IL PUNTO NAVE - DAL SESTANTE AL GPS ESCLUSO...
IL PUNTO NAVE
DAL SESTANTE AL GPS … escluso
Ricordi e Testimonianze
Introduzione
di Ernani Andreatta
NEMESI – Lancia senza Madonnina…
Fanno parte delle collezioni del Museo Marinaro oltre 15.000 fotografie in cartaceo di tutte le navi militari del mondo con particolare attenzione a quelle della nostra Marina Militare Italiana sin dall'unità d’Italia del 1861. La collezione apparteneva a Giuliano Gotuzzo di Santa Margherita Ligure, storico e appassionato collezionista navale di ottimo livello.
La documentazione storica del Museo attraverso pubblicazioni, fascicoli e giornali di guerra, data sin dai primi dell’ottocento ed è straordinaria così come le oltre 250.000 fotografie quasi tutte a tema marinaro che fanno parte degli archivi informatici del Museo.
Molti grandi armatori dell’epoca eroica della vela come gli Accame, i Raffo, Bacigalupo ed altri hanno affidato al Museo Marinaro tutti i loro archivi storici dell’800 che sono stati messi in ordine di data e rilegati. Il traffico commerciale, le avarie, le polizze di carico e altre curiose documentazioni come “il codice dei telegrammi cifrati degli armatori ai tempi della vela” sono, nel loro genere, un patrimonio unico e importante per rarità e complessità di reperti.
Ma la produzione letteraria potrebbe non fermarsi dato che è in via di realizzazione un libro dal titolo “I 500 bastimenti di Chiavari”. “…Perché è un assurdo, che il "Campanino", ideatore di seggiole, sia diventato più famoso dei Gotuzzo e dei Tappani costruttori di navi”.
Così scrisse il Comandante Pro Schiaffino Presidente onorario del Museo Marinaro di Camogli e storico di grande fama con profonda conoscenza delle cose di mare. Certamente ritorneremo su questo argomento anche per “onorare” la verità storica.
Il buon Dio e la natura hanno dato, fin dagli albori, la possibilità al navigante di stabilire la latitudine misurando la latitudine misurando di notte l’altezza della stella Polare, oppure misurando di giorno l’altezza massima che il sole raggiunge sopra la sua testa.
IL ROMANZO DELLA LONGITUDINE
UNA SOLUZIONE ATTESA MILLENNI
Intervista del Comandante-webmaster Carlo GATTI al Comandante Ernani ANDREATTA
Inserita il 23.05.11 sul sito di Mare Nostrum Rapallo, quell’intervista oggi conta 11.500 visitatori! Ciò significa che l’interesse per l'argomento esiste in tutto il mondo, eccetto che nelle Scuole dedicate...
Come sarebbe a dire? Ve lo spiego subito!
Nel frattempo, sono passati solo sei anni e si é saputo, con molto rammarico, che all’Istituto Tecnico Nautico di Camogli, il quale oggi non si chiama più così, del PUNTO NAVE fatto con le rette d’altezza misurate con il SESTANTE, non se ne parla proprio più.
Pare che gli studenti nautici non abbiano mai preso il SESTANTE IN MANO, neppure una volta nei cinque anni previsti dal corso.
A nostro modesto avviso si tratta di una sacrosanta vergogna, in genovese: di una belinata colossale!
Il “nostro" sistema stellare é sicuramente antiquato, ma dovrebbe essere tuttora “TRASFERITO”, almeno sul piano culturale, ai nuovi allievi come "sapere marinaro" del “passato prossimo". Tutti infatti siamo consapevoli, in particolare i naviganti che, in caso di necessità, (spegnimento dei satelliti per motivi bellici) i metodi cosiddetti antiquati come le RETTE D’ALTEZZA dei nostri tempi…, potrebbero ritornare “necessariamente” di moda perché erano e si basano tuttora su metodi scientifici, quindi esatti! Ed é quindi molto “imprudente” considerare “superati” certi calcoli astronomici basati sulla matematica più avanzata.
Ben vengano i nuovi sistemi tecnologici, ma io farei molta attenzione ad eliminare la VERA ARTE DEL NAVIGARE e dei suoi strumenti basilari:
- la conoscenza del cielo stellare,
- uso di un buon sestante,
- uso del cronometro,
- uso delle Effemeridi Nautiche dell’anno in corso.
Quando i Velieri si arenavano sugli scogli perché non conoscevano la Longitudine.
Per la soluzione della longitudine c’è stato invece il buio totale fino alla metà del 1700.
E’ impossibile sapere quante navi siano naufragate nei millenni per l’errata valutazione della longitudine.
Questo fantastico capitolo della storia della navigazione ha inizio, pensate, con la soluzione trovata da un orologiaio, l’inglese John Harrison che affermò:
“E’ sufficiente che ogni nave sia equipaggiata con un cronometro in grado di misurare l’ora esatta, quella di Londra per esempio, ed un semplice confronto con l’ora locale del punto dove si trova la nave, fornirebbe istantaneamente il “FUSO ORARIO”, cioè quanti gradi e primi, e dunque la longitudine della nave e quindi anche la sua distanza dal meridiano 0° convenzionale-politico di riferimento”. Ma quell’uomo ci mise tutta una vita per fare accettare questo semplice concetto ai grandi astronomi del 1700.
Il Comandante Ernani Andreatta mostra il cronometro navale della “Texaco Arizona” varata nel 1949 presso il celebre Cantiere Navale Bethlehem Steel Corporation di Quincy, Massachusetts (USA)
Ci troviamo in compagnia del Comandante Ernani Andreatta, fondatore e conservatore del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari.
Comandante, nel 1999 siamo stati entrambi folgorati dal piccolo libro “Longitudine” di Dava Sobel, non tanto per l’aspetto scientifico che avevamo già analizzato al Nautico, ma per la storia “sofferta” di Harrison che ignoravamo totalmente.
E’ vero! Del piccolo libro di Dava Sobel, “Longitudine”, mi affascinò soprattutto l’argomento trattato che mi stimolò per avviare ulteriori ricerche sull’argomento che culminarono con una conferenza, della quale fui relatore nello stesso anno alla Scuola Telecomunicazioni di Chiavari.
Sicuramente abbiamo in comune un ricordo: il primo ordine che veniva impartito all’Allievo ufficiale di coperta del dopoguerra, fino all’avvento del GPS, era quello di dare la carica, ogni mattina, al cronometro di bordo.
Questo fa parte della nostra storia di naviganti. Per anni abbiamo navigato usando il sestante per trovare la posizione della nave, misurando cioè l’altezza degli astri e soprattutto usando quel famoso cronometro, da lei accennato, a cui occorreva dar la carica tutte le mattine. Lo ritenevo un normale strumento che, come la bussola, faceva parte della strumentazione di bordo. A quel tempo non sapevo che il cronometro di bordo era stato, dopo infiniti anni di naufragi e disastri, la soluzione ai fondamentali problemi del calcolo della posizione della nave.
A pensare che Harrison era nato falegname…
John Harrison, nato falegname e non orologiaio, ebbe ragione addirittura su certi Astronomi Reali che non credevano anzi, guardavano con sospetto alla sua “piccola scatola magica”. Quel piccolo oggetto meccanico rappresentava la scoperta scientifica più importante della storia marittima e mai più avrei immaginato che dietro a quel cronometro che maneggiavo quasi con fastidio, si era consumata una durissima vicenda esistenziale per un uomo straordinario e testardo come il nostro eroe.
Spieghiamo ai nostri lettori la principale necessità di dover calcolare la longitudine.
Agli inizi del 1700, il problema di tutte le navi era calcolo della longitudine, in pratica la distanza lungo un parallelo, da un meridiano di riferimento, e di conseguenza la posizione esatta della nave. Questo era il vero problema che assillava tutti i naviganti. Agli occhi degli uomini del settecento, il mondo aveva un aspetto molto lontano da quello che gli atlanti, i mappamondi e le fotografie scattate dai satelliti ci hanno reso familiare. Non si contavano i capitani ed i loro equipaggi che avevano perso la vita schiantandosi sugli scogli di una costa che secondo i calcoli sbagliati non doveva essere lì.
Per fortuna dei marinai, all’orizzonte apparve John Harrison il quale fornì la soluzione e la sostenne fin da subito: ogni nave doveva essere equipaggiata con un cronometro in grado di segnare sempre l’ora “esatta” di Londra che, messa a confronto con l’ora locale-solare, avrebbe istantaneamente fornito il “Fuso Orario” e dunque la Longitudine della nave.
Purtroppo, trovata la soluzione teorica, si presentava un altro problema di ordine pratico: un cronometro così preciso non esisteva nemmeno sulla terraferma.
Quanto tempo impiegò J. Harrison a vincere la sua personale scommessa?
E’ la storia avvincente di quarant'anni di sforzi che furono necessari a John Harrison non solo per costruire e perfezionare quel cronometro, ma soprattutto per persuadere la comunità scientifica dell’efficacia del suo metodo semplice e definitivo.
Occorre sottolineare che a quel tempo la mentalità prevalente era per le soluzioni avanzate dagli astronomi illustri, tra cui G.Galilei.
I grandi astronomi dell’antichità insegnarono a calcolare la latitudine, ma poi indirizzarono le loro ricerche nei meandri dell’universo. Forse la longitudine non era così importante nei limiti geografici della navigazione costiera conosciuta prima delle grandi scoperte geografiche.
Già nel 150 D.C. il cartografo e astronomo Tolomeo aveva tracciato le latitudini e le longitudini nelle ventisette carte geografiche che rappresentano una pietra miliare e un punto di riferimento importantissimo.
Per far capire meglio ai nostri lettori, ci può definire la differenza cruciale tra la Latitudine, misurata a partire dall’equatore, verso nord e verso sud e la Longitudine, misurata invece da un meridiano 0° convenzionale?
Il parallelo di Latitudine di grado ZERO vale a dire l’equatore è fissato da leggi della natura; infatti, osservando i moti apparenti dei corpi celesti, il sole, la luna e i pianeti passano quasi esattamente sopra l’equatore. L’identificazione del meridiano fondamentale Zero, invece, è una decisione squisitamente politica. Nel tempo, da Tolomeo in avanti si stabilirono come meridiano Zero, di volta in volta: le Canarie, l’arcipelago di Madera, Le Azzorre, Le Isole di Capo Verde, Roma, Copenaghen, Gerusalemme, San Pietroburgo, Pisa, Parigi, Filadelfia, prima di fissarlo, in modo universale, a Londra e precisamente a Greenwich.
L’esempio più eclatante d’errore di Longitudine ce lo diede C. Colombo che Salpò il Parallelo e credette di essere arrivato a Cipango. Ci può chiarire il rapporto tra tempo orario, longitudine e distanza geografica?
Cristoforo Colombo nel 1492 “Salpò il Parallelo” ed è fuor di dubbio che, sulla sua rotta, se non ci si fosse messa di mezzo l’America, avrebbe sicuramente trovato le Indie. Pertanto, la misura della longitudine è fortemente influenzata dall’ora e per calcolare la longitudine in alto mare bisogna sapere non soltanto che ora è a bordo della nave in un dato momento, ma anche che ora è, in quello stesso istante, nel porto di partenza o in un altro luogo di cui si conosca la longitudine. Le ore segnate dai due orologi rendono possibile al navigante la trasformazione di differenza oraria in distanza geografica. Poiché la terra impiega 24 ore per completare un’intera rotazione di 360 gradi, un’ora equivale a un 24esimo di giro, ovvero a 15° (gradi). Quindi, la differenza di un’ora tra la posizione della nave e il punto di partenza indica un avanzamento di quindici gradi di longitudine verso oriente o verso occidente. Quando in mare, il navigante, regola l’orologio della sua nave sul mezzogiorno - il momento in cui il sole raggiunge il punto più alto nel cielo, cioè lo Zenit - e quindi consulta l’orologio del punto di partenza, sa che la discrepanza di un’ora si traduce in 15 gradi di longitudine. Quegli stessi 15° (gradi) corrispondono anche ad una certa distanza percorsa. All’equatore, dove la circonferenza della terra è massima, equivalgono a mille miglia nautiche. A nord e a sud di tale linea, il valore di ciascun grado misurato in miglia diminuisce. Un grado di longitudine equivale a quattro minuti in tutto il mondo, ma in termini di distanza si contrae dalle 68 miglia all’equatore ad uno zero virtuale ai poli.
Un orologio preciso e trasportabile è stato quindi il “segreto” che ha rappresentato la vera svolta nella sicurezza della navigazione?
La conoscenza simultanea dell’ora esatta di due luoghi diversi – un pre-requisito del calcolo della longitudine - che oggi, riusciamo ad ottenere con economici orologi da polso, era una meta irraggiungibile sino a che non furono inventati gli orologi a pendolo. Ma sul ponte di una nave, che stava rollando, tali orologi diventavano pressoché inservibili perché acceleravano o rallentavano enormemente e non parliamo poi dell’influenza della temperatura tra le zone fredde e i tropici.
Possiamo affermare che la sola conoscenza della latitudine non solo fu un grande limite per i grandi navigatori, ma possiamo aggiungere che essi arrivarono dove arrivarono per “benevolenza della fortuna”?
Quasi tutti i grandi navigatori, da Vasco de Gama a Vasco Munez de Balboa, da Ferdinando Magellano a Sir Francis Drake, arrivarono dove arrivarono, volenti o nolenti, per grazia di Dio e benevolenza della fortuna. Anche il Re Giorgio III d’Inghilterra e lo stesso Luigi XIV cercarono di risolvere questo problema ed il grande James Cook fu uno dei primi esploratori a dar fiducia a Harrison con ben tre lunghi viaggi sperimentali, prima d’incontrare una morte violenta alla Hawai.
Che parte ebbero nella vicenda “Longitudine” i famosi astronomi dell’epoca?
Astronomi famosissimi s'ingegnarono in ogni modo e maniera per risolvere il problema del calcolo della longitudine. Ne cito alcuni come G. Galilei, Jan Dominique Cassini, Cristian Huygens, Sir Isaac Newton, Edmond Halley (lo scopritore della cometa…) ma tutti sbagliarono, perché rivolsero i loro studi alla luna e alle stelle, forse travisati dal calcolo squisitamente astronomico della latitudine. In realtà, Galileo studiò un metodo per calcolare la longitudine, ma era complicatissimo e del tutto inapplicabile a bordo alle navi.
Non c’è dubbio che questa ricerca portò anche ad altre straordinarie scoperte come il peso della terra, la distanza delle stelle e la velocità della luce.
Comandante, ci racconti alcune tragedie marinare che furono causate dalla pessima conoscenza della longitudine.
Il problema era sempre lo stesso! Soltanto attraverso il calcolo della longitudine si sarebbe arrivati alla conoscenza della “vera” posizione della nave. Nel 1707, l’ammiraglio di Sua Maestà Sir Clowdisley perse quattro navi (su cinque), e oltre duemila uomini d’equipaggio in prossimità delle Isole Shilly a sud dell’Inghilterra (Lands End). Quando l’Alto Ufficiale scoprì con sgomento d’aver calcolato male la longitudine, era già tragedia… E pensare che un membro dell’equipaggio li aveva insistentemente avvertiti che stavano sbagliando e fu impiccato per insubordinazione.
C’è da notare che la non conoscenza della longitudine allungava i viaggi a dismisura, dipanandosi in mille episodi orripilanti di uomini uccisi dallo scorbuto e dalla sete, di spettri fra il sartiame, di approdi di navi ridotte a relitti con le chiglie frantumate sulle rocce e cumuli di cadaveri di annegati a imputridire sulle spiagge. In moltissimi casi l’ignoranza della longitudine portava un vascello ad una rapida fine. Infine possiamo aggiungere che l’incapacità di calcolare la longitudine influiva negativamente sull’economia: le navi erano costrette a seguire solo determinate rotte conosciute e così, sulle stesse rotte, si affollavano baleniere, mercantili, navi da guerra e corsari naturalmente, cadendo preda uno dell’altro.
Personalmente fui colpito dalla tragedia del Madre de Deus. Ci può raccontare brevemente quel tragico episodio?
Nel 1592, il gigantesco galeone portoghese Madre de Deus, armato con ben 32 moderni cannoni di ottone, mentre si trovava al largo delle Azzorre, di ritorno dall’India, s’imbatté al largo delle Azzorre nella flotta inglese che lo colò rapidamente a picco. Da notare che la flotta Inglese stava aspettando quella spagnola e non il Madre de Deus.
Il galeone trasportava sotto coperta ogni ben di Dio: oro, argento, perle, brillanti, ambra, arazzi, ebano, tela di cotone stampata e le preziose spezie, quantificate in quattrocento tonnellate di pepe, quarantatré di chiodi di garofano, trentacinque di cannella e tre di noce moscata e macis. Il carico del Madre de Deus valeva circa mezzo milione di sterline che era la metà del gettito fiscale di tutta l’Inghilterra a quell’epoca.
Nel 1641 il Commodoro Anson, al comando del Centurion, perdette ben tre navi delle cinque che erano al suo comando, oltre agli equipaggi di circa 600 uomini. La sua disavventura nel passare dall’Atlantico al Pacifico, attraverso Capo Horn, fu causata dal non conoscere la longitudine quindi la posizione della sua nave, ma fu anche straordinariamente aggravata da 58 giorni di terribili burrasche.
Gli uomini migliori, insomma, perdevano l’orientamento una volta che la terra non era più visibile ed il mare non offriva nessun indizio utile a calcolare la Longitudine. A causa dei numerosi naufragi e delle perdite di uomini e navi si diffuse persino il timore, o la superstizione che alla soluzione di quel problema si opponesse qualche divieto divino.
Il Parlamento Inglese, con il celebre “Longitude Act” del 1714, stanziò l’astronomica somma di 20.000 sterline, circa 20 miliardi di vecchie lire, a chi avrebbe inventato un sistema pratico e utile per il calcolo della longitudine. Qui cominciò l’avventura di J. Harrison?
L’orologiaio inglese John Harrison, un genio della meccanica, fu il pioniere della scienza della misurazione del tempo, mediante strumenti precisi e portatili. Il tecnico dedicò la sua vita a questa ricerca realizzando ciò che Newton riteneva impossibile: inventò un orologio che, come una fiamma eterna, avrebbe trasportato l’ora esatta dal porto di partenza ad ogni remoto angolo della terra. Senza preparazione teorica né apprendistato pratico presso un orologiaio, Harrison costruì una serie di orologi quasi del tutto privi di attrito, che non abbisognavano di lubrificazione o pulizia, fatti di materiali inattaccabili dalla ruggine, in grado di mantenere le parti mobili in perfetto equilibrio reciproco, a prescindere da come, intorno a loro il mondo si impennava o rollava. Abolì naturalmente il pendolo e accostò differenti metalli all’interno del suo congegno in modo che quando un componente dell’orologio si espandeva o contraeva per variazioni di temperatura, l’altro componente ne neutralizzava gli effetti mantenendo costante il ritmo dell’orologio.
Harrison ebbe molti nemici che fecero carte false contro di lui, a tutti i livelli!
Infatti, i risultati conseguiti dal nostro eroe furono vanificati dai membri della comunità scientifica, che diffidavano della “scatola magica” di Harrison. I commissari, incaricati di assegnare il premio stanziato, Nevil Maskelyne tra loro, cambiavano le regole della gara tutte le volte che lo ritenevano opportuno, così da favorire sempre gli astronomi rispetto a Harrison e ad altri meccanici. Alla fine, la precisione e l’efficienza dei cronometri di Harrison trionfarono. I suoi seguaci migliorarono la splendida e complessa invenzione con qualche modifica che consentì in seguito di produrla in serie e di diffonderne l’uso.
Il Re d’Inghilterra, un monarca illuminato, intervenne in soccorso di Harrison!
E’ vero! Nel 1773 un Harrison vecchio e sfinito reclamò, al riparo dell’ala protettiva di Re Giorgio III, il premio che gli spettava di diritto. Erano trascorsi quarant’anni tumultuosi, segnati da intrighi politici, guerre internazionali, ripicche accademiche, rivoluzioni scientifiche e crisi economiche.
La vita di Harrison fu costellata di delusioni e colpi bassi di ogni specie. Gli ammiragli e gli astronomi della Commissione per la Longitudine appoggiarono sempre apertamente il metodo delle distanze lunari di Maskelyne perché lo vedevano come lo sviluppo logico delle esperienze in mare e negli osservatori. Dopo il 1750, grazie agli sforzi congiunti dei molti che contribuirono a questa grande impresa internazionale, sembrava finalmente che il sistema fosse applicabile a bordo.
Ci parli ora della produzione dei cinque prototipi di Harrison.
Harrison costruì cinque prototipi di orologi che identificò con la sigla H-1, H-2, H-3, H-4 e negli ultimi anni della sua vita l’H-5. Per l’H-3 soltanto impiegò ben 19 anni. Ne uscì una macchina perfetta che sgarrava di appena un secondo, dopo numerosi giorni. Durante tutti questi anni di durissimo lavoro non accettò mai altre commissioni più redditizie, ma costruì soltanto qualche “volgare” orologio per sbarcare il lunario. Soltanto il 30 novembre del 1749, Harrison lasciò il suo banco da lavoro per ricevere un’alta onorificenza che era la Copley Gold Medal, una medaglia d’oro che fu in seguito assegnata a personaggi come Benjamin Franklin, James Cook e Albert Eistein, tanto per citarne alcuni. Il penultimo di una stirpe di questi gioielli in ottone, l’H-4 ha un diametro di soli dodici centimetri e pesa soltanto un chilo e trecento grammi; sembra più un grosso orologio da taschino che non un cronometro di bordo. All’interno delle sue due custodie d’argento finemente decorate c’è la meraviglia delle sue minuscole parti con rotelle dentate che girano sorrette da rubini e diamanti per evitare l’attrito. Come Harrison sia riuscito ad inserire i gioielli nell’Orologio, rimane a tutt’oggi un mistero del quale non fornisce spiegazioni della tecnica usata, per dare alle gemme la loro caratteristica e cruciale configurazione.
L’H-4 è tuttora esposto al National Maritime Museum di Londra e attira ogni anno, assieme all’H-1-2-3 circa otto milioni di visitatori.
I Cronometri di Harrison
Eccoci arrivati al primo esperimento del cronometro di Harrison. John delegò il figlio William?
Finalmente, nel 1762 ci fu la prova del nove per l’H-4. Fu imbarcato sulla nave di sua Maestà il Deptford. Sulla nave s’imbarcò il figlio minore di Harrison, William. La traversata Atlantica durò quasi tre mesi, il 19 Gennaio del 1762 il Deptford arrivò a Port Royal in Jamaica. Salì a bordo il rappresentante della commissione che doveva giudicare l’orologio di Harrison. Robinson e William Harrison confrontarono i due orologi per stabilire la Longitudine. Dopo 81 giorni di mare, l’H-4 aveva perduto soltanto 4 secondi! Ma Nevil Maskeline, l’alto prelato amico degli astronomi e nemico dichiarato del “nostro” orologiaio, per ironia della sorte, era lì ad aspettare il cronometro per giudicarne l’efficienza nel calcolo della longitudine! Le discussioni con William furono interminabili. Pensate! Il calcolo della longitudine si era ridotto ad una discussione tra un astronomo e un orologiaio su una desolata spiaggia delle Barbados.
Come si concluse il viaggio?
L’orologio ritornò a Londra, sempre ben custodito da William Harrison sul Merlin. Il viaggio di ritorno fu altrettanto disastroso per il mare in burrasca e spesso William, che soffriva il mare, doveva avvolgere l’orologio in un plaid e tenerlo al caldo col proprio corpo. Il 26 Marzo, giorno dell’arrivo a Londra l’H-4 ticchettava ancora.
Che fine fece il tanto agognato Premio?
Invece delle 20.000 sterline Harrison ne ricevette soltanto 1.500 con la scusa che, disse la commissione, “gli esperimenti finora condotti sull’Orologio non erano stati sufficienti per determinare la Longitudine”. Avrebbe ricevuto altre 1000 sterline quando l’H-4 fosse tornato dalla sua seconda missione in mare. Un certo Bliss, astronomo, che faceva parte della commissione giudicante, affermò che la cosiddetta precisione dell’orologio, era stata una “fortunata coincidenza”. Cosi, l’orologio di Harrison dovette subire ancora numerose prove e controprove sotto la diffidenza dei grandi astronomi del tempo. Poi Harrison, finalmente, sempre per intercessione di re Giorgio III riuscì ad ottenere tutto il premio messo in palio dal Longitude Act.
Ha inizio una nuova era. L’Inghilterra diventa la “Signora dei Mari”, grazie all’orologio di Harrison.
Quando John Harrison, il 24 Marzo del 1776 morì, esattamente a 83 anni dopo la sua nascita avvenuta nel 1693, egli assurse allo stato di “martire degli orologiai”. Per interi decenni era rimasto in disparte, praticamente solo, come l’unica persona al mondo seriamente impegnata a risolvere il problema della Longitudine facendo ricorso alla misurazione del tempo. Poi all’improvviso, sulla scia del successo dell’H-4, legioni di orologiai cominciarono a dedicarsi alla costruzione di orologi marini. Dopo tre secoli di “sicura navigazione” per i sette mari, la totalità degli studiosi sostiene che Harrison ha favorito la conquista dei mari da parte dell’Inghilterra, e quindi contribuito alla creazione dell’impero britannico, perché fu grazie al cronometro che le navi inglesi divennero le signore degli oceani.
Si sciolse la commissione per la Longitudine. Il cronometro, nonostante l’antipatia degli astronomi, venne assegnato a tutte le navi e, nel giro di pochi decenni, entrò negli inventari di bordo e vi rimase fino ai giorni nostri. Comandante ci avviamo alla conclusione di questo revival storico, ma prima di ringraziarla, lasciamo ancora a lei la parola per trarre alcune conclusioni.
Nel 1828 la Commissione per la Longitudine si sciolse e l’assegnazione dei cronometri a bordo passò all’Istituto Idrografico della Marina, vale a dire ai cartografi. Era un compito non da poco, dato che oltre all’assegnazione, l’Istituto era anche incaricato di ritirare e riparare i vecchi cronometri. Spesso a bordo alle navi idrografiche incaricate dei rilievi se ne potevano imbarcare anche una quarantina in modo da avere dei calcoli di longitudine più precisi. Evidentemente l’idea del cronometro aveva finito per fare breccia. L’estrema praticità dell’approccio del nostro John Harrison era stata dimostrata in modo tanto esauriente che tutta la concorrenza di astronomi e scienziati era svanita come per incanto. Una volta installatosi stabilmente a bordo, il cronometro finì ben presto nell’inventario, come ogni altra cosa essenziale compresa la bussola. La sua storia controversa insieme con il nome del suo inventore venne molto presto dimenticata dagli uomini di mare, che ne facevano uso ogni giorno.
Oggi, il calcolo della Longitudine è finalmente venuto agli onori della storia e reso finalmente giustizia a quel fuoriclasse che fu John Harrison!
Carlo Gatti
Dal Corriere Mercantile del 21 Maggio 2011 apprendiamo che al Comandante Ernani Andreatta é stato assegnato il Premio Nazionale "Nonno dell'Anno". Il famosissimo riconoscimento arriva dall'Associazione "O Leudo" di Sestri Levante e la motivazione sulla targa "Un salvataggio per i posteri" si riferisce alla grande opera di salvataggio, restauro e catalogazione di migliaia di reperti marinari del Tigullio che ora sono conservati nel Museo Marinaro Tommasino-Andreatta che ha trovato finalmente ospitalità e grandi spazi presso la Scuola Telecomunicazioni delle Forze Armate, Caserma Leone di Chiavari.
Si consiglia a tutti la visione del filmato YOUTUBE creato, studiato e composto dal Comandante Ernani Andreatta a scopo divulgativo.
Si tratta di un sistema molto semplice che viene spiegato al Museo Marinaro per capire che cosa sono le rette d’altezza che, quando non si vedeva più la costa, era l’unico sistema affidabile per ottenere il punto nave, prima della diffusione del sistema GPS.
Vi segnalo il LINK di un ottimo articolo del nostro sito, MARE NOSTRUM RAPALLO, autore Comandante Nunzio CATENA titolo:
ANNI '60 - RICORDI DI BORDO E DINTORNI...
che si attaglia perfettamente all’argomento in oggetto. Nunzio ci parlerà di questo trasporto, del quale segnaliamo anche un video e altri simpatici aneddoti. Riteniamo pertanto che molti anziani “lupi di mare”, leggendo questi ricordi, rivivranno una parte della loro gioventù, ma siamo inoltre convinti che anche le nuove generazioni di studenti nautici e giovani ufficiali in servizio troveranno in queste “testimonianze” notevoli spunti di riflessione su come si navigava al tempo dei loro nonni, senza strumenti elettronici, con il radar che andava in avaria nel momento in cui serviva, con il radiogoniometro inattendibile... molto spesso affidandosi soltanto al sestante e al buon senso marinaresco.
Riporto anche la “succosa” testimonianza dell’Amico Direttore di Macchina dott. Vittorio CIVITELLA, compagno di nuoto e di bordo. GRAZIE Vittorio!
Carlo
Mio impagabile Comandante,
ti ringrazio molto della istruttiva lezioncina sulle alchimie del punto nave, delle rette d’altezza e quant’altro: un dvd accattivante, esaustivo e diligente come pochi. Peccato che, in buona misura, i potenziali interlocutori da te raggiunti valendoti maliziosamente d’una mia mailing-list a cui era indirizzato un mio personale invito d’altra natura, avendo interessi presumibilmente diversi da certe esclusive specificità marinaresche, non avranno modo di apprezzare come si conviene lo spessore della tua profferta. Cosa che, invece, non ho mancato di fare io che della materia sono sempre stato un attento modesto estimatore. Mi sovviene, non senza tradire un certo spleen, d’un tempo in cui, durante le lunghe navigazioni oceaniche (ho fatto quasi 10 anni di petroliera prima di entrare in Adriatica), giovane Terzo Macchinista, chiudevo la seconda guardia della notte (come ti sarà noto in marina libera il Terzo copriva la seconda guardia e il Secondo copriva la terza) e dopo un breve spuntino andava in plancia e mi intrattenevo col collega di Coperta il quale, dietro mia insistente preghiera, mi metteva al corrente dei rudimenti dell’arte della navigazione. Amavo allora capire tutto ciò che era possibile capire anche se i miei studi erano stati di ben altra natura: rette d’altezza, l’orizzonte ponderale, la disposizione delle stelle, le effemeridi nautiche... Accarezzavo con timore referenziale il sestante Platt di cui egli era munito e che era per me uno strumento esoterico. Al momento fatidico del “punto nave” chiedevo curioso: “Cosa mi prendi stasera: Capella, Betelgeuse, Aldebaran...?” Il mio preferito era Arcturus da cui traevo benefici auspici. Di buon grado sostavo davanti al cronografo in sala carteggio o davanti alla chiesuola della Magnetica attendendo con trepidazione il suo “Lesta?” a cui io prontamente rispondevo “Lesta!” in attesa dello stentoreo “Stop!”. Dopodichè seguivano tutti i calcoli che io mi bevevo come un assetato. Il manuale delle Effemeridi era per me come un libro sacro al punto che ogniqualvolta veniva rinnovato (ogni anno, mi pare di ricordare) chiedevo la copia scaduta e me la mettevo in valigia come un oracolo, e qualche collega sorrideva con commiserazione: So much water has passed in the Giordan! dicono gli Ebrei. Ognuno forgia e segue il suo destino: il mio è stato molto diverso dal tuo ma gli studi universitari gli hanno dato almeno un senso. Compiuto o incompiuto che sia ormai è troppo tardi per dolersene o per compiacersene.
Se avrò tempo farò un salto al Museo: sarà un’occasione per salutarci da vecchi marinai. O da marinai vecchi...
Un abbraccio,
Vittorio
ALBUM FOTOGRAFICO DI
ERNANI ANDREATTA
Sulle rette d’altezza e varie…
Ottanti
OTTANTE molto raro
Cielo Stellato
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Le sei foto a seguire sono la rappresentazione didattica del concetto delle RETTE DI ALTEZZA SU CUI SI BASANO I CALCOLI STELLARI PER OTTENERE IL PUNTO NAVE (FIX). Opera di Giancarlo Boaretto
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Cronometro di bordo Hamilton Anni ‘60
Sestante di bordo
Ottica del Sestante
Lesta ... Stop!
I calcoli stellari di Nunzio Catena in navigazione da Marsiglia a Rosario, il 10 ottobre 1966. In alto: Retta d'altezza di sole alle 10.00 che a mezzogiorno viene "trascinata" ad incrociarsi con la retta di MERIDIANA fornendo il punto nave che, tuttavia, sarà più preciso al crepuscolo serotino, quando saranno osservati più astri ed il Punto Nave risulterà da un incrocio perfetto di Rette d'altezza (come da disegno).
NAVIGAZIONE SATELLITARE
GPS
The Global Positioning System
Comandante Ernani Andreatta
(Autore e Regista del DVD: Il Punto Nave dal Sestante al GPS)
Hanno collaborato:
Comandante:................ Carlo Gatti
Comandante:................ Nunzio Catena
Comandante:................ Giancarlo Boaretto
Direttore di Macchina:.... Vittorio Civitella
Rapallo, 24 Ottobre 2017
NAVI LAPIDARIE
NAVI LAPIDARIE
E "NAVIGAR" ...
M'E' DOLCE IN QUESTO MAR
Fra i grossi “pesi” trasportati dalle navi mercantile ONERARIE che arrivavano e partivano da Ostia, dal Porto di Claudio e poi da quello di Traiano, vi erano i sarcofagi: in alcuni di essi vi erano scolpiti i volti delle persone defunte infatti, furono i romani ad inventare il ritratto. Ma i carichi più pericolosi da trasportare via mare erano le colonne destinate ai Templi sacri delle grandi e ricche città del Mediterraneo romano.
Le navi lapidarie, mediamente lunghe dai 25 ai 40 metri e capaci di un carico utile fra le cento e le trecento tonnellate, erano imbarcazioni appositamente rinforzate per reggere ai pesi immani a cui erano sottoposte.
Ricordiamo che per trasportare l’obelisco egiziano del Vaticano, Come racconta Plinio, Caligola fece costruire nel 37 d.C. una nave gigantesca per l’epoca.
Ivi infatti fu affondata dall’imperatore Claudio e sopra vi fu edificata una triplice torre (il celebre Faro di Ostia Antica) costruita con pietra di Pozzuoli...”.
Era lunga 128 mt. e per tenere bloccato il monolito ci vollero 4 macigni di granito a bordo e una zavorra di 2.800.000 libbre di lenticchia egiziana, che comunque andò a ruba una volta che la nave giunse ad Ostia. Con la sua lunghezza si ricoprì quasi tutto lo spazio del molo sinistro del porto Ostiense. Quella nave lapidaria fu usata solo per quel viaggio e poi fu affondata come base per il celebre Faro di Ostia, la cui posizione topografica é stata finalmente individuata in questi ultimi anni con sistemi di fotogrammetria satellitare.
I numerosi relitti identificati di navi lapidariae hanno permesso di ricostruire anche i criteri di carico, orientati per ragioni di sicurezza ad assicurare il massimo riempimento delle stive. Questa esigenza, dovuta al pericolo di spostamenti del carico in mare, comportava la scelta di effettuare carichi non omogenei (ad esempio solo fusti di colonne), ma diversificati, con blocchi di varia forma che consentissero di occupare per intero il volume delle imbarcazioni.
VENEZIA. Questa stupenda immagine subacquea racconta la ricostruzione delle navi romane grazie alle fotografie in 3D di carichi di marmi naufragati sui fondali del Mediterraneo.
“Le rotte del marmo”
I ricercatori di Ca’ Foscari e IUAV hanno esplorato l’enorme carico lapideo, uno dei più grandi in assoluto del Mediterraneo antico, lasciato in fondo al mare da una nave nei pressi dell’Isola delle Correnti-(Sicilia).
Sotto indagine archeologica, 290 tonnellate di marmo (stando alle stime), proveniente dall'isola di Marmara, antica Proconneso, in Turchia. Le informazioni tratte da questa spedizione si aggiungeranno a quelle già raccolte a Punta Scifo, Calabria, e nel 2014 a Marzamemi e Capo Granitola, in Sicilia. In tutti questi casi si tratta di relitti di navi romane datati preliminarmente al 3° secolo d.C., con carichi di marmi orientali.
Il legno delle navi è andato quasi completamente perduto. Il loro carico, invece, è rimasto sui fondali a ricordare i naufragi. I ricercatori, guidati da Carlo Beltrame, docente di archeologia marittima del dipartimento di Studi Umanistici dell'Università Ca' Foscari Venezia, stanno applicando dei metodi innovativi per ricomporre la disposizione del carico e da questa ricostruire la nave. La prima ricostruzione preliminare in 3D è stata realizzata per il relitto di Marzamemi, mentre per gli altri siti lo studio è in corso.
In aiuto ai ricercatori arriva la fotogrammetria, tecnologia già usata in architettura e nel rilevamento topografico. Il progetto “Le rotte del marmo”, invece, porta la fotogrammetria sperimentale in fondo al Mediterraneo, avvalendosi della consulenza di Francesco Guerra, responsabile del laboratorio di fotogrammetria dell'Università IUAV di Venezia.
I blocchi di pietra diventano immagini tridimensionali mentre i campioni di marmo vengono studiati dal gruppo di Lorenzo Lazzarini, direttore del Laboratorio per l'Analisi dei Materiali Antichi dello IUAV. L'originalità di questa applicazione è stata di recente premiata come miglior paper al ISPRS/CIPA workshop "Underwater 3D recording & modeling" di Sorrento.
Rilievo del carico della navis lapidaria e ipotesi su forma dello scafo e posizione di arenamento (adattamento da immagine Archeogate).Il carico è composto da cinquantanove blocchi disposti su otto file, per un volume totale di cinquantacinque metri cubi: tra i monoliti appena intagliati di forma parallelepipeda o trapezioidale vi sono anche tre podii destinati a sorreggere statue onorarie, forse evergeti;
Evergetismo è un termine coniato dallo storico francese André Boulanger (1923) e deriva dall'espressione greca εὐεργετέω ("io compio buone azioni"); indica la pratica, diffusa nel mondo classico, di elargire benevolmente doni alla collettività apparentemente in modo disinteressato.
probabilmente vi sono anche dei capitelli, quelli tempo addietro recuperati dai sommozzatori dei Vigili del Fuoco di Mazara ed ora esposti nell'acropoli di Selinunte forse in ragione di una semplicistica sovrapposizione dell'ipotesi sulla destinazione al dato della vicinanza geografica con l'antica colonia magno-greca.
Panoramica sui blocchi della navis lapidaria (foto Archeogate).
L'equipaggio è composto da una decina di uomini. "Li possiamo immaginare in affanno mentre manovrano le vele e i remi-timone per riguadagnare il largo: un vortice, in zona Puzziteddu, deve aver fatto perdere al comandante il governo della nave, che adesso i flutti di libeccio spingono verso la spiaggia del faro. E' alla deriva: prosegue la sua corsa mentre il fondale si fa sempre più basso. D'un tratto si fa troppo basso per il pescaggio dello scafo: l'attrito di una secca sabbiosa ne arresta il convulso tragitto. Gli uomini, scaraventati in mare, riescono a trarsi in salvo perchè l'acqua è alta poco meno di un metro. Il comandante impreca. Gli altri, ammutoliti, osservano dalla spiaggia i frangenti, lo schiaffo del mare. La nave e il suo carico sono oramai perduti...”
Monolite in marmo proconnesio (foto Archeogate).
Il marmo proconnesio (marmor proconnesium in latino) è una varietà di marmo bianco tra le più utilizzate nell’Impero romano.
La varietà presenta un colore bianco, con sfumatura cerulee, uniforme o con venature grigio-bluastre ed ha cristalli grandi.
Le cave si trovavano nell'isola del Proconneso (nome antico in greco Prokonnesos, nel mar di Marmara, dal greco marmaros, "marmo") e dipendevano amministrativamente dalla città antica di Cizico, sulla vicina costa anatolica.
Le prime esportazioni del marmo dalle cave dell'isola, utilizzate localmente già in epoca greca, risalgono alla seconda metà del I Secolo d.C.: tra i più antichi esempi di esportazione sono gli elementi architettonici del restauro del tempio di Venere a Pompei, dopo il terremoto del 62.
Le cave erano di proprietà imperiale e le più importanti si trovavano presso le località di Monastyr, Kavala, e Saraylar. Producevano in serie elementi architettonici, vasche e sculture decorative, e sarcofagi. Nelle cave stesse i manufatti venivano sbozzati secondo le indicazioni dei committenti, per essere poi completati al loro arrivo. Dal IV secolo si svolsero sul posto tutte le fasi della lavorazione e i manufatti erano esportati ad uno stadio di lavorazione quasi completo.
Podio in marmo proconnesio (foto Archeogate).
Il carico di marmo è noto all'accademia degli archeologi dal 1977 ma è difficile pensare che sia sempre stato ignorato dal giorno del naufragio. 1500-1600 anni fa, il sito di arenamento si trovava, verosimilmente, in corrispondenza dell'allora linea di costa. Certo, lo scafo ligneo non deve aver resistito a lungo all'instancabile azione dei flutti, ma il suo pesante carico, di compattissimo marmo, è probabilmente rimasto lì, in quel limbo terri-marino in cui gli oggetti vengono di continuo coperti e scoperti dalle maree. E forse, con quel "Granitolis", l'umanista G. G. Adria, senza andare troppo per il sottile sulle tipologie di marmo, si riferiva al carico (che oggi, grazie ad analisi petrografiche, sappiamo non essere di granito) della navis lapidaria. Oppure - cosa che ci si può attendere da un umanista - il toponimo Capo Granitola ("Caput Granitolis", con "Granitolis" nella sua accezione mineraria in senso lato, ad indicare più che altro le rocce tufacee dell'era quaternaria) è la traduzione di quella locuzione araba "Ras-el-Belat" (capo roccioso) il cui cruento ricordo doveva suonare ancora fastidioso.
Il relitto di Kartibubbo (Sicilia Sud Occidentale) è una specie di mausoleo sottomarino in cui ogni monolite commemora un naufragio, uno scafo ingoiato, “digerito dal grande intestino acquatico e mai restituito”. Un tratto di mare navifago, capace di usare le sue indomabili correnti e i suoi bassi fondali come trappole mortali per i legni in transito. Già in epoca greca, intorno al V secolo a. C., una nave carica di zolfo sarebbe naufragata tra Kartibubbo ed il Puzziteddu; alcune parti della sua chiglia con chiodi di rame ed il carico di anfore frantumate sarebbero state individuate dal professor Gianfranco Purpura. In epoca romana, oltre alla navis lapidaria, qui conclusero il loro tragitto almeno due navi: una probabilmente durante la battaglia delle Egadi (249 a.C.), e l’altra, in età imperiale, nel II-III secolo d.C.- Storie tragiche raccontano i cocci d’anfora ed i pezzi di piombo (coi quali si equilibravano gli scafi ovvero le ancore) che di tanto in tanto il cestello di qualche raccoglitore di ricci riporta in superficie.
Anche in Liguria, nel Golfo di La Spezia, abbiamo la nostra nave lapidaria
Un riferimento importante alla romanità del Promontorio del Caprione ci è stato fornito dal ritrovamento della nave romana affondata alla Caletta, il seno di mare posto fra le punte di Maralunga e Maramozza, (al centro della mappa) detta nel Medioevo Cala Solitana. La nave trasportava tre grandi pezzi di colonne di marmo lunense (rocchi), di cui uno già recuperato ed abbandonato presso il Museo di Luni (vedi foto). Il naufragio sembra occasionale, ma analizzando bene la scogliera esterna del promontorio di Maralunga si scopre uno strano intaglio, assai grande, di decine di metri, molto antico perché dello stesso colore della scogliera, perfettamente piano, che induce a pensare ad un piano di appoggio di grandi pesi. Diviene quindi logico pensare che si sia tentato, in epoca romana, di costruire qualche tempio, dedicato forse alla Venere Ericina, nella splendida natura del promontorio di Maralunga. La nave, lì ormeggiata per il trasbordo dei grandi pesi, sarebbe stata colta da un fortunale e sarebbe finita contro la scogliera.
Ciò che in ogni modo è strano, è che la colonna, offerta dalla Sovrintendenza al Comune di Lerici, sia stata rifiutata dal Sindaco pro-tempore che tenne nascosto il fatto. Forse perché era troppo oneroso fare il relativo basamento, che ovviamente avrebbe dovuto sopportare il peso di tutti e tre i rocchi? Secondo altri si sarebbe dovuto creare un parco archeologico sottomarino, ma nulla è stato fatto di tutto ciò. Secondo altri le colonne non verrebbero mai tirate su, per non far emergere il fatto increscioso dei cercatori di datteri che le avrebbero in parte rovinate. In ogni modo si tratta di una devalorizzazione ignobile, rispetto alla ipotesi di vedere svettare al tramonto del Sole una alta colonna romana, testimone della nostra storia!
La Caletta. Scavo e recupero di relitto di Navis Lapidaria
Documentazione fotografica del recupero
Breve ricostruzione storica
In seguito a segnalazione vennero effettuati nella zona di Lerici - Baia della Caletta, diversi sopralluoghi che hanno permesso di individuare tre corpi lapidei approssimativamente cilindrici, parzialmente ricoperti dal fondale sabbioso ad una profondità di circa 8-9 m.
Tali ricerche, realizzate nel luglio 1990 con l’ausilio del Nucleo Carabinieri Subacquei di Genova e del circolo “Duilio Marcante”, permisero di riconoscere e documentare i tre massicci elementi, misure in centimetri:
n. 1: 210/198 x 380;
n. 2: 195/190 x 495;
n. 3: 185/178 x 260),
ricoperti dalla sabbia per circa un terzo del loro diametro. La loro sovrapposizione grafica permise poi di capire che si trattava di tre rocchi relativi ad un’unica colonna, dal fusto alto oltre 11 m. Le analisi nel contempo effettuate su alcune porzioni prelevate dal manufatto
lapideo, consentirono di stabilire che si trattava di marmo proveniente dalle Alpi Apuane, cioè dalle cave dell’antica Luni.
Negli anni successivi 1990, '91, '92, '93 e '97 sono state effettuate numerose campagne di scavo che hanno permesso anche il recupero di uno dei tre rocchi di colonna, l’elemento n. 2.
Un saggio effettuato nello spazio compreso fra i rocchi n. 2 e n. 1 restituì, ad una profondità corrispondente al piano d’appoggio di questi ultimi, numerosi resti metallici, fra cui chiodi, lunghi fino a 20-23 cm, abbondanti frammenti di lamina plumbea e piccoli chiodini di rame, destinati al fissaggio della lamina. I frammenti ceramici erano tutti relativi ad anforacei, tra i quali prevalevano quelli relativi ad anfore del tipo Dressel 2-4.
Il rocchio di colonna della nave romana affondata si trova ora nel
MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE E ZONA ARCHEOLOGICA DI LUNI
Il territorio comunale è posto ai piedi della Alpi Apuane, nell'estrema propaggine della Riviera di Levante, in prossimità del confine con la regione Toscana.
LUNI – Ricostruzione grafica di come era nell’Epoca Imperiale.
Notare la zona portuale
Questo museo apre le porte di una città: Luni, fondata dai Romani nel II secolo a. C.
Il Museo Archeologico Nazionale di Luni, inaugurato nel 1964, è stato costruito all’interno dell’area dell’antica città di Luna, fondata nel II secolo a.C. come colonia romana e divenuta in seguito il principale porto d’imbarco per il marmo bianco proveniente dalle vicine cave apuane e destinato a Roma. I materiali archeologici in esposizione consentono di seguirne l’evoluzione, dall’impianto della colonia nel 177 a.C. alla fase di massimo splendore raggiunto durante la prima metà del I secolo d.C, passando attraverso la trasformazione in sede episcopale nel V secolo d.C., fino al definitivo abbandono nel 1204.
Anche i Romani guardavano l’orologio! Solo che non era a molla o a pile come i nostri, ma funzionava grazie alla luce del sole. Questa meridiana è stata rinvenuta in una ricca domus della città: nel foro superiore si inseriva l’asta di metallo che, proiettando la propria ombra sulla parte concava, divisa in spicchi da sottili incisioni, indicava l’ora.
Particolare del mosaico di Oceano, la decorazione musiva che ha dato il nome all’intera domus in cui è stato trovato. Nella parte centrale è raffigurato il dio del mare, attorniato da una grande varietà di pesci resi in modo molto realistico. Tra le onde ci sono anche due amorini a cavallo di un delfino: qui ne puoi vedere uno, il solo che si è conservato per intero, mentre regge un tridente nella mano destra.
Incredibile ma vero...
L’anfiteatro, costruito in epoca imperiale, è uno dei monumenti meglio conservati della città: ne resta solo il primo piano, ma probabilmente ce n’erano altri due, per un totale di 7.000 spettatori! Qui si svolgevano i giochi gladiatori, combattimenti tra lottatori dotati di gladius, una spada corta e larga, e tra animali feroci. Si trattava di spettacoli assai violenti, ma che i Romani amavano molto!
Ringraziamo:
La Soprintendenza Archeologica della Liguria ed il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo per averci concesso la pubblicazione di materiale a scopo divulgativo.
Carlo GATTI
Rapallo, 28 settembre 2017
M/V ANTONIO LANDI, UNA TRISTE STORIA!
Motoveliero
“ANTONIO LANDI”
Una Triste Storia!
Motoveliero-goletta Antonio Landi
Sul sito di MARE NOSTRUM RAPALLO abbiamo dedicato molte pagine alla storia del porto di Genova, ma il suo percorso è così lungo e articolato che molti sono ancora gli autori e i testimoni di questa lunga catena che dovranno documentare tanti fatti che emergono ogni giorno ed interessano non solo gli studiosi, ma anche coloro che nel porto vivono, lavorano e respirano la sua cultura.
Il palcoscenico del porto più importante del Mediterraneo cambia infatti ogni giorno: nuovi arrivi, nuove partenze, navi che si spostano al suo interno per ragioni diverse ma sempre necessarie per alimentare quella fama di operosità che lo ha reso famoso nel mondo.
Ci sono poi le libecciate, i danni alla lunga diga e alle banchine fino ad allora ritenute sicure, navi che naufragano sulla diga, petroliere che s’incendiano, altre che scoppiano, trombe d’aria che abbattono gru gigantesche. Insomma, i giorni felici si alternano a giorni infausti, periodi di pace lunghi e produttivi che sono seguiti da tremendi anni di guerra.
Sfogliando questo “antico manoscritto” che ogni giorno volta pagina per raccontare episodi nuovi e sempre diversi, oggi ci soffermiamo sul triste epilogo di una piccola nave: la ANTONIO LANDI e del suo equipaggio. 12 ragazzi italiani che morirono in un lontano giorno di 73 anni fa nell’anfiteatro portuale di Genova. Una storia poco nota perché le vittime erano marinai, appartenenti a quella categoria definita in tanti modi. Per noi, la più realistica è questa:
I VIVI, I MORTI E I NAVIGANTI
In terra, quando succedono delle calamità naturali, incidenti, bombardamenti e crolli c’è sempre qualcuno pronto ad immortalare la tragedia, a diffondere le immagini e ad intervistare superstiti e testimoni.
In mare si muore in modo diverso: si viene colpiti dai marosi o dalle bombe e si affonda senza lasciare tracce; si toglie semplicemente il disturbo senza rilasciare dichiarazioni, giustificazioni, senza avere il tempo di chiedere perdono dei propri peccati.
In quei tristi giorni del 1944 i genovesi di terra, di porto e di mare vivevano sotto i bombardamenti aero-navali degli Alleati, mentre gli invasori tedeschi minavano oltre 10 chilometri di diga ed anche le sue banchine principali, affondavano le navi militari e mercantili più importanti sulle due imboccature di quel tempo per impedire agli alleati, ormai alle porte, d’impossessarsi dell’intero porto e respingere l’esercito di Hitler oltre i confini italiani.
Il capitolo che oggi vi raccontiamo non fa parte della grande storia. Non si tratta infatti di un argomento al centro di risonanti convegni, ma riporta e ricorda un fatto bellico che provocò pochi morti. Un numero “quasi” insignificante rispetto al mezzo milione di vittime italiane della Seconda guerra mondiale.
Perché scriverne allora? Semplicemente perché erano ragazzi imbarcati su un vecchio veliero disarmato che pendolava in mezzo al golfo con il compito di avvistare i sottomarini inglesi.
Dodici marinai che si sono inabissati nell’oscuro silenzio delle acque di Genova, avvolti nelle vele del pacifico veliero ANTONIO LANDI.
La goletta, 415 tonnellate di stazza lorda, fu varata nel 1919 per l’armatore Carlo Landi di Savona e per un ventennio veleggiò tra i porti del Mediterraneo come nave da carico. La sua insignificante carriera fu interrotta dall’entrata in guerra dell’Italia il 10.6.1940. Requisita dalla Marina Militare fu adibita ad un servizio umile e di poco prestigio; un tempo il suo ruolo era noto come “nave civetta” che aveva il compito di avvistare il nemico nel raggio di poche miglia dal porto di Genova e di allertare le postazioni costiere. Ma ora entriamo in cronaca diretta.
Alla goletta militarizzata viene assegnata la sigla V-106. Pare sia stato riconfermato lo stesso equipaggio mercantile che ha una buona pratica di vele e di manovre “silenziose”. Qualcuno, posto nelle alte sfere della M.M. decide che V-106 meriti un “aggiornamento militare” per far fronte alle nuove tecnologie adottate dai sottomarini inglesi. L’operazione di restyling avviene presso l’Arsenale di Spezia con l’imbarco di innovative apparecchiature tedesche. L’arrivo del fatidico 8 settembre 1943 stravolge la situazione politica nazionale. La flotta italiana si consegna a Malta e la piccola V-106 rimane intrappolata nella base spezzina. La marina di Salò, d’accordo con i tedeschi, può armare solo naviglio minore che non dia nell’occhio. La “nave civetta” cambia padrone ed imbarca giovani marinai della Marina del Nord. Sono genovesi, amici tra loro ed abitano nei caruggi di Genova.
Si provvede all’installazione della artiglieria leggera ed inizia il suo lavoro di “sentinella costiera”. Improvvisamente le si dà un nuovo ruolo operativo tra Spezia e Genova e tra Genova e Savona, trasporta munizioni, scorta motozattere e le KT tedesche, sfila nel buio tra le mine, sempre di notte per non essere avvistata dagli aerei inglesi. Per queste missioni ha cambiato sigla e prende una nuova identità: C.S.13.
Colpo di scena. La goletta ha anche il suo giorno di gloria abbattendo un aereo nemico. Passa di grado e diventa un “Caccia Sommergibili”, piccolo, ma insidioso!
Formazioni di Bombardieri USA Consolidated B-24 Liberator
L’Epilogo. Il 4 settembre 1944, quel maledetto giorno, 144 aerei americani arrivano da NE, si abbassano ad una quota di precisione e sganciano, dalle 12.50 alle 14.10, uno sproporzionato numero di bombe che fu definito “il più distruttivo bombardamento che la città dovette subire nella sua storia distruggendo case, monumenti, industrie, affondando navi e uccidendo oltre 300 persone”.
Molo Giano-Ormeggio della Antonio Landi. Sullo sfondo la Torre Piloti ricostruita con lo stesso disegno, per due volte, dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale.
La ANTONIO LANDI, poi V-106 ed infine C.S.13 é ormeggiata a Molo Giano vicino alla TORRE DEI PILOTI che quel giorno crolla sotto i bombardamenti, per la seconda volta, in quella famigerata Seconda guerra mondiale. (Nota dell’autore: Come il lettore sa, in quella zona … dimenticata da Dio, anche la terza Torre di controllo dei piloti fu abbattuta dal cargo Jolly Nero il 7 maggio 2013).
Già nella prima mattinata, il suono stridulo delle sirene lacera l’aria più volte segnalando con largo anticipo l’avvicinarsi di una incursione aerea che poi si rivela
falsa.
Bombardieri (Consolidated B-24 Liberator)provenienti dal primo quadrante (NE) perlustrano il porto prima di sganciare le bombe
Sirena
Nel dubbio che prima o poi si realizzi l’incursione aerea nemica, l’equipaggio del veliero viene evacuato e convogliato nelle gallerie scavate nella roccia alla radice del Molo Giano. Ma i giovani, si sa, sono impazienti e quando indossano la divisa militare diventano veri soldati che non accettano di scappare verso il rifugio. Temerari e ardimentosi ritornano a bordo. Tradire quella “Bandiera vecchia, Onor di Capitano” non rientra nei loro sogni di gloria!
Bombardamento navale di Genova (aree più scure: zone ove registrò una maggior concentrazione dei punti di caduta dei colpi britannici)
1 – Molo Principe Umberto (attuale “diga foranea”)
2 – Ponti Eritrea e Somalia
3- Ponte Parodi
4- Zona Bacini
5- Zona dell’Ospedale Galliera
6- Stazione Brignole
7- Stazione Principe
8- Zona industriale della Valpolcevera
9- Cantieri Navali Ansaldo
10- Batteria “Mameli”
L’appuntamento con la morte è ormai vicino. Passano pochi minuti quando le prime bombe, urlando e fischiando devastano il porto. Colonne d’acqua si alzano in cielo sollevando corpi e pezzi di nave a centinaia di metri.
La goletta A. LANDI ed il suo esiguo equipaggio di valorosi vengono inesorabilmente colpiti. Affondano insieme, abbracciati come amanti e vittime dello stesso destino. Veliero e marinai hanno la stessa età, quella età in cui nei giorni di guerra si muore senza sapere il perché!
“Dodici ragazzi che non torneranno più”. Rinaldo abitava in vico della Croce Bianca, viene trasportato cadavere da mani pietose, fino all’ospedale di Sampierdarena. Di Ugo, Alvaro, Pietro, Vittorio, e Giuseppe che abitava in Vico Monte di Pietà, non si ha più traccia. Alla ferocia dei bombardamenti si aggiunge anche l’egoismo del mare che non vuole restituire quei poveri corpi ai loro cari e alla città, ma trattiene questa piccola storia per sé, forse per raccontarla a modo suo… in eterno!
Carlo GATTI
Rapallo, 14 Aprile 2017
COMANDANTE E.STAGNARO-LO SCHINDLER DEL MARE
Il Comandante
EMANUELE STAGNARO
Nacque a Lavagna
Finse di non sapere… e salvò 1500 ebrei con la nave ESPERIA
Fu definito LO SCHINDLER del mare
Quadro Storico:
Il 10 giugno di 77 anni fa Benito Mussolini annunciava l'avvenuta dichiarazione di guerra a Francia e Gran Bretagna, sancendo così l'ingresso dell'Italia nel Secondo conflitto mondiale. L’immediato contraccolpo fu il BLOCCO di ben 214 navi italiane superiori alle 1.000 tonnellate che si trovarono fuori dalle acque nazionali. Di queste, 38 si autoaffondarono, 20 riuscirono a violare il blocco, 16 furono catturate o autoaffondate nel tentativo di violarlo, 47 furono impiegate in guerra dagli alleati di cui cinque affondate nel corso dello sbarco in Normandia, e ben 8 affondate per cause imputabili ad eventi bellici, ancor prima dell’entrata in guerra dell’Italia. L’impresa dell’ESPERIA avvenne 21 mesi dopo l’entrata in vigore delle Leggi Razziali in Italia, quando ormai gli ebrei italiani erano ben consapevoli di ciò che sarebbe accaduto al loro popolo, di lì a poco, nel cuore dell’Europa. In tutti gli ambienti diplomatici e non solo, si mormorava dell’imminente entrata in guerra dell’Italia al fianco della Germania. Chi di loro aveva le giuste conoscenze e le disponibilità finanziarie, provvide a fuggire con qualsiasi mezzo.
1919 – Riva Trigoso - Varo del Piroscafo ESPERIA, costruito per la ADRIATICA S.A. di Navigazione.
Lunghezza: 151,20 mt. Larghezza: 18,80 mt. Stazza lorda: 11.398 tonn.
La nave ESPERIA in navigazione. Era definita la “ballerina del Mediterraneo”.
In questo tragico inizio delle ostilità, s’inserisce la storia del salvataggio compiuto dal Comandante Emanuele Stagnaro che, pur consapevole dell’ordine ricevuto di rientrare immediatamente in Italia, diede la priorità al salvataggio dei suoi passeggeri e poi rientrò in Italia.
A parlare per la prima volta dell’inedito salvataggio fu sul Corriere della Sera il 10 febbraio 2004. Il fantasma uscito dall’ombra della Grande Storia aveva un nome: James Hazan, che all’epoca del viaggio verso la salvezza era un bambino di sette anni che viaggiava sulla nave passeggeri italiana ESPERIA con il padre Itzhak Hazan, diplomatico egiziano di origine ebraica, collaboratore dei servizi segreti britannici. Per la verità, alcuni storici, dopo accurate ricerche negli ambienti marittimi, appurarono alcune incongruenze: date non coincidenti, numero dei passeggeri trasportati troppo elevato per quel tipo di nave, e si chiesero e si chiesero per quali motivi quel “naufrago”, dopo aver nuotato 64 anni nell’infinito mare dell’oblio, si era deciso a raccontare al mondo quello straordinario salvataggio. Probabilmente “L’AFFAIRE” è tuttora vincolato ad alcuni sigilli degli Archivi segreti di qualche nazione coinvolta, tuttavia si spera che il mistero possa quanto prima liberarsi dai nodi che lo tengono ancora parzialmente legato.
Diciamo subito che, a nostro modesto parere, quel viaggio rientrava probabilmente in un “charter fuori linea”, organizzato in segreto producendo carte false a tutti i livelli di controllo; il che spiegherebbe i vani tentativi compiuti per ricostruire date e dettagli del viaggio, il numero eccessivo dei passeggeri e, cosa di non poca importanza, la nave era anche fornita di cucina “KOSHIER” e delle tipiche stoviglie con la croce di David per ospitare gli ebrei fuggiaschi.
Ecco come si svolsero i fatti. Nel giugno del 1940, mentre la nave passeggeri Esperia della Adriatica A. di Navigazione, dopo il suo ennesimo viaggio (Genova, Napoli, Siracusa, Alessandria, Caifa, Beirut e ritorno) sta per approdare ad Alessandria d'Egitto. Come un fulmine a ciel sereno, il Comandante Emanuele Stagnaro riceve un telegramma dal Capitano d’Armamento della sua Compagnia di Navigazione: “l'Italia è entrata in guerra. Alessandria è sotto il controllo degli inglesi, ora nemici. Vi ordiniamo di rientrare in patria riportando indietro i passeggeri.” La questione è molto delicata, a bordo ci sono ben 1500 profughi ebrei provenienti dagli Stati europei sotto occupazione tedesca, che si sono imbarcati a Napoli in cerca della salvezza sulla rotta del Medio Oriente. A bordo le cabine potevano ospitare soltanto 375 passeggeri, ma la caccia agli ebrei era iniziata da tempo e l’idea di fuggire da quella terribile persecuzione li spinse ad adattarsi a qualsiasi soluzione trovata dal bordo. A questo scopo, furono ricavati altri spazi tra il pozzetto di prua e il corridoio della stiva n° 1. Non erano spazi comodi, ma erano pur sempre vivibili considerando la brevità del viaggio: 3 giorni di navigazione mediterranea.
Il comandante si consulta con Itzhak Hazan, suo grande amico, che viaggia con la famiglia. Insieme a un altro egiziano, Cesar Douek, e a pochi uomini fidati dell'equipaggio (il Radiotelegrafista e il Direttore di Macchina) decidono, su indicazione dell'intelligence inglese, di approdare a Mex, nell’angiporto di Alessandria che si trova ancora sotto controllo egiziano. Il Comandante E. Stagnaro sbarca tutti i passeggeri senza destare alcun sospetto e riparte immediatamente per Napoli superando il “blocco navale inglese”. Ritornato in Italia senza “il suo prezioso carico umano”, Stagnaro dichiara di aver ricevuto il telegramma quando aveva già ultimato lo sbarco dei passeggeri. Vista anche la stima di cui godeva, la sua dichiarazione venne accettata ed è in questo modo fu archiviata, nel massimo silenzio, l’inchiesta pendente a suo carico. Con questo coraggioso ATTO DI VALORE di enormi proporzioni, visti i tempi, Emanuele Stagnaro riuscì a salvare tutti i 1500 ebrei imbarcati a Napoli rischiando il sequestro della nave come preda bellica, la prigionia per tutto il resto della guerra appena iniziata, insieme al suo equipaggio, nonché l’internamento dei passeggeri in un campo di concentramento.
Questa incredibile storia di solidarietà umana entrò nell'oblio più totale, fino a che James Hazan, figlio di Itzak Hazan, in una intervista al TIMES del 2003, parlò dell'eroico salvataggio che lo vide felicemente coinvolto. Ad una festa anche la scrittrice Claudia Roden, incontrandosi per caso con James, ricordò di essere stata salvata nel viaggio dell'Esperia.
Times, Corriere della Sera, Mattino di Napoli, Gente e altri media raccontarono la storia del comandante Stagnaro. I titoli erano pressoché identici: “Un altro eroico italiano che, come Perlasca, Palatucci e tanti altri ha anteposto i valori umani di solidarietà al vantaggio personale.”
Nel marzo del 2004, presenti i parenti, il figlio Cesare di 90 anni e gli amici di suo padre, venne onorata la memoria del Comandante Emanuele Stagnaro con la riconoscenza di Israele e delle Comunità ebraiche. Un ulivo di Gerusalemme fu piantato nei giardini di Sestri Levante a testimonianza del suo EROISMO per sempre.
Sono numerose le storie di salvataggio degli ebrei contro la furia nazista durante la Seconda guerra mondiale, ancora poco note o addirittura rimaste sconosciute. Per alcune vicende è stata chiesta l'assegnazione del titolo di "Giusto tra le Nazioni" alla Commissione dei Giusti di Gerusalemme, presso la quale viene incardinata l'istruttoria.
Emanuele Stagnaro lo vogliono tra i "giusti di Israele", come fu per Perlasca. Onore al capitano italiano che salvò 1500 ebrei a bordo della nave Esperia.
Da quel giorno la carriera di questo valoroso Comandante, costretto ad occultare la propria gloriosa identità nel silenzio più profondo… fu molto breve. Un anno dopo, il 25 giugno 1941, sempre al comando dell’Esperia, mentre era in navigazione da Napoli a Tripoli, fu attaccato da aerei nemici con bombe e siluri. Un secondo attacco lo subì il 30 giugno; la nave si salvò, ma si ebbero tre morti e numerosi feriti. Il terzo attacco avvenne il 20 agosto 1941 e le fu fatale. La nave si trovava al largo di Tripoli quando fu colpita da siluri lanciati da un sommergibile e affondò. Morirono 6 marinai civili; 13 militari tedeschi; 27 militari italiani. Si ebbero 11 feriti. Il Comandante Stagnaro si salvò e riprese il mare compiendo fino in fondo il proprio dovere, finché trovò la morte nell’affondamento del Galilea, avvenuto in poche ore, il 28 marzo 1942, colpito da un siluro sparato da un sottomarino inglese mentre rientrava in patria dalla Grecia con il battaglione Alpini GEMONA.
La nave GALILEA, costruita nel Cantiere San Rocco di Trieste nel 1918 con il nome Pilsa, fu venduta alla compagnia Triestina nel 1935 e ribattezzata Galilea. I documenti del Lloyd di Londra descrivono come una nave "passeggeri" con due eliche e motori a turbina, 8.040 tonnellate di stazza lorda, lunghezza 443 piedi e 8 pollici, larghezza di 53 piedi e 2 pollici ed un pescaggio di 25 piedi e 11 pollici. La velocità nominale era di 13.5 nodi con una portata di 47 passeggeri in prima classe e 148 in seconda.
Durante questo periodo, la Galilea era stata riclassificata come nave ospedale. In questa funzione fu adibita al trasporto di parte del Battaglione Gemona della famosa Divisione Julia (Alpini).
I figli del Comandante Emanuele stagnaro hanno scritto:
Emanuele Stagnaro nacque a Lavagna, da padre rivano, il 31 marzo 1887; giovanissimo rimase prima orfano del padre Cesare, armatore di velieri propri, che morì a seguito di naufragio della propria barca nel Golfo Leone nel 1893, poi della madre Luisa De Paoli.
Superato il corso di studi presso l'Istituto Nautico di Camogli, dove ottenne il diploma di Capitano di lungo corso, intraprese subito la carriera marinara imbarcandosi come "mozzo" sulle "barche" di famiglia in quanto a Riva Trigoso dove era nato il padre Cesare, sussisteva l'attività degli zii e di tanti piccoli armatori conosciuti ed apprezzati da tutte le marinerie, dediti ai traffici commerciali sul mare, in auge in quel tempo.
L'obbligo militare lo adempì, in marina, e successivamente richiamato, nel periodo del conflitto mondiale 15/18 ebbe modo di distinguersi in fatti bellici che lo videro protagonista in quanto, affondata la nave militare sulla quale prestava servizio, meritò, per il coraggioso comportamento, una prima onorificenza al valor militare.
Con innato senso del dovere e positive attitudini percorse la dura carriera del mare, tanto da meritarsi a soli 49 anni la Medaglia d'oro di lunga navigazione. Arrivò con riconosciuto merito al comando di navi prestigiose: in ultimo, prima la m/n Victoria poi l'Esperia, coronando la sua più intima aspirazione, in quanto questa bella nave, nata anche lei a Riva Trigoso, era il suo segreto amore. Furono anni di grandi soddisfazioni che lui, conservava per sé stesso in omaggio al suo carattere severo e insieme riservato, pronto ad eseguire e capace di comandare. La guerra recente, lo trovò al comando dell'ESPERIA, che fu subito requisita e inserita nel "convoglio celere", sulla direttrice Italia - Africa settentrionale.
Purtroppo alle 10.20 del 20 agosto 1941, superato l'imbocco della rotta di sicurezza per TRIPOLI, il convoglio fu attaccato da unità nemiche; una scia di siluro fu avvistata vicinissima all'ESPERIA, senza che fosse ormai possibile eseguire una qualsiasi manovra.
Il siluro colpì la nave a proravia e fu seguito da altri due che esplosero contro il locale caldaie a poppavia; l'ESPERIA, totalmente abbattuta sul fianco sinistro, affondò a 11 miglia dal faro di TRIPOLI.
Le condizioni meteo favorevoli hanno consentito il salvataggio dell'equipaggio e del personale militare trasportato. "Sorretto da alto senso del dovere restava sulla nave in procinto di affondare finché tutto il personale non fosse salvato."
Qualche ora dopo, con un aereo militare si trasferì a Roma per relazionare "Supermarina" sulla dolorosa perdita.
Non furono molti i giorni di riposo; dopo un periodo di servizio quale incaricato dell'armamento della nuova Esperia che era in cantiere, ma senza supplicare particolari agevolazioni, tra l'altro ben meritate, fu assegnato al comando di navi che curavano il rimpatrio di nostri militari dalla Grecia.
Dopo numerose missioni compiute senza gravi incidenti, imbarcò sul "GALILEA" per quello che doveva essere in senso reale, l'ultimo viaggio di rimpatrio dei militari che avevano operato sui fronti balcanici di cui il glorioso battaglione degli alpini "GEMONA" supportava il maggior numero di militari... Poi la tragedia del "GALILEA".
QUESTO RICORDO che vuole essere un tributo spirituale alla memoria di nostro Padre intende anche essere un perenne esempio di quanto si può rimanere indimenticati quando si è saputo coniugare l'esistenza con il dovere e il coraggio fino al sacrificio supremo.
Carlo GATTI
27 Febbraio 2017
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APPENDICE
SANDRO ANTONINI, nato a Sestri Levante nel 1952, è uno storico italiano. Laureato in Scienze politiche con indirizzo storico-politico, si occupa soprattutto di storia contemporanea con particolare riferimento al periodo fascista.
Il falso storico della turbonave Esperia e di millecinquecento ebreii
Per quanto la vicenda di seguito descritta abbia già avuto un’appropriata definizione in sede storica, sembra giunto il momento di ripresentarla in questo libro sul Novecento, perché non solo avrebbe coinvolto il comandante Emanuele Stagnaro, rivano, che negli anni precedenti ebbe l’Esperia al suo comando e perché la turbonave ebbe i natali nel cantiere di Riva Trigoso, quanto e soprattutto perché in molti se ne sono occupati ritenendola veritiera; invece, sono andati clamorosamente fuori bersaglio. Ormai i fatti risultano oltremodo chiari: eccoli, una volta per tutte, di seguito sviluppati e conclusi.
Si è sostenuto a suo tempo, a partire dal febbraio-marzo 2004 (diversi giornaliii, anche stranieri, hanno riportato la notizia), che nel giugno 1940, a ridosso della dichiarazione di guerra, la turbonave Esperiaiii, della società «Adriatica», comandata dal ligure Emanuele Stagnaro, salpò dal porto di Napoli con a bordo circa millecinquecento ebrei, «provenienti da ogni parte d’Europa» (?), con meta finale Alessandria e che il comandante, essendo nel frattempo iniziato il conflitto, avesse ricevuto l’ordine telegrafico di ritornare indietro. Invece preferì disobbedire, accordarsi con gli inglesi ad Alessandria e, l’11 o il 12 giugno, sbarcare in quel porto gli ebrei sottraendoli a una morte quasi certa. Riuscì pure a ritornare riportando la nave Napoli. Così, a grandi linee, il racconto – dovuto da un testimone del tempo – che ha circolato e continua a circolare. Da qui, però, sono sorti dubbi e interrogativi che riteniamo giusto collocare in una luce di verità.
Per esempio i 1.500 ebrei, una cifra enorme per una nave che poteva trasportare, come numero massimo in cabina, 375 passeggeri. Possiamo forse arrivare a 5-600, forzando i codici marittimi. Ma crediamo che se davvero a Stagnaro si fossero presentate 1.500 persone avrebbe, per motivi di sicurezza, rifiutato di farle salire a bordo. E chi, dell’Autorità marittima del porto di Napoli, avrebbe in precedenza accordato il permesso assumendosene la responsabilità? Nessuno, sembra evidente. E poi, con la legislazione razziale in vigore in Italia, che dichiarava espressamente che gli ebrei stranieri presenti sul suolo nazionale avrebbero dovuto essere espulsi, com’erano arrivati, nel paese? Quando? Attraverso quali complicità? E perché se ne volevano andare? Si è detto – e scritto – per fuggire dallo sterminio. Poco probabile, se lo sterminio stesso non era ancora cominciato. Se ne parlò nell’ottobre 1940, nel gennaio 1941 e fino al settembre dello stesso anno gli ebrei tedeschi, a determinate condizioni, poterono ancora lasciare la Germaniaiv. Se ne parlò poi a Wannsee il 20 gennaio 1942, per ratificare decisioni già in precedenza prese. Lo sterminio vero e proprio cominciò nell’ottobre 1941 a Belzec e poi via via negli altri campi e nel marzo 1942 ad Auschwitz-Birkenau, subito con prigionieri russi. Purtroppo, gli ebrei europei non erano a conoscenza del destino che attendeva moltissimi di loro, milioni, altrimenti avrebbero cercato di organizzarsi. Invece furono colti di sorpresa e su di essi fu consumato uno dei crimini più odiosi e nefasti della storia del Novecento. Nessuno, a essere precisi, tranne ovviamente i nazisti, aveva chiaro questo terribile disegno. Diciamo poi che a guerra iniziata, e almeno fino all’8 settembre, gli italiani rifiutarono sempre di consegnare ebrei ai tedeschi, sia quelli che si trovavano sul suolo nazionale che gli altri, quelli presenti sui territori occupati dai nostri militari. La letteratura sull’argomento è copiosa, soprattutto univoca e ormai acclarata: dopo l’8 settembre cambiò tutto, ma questa è una vicenda triste e violenta che non riguarda l’Esperia, del resto già affondata.
Stabiliti tali doverosi presupposti torniamo all’Esperiav, che svolgeva la rotta n. 47, quattordicinale (Genova, Napoli, Siracusa, Alessandria, Caifa, Beirut, Alessandria e ritorno)vi. Ripartiamo dal comandante Emanuele Stagnaro che comandò sì l’Esperia, ma non nel periodo imminente alla dichiarazione di guerra. Infatti (la nostra ricerca principia dal maggio 1940; prima, in base alla storia riportata, avrebbe poco senso) Stagnaro giunse a Genova con la motonave Calitea (normalmente rotta n. 50: Trieste, Venezia, Fiume, Brindisi, Pireo, Rodi, Alessandria via Capo Matapanvii, qui certo in sostituzione dell’Esperiaviii) il 2 maggio 1940 e ripartì il 4 maggio alle ore 16,45ix. Ritornò nuovamente a
Genova il 15 maggio con la stessa nave e ripartì il giorno 17 alle 16x. La motonave Calitea fu una terza volta a Genova il 29 maggio e lasciò gli ormeggi il 31; adesso, al comando non c’era più Stagnaro, bensì il comandante Zanettixi. A questo punto Stagnaro, dopo essere ripartito da Genova potrebbe aver compiuto una parte del viaggio ed essersi imbarcato sulla turbonave Esperia a Napoli (un normale avvicendamento di routine, ma ricordiamo che la rotta dell’Esperia iniziava da Genova), tra il 27 e il 28 maggio per far compiere alla nave l’ultimo viaggio prima della guerra. Oppure potrebbe essere partito prima; in questo caso cadrebbe il presupposto iniziale del viaggio compiuto con i 1.500 ebrei a cavallo della dichiarazione di guerra. Ma supponiamo che Stagnaro si fosse effettivamente imbarcato il 27 o 28 maggio, o il 30 o anche il 2 giugno; sarebbe sempre arrivato ad Alessandria prima della dichiarazione di guerra. Tuttavia, c’è un problema. Perché, da una ricerca condotta con la Biblioteca nazionale di Napoli, risulta che l’Esperia non partì né arrivò nel porto di Napoli tra il 27 maggio e il 9 giugno 1940 e dunque quel famoso viaggio non avrebbe potuto compiersixii. Così, almeno, sfogliando Il Mattino. Concediamo pure, ma è davvero poco probabile, che il giornale possa avere omesso il dato. Tuttavia, se riprendiamo la tabella degli orari (con l’Esperia che iniziava il viaggio da Genova, come doveva essere nella realtà e come non si verificò dal 1° maggio al 9 giugno 1940) e soprattutto il bollettino della Finmare relativo al periodo le cose cambiano alla radice. Infatti, testualmente si legge su quest’ultimo:
Piroscafo Esperia stazza lorda 11398 tonn., varato nel 1919:
Dal 10/6/40 al 16/6/40 in sosta a Veneziaxiii; dal 17/6/40 al 3/3/41 requisito dal Ministero della Marinaxiv; dal 7/3/41 al 22/3/41 in sosta a Genova; dal 23/3/41 al 20/8/41 requisito dal Ministero della Marina. Perduto per fatto di guerra il 20/8/1941. Atto di abbandono notificato al Ministero della Marina in data 6/11/41xv. A questo punto la domanda e dopo tutto quanto abbiamo scritto: se l’Esperia almeno dal 10 giugno 1940 (sicuramente da prima, forse a montare le artiglierie – era attrezzata per questo – all’Arsenale e i tempi necessari a tale operazione non sono certamente brevi) si trovava a Venezia – se fosse arrivata quel giorno da Alessandria avrebbe dovuto partire dal porto egiziano il giorno 6 senza scali intermedi – come faceva al tempo stesso, cioè il 10 giugno, a essere in navigazione verso Alessandria? A titolo informativo forniamo altresì la posizione della motonave Calitea per il giorno 10 giugno, citando la stessa fonte Finmare.
Motonave Calitea stazza lorda 4013,44 tonn., varata nel 1933: dal 10/6/40 al 13/6/40 a Malta per controllo ed in navigazione per Siracusa. Alcuni problemi pratici relativi alla presunta entrata nel porto di Alessandria del piroscafo Esperia
nei giorni della dichiarazione di guerra. Ammesso che il comandante Stagnaro abbia potuto soprassedere all'ordine di rientro, sia riuscito a raggiungere il «Mex» (angiporto di Alessandria), per sbarcare i passeggeri avrebbe dovuto interessare l’agenzia del posto. Quella di allora fu la De Castro, oggi inesistente ma il cui palazzo si può ancora vedere in rue El Oreya. Se tutto questo fosse riuscito sicuramente non sarebbe bastata la volontà del solo equipaggio, bensì la complicità di tutto il personale dell’agenzia di Alessandria e di tutte le spie abitanti il porto, oltre a coloro che poi diedero ricovero agli ebrei.
Conclusioni. La storia dei 1.500 ebrei potrebbe anche essere avvenuta? Difficile, quasi impossibile e comunque a precise condizioni. Intanto, occorre ridimensionarne fortemente il numero. Poi, occorre capire come abbiano potuto imbarcarsi, in Italia, tanti ebrei tutti assieme. Occorre poi ricollocare la storia, trovare cioè, con i necessari riscontri oggettivi, una data concreta, che non può per contrarietà dei fatti essere quella della dichiarazione di guerra. Verosimilmente, ammessane la veridicità, il 1939; forse, i primi mesi del 1940. Quindi, è necessario capire chi fosse stato, fra i funzionari dei vari uffici, non ultimo del ministero dell’Interno che gestiva l’intera questione, a fornire i visti di transito agli ebrei, dal momento che si rilasciavano solo a precise condizioni, non ultima il pagamento di forti sommexvi e come si siano comportati gli inglesi al loro arrivo ad Alessandria, perché, per motivi politici, gli stessi inglesi (che avevano mandato internazionale per il controllo della Palestina) respingevano gli ebrei che volessero raggiungere tale territorio. Infine, è necessario capire perché la Delasem, o il Comasebit, organismi specializzati nell’assistenza agli ebrei, che della sorte dei correligionari specie stranieri erano sempre informatissimi, operanti dal 1939 in Italia, non ne avessero mai saputo nulla. Eppure, entrambi,
salvarono molte persone, anche all’estero, per esempio a Rodi o in Jugoslavia e con la guerra già in corso. Sciogliendo, fra l’altro, anche simili e fondamentali interrogativi, sarà possibile far luce su un episodio non solo contraddittorio, ma sul quale, tranne una testimonianza, non esiste alcuna prova.
Nel frattempo, il testimone citato, che risponde al nome di James Hazan, nuovamente interpellato, ha ammesso di non ricordare né date né quanti correligionari fossero davvero imbarcati sull’Esperia e, di fatto, ha preferito non riconfermare la storia. Che del resto, nei termini da lui proposti, è assolutamente priva di senso. Denota, altresì, una scarsa conoscenza della questione ebraica europea così come venne profilandosi dal 1940. L’autore, ha inoltre interpellato, per approfondimenti, Liliana Picciotto, direttrice dell’archivio del Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano, nonché Eugenio Capogreco, direttore della fondazione Ferramonti di Tarsia, località dove esisteva il maggiore campo di concentramento italiano per ebrei stranieri. Entrambi i soggetti convengono che la vicenda, nei termini proposti da Hazan, è da ritenersi un clamoroso falso.
i Queste pagine, opportunamente rielaborate, sono apparse su Il Secolo XIX del 16 marzo 2005, a cura del sottoscritto e del ricercatore dell’Adriatica Franco Prevato, nonché sul mio libro L’ultima diaspora, Genova, 2005, pp. 233-236 e su un altro mio libro, Novecento, alle pp. 97-101. Quanto proposto costituisce una nuova elaborazione, senza peraltro mutare il senso originario.
ii Per esempio il Corriere della Sera, marzo 2004 e, stessa data Il Secolo XIX, Il Mattino, il settimanale Gente nonché, da Londra, Times.
iii La ricostruzione della verità intorno al falso storico dell’Esperia è stata resa possibile dal contributo davvero determinante di Franco Prevato, ricercatore e storico della società «Adriatica», che desidero qui sentitamente ringraziare.
iv E. NOLTE, Controversie, Milano, 1999, p. 30.
v Le navi dell’Adriatica sono sempre state «attrezzate» per il trasporto di passeggeri ebrei i quali potevano usufruire di spazi appositamente per loro attrezzati con cucina kosher e stoviglie distinte dalla croce di David. Gli spazi situati tra il pizzo di prua e la prima casamatta potevano estendersi al corridoio della stiva n° 1; non erano comodi ma... erano pur sempre spazi. Durante il fascismo a bordo delle navi di tutta la flotta vi era un «ufficiale informatore» addetto alle segnalazioni visiva prima, divenute radio, poi. Gli ufficiali informatori erano di sicura e provata fede fascista proprio per i delicati compiti da svolgere divenuti sempre più importanti dopo il 1939. Inoltre sempre dalla fine del 1939 in poi tutte le navi (almeno quelle della flotta pubblica) furono dotate di pezzi d’artiglieria leggera e semipesante i quali erano al comando di un comandante militare e di una scorta di servizio militare spesso formata anche da osservatori tedeschi dopo l'entrata in guerra. L’equipaggio era formato da circa 170 persone tra ufficiali di stato maggiore addetti alla conduzione sottufficiali e «bassa forza».
vi MINISTERO DELLE COMUNICAZIONI, Itinerari e orari dei Servizi Marittimi, fasc. n. 163, Torino, luglio 1939. L’orario era lo stesso per il 1938, per il 1937 e così via; lo stesso per il 1940.
vii Ibidem.
viii Quando su una nave si manifestava un’avaria (e tutto lascia concorrere che un’avaria vi fosse sull’Esperia, varata nel 1919, e una linea anziché un’altra poteva essere «ricoperta» da una nave in sostituzione, rinunciando ad una linea secondaria per favorirne una di primaria importanza. Oltretutto, si spiega perché a comandare il Calitea si trovasse Stagnaro, che da lungo tempo praticava la linea n. 47.
ix Cfr. Il Lavoro, Il Giornale di Genova 3, 4 e 5 maggio 1940, alla pagina marittima: rubrica «Arrivi e partenze nel porto di Genova».
x Ibidem, 15, 16 e 17 maggio 1940. xi Ibidem e anche Il Secolo XIX 29, 31 e 1° giugno 1940. xii Cfr. Il Mattino in data dal 27 maggio al 9 giugno 1940, pagina marittima. xiii Bollettino Finmare, a mani degli autori. xiv Ciò è confermato dalla pubblicazione Navi mercantile perdute, edita dall’Ufficio Storico della Marina Militare, che riporta la
requisizione della nave dal giorno 17 giugno all’affondamento). xv Ministero della Marina, attraverso Società Adriatica di Navigazione. xvi Senza contare che sarebbe occorso un doppio visto, italiano e inglese.
Prof. Sandro ANTONINI
LO "SCOPRITORE" DELLO STOCCAFISSO
LO “SCOPRITORE” DELLO STOCCAFISSO
dedicato al Comandante Nanni Andreatta, anche… Gran Maestro di Stoccafisso
Pietro Querini
Da < NON SOLO SPEZIE> lineadaqua Editore
Ricavo quanto scrive Michela Dal Borgo:
Il patrizio Pietro Querini, feudatario in Candia (Creta) di Castel di Termini e Dafnes, salpò dall’isola il 25 Aprile 1431, a bordo della cocca Querina con un ricco carico di ottocento barili di vino Malvasia (di sua produzione), spezie, cotone e altre mercanzie, diretto alle Fiandre. Ma il viaggio si rivelò travagliato e, appena superato Capo Finisterre, una tempesta li spinse al largo dell’Irlanda (sopra le isole Solinghe), lasciando la nave gravemente danneggiata in balia delle onde per settimane.
Relitto della cocca Querina
Il 17 dicembre fu deciso di lasciare il relitto, dividendo l’equipaggio, in origine composto di sessantotto individui, tra cui una scialuppa (schifo) e una lancia. Della prima non si ebbero più notizie mentre il Querini e i quarantasette marinai che aveva con sé, dopo essere fortunosamente scampati ad altri nubifragi e malgrado un severo razionamento di viveri con conseguente mortalità (letale l’abuso di vino misto ad acqua salmastra) furono spinti verso le rive dell’Isola di Sandoy, nell’arcipelago delle Lofoten ( Norvegia).
Targa commemorativa dell’arrivo dei naufraghi italiani
Isole LOFOTEN
Querini e i sedici marinai superstiti riuscirono a sopravvivere ben undici giorni prima che gli abitanti della vicina Isola di Røst li soccorressero, portandoli nelle loro case ( << Sono uomini purissimi e di bello aspetto, e così le donne sue, e tanta è la loro semplicità che non curano di chiuder alcuna sua roba, né ancor delle donne loro hanno riguardo [….] e questo chiaramente comprendemmo perché nelle camere medesime dove dormivano mariti e mogli e le loro figliuole alloggiavano anche noi >>). In quest’isola, ribattezzata dal Querini Rustene, i veneziani trascorsero ben quattro mesi, dividendo con i centoventi abitanti pane di segale, cervosa e i prodotti della pesca, in particolare passere (poste sotto sale) e merluzzi essiccati, quest’ultimi dai nativi chiamati stocfisi :
<< I stocfisi seccano al vento e al sole senza sale, e perché sono pesci di poca umidità grassa, diventano duri come legno>>. Querini e i suoi compagni ripartirono il 15 Maggio 1432, con i pescatori locali diretti verso Bergen per i loro commerci, portando anch’essi sessanta stoccafissi che rivendettero per avere il necessario per il ritorno in Patria. A Venezia giunsero, via terra, solo il 12 Ottobre 1432 e Pietro Querini fece subito una relazione al Senato veneziano, oggi conservata in originale alla Biblioteca Apostolica Vaticana, E con lui giunse anche sulle tavole della laguna lo stoccafisso - il pesce bastone- una delle quattro specie di pesce <<di Ponente>> (vedi nota) importate da Venezia nei secoli XVII e XVIII. << quando si vogliono mangiare li battono col rovescio della mannara, che gli fa diventar sfilati come nervi, poi compongono butirro e specie per darli sapore>>… questa la ricetta tradizionale tramandata da Pietro Querini.
NOTA. Le altre 4 specie di pesce sono: Sarde in savor, Baccalà mantecato, Moleche o “mosche” fritte e le Seppie al nero o alla griglia.
E da notare che a Venezia sia il baccalà che lo stoccafisso, viene chiamato sempre Baccalà; quello mantecato altro non è che stoccafisso mantecato.
Una annotazione: non tutti sanno che lo stoccafisso e il baccalà sono lo stesso pesce. Al momento del pescato il capo pesca, esperto di questi animali, seleziona i migliori a che, appesi all’aria, diventino stoccafisso e i meno belli vengono messi sotto sale per poterli conservare.
Pensiero di Renzo Bagnasco
e del fotografo Carlo Gatti
Rapallo, 26.1.11017
UNA MOTOSILURANTE DELLA X MAS IN ADRIATICO
COMANDANTE GIOVANNI SANTAGATA
AZIONE DEL MS 75 E DEL SUO
Per gentile concessione dell'Autore: SERGIO NESI
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S.T.V. Giovanni santagata
Giovanni Santagata nacque a Genova il 24 maggio 1921. Aspirante guardiamarina di complemento nell'aprile del 1941 e guardiamarina nell'agosto dello stesso anno, fu poi promosso sottotenente di vascello nel luglio 1943. Da civile fu Pilota del porto di Genova dal 1951 al 1986. Rivette la medaglia di bronzo per i salvataggi effettuti in occasione del naufragio della LONDON VALOUR sulla diga Duca di Galliera. Chi scrive ha avuto l'onore di avere per 11 anni Giovanni Santagata come impareggiabile maestro e carissimo collega.
La Marina Nazionale Repubblicana (dal 21 febbraio 1945 è Sottosegretario, il quarto e sempre con sede a Montecchio Maggiore, Bruno Gemelli) cessa di esistere a Venezia il 3 maggio 1945 quando alla presenza di Genieri britannici della 56.Divisione di Fanteria (John Yeldham Whitfield, dal 26 luglio 1944) e di 600 tra Marinai, Marò, Sommozzatori e Personale di Porto e di Amministrazione viene ammainata la Bandiera di Combattimento della RSI. I Militari repubblicani il 30 aprile avevano rese inutilizzabili le armi, mentre i tedeschi autoaffondavano in Laguna le loro motozzattere. La Bandiera della RSI, l'ultima in Italia e già issata sul piazzale del Collegio Navale ONB nell'isola di S.Elena, viene tagliata in minuti pezzi consegnati alla custodia e nostalgia dei Combattenti dell'Onore. Tra i protagonisti dell'amara cerimonia il Capitano di Fregata Ferdinando Corsi (doc.E) che sarà internato nel 370 PW Camp a Chiaravalle e Torrette di Ancona, poi a Rimini, e che comandava la Base di Venezia. Presenti anche il Comandante Sottotenente di Vascello Giovanni Santagata della MS 75 con i suoi Marinai (doc.F) e gli equipaggi di due Sommergibili allontanatisi da Pola, il CM 1 da 114 t. (doc.G) e il CB 19 da 45 t. (il CB 21 affonda a Pola il 29 aprile, il CB 20 è catturato dai titini a Pola, il CB 22 dai britannici a Trieste).
A cura di Carlo GATTI
Consulente Storico dott. MAURIZIO BRESCIA-Direttore della Rivista:
STORIA MILITARE
Rapallo, 25 Gennaio 2017
IL PORTO DI GENOVA ALLA FINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
RIVISTA
MARITTIMA
MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868
IL PORTO DI GENOVA ALLA FINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE
Per gentile conssione degli Autori:
E.BAGNASCO - A. RASTELLI
Si consiglia di usare i tasti: VISTA-INGRANDISCI per ottimizzare la lettura del saggio.
Ringrazio sentitamente gli AUTORI Erminio Bagnasco ed il compianto Achille Rastelli per averci lasciato questo importantissimo DOCUMENTO STORICO che illustra la realtà di totale abbandono e sfascio in cui si trovò il maggior Porto Italiano alla fine della Seconda guerra mondiale.
A cura del webmaster CARLO GATTI
Consulente Storico dott. MAURIZIO BRESCIA-Direttore della Rivista:
STORIA MILITARE
Rapallo, 20 Gennaio 2017
ANTONIO PARIS LENA, Comandante del Conte di Savoia
ANTONIO PARIS LENA
Riva Trigoso diede i natali al Comandante del
CONTE DI SAVOIA
Antonio Paris Lena, Comandante del Conte di Savoia
Primo Carnera col Comandante Paris Lena. Anni Quaranta – Dall’album di Edoardo Bo
Nel raccontare le imprese di navi importanti del passato, spesso ci chiediamo: perché la grande storia si occupa raramente degli uomini che le hanno comandate? Eppure quelle navi parlano il linguaggio di chi ha donato loro personalità, spirito marinaro, esperienza, fama e un’organizzazione così forte da riuscire ad essere UNICHE nel panorama internazionale.
Fateci caso, dal varo della nave al viaggio inaugurale, la pubblicità diffonde ampiamente i nomi degli architetti, ingegneri, pittori, scultori e arredatori che l’hanno impreziosita, ma poco o niente dei loro Capitani. Fanno eccezione le grandi tragedie navali, dalle quali le figure dei Comandanti ne escono quasi sempre a pezzi…
Tuttavia, dopo questa introduzione “controcorrente”, possiamo fare un paio di eccezioni estraendo dal cilindro della storia due figure di Comandanti che ancora oggi danno lustro alla marineria del levante ligure. Ricordiamo, infatti, che nel suo immenso album di valenti Comandanti, ci sono due nomi che raggiunsero l’apice della notorietà sul palcoscenico dell’Oceano Atlantico: Francesco TARABOTTO, di Lerici, vincitore del NASTRO AZZURRO con il transatlantico REX, e Antonio Paris LENA di Riva Trigoso che fu per molti anni il Comandante del CONTE DI SAVOIA (Near sister del Rex). Del primo ce ne siamo occupati in altre occasioni ricordando che abitò a Rapallo in via Aschieri nel periodo della Seconda guerra mondiale.
Oggi ci occuperemo del suo rivale – il Comandante running mate Antonio Paris Lena.
Maurizio Eliseo, nel suo libro “REX “ ha scritto:
….. Le navi sfrecciarono a poco distanza, ad una velocità combinata di 100 Km/h, mentre le bandiere, i passeggeri e le sirene si scambiavano i saluti. Probabilmente anche il comandante del Conte di Savoia, Antonio Lena, fece un cenno di saluto a Tarabotto, sperando avesse gradito la foto con dedica che gli aveva mandato da poco: i due comandanti non avevano tempo per frequentarsi e in genere erano sulle sponde opposte dell’oceano, ma la stima reciproca ed un carattere completamente agli antipodi, avevano fatto nascere tra loro una sincera amicizia.
Antonio Lena (1877-1943) nacque a Riva Trigoso e si diplomò al Nautico di Camogli. Fu considerato il più brillante Comandante dell’epoca: parlava cinque lingue, amava conversare di letteratura, cinema, poesia e musica con i suoi prestigiosi passeggeri ed aveva un carattere molto cordiale ed una personalità affascinante. Per queste speciali caratteristiche fu definito: “agli antipodi” del suo competitor Tarabotto. I due avevano anche una visione politica molto diversa. Il vincitore del Nastro Azzurro riteneva di avere un Comandante supremo da cui ricevere gli ordini: Mussolini. Al contrario, Antonio Lena non forzò mai i motori oltre il massimo consentito per non rovinare la nave e neppure lo stomaco dei passeggeri paganti. Sfiorò per pochi decimi la conquista del Nastro Azzurro che, evidentemente, non rientrava nei suoi orizzonti di gloria.
Ma per farci un’idea più precisa della personalità Di Antonio P.Lena, prendiamo a prestito una annotazione di Ulderico Munzi tratta dal suo libro: Il Romanzo del Rex.
Quando gli avevano dato l’ordine di battere il record (Nastro Azzurro) del transatlantico tedesco EUROPA, che resisteva dal marzo del 1930, il comandante Antonio Lena aveva detto semplicemente: “Ci proverò”. “Il duce ci tiene”, aveva esortato il ministro Costanzo Ciano. “Ha un debole per il Conte di Savoia”… “Le prometto che farò tutto il possibile”, aveva ribadito il comandante rispondendo con un saluto militare alla mano alzata nel saluto fascista del ministro. Antonio Lena non amava Francesco Tarabotto. In pubblico si salutavano, si scambiavano battute, erano impeccabili. Ma si detestavano. Erano due caratteri e due fisici opposti. Magro, di media statura, il volto affilato e i capelli radi, Lena pareva un nobiluomo in vacanza anche quand’era in plancia. Il suo alloggio traboccava di libri e giornali. Recitava i brani di Shakespeare e di Dante. Parlava l’Inglese senza alcun accento ed era molto amato dalle donne, soprattutto per la sua conversazione. Era un comandante di stile diverso, un gentleman dell’Oceano, come lo aveva definito la miliardaria Doris Duke. Francesco Tarabotto era in tutto e per tutto un marinaio. Lena poteva anche abitare in un castello della campagna inglese. Tarabotto, se restava a terra più di quindici giorni, cominciava a morire spiritualmente. In sostanza, questa era la differenza fra i due uomini”.
Avrete sicuramente capito che le versioni sulla amicizia tra i due Comandanti non combaciano… Purtroppo, come dicevo all’inizio, anche di questi due “giganti” è stato scritto troppo poco!
Il CONTE DI SAVOIA era raffinato come il suo comandante. Era un liner molto veloce, forse più veloce del suo rivale, aveva al suo interno un’atmosfera di modernità ed eleganza che andava oltre la tradizione classica del REX. Ma le grandi imprese non erano nel suo destino.
Antonio Lena, proprio come un inglese, amava le sfide e le scommesse, ma aveva anche un grande rispetto per le persone, quindi per i passeggeri. Per la sua mentalità era giusto mettercela tutta per conquistare il Nastro Azzurro, ma non per obbedire ad un ordine di Mussolini. Lo tentò per un senso di sportività che non gli mancava di certo, lo fece sfiorando il successo in virtù di quel traguardo che avrebbe esaltato semmai la Marineria Italiana, che nulla aveva di politicamente rilevante.
Il REX invece possedeva la grinta di Francesco Tarabotto che aveva motivazioni più aderenti all’ideologia ed alla propaganda del regime.
Antonio Paris Lena aveva un atteggiamento nobile perché discendeva da una facoltosa famiglia che aveva interessi commerciali ed armatoriali in tutto il mondo, ma dentro era un grande marinaio che si era formato sui leudi e poi sui brigantini oceanici della famiglia. Apparteneva a quella scuola che insegnava ad essere umili e rispettosi dinnanzi al dio-mare che impartisce lezioni e non ama le sfide.
La Seconda guerra mondiale blocca o disperde molte delle nostre navi. Antonio Paris Lena si ritira nella sua cittadina con l’angoscia nel cuore per la fine di tanti sogni. All’indomani dell’8 settembre muore a Sestri Levante travolto da un mezzo tedesco. Un membro d’acquisto della famiglia, l’avvocato Terzi, sarzanese, socialista, viene deportato e muore in Germania.
Nel destino del Comandante A.P.Lena era scritto che doveva morire pochi giorni prima della sua nave.
L’11 settembre 1943 la più bella unità italiana fu ridotta ad un ammasso di lamiere fumanti, sotto i bombardamenti di una squadriglia d’aerei tedeschi. I tedeschi incendiarono il CONTE DI SAVOIA per impedirne la fuga e la consegna agli alleati. La nave bruciò completamente e affondò nella rada. Il 6 ottobre 1945 il relitto fu recuperato, ma per una serie di motivi tecnici e soprattutto economici, la decisione fu quella di demolirla nel 1950.
Nessuno dei discendenti Lena intraprenderà più la carriera del comando marittimo dopo i fratelli Antonio Paris e Paolo Erasmo. Per la famiglia la guerra segna uno spartiacque non privo di risvolti tragici anche se l’attività prosegue, malgrado tutto, con successo. Il conflitto interrompe bruscamente i rapporti con l’America che le avevano dato nome, fama e prestigio, consolidando in maniera definitiva il suo rango di grande famiglia sestrese.
CARLO GATTI
Rapallo, 30 dicembre 2016
Il veliero FORTUNATA FIGARI rimorchia il vapore CONJEE
UNA IMPRESA ECCEZIONALE
La “Nave” FORTUNATA FIGARI
al comando del Capitano camogliese Rocco Schiaffino, ha preso a rimorchio e portato in salvo il Piroscafo da passeggeri CONJEE in avaria, contro il quale è entrato in collisione.
Lo Stretto di Bass tra l'Australia e la Tasmania.
Tutti conoscono, per sentito dire, le famose tempeste di Capo Horn che inghiottivano due velieri su cinque tra quanti osavano sfidarlo.
Pochi, invece, hanno sentito parlare dello Stretto di Bass, che è il tratto di mare che separa la costa meridionale dell’Australia dall’isola della Tasmania. Tutte le insidie che solitamente minacciano le rotte dei naviganti, si trovano concentrate e ben distribuite in quel braccio di mare: rocce semisommerse, bassi fondali, isole deserte, coste impervie, correnti forti, nebbie, venti fortissimi e variabili che giungono direttamente dall’Antartide.
Questa “Scilla e Cariddi” australiana cade in mezzo ai terribili “40 Ruggenti”. Questa denominazione, che risale all’epopea della vela, sta ad indicare le zone intorno ai 40° di latitudine Sud, ove si succedono in continuazione importanti perturbazioni accompagnate da venti tempestosi. Quattrocento sono le navi, fin qui annoverate, tra le vittime sacrificali della terribile natura di quel braccio di mare, tuttavia, la collisione che desideriamo raccontarvi è passata alla storia per il suo atipico ed eccezionale epilogo. Il drammatico episodio non rientrò, per fortuna, nelle “normali” statistiche dei naufragi di quella zona tremenda, sebbene le due navi protagoniste della collisione ne uscissero a pezzi da quella collisione e purtroppo si contarono anche due vittime. “Il Cooje, della Huddard Parker Co. salpò alla vigilia di Natale del 1903, per la sua ennesima traversata dello Stretto di Bass, proveniente da Victoria (Tasmania) ed era diretto a Merlbourne.
Il Piroscafo passò Low Hoad alle 19.15 con una notte chiara, buona visibilità e mare calmo. Purtroppo, il giorno di Natale, verso le 2 di notte, il Cooje incontrò dei banchi di foschia che poi s’infittirono formando una densa coltre di nebbia. Il Capitano Carrington, che aveva una notevole esperienza di simili condizioni meteo, decise di ridurre la velocità e di azionare ad intervalli regolari i segnali acustici per nebbia. Vi fu nuovamente un peggioramento della visibilità e, intorno alle 3,45, apparve sulla dritta la sagoma di un vascello fantasma ...
Si trattava del Veliero camogliese Fortunata Figari, al comando del Capitano Rocco Schiaffino di Camogli, che avanzava inesorabile, come un cavaliere medievale, “lancia in resta”, col suo lungo e micidiale bompresso metallico. Il Capitano Carrington ordinò immediatamente di fermare le macchine e di mettere il timone tutto a dritta, ma fu troppo tardi e tutto inutile. Le due navi si scontrarono con un frastuono straziante. L’albero di fiocco della Fortunata Figari penetrò e demolì la maggior parte delle sovrastrutture e dopo aver abbattuto il Ponte di Comando, distrusse le scialuppe, l’albero ed il fumaiolo del piroscafo Cooje.
Il più celebre e lussuoso postale australiano dell’epoca, in pochi attimi fu devastato e ridotto ad una massa di metalli contorti. Un giornale locale scrisse: “Il Coojee sembra più una chiatta che trasporta rottami che un piroscafo postale”. Il capitano morì sul suo ponte di comando. Un marinaio, rimasto imprigionato sotto le lamiere contorte, morì dissanguato ed il suo corpo fu recuperato dieci ore dopo la collisione. In quei momenti di panico non si riscontrarono vittime tra i 160 passeggeri. Alcuni di loro furono presi dal terrore che la nave stesse per affondare, ed il caos aumentò con il sibilo del vapore dei tubi rotti nella collisione. Molti passeggeri si arrampicarono sulla Fortunata Figari che nel frattempo si era affiancata al Coojee. Le avarie subite dal veliero camogliese furono tutt’altro che superficiali: la prua e l’ancora del piroscafo australiano avevano, infatti, causato una falla lunga tre metri ed alta uno, sul dritto di prora, all’altezza della linea di galleggiamento, ma nonostante la quantità d’acqua imbarcata, le paratie stagne avevano evitato ulteriori danni e soprattutto l’affondamento. Gio Bono Ferrari, nel resoconto dell’episodio pubblicato sul libro “La Città dei Mille Bianchi Velieri” racconta: “Capitan Schiaffino, il comandante della Fortunata Figari, non volle abbandonare al suo destino quelle 160 persone. Sebbene la sua nave fosse gravemente danneggiata, il camogliese tentò nobilmente il salvataggio e fatto calare un grosso cavo verso il vapore ormai sbandato, lo prese a rimorchio e lentamente proseguì la difficile e pericolosa navigazione.
La navigazione proseguì per vari giorni fra difficoltà; ma a tutto, rimediò la tenacia del Capitano e del suo equipaggio composto da camogliesi.
E così, un buon mattino, la vedetta del porto di Melbourne vide avanzarsi verso il porto un grande veliero battente bandiera italiana, con a rimorchio un più grosso vapore tutto sbandato e pullulante di passeggeri. Caso forse unico nella storia marinaresca: quello di un Barco che salva un Vapore.
La Camera di Commercio australiana votò la Cittadinanza Onoraria al valoroso Capitan Schiaffino e il Governo inglese lo condecorò della “Medaglia d’Argento al Valore.” L’Armatore del Coojee non volle accettare il compenso dovuto al salvatore e preferì ricorrere alla Corte dei Lloyd’s, la quale stabilì che il Capitano Carrington era colpevole per non aver ridotto a sufficienza la velocità in quelle condizioni di scarsa visibilità. Il Comandante Rocco Schiaffino fu completamente scagionato. “Dovreste essere nato in Inghilterra”, disse il Presidente della Corte al Capitano camogliese e crediamo che una lode di questo tipo non sia stata mai proferita da un giudice inglese.
La “Nave” FORTUNATA FIGARI al comando del Capitano camogliese Rocco Schiaffino, ha preso a rimorchio e portato in salvo il Piroscafo da passeggeri CONJEE in avaria, contro il quale è entrato in collisione.
Le guerre, solitamente, chiudono epoche che la gente vuole dimenticare; altri cicli si aprono e si riparte da zero. L’intera storia della gente di mare, al contrario, parte da lontano e avvolge a spirale tutti i suoi marinai, con un velo purissimo che si chiama solidarietà.
In questo senso siamo convinti che il mare, nonostante le sue continue “intemperanze”…sia pur sempre il più grande maestro di civiltà.
Carlo GATTI
Rapallo, 20.06.11
Si ringrazia Emilio Gandolfo per averci dato in visione materiale recuperato dal camoglino Vincenzo Merlo, residente in Tasmania, e che ci è servito per integrare la storia della collisione pervenutaci, a suo tempo, dagli scritti di Giò Bono Ferrari.
NAZARIO SAURO: STORIA DI UN MARINAIO
PRESENTAZIONE LIBRO
NAZARIO SAURO: STORIA DI UN MARINAIO
Lunedi 7 Novembre 2016 all'Auditorium San Francesco di Chiavari si è svolta la conferenza per la presentazione del libro NAZARIO SAURO - STORIA DI UN MARINAIO tenuta dal nipote dell’eroe, il Contrammiraglio Romano Sauro. L'evento è stato presentato dal Presidente della Lega Navale di Chiavari Umberto Verna in collaborazione con il Com.te Ernani Andreatta a nome del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta. Presenti all'EVENTO numerose Autorità, Associazioni cittadine e del comprensorio. Ottima lezione per le Amministrazioni extra chiavaresi che ignorano sistematicamente ogni sforzo di chi s’impegna per ricordare ed esaltare i valori culturali e storici della nostra Nazione.
Hanno partecipato all'evento: il Comandante della Scuola Telecomunicazioni FF. AA. Giuseppe Cannatà, una delegazione del Comune di Chiavari col Vicesindaco Sandro Garibaldi, il Dott. Maurizio Barsotti e il Dott. Nicola Orecchia.
L'Associazione Mare Nostrum Rapallo, era rappresentata dal suo Presidente Com.te Carlo Gatti e da una decina dei suoi soci. Presenti anche Membri dei Marinai d'Italia della sezione di Rapallo con il loro presidente Sergio Bernardini che ha donato un artistico crest al Contrammiraglio Romano Sauro.
Presenti anche i Marinai d'Italia della sezione di Santa Margherita ligure con il Presidente Luciano Cattaruzza.
L’occasione dell'evento era il centenario della morte dell’EROE ITALIANO avvenuta per impiccagione quale traditore dell’Impero Austriaco.
L’Austria applicava già a quell’epoca la legge IUS SOLI in virtù della quale, anche i cittadini delle terre occupate (in questo caso l’ISTRIA) erano austriaci.
Nel corso della conferenza abbiamo scoperto, con una certa meraviglia, che la maggioranza degli italiani, tuttora, credono che Nazario Sauro sia stato un uomo di terra, cioè dell’Esercito. Chi ha navigato per fortuna sa quanto siano MARINAI gli istriani, e lo siano stati per secoli nell’area politico-militare di Venezia.
Il nostro eroe, prima Comandante di navi mercantili e poi Tenente di Vascello durante la Grande Guerra, nell’occasione della sua cattura, era imbarcato sul sommergibile italiano Giacinto PULLINO come esperto di navigazione, quindi Pilota pratico in quei mari insidiosi.
Il sommergibile era in missione in acque nemiche e finì incagliato su una scogliera non segnalata da luci, fari, fanali, boe e fu catturato dagli austriaci. Non era epoca di Radar, Loran, Decca , JPS ecc… per cui la notte era ceca veramente. Toccò proprio a lui pagarne in modo tragico le infauste conseguenze, per essere stato colto in fragrante al servizio degli italiani in guerra contro l’Austria.
Il dinamico Contrammiraglio Romano Sauro (che ha camminato per oltre un'ora da una parte all’altra della scena sotto il palco dell'Auditorium), sta compiendo in barca a vela il giro di 100 porti italiani (100 come gli anni del giubileo della morte). La MISSIONE si concluderà in questo periodo nel 2018 a Venezia, dove riposano le spoglie dell’eroe.
In tutte le soste programmate, il Contrammiraglio s’impegna nella presentazione del libro da lui scritto con la partecipazione del figlio Francesco. Ha inoltre precisato che il ricavato delle vendite andrà a favore dell’ente Peter Pan di ricerca che studia le diagnosi e le terapie per i bambini affetti da cancro. L’importanza di questo libro, sta nelle fonti documentali della famiglia e delle numerose testimonianze e racconti orali trasmessi da una generazione all’altra come preziosa eredità, oggi “patrimonio nazionale”.
Verso la fine della conferenza, il Comandante Ernani Andreatta ha emozionato il Contrammiraglio Romano Sauro con un’autentica “sorpresa”. E’ stato infatti tolto il velo da un reperto del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari:
ed è apparso un frammento metallico del sommergibile Giacinto Pullino sul quale era imbarcato l’eroe Nazario Sauro al momento della sua cattura da parte degli Austro-Ungarici.
E’ doveroso precisare che si tratta dell'unico frammento ancora esistente dello scafo del sommergibile Giacinto Pullino.
La conferenza si è poi conclusa con un aperitivo nel “Salone Mastro Checco” dell'antica Casa Gotuzzo in Piazza Gagliardo, con scambio di doni e gagliardetti. La manifestazione si é conclusa con un'ottima cena nel ristorante della celebre piazza dove cinquanta commensali hanno rievocato una gloriosa pagina della nostra marineria. Il taglio della torta offerta dalla Lega Navale ha suggellato il magnifico EVENTO.
A CURA DI MARE NOSTRUM RAPALLO
Rapallo, 21 Novembre 2016
ALBUM FOTOGRAFICO
Una parte del pubblico dell'Auditorium S.Francesco di Chiavari
Il Contrammiraglio Romano Sauro durante la conferenza
Da sinistra Romano Sauro, al centro Giuseppe Cannatà a destra Ernani Andreatta.
La torta offerta dalla Lega Navale di Chiavari
Umberto Verna taglia la torta offerta dalla Lega Navale.