostenne sempre le istanze tese alla valorizzazione storica del passato navale britannico: fu tra i maggiori sostenitori del re- stauro della HMS Victory, già nave ammiraglia di Nelson alla battaglia di Trafalgar, nonché socio fondatore dell’importante Society for Nautical Research, istituzione attiva ancora ai nostri giorni il cui organo è l’autorevole periodico “The Mariner’s Mirror”.

Nel 1930, poco prima della sua scomparsa, completò una grande tela raffigurante la battaglia di Trafalgar per il Museo dell’Arsenale di Portsmouth, inaugurata alla presenza del re Giorgio V.

L’olio su tela che qui presentiamo (da sempre esposto al National Maritime Museum di Greenwich) risale all’ultimo decennio del secolo XIX e raffigura il “liner” Teutonic in uscita dal porto di Liverpool - dopo essere stato costruito dai cantieri Harland & Wolff di Belfast - per il suo viaggio transatlantico inaugurale che ebbe inizio il 7 agosto 1889.

L’impianto generale e l’impostazione artistica del quadro sono tipici della preparazione tecnica e delle conoscenze marinaresche di un autore che, in tutte le sue opere, ha spesso saputo abbinare l’uso di colori tenui e sfumati ad una considerevole precisione nella rappresentazione di dettagli di scafi e attrezzature senza - però - mai dimenticare il contesto paesaggistico e il “bilanciamento” generale nella rappresentazione di velieri, barche da pesca, navi da guerra o “vapori”, come è per l’appunto il caso del Teutonic.

Nel quadro, il Teutonic esce maestosamente dall’avamporto di Liverpool e, tra le tante qualità di quest’opera, va rilevata la “profondità prospettica” su ben quattro piani individuati - rispettivamente - dalle barche e dalla chiatta in primo piano in basso a destra, dalla barca a vela sulla sinistra del Teutonic verso poppavia (elemento minimo, ma fondamentale per accentuare la profondità della visuale), dal Teutonic medesimo e, infine, dai dettagli sfumati della città e del porto di Liverpool sullo sfondo.

Il Teutonic e il gemello Majestic, immessi in servizio dalla White Star Line tra il 1887 e il 1889, furono non soltanto navi passeggeri lussuose e veloci (20 nodi di velocità massima), ma vennero progettati e costruiti per essere convertiti - in caso di necessità - in navi trasporto truppe e incrociatori ausiliari.

Il Teutonic, in particolare, fu impiegato come trasporto truppe nel 1900 in occasione della Guerra contro i Boeri e - tra il1914 e il 1918, armato con cannoni da 152 mm - fu utilizzato come incrociatore ausiliario inquadrato nel 10th Cruiser Squadron della Royal Navy.

 

Al termine del conflitto il Teutonic non riprese la sua attività di piroscafo di linea e, essendo ormai disponibili unità più grandi e veloci, fu demolito a Emden (Germania) nel 1921.

Maurizio BRESCIA

Direttore del Mensile           

Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco

Rapallo, 27 Dicembre 2018


PITTORI DI MARINA - EL ULTIMO COMBATE DEL GLORIOSO

PITTORI DI MARINA

Eco del golfo Tigullio

LA QUADRERIA DEL "MARE"

AUGUSTO FERRER-DALMAU

EL ULTIMO COMBATE DEL GLORIOSO


La pittura di marina, per la buona sorte di tutti i suoi appassionati e cultori, non è un genere artistico che appartiene soltanto al passato: al contrario, non sono pochi i pittori contemporanei che si dedicano ad essa, spesso con risultati di assoluta qualità che ben poco hanno da invidiare a quadri realizzati nei secoli scorsi.

È sicuramente questo il caso della recentissima opera dell’artista spagnolo Augusto Ferrer-Dalmau che, in collaborazione con l’accademico e storico navale Arturo Pérez Reverte, nel 2014 ha realizzato per il Museo Navale di Madrid un grande olio su tela (cm 190 x 170) di notevole qualità, riferito all’ultimo combattimento del “due ponti” spagnolo da 70 cannoni Glorioso, nell’impari scontro del 17 ottobre 1747 al largo di Cabo San Vicente, con quattro fregate britanniche (HMSs King George, Prince Frederick, Princess Amelia e Duke) al comando del commodoro George Walker.

La vicenda va inquadrata nella cosiddetta “Guerra dell’Asiento”, nel corso della quale le Marine britannica e spagnola si scontrarono più volte per il predominio nell’Atlantico e nei Caraibi, nell’ambito della ben più vasta Guerra di Successione austriaca (1740-1748). Un conflitto, quest’ultimo - che, oltre a sancire con la pace di Aquisgrana la conclusione del ciclo imperiale degli Asburgo - vide contrapposte due coalizioni che, neppur poi tanto sorprendentemente, replicavano a grandi linee quelli che sarebbero stati gli schieramenti politico-militari del periodo napoleonico.

Precedentemente al combattimento del 17 ottobre 1747 (al termine del quale il Glorioso - disalberato e con numerosi morti e feriti a bordo - si arrese, non prima di aver affondato la fregata HMS Dartmouth nel frattempo giunta a dare manforte alle altre unità britanniche), il “due ponti” spagnolo, al comando di Don Pedro Mesia del la Cerda, a luglio e ad agosto aveva sostenuto due vittoriosi combattimenti contro la Royal Navy: il primo nella zona delle Isole Azzorre e il secondo fuori Capo Finisterre.

Questo quadro di Augusto Ferrer-Dalmau abbina le caratteristiche di “classici” combattimenti navali presenti nei lavori di pittori del Settecento e dell’Ottocento ad una cura del dettaglio di scafi e attrezzature veliche che troviamo in opere della più diversa natura dai Van Der Welde, a Buttersworth e ad autori anche più recenti.

Presentiamo quindi due immagini, al fine di meglio valutare un soggetto trattato con rara accuratezza: una vista d’insieme del dipinto e il dettaglio centrale del Glorioso, ormai semidistrutto, quasi al termine del combattimento. Nella raffigurazione generale sono visibili le unità britanniche che attorniano il Glorioso, anch’esse in parte danneggiate dal tiro della nave spagnola; il dettaglio del Glorioso, poi, consente di apprezzare la cura quasi certosina posta dal Ferrer-Dalmau nel raffigurare la nave spagnola con i danni causati dai colpi nemici sulle murate, l’alberatura ormai smantellata, la bandiera navale che sventola ancora a riva e - soprattutto - gli innumerevoli uomini dell’equipaggio ritratti in pose dinamiche, del tutto realistiche e per nulla “di maniera”.

Un quadro, quindi, realmente bello, accurato, di grande impatto emozionale e tale da reggere il confronto (se non addirittura di risultare superiore) con le giustamente rinomate opere del celebre pittore di marina britannico Geoff Hunt, noto - in particolare - per aver realizzato i quadri utilizzati come copertine di numerosi romanzi della saga di Horatio Hornblower dello scrittore C.S. Forester.

Maurizio BRESCIA

Direttore del Mensile           

Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco

 

Rapallo, 20 Dicembre 2018


PITTORI DI MARINA - J.W.M. Turner, “The Fighting Temeraire”

PITTORI DI MARINA

Eco del golfo Tigullio

LA QUADRERIA DE “IL MARE”

J.W.M. Turner, “The Fighting Temeraire”

Il Temeraire, un vascello a tre ponti della Royal Navy, venne varato nel 1798 all’arsenale di Chatham e faceva parte di una classe di quattro unità; fu presente alla battaglia di Trafalgar del 21 ottobre 1805.

Ci troviamo di fronte ad uno dei più celebri dipinti di marina anche se, in questo partico- lare caso, parlare di uno specifico ambito “di genere” è quanto meno riduttivo in ragione – come vedremo brevemente – dei numerosi significati e della valenza artistica del- l’opera, che va vista e studiata in considerazione della rilevanza dell’autore nel più vasto campo dell’arte pittorica britannica a cavallo tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento. Joseph Mallord William Turner (1775-1881), generalmente noto come J.W.M. Turner, è stato un pittore britannico preminente e significativo che, più di tanti artisti coevi, ha saputo coniugare le tematiche della pittura di marina con le istanze innovative e introspettive che hanno caratterizzato tutta l’arte europea (e, quindi, non soltanto il settore figurativo) nel pieno del periodo del romanticismo.

Le sue opere, quasi tutte olii su tela, vennero riconosciute come originate da un indiscusso talento già nei primi anni della sua attività artistica, e la fama di Turner – da allora – è sempre stata continua e riconosciuta non soltanto in Gran Bretagna ma anche all’estero: oggi numerose sue opere sono esposte nei principali musei e gallerie britannici ed eu- ropei, con la National Gallery di Londra e il National Maritime Museum di Greenwich fortunati possessori di molti suoi quadri, parecchi dei quali riconducibili al settore navale e a quello storico più in generale.

L’opera che oggi presentiamo raffigura un momento sempre triste per una nave: il rimorchio verso il cantiere di demolizione, al termine di una carriera spesso importante e ricca di avvenimenti ma inevitabilmente destinata, come la stessa vita umana, ad

un’ineluttabile conclusione: il titolo completo del quadro è, difatti, The Fighting Temeraire tugged to her last berth to be broken up, 1838, titolo che richiama, per l’appunto, gli ultimi momenti di vita di questa gloriosa unità.

Il Temeraire, un vascello a tre ponti della Royal Navy, venne varato nel 1798 all’arsenale di Chatham e faceva parte di una classe di quattro unità (con Neptune, Ocean e Dreadnought); fu presente alla battaglia di Trafalgar del 21 ottobre 1805 come seconda unità della linea di fila al comando dell’ammiraglio Horatio Nelson (sulla HMS Victory), e si distinse coadiuvando quest’ultima nel combattimento con il “tre ponti” francese Redoutable e catturando il similare Fouguex.

Come per tutte le navi, giunse però anche per il Temeraire il tempo della radiazione (1838), e il quadro di Turner raffigura proprio questo momento, con un rimorchiatore a vapore che traina l’ormai obsoleto vascello verso il cantiere di demolizione.

Le caratteristiche pittoriche dell’opera, con gli “sfumati” e i particolari appena accennati tipici di Turner, conferiscono all’insieme un melanconico sapore romantico, permeato dalla triste consapevolezza del trascorrere del tempo, con il passato sostituito dalla modernità che – spesso – non è in grado di ripeterne l’appeal emotivo, l’intimismo e la propensione per la cultura e la bellezza.

Infatti, il vascello Temeraire si trova in secondo piano delicatamente illuminato dalla luce del tramonto, mentre il rimorchiatore in primo piano è scuro (quasi nero!) e i maggior dettagli che lo contraddistinguono stanno quasi a rappresentare l’oggi che soppianta i giorni passati, dei quali a breve resterà soltanto il ricordo.

Il Fighting Temeraire è stato al centro, nel 1995, di una mostra ad esso dedicata proprio dalla National Gallery di Londra, che ha visto esposte numerose altre opere di Turner riferite alla storia navale britannica (e alla battaglia di Trafalgar in particolare), modelli, strumenti nautici e numerosi documenti originali dell’epoca. Chi scrive queste note ha avuto la fortuna di visitare, all’epoca, quell’eccezionale evento artistico (arricchito, tra l’altro, da uno splendido catalogo dovuto alla storica dell’arte Judy Edgerton): è quindi con grande piacere che presentiamo oggi ai lettori de “Il Mare” The Fighting Temeraire nella consapevolezza di trovarci di fronte ad uno dei “quadri di marina” destinati a fama imperitura e ad un’ampia conoscenza tra studiosi, critici e semplici appassionati di ogni tempo e paese.

Maurizio BRESCIA

Direttore del mensile  

Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco

Rapallo,10 Dicembre 2018

 


PITTORI DI MARINA - “Al largo di Valparaiso” (“Off Valparaiso”)

PITTORI DI MARINA

Eco del golfo Tigullio

LA QUADRERIA DE “IL MARE”

 

“Al largo di Valparaiso” (“Off Valparaiso”)

La nave raffigurata dal pittore Thomas J. Somerscales è un tipico tre alberi con scafo in ferro, largamente impiegato dalle principali marinerie sul finire dell’Ottocento, le cui forme di scafo e la cui velatura sono mutuate da quelle dei famosi “clipper” del the e della lana in attività alcuni decenni prima.

La pittura di marina di scuola britannica è sicuramente la più vasta e di qualità in questo specifico genere, e sono numerosissimi gli artisti inglesi che, dal Settecento ai giorni nostri, hanno raggiunto nel settore vette artistiche e documentali di più che considerevole valenza.

In particolare, tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del secolo scorso, oltremanica si è assistito ad un’autentica fioritura artistica in questo ambito, con pittori quali William M. Willie, Charles Pears e Norman Wilkinson le cui opere rientrano di diritto tra la migliore produzione del periodo e raggiungono notevoli quotazioni nelle aste britanniche e statunitensi, oltre ad essere esposte nelle più quotate gallerie londinesi e del Regno Unito.

In questo panorama, la figura di Thomas J. Somerscales è abbastanza atipica e “indipendente”: figlio di un capitano di lungo corso, nacque a Kingston upon Hull nel 1847 e ben presto iniziò una carriera di insegnante tecnico con la Royal Navy. In quel periodo diede avvio, su basi del tutto autodidatti che, ad un’attività collaterale di pittore amatoriale: caratteristica di famiglia, dato che il padre e uno zio erano essi stessi grafici dilettanti, disegnatore il primo e pittore il secondo.

Nel 1864 Somerscales visitò Valparaiso, in Cile per la prima volta, e si stabilì in quella stessa città nel 1869, dopo aver contratto la malaria nel corso di un viaggio ai tropici nell’Oceano Pacifico. In Cile, Somerscales proseguì la sua attività artistica su basi professionali, partecipando a numerose mostre e esposizioni di pittura di marina e guadagnandosi una fama che, ben presto, lo rese noto anche in patria.

Rientrò nel 1915 in Gran Bretagna, stabilendosi nella città natale di Kingston upon Hull ove, sino alla sua morte (1927), proseguì l’attività di pittore di marina; il suo quadro più famoso è sicuramente “Off Valparaiso” (“Al largo di Valparaiso”), realizzato in Cile nel 1899, che qui presentiamo.

L’opera (olio su tela), è oggi esposta alla Tate Gallery di Londra, che la acquistò dopo che questa era stata esposta alla Royal Academy nei primi anni Venti, e presenta tutti gli aspetti che meglio evidenziano l’arte di Thomas J. Somerscales, ossia un’eccezionale fusione tra elementi naturali (il mare e il cielo), nautici (la corretta raffigurazione di scafi, alberature e manovre) e una “dinamicità” che coinvolge l’appassionato, l’osservatore e chi per mare ha navigato e conosce la realtà di questi elementi.

Una “nave attrezzata a nave” (cioè un veliero a tre alberi con vele quadre) naviga al gran lasco al largo di Valparaiso, e si prepara ad imbarcare il pilota, la cui imbarcazione (siamo in Sud America alla fine dell’Ottocento...) è una semplice lancia a remi che sfida le onde dell’Oceano Pacifico.

Va evidenziata la corretta disposizione della velatura, in riferimento alla situazione in cui il tre alberi è raffigurato. Come detto, il bastimento naviga al gran lasco ma deve mantenere rotta e stabilità, riducendo nel contempo la velocità. I due fiocchi portati “a farfalla” favoriscono quindi il mantenimento della rotta con un’andatura portante, ma le scotte delle vele superiori dei tre alberi sono state allascate per ridurre la velocità e lo sbandamento: velaccino e controvelaccino (al trinchetto), velaccio e controvelaccio (alla maestra), belvedere e controbelvedere (alla mezzana) sono quindi già sventati e il veliero, maestosamente, riduce l’abbrivo e si prepara a ricevere il pilota a bordo.

La nave raffigurata è un tipico tre alberi con scafo in ferro, largamente impiegato dalle principali marinerie sul finire dell’Ottocento, le cui forme di scafo e la cui velatura sono mutuate da quelle dei famosi “clipper” del the e della lana in attività alcuni decenni prima.

Maurizio BRESCIA

Direttore del mensile

Rivista fondata nel 1993 da Erminio Bagnasco

Rapallo, 4 Dicembre 2018


HELEANNA - Una ferita che brucia ancora

M/n HELEANNA - UNA FERITA CHE BRUCIA ANCORA

Il comandante Dimitrios Anthipas, un pessimo esempio di Comandante

 

Il 28 agosto 1971, a 15 miglia da Monopoli, un incendio scoppiò a bordo del traghetto greco “Heleanna”. Si trattò della più drammatica e funesta sciagura marittima accaduta in Adriatico nel dopoguerra. La tragedia costò la vita a 25 turisti imbarcati; 16 furono i dispersi, 271 feriti tra i 1089 i superstiti.

Sono trascorsi 42 anni dall’incendio della HELEANNA, ma il ricordo é sempre vivo, specialmente tra coloro che seguirono da vicino le operazioni di salvataggio, ma anche da tutti coloro che ben presto si resero conto che a bordo del traghetto viaggiavano 1174 passeggeri, quasi il doppio dei 620 consentiti, e duecento automobili. A quel punto l’apprensione si trasformò in pura rabbia e la stampa di allora definì “negrieri del mare” il comandante Antypas Dimitrios ed il suo armatore Efthymiadis.

 

Da dove uscì quel maxi-traghetto con la ciminiera a poppa come una petroliera?

 

 

Negli anni ’60 l’armatore greco Constantino S. Efthymiadis comprò quattro petroliere svedesi per convertirle in traghetti passeggeri:

la MARIA GORTHON (rinominata PHAISTOS), nel 1963;

la SOYA-MARGARETA (rinominata MINOS), nel 1964;

la SOYA-BIRGITTA (rinominata SOPHIA), nel 1965;

la MUNKEDAL (rinominata HELEANNA), nel 1966.

Nel 1954 la nave cisterna Munkedal fu costruita dai cantieri Götaverken di Göteborg-Svezia. Ma il suo destino fu segnato dalla chiusura del Canale di Suez* che costrinse le petroliere a compiere il lungo e costoso periplo dell’Africa, linea che sarebbe risultata economica soltanto con l’introduzione del  “gigantismo navale”. Così fu, e tutte le stazze minori, tra cui le petroliere svedesi sopra citate, furono messe fuori mercato. 

 

Nota: Dopo la GUERRA DEI SEI GIORNI del 1967, il canale rimase chiuso fino al 5 giugno 1975).

 

Da sempre i greci sono considerati validissimi marinai, ma anche un po’ spregiudicati. L’armatore C.S.Efthymiadis era un fedele garante di questa tradizione. La sua intuizione gli permise, infatti, di trasformare e reclamizzare la nuova unità come “il più grande traghetto del mondo”. 

Nel 1966, mantenendo il suo aspetto esteriore, la petroliera Munkedal fu ridisegnata al suo interno per la sistemazione di numerose cabine/passeggeri, mentre sulle fiancate dello scafo furono installati portelloni con rampe di nuova concezione per l’imbarco/sbarco di auto al seguito e mezzi pesanti. Rinominata Heleanna, il traghetto entrò in linea sulla rotta Patrasso–Brindisi-Ancona e ritorno. 

 

La cronaca dell’incidente

Al momento del disastro l’Heleanna si trovava 25 miglia nautiche a Nord di Brindisi, a 9 miglia al largo di Torre Canne, più verso Monopoli. Proveniva da Patrasso ed era diretta ad Ancona con 1174 passeggeri e 200 mezzi  (auto, tir e autobus). 

Tutto ebbe inizio alle 05.30 del 28 agosto 1971 quando una fuga di gas dai locali della cucina, fra la panetteria, la riposteria ed il locale ristoro provocò un  incendio a poppa. Si parlò di un corto circuito, forse una manovra errata di accensione dei polverizzatori della cucina, oppure di uno spandimento di gas liquido, ma anche di una possibile fuoriuscita di nafta dalla cassa di alimentazione della calderina.

Alcuni testimoni affermarono che l’incendio prese il sopravvento solo quando il fuoco lambì le bombole di ossigeno facendole esplodere. Poco dopo successe un fatto molto anomalo: in una cala di poppa vicino al timone, scoppiò un’altra bombola d’ossigeno che bloccò istantaneamente l’organo di governo che era, in quel momento, posizionato 15° a dritta. Il traghetto, ormai in panne, ma ancora abbrivato, compì un’ampia accostata in cui il vento  propagò l’incendio a tutta la nave. 

L’Heleanna aveva in dotazione 12 scialuppe di salvataggio sufficienti per 600 persone, la metà delle persone imbarcate. Le inchieste promosse dalle Autorità dimostrarono che metà delle lance erano inutilizzabili per via degli argani bloccati dalla ruggine. Tra quelle calate a mare, una si ribaltò e precipitò in mare probabilmente per il sovraccarico.

Gli idranti antincendio e i tutti i sistemi di soccorso non erano funzionanti. Le inchieste che seguirono dimostrarono che il traghetto, dal punto di vista della sicurezza, era da considerarsi sub-standard. 

Il disastro causò 25 morti, 16 dispersi e 271 feriti, alcuni anche in modo grave. Le vittime erano di nazionalità italiana, greca e francese. Non appena il Comandante della nave lanciò l’SOS, soccorsi aerei e navali partirono da Brindisi, Bari, Monopoli e Grottaglie.

I soccorsi aeronavali partirono da Brindisi, Bari, Monopoli, Taranto e Grottaglie, anche con la partecipazione di alcuni pescherecci privati (LauraMadonna della MadiaAngela DaneseNuova VittoriaS. Cosimo) che si attivarono con molta efficacia nella ricerca dei dispersi in mare ed al soccorso dei naufraghi.

L’incendio venne domato dopo molte ore. Il relitto fu rimorchiato verso porto di Brindisi e fu ormeggiato nei pressi del castello Alfonsino.

I feriti sarebbero stati più numerosi se non fosse scattata con grande tempestività l’opera dei soccorritori. Il personale dei rimorchiatori locali della Società Barretta dovette avvicinarsi fino a pochi metri dalla nave per rendere efficace il getto delle proprie spingarde, sfidando temperature altissime e respirando gas di scarico e fumi micidiali, ma dovettero farlo per domare le lingue di fuoco che fuoriuscivano da tutta la nave minacciando di far esplodere i serbatoi di benzina degli oltre 200 mezzi che si trovavano nel garage. Fatto che purtroppo avvenne con tutte le sue tragiche conseguenze.

Anche la città di Monopoli si prodigò per confortare i superstiti, dando una dimostrazione di grande generosità offrendo aiuto e accoglienza ai naufraghi dell’Heleanna.

 

Il 15 ottobre del 1972 il Capo dello Stato Giovanni Leone conferì alla città la Medaglia d’Argento al Merito Civile in riconoscimento dell’antica tradizione di ospitalità e di civismo della sua popolazione.

 

Quando siamo arrivati sul posto” – raccontò il proprietario di un peschereccio – “ci siamo trovati di fronte ad uno spettacolo agghiacciante. Lunghe lingue di fiamme uscivano dalla poppa impedendoci di avvicinarci troppo. Sul ponte del traghetto dilagava il panico. Centinaia di persone tentavano di calare le scialuppe senza riuscirvi, altre che scendevano con le barche liberate, rimanevano poi sospese e bloccate a mezz’aria. Altre barche ancora, arrivavano in mare ma non sapevano come governarle. I più si gettavano direttamente in mare saltando dal ponte. Su decine di corde, calate dalle fiancate, c’erano grappoli di uomini appesi, molti erano senza salvagente. Diversi battellini di gomma, sparpagliati in mare, erano difficili da raggiungere ma anche più difficile riuscire a salirvi dentro. Dalle navi che erano accorse – racconta un altro marinaio – erano state calate delle scialuppe, ma rimanevano vuote perché la gente in mare, sfinita non riusciva a raggiungerle. Allora, molti di noi, si sono buttati in acqua per aiutarli. Mai avevo visto tanta gente disperata, annientata dal dolore per aver perso, magari un attimo prima, un amico, un congiunto. Intanto, sulle banchine dei porti di Monopoli, Brindisi e Bari, viene predisposto un imponente servizio di soccorso”. 

 

Centinaia di privati misero a disposizione i loro mezzi, altri portarono in Capitaneria indumenti e coperte. L’incendio fu domato prima di notte e l’Heleanna fu tenuta prudentemente in rada mentre gli inquirenti tentarono di accertare le responsabilità dell’accaduto. 

Pare che nella confusione generale, il Comandante del traghetto sia stato il primo a perdere la testa. Alcuni testimoni, infatti, affermarono che il capitano Anthipas abbia lasciato la nave subito dopo l’allarme, mentre la moglie, che era con lui sul traghetto, sostenne il contrario. Per la verità, un’evidenza ci fu e molti la testimoniarono in diverse sedi: il comandante Dimitrios Anthipas, giovanissimo e senza esperienza, giunse “asciutto” sulla banchina di Brindisi, e il 29 agosto del 1971 cercò addirittura la fuga, ma venne arrestato al varco frontaliero del porto di Brindisi, poco prima d’imbarcarsi furtivamente con la moglie su una nave diretta in Grecia. Il comandante venne arrestato con l’accusa di omicidio colposo e per abbandono della nave. 

Dimitrios Anthipas sarà poi estradato in Grecia mentre chi ha perso tutto: auto, bagagli, valori, la stessa vita di moglie, figli, genitori e parenti non sarà neppure risarcito. Gli assicuratori si rifiuteranno di pagare per l’evidente violazione, da parte della nave, delle norme stabilite nelle polizze assicurative.

All’epoca del “sinistro”, le acque territoriali comprendevano una fascia di 6 miglia nautiche (11.112 KM), poi modificate per legge in 12 miglia dal 27 febbraio 1973), per cui il disastro avvenne in acque internazionali. Ma le Autorità italiane dichiararono la loro competenza a processare il comandante della nave poiché alcune vittime del disastro erano perite in acque territoriali italiane ed almeno una era morta in ospedale a Brindisi. Anche le autorità greche furono interessate al processo, in quanto la nave batteva bandiera ellenica.

 

L’Heleanna in fiamme

 

Notare la vicinanza del rimorchiatore che punta le spingarde antincendio sulla poppa dell’Heleanna

 

 

 

Targa commemorativa del naufragio a Monopoli

 

 

 

Dopo due anni e mezzo di sosta forzata nel porto di Brindisi, per il relitto dellHeleanna giunse il momento del congedo, dell’ultimo trasferimento verso un Cantiere di Spezia che aveva il compito di demolirne una parte e trasformarne il resto in una chiatta portuale multipurpose.

 

 

 

Il rimorchiatore  genovese ESPERO in navigazione

Rimorchiatore incaricato dell’ultimo viaggio apparteneva alla Società Rimorchiatori Riuniti di Genova, si chiamava ESPERO, era l’ultimo nato della  flotta, 5.000 CV di razza, con una strumentazione d’avanguardia: elica intubatatowing winch(troller) modernissimo, elica di manovra a prora(bowthruster) ed una elettronica up to date applicata a tutti i suoi apparati. Chi scrive, era già stato per sette anni al comando di rimorchiatori portuale d’altomare; per motivi d’anzianità toccò a lui collaudare questo moderno “fuoriclasse”. Come? Per un puro caso, si presentò una duplice occasione. 

Si trattava di rimorchiare in successione, due relitti, entrambi da Brindisi a La Spezia che all’epoca era il primo porto nazionale della demolizione navale.

Il primo era la petroliera SAN NICOLA della famosa Società Garibaldi, che aveva subito un’esplosione nella cisterna n.10 che squarciò la coperta della nave dando di sé una immagine terrificante.

La seconda era il traghetto passeggeri HELEANNA di cui ci siamo occupati in questo drammatica ricostruzione.

 

Lo squarcio in coperta della petroliera San Nicola

 

Testimonianza dell’autore:

Quando salii a bordo del “traghettone” per controllare la situazione generale e studiare gli attacchi di rimorchio, cercai invano di trovare un metro di lamiera liscia ed intatta.

In pratica, l’interno dello scafo era stato devastato completamente dalle altissime temperature provocate dall’incendio. Le lamiere dei ponti erano ondulate e bugnate come la pelle di un lebbroso. Delle 200 autovetture ancora presenti nel lunghissimo garage, erano rimasti gli scheletri deformati da un fuoco impietoso che era durato a lungo causando, purtroppo, vittime e sofferenze indescrivibili.

Avevo già compiuto un’ottantina di rimorchi in tutto il mondo, ma non mi ero mai trovato davanti a tanta devastazione, desolazione e tristezza.

 

 

Manovra d’uscita della HELEANNA da Brindisi

 

1° Problema

Quando andai sul castello di prora per approntare gli attacchi di rimorchio mi trovai di fronte ad una strana situazione: non sapevo dove attaccarmi. Il copertino deformato aveva piegato le bitte, sollevato il salpancore e indebolito ogni centimetro del castello. 
Alla fine decisi di far passare alcune grosse cravatte d’acciaio da quei due passacavi in alto che sembrano 
due occhi ai lati del tagliamare (vedi foto). Era come prendere un toro per le narici e vi assicuro che non 
c’era altro da fare. Come attacco di riserva presi al  “lazo”  tutto il castello di prora evitando  gli spigoli con coppi di gomma, legno, tanto grasso e sacchi di juta.

 

2° Problema

In precedenza ho accennato all’esplosione di una serie bombole di ossigeno sistemate vicino al timone 
della nave; fu proprio questa la causa che bloccò l’organo di governo 15° a dritta costituendo un grande problema per la navigazione a rimorchio.

La soluzione del problema era nelle mani di un’officina specializzata che avrebbe raddrizzato il timone, ma dentro un bacino di carenaggio che nessuno era disposto a pagare….. 
Mi dovetti rassegnare, pur sapendo che avevamo davanti 800 miglia di “navigazione manovrata”.

Infatti, appena allungammo il cavo e ci mettemmo in tiro, il rimorchio accostò sulla sua dritta.

Quando doppiammo Santa Maria di Leuca, il vento rinforzò e ci accompagnò fino all’arrivo.

Riuscimmo a tenere una velocità intorno alle 6 miglia, ma quando il vento aumentava nelle golfate, l’Heleanna ce la vedevamo al traverso e per rimettercela di poppa dovevamo allascare le bozze, far venire il cavo da rimorchio in bando e poi dovevamo ripartire “alla gran puta”  per andare a riprendere il toro per le corna e rimettercelo  di poppa.

Questa era la navigazione manovrata in cui si rischiava di strappare sia le bozze che il cavo da rimorchio.

 Pendolammo per 20 ore a ridosso dell’Isola di Ischia, sia per controllare l’attrezzatura, ma soprattutto per 
far scivolare verso Est una forte depressione che spingeva il rimorchio fino a sorpassarci, costringendoci 
a vere acrobazie per non farci “prendere per il c…” Un’espressione marinara che rende perfettamente
l’idea di ciò che può succedere quando il rimorchio, non essendo in assetto di navigazione, prende il sopravvento, infrangendo quelle poche ma importanti regole 
marinaresche, che si dovrebbero sempre rispettare.

 
Il 16.2.74 arrivammo finalmente a Spezia, e quando il mio amico pilota Nino Casaretto, il quale aveva subito l'esplosione nella cisterna n.10 che squarciò la coperta della nave dando di sé una immagine terrificante, venne a bordo per la manovra di consegna del relitto ai rimorchiatori locali, mi disse in dialetto: 
“Ma non ti vergogni d’andare in giro con questo accidente... attaccato al sedere” ?
“Vergogna no! – gli risposi –  A brindisi non vedevano l’ora di levarselo dal sedere  e trovarne un altro 
disposto al sacrificio. Dicono che nella vita bisogna provarle tutte! Eccomi qui, felice e contento d’essere arrivato!”

 

APPENDICE: 

Rapporto Viaggio

 

 

Mi spiace! L'immagine non è leggibile, i numeri sono lì... fidatevi! Purtroppo i morti sono altrove. Che Dio li benedica!

 

 

UNO SCAMPATO PERICOLO....

La nostra socia Marinella Gagliardi Santi, notissima scrittrice e Skipper di lungo corso, dopo aver letto questo articolo, ha voluto rilasciarci la sua ESISTENZIALE TESTIMONIANZA. per la quale non possiamo che unirci felicemente a questa fantastica coppia di “marinai” per lo scampato pericolo!

"Il ricordo di quella tragedia mi ha toccato da vicino ancora di più, perché Rinaldo ed io, allora non ancora fidanzati, avremmo dovuto imbarcarci proprio sull'Heleanna! Mi aveva invitato ad andare in Grecia insieme a lui ma gli avevano detto che non c'era posto sull'aereo: al ritorno non ci sarebbe stato alcun problema perché avremmo preso proprio quel traghetto! Così io non sono partita con lui, lui si è imbarcato su un aereo in realtà completamente vuoto, e per il ritorno ha preso nuovamente l'aereo.

Pericolo scampato per un pelo, la sorte ha voluto così!"

 

Carlo-GATTI

Rapallo, 21.3.2013 / Rielaborato nella nuova versione del sito, venerdì 17 Maggio 2024