LO "SCOPRITORE" DELLO STOCCAFISSO

LO “SCOPRITORE” DELLO STOCCAFISSO

dedicato al Comandante Nanni Andreatta, anche… Gran Maestro di Stoccafisso


Pietro Querini


Da < NON SOLO SPEZIE> lineadaqua Editore

Ricavo quanto scrive Michela Dal Borgo:

Il patrizio Pietro Querini, feudatario in Candia (Creta) di Castel di Termini e Dafnes, salpò dall’isola il 25 Aprile 1431, a bordo della cocca Querina con un ricco carico di ottocento barili di vino Malvasia (di sua produzione), spezie, cotone e altre mercanzie, diretto alle Fiandre. Ma il viaggio si rivelò travagliato e, appena superato Capo Finisterre, una tempesta li spinse al largo dell’Irlanda (sopra le isole Solinghe), lasciando la nave gravemente danneggiata in balia delle onde per settimane.


Relitto della cocca Querina

Il 17 dicembre fu deciso di lasciare il relitto, dividendo l’equipaggio, in origine composto di sessantotto individui, tra cui una scialuppa (schifo) e una lancia. Della prima non si ebbero più notizie mentre il Querini e i quarantasette marinai che aveva con sé, dopo essere fortunosamente scampati ad altri nubifragi e malgrado un severo razionamento di viveri con conseguente mortalità (letale l’abuso di vino misto ad acqua salmastra) furono spinti verso le rive dell’Isola di Sandoy, nell’arcipelago delle Lofoten ( Norvegia).


Targa commemorativa dell’arrivo dei naufraghi italiani


Isole LOFOTEN

Querini e i sedici marinai superstiti riuscirono a sopravvivere ben undici giorni prima che gli abitanti della vicina Isola di Røst li soccorressero, portandoli nelle loro case ( << Sono uomini purissimi e di bello aspetto, e così le donne sue, e tanta è la loro semplicità che non curano di chiuder alcuna sua roba, né ancor delle donne loro hanno riguardo [….] e questo chiaramente comprendemmo perché nelle camere  medesime dove dormivano mariti e mogli e le loro figliuole alloggiavano anche noi >>). In quest’isola, ribattezzata dal Querini Rustene, i veneziani trascorsero ben quattro mesi, dividendo con i centoventi abitanti pane di segale, cervosa e i prodotti della pesca, in particolare passere (poste sotto sale) e merluzzi essiccati, quest’ultimi dai nativi chiamati stocfisi :





<< I stocfisi seccano al vento e al sole senza sale, e perché sono pesci di poca umidità grassa, diventano duri come legno>>. Querini e i suoi compagni ripartirono il 15 Maggio 1432, con i pescatori locali diretti verso Bergen per i loro commerci, portando anch’essi sessanta stoccafissi che rivendettero per avere il necessario per il ritorno in Patria. A Venezia giunsero, via terra, solo il 12 Ottobre 1432 e Pietro Querini fece subito una relazione al Senato veneziano, oggi conservata in originale alla Biblioteca Apostolica Vaticana, E con lui giunse anche sulle tavole della laguna lo stoccafisso - il pesce bastone- una delle quattro specie di pesce <<di Ponente>> (vedi nota) importate da Venezia nei secoli XVII e XVIII. << quando si vogliono mangiare li battono col rovescio della mannara, che gli fa diventar sfilati come nervi, poi compongono butirro e specie per darli sapore>>… questa la ricetta tradizionale tramandata da Pietro Querini.

NOTA. Le altre 4 specie di pesce sono: Sarde in savor, Baccalà mantecato, Moleche o “mosche” fritte e le Seppie al nero o alla griglia.

E da notare che a Venezia sia il baccalà che lo stoccafisso, viene chiamato sempre Baccalà; quello mantecato altro non è che stoccafisso mantecato.

Una annotazione: non tutti sanno che lo stoccafisso e il baccalà sono lo stesso pesce. Al momento del pescato il capo pesca, esperto di questi animali, seleziona i migliori a che, appesi all’aria, diventino stoccafisso e i meno belli vengono messi sotto sale per poterli conservare.

Pensiero di Renzo Bagnasco

e del fotografo Carlo Gatti

Rapallo, 26.1.11017


UNA MOTOSILURANTE DELLA X MAS IN ADRIATICO

COMANDANTE GIOVANNI SANTAGATA

AZIONE DEL MS 75 E DEL SUO

Per gentile concessione dell'Autore:  SERGIO NESI

Si consiglia di usare i tasti: VISTA-INGRANDISCI o (mela +) per ottimizzare la lettura del saggio.

S.T.V. Giovanni santagata

Giovanni Santagata nacque a Genova il 24 maggio 1921. Aspirante guardiamarina di complemento nell'aprile del 1941 e guardiamarina nell'agosto dello stesso anno, fu poi promosso sottotenente di vascello nel luglio 1943. Da civile fu Pilota del porto di Genova dal 1951 al 1986. Rivette la medaglia di bronzo per i salvataggi effettuti in occasione del naufragio della LONDON VALOUR sulla diga Duca di Galliera. Chi scrive ha avuto l'onore di avere  per 11 anni Giovanni Santagata come impareggiabile maestro e carissimo collega.

La Marina Nazionale Repubblicana (dal 21 febbraio 1945 è Sottosegretario, il quarto e sempre con sede a Montecchio Maggiore, Bruno Gemelli) cessa di esistere a Venezia il 3 maggio 1945 quando alla presenza di Genieri britannici della 56.Divisione di Fanteria (John Yeldham Whitfield, dal 26 luglio 1944) e di 600 tra Marinai, Marò, Sommozzatori e Personale di Porto e di Amministrazione viene ammainata la Bandiera di Combattimento della RSI. I Militari repubblicani il 30 aprile avevano rese inutilizzabili le armi, mentre i tedeschi autoaffondavano in Laguna le loro motozzattere. La Bandiera della RSI, l'ultima in Italia e già issata sul piazzale del Collegio Navale ONB nell'isola di S.Elena, viene tagliata in minuti pezzi consegnati alla custodia e nostalgia dei Combattenti dell'Onore. Tra i protagonisti dell'amara cerimonia il Capitano di Fregata Ferdinando Corsi (doc.E) che sarà internato nel 370 PW Camp a Chiaravalle e Torrette di Ancona, poi a Rimini, e che comandava la Base di Venezia. Presenti anche il Comandante Sottotenente di Vascello Giovanni Santagata della MS 75 con i suoi Marinai (doc.F) e gli equipaggi di due Sommergibili allontanatisi da Pola, il CM 1 da 114 t. (doc.G) e il CB 19 da 45 t. (il CB 21 affonda a Pola il 29 aprile, il CB 20 è catturato dai titini a Pola, il CB 22 dai britannici a Trieste).

 

A cura di Carlo GATTI

Consulente Storico dott. MAURIZIO BRESCIA-Direttore della Rivista:
STORIA MILITARE

Rapallo, 25 Gennaio 2017

 


IL PORTO DI GENOVA ALLA FINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

RIVISTA

MARITTIMA

MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868

IL PORTO DI GENOVA ALLA FINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

Per gentile conssione degli Autori:

E.BAGNASCO - A. RASTELLI

 

Si consiglia di usare i tasti: VISTA-INGRANDISCI per ottimizzare la lettura del saggio.

 

 

Ringrazio sentitamente gli AUTORI Erminio Bagnasco ed il compianto Achille Rastelli per averci lasciato questo importantissimo DOCUMENTO STORICO che illustra la realtà di totale abbandono e sfascio in cui si trovò il maggior Porto Italiano alla fine della Seconda guerra mondiale.

 

A cura del webmaster CARLO GATTI

Consulente Storico dott. MAURIZIO BRESCIA-Direttore della Rivista:

STORIA MILITARE

Rapallo, 20 Gennaio 2017

 

 


ANTONIO PARIS LENA, Comandante del Conte di Savoia

ANTONIO PARIS LENA

Riva Trigoso diede i natali al Comandante del

CONTE DI SAVOIA

Antonio Paris Lena, Comandante del Conte di Savoia


Primo Carnera col Comandante Paris Lena. Anni Quaranta – Dall’album di Edoardo Bo

Nel raccontare le imprese di navi importanti del passato, spesso ci chiediamo: perché la grande storia si occupa raramente degli uomini che le hanno comandate? Eppure quelle navi parlano il linguaggio di chi ha donato loro personalità,  spirito marinaro, esperienza, fama e un’organizzazione così forte da riuscire ad essere UNICHE nel panorama internazionale.

Fateci caso, dal varo della nave al viaggio inaugurale, la pubblicità diffonde ampiamente i nomi degli architetti, ingegneri, pittori, scultori e arredatori che l’hanno impreziosita, ma poco o niente dei loro Capitani. Fanno eccezione le grandi tragedie navali, dalle quali le figure dei Comandanti ne escono quasi sempre a pezzi…

Tuttavia, dopo questa introduzione “controcorrente”, possiamo fare un paio di eccezioni estraendo dal cilindro della storia due figure di Comandanti che ancora oggi danno lustro alla marineria del levante ligure. Ricordiamo, infatti, che nel suo immenso album di valenti Comandanti, ci sono due nomi che raggiunsero l’apice della notorietà sul palcoscenico dell’Oceano Atlantico: Francesco TARABOTTO, di Lerici, vincitore del NASTRO AZZURRO con il transatlantico REX, e Antonio Paris LENA di Riva Trigoso che fu per molti anni il Comandante del CONTE DI SAVOIA (Near sister del Rex). Del primo ce ne siamo occupati in altre occasioni ricordando che abitò a Rapallo in via Aschieri nel periodo della Seconda guerra mondiale.

Oggi ci occuperemo del suo rivale – il Comandante running mate Antonio Paris Lena.

Maurizio Eliseo, nel suo libro “REX “ ha scritto:

….. Le navi sfrecciarono a poco distanza, ad una velocità combinata di 100 Km/h, mentre le bandiere, i passeggeri e le sirene si scambiavano i saluti. Probabilmente anche il comandante del Conte di Savoia, Antonio Lena, fece un cenno di saluto a Tarabotto, sperando avesse gradito la foto con dedica che gli aveva mandato da poco: i due comandanti non avevano tempo per frequentarsi e in genere erano sulle sponde opposte dell’oceano, ma la stima reciproca ed un carattere completamente agli antipodi, avevano fatto nascere tra loro una sincera amicizia.

Antonio Lena (1877-1943) nacque a Riva Trigoso e si diplomò al Nautico di Camogli. Fu considerato il più brillante Comandante dell’epoca: parlava cinque lingue, amava conversare di letteratura, cinema, poesia e musica con i suoi prestigiosi passeggeri ed aveva un carattere molto cordiale ed una personalità affascinante. Per queste speciali caratteristiche fu definito: “agli antipodi” del suo competitor Tarabotto. I due avevano anche una visione politica molto diversa. Il vincitore del Nastro Azzurro riteneva di avere un Comandante supremo da cui ricevere gli ordini: Mussolini. Al contrario, Antonio Lena non forzò mai i motori oltre il massimo consentito per non rovinare la nave e neppure lo stomaco dei passeggeri paganti. Sfiorò per pochi decimi la conquista del Nastro Azzurro che, evidentemente, non rientrava nei suoi orizzonti di gloria.

Ma per farci un’idea più precisa della personalità Di Antonio P.Lena, prendiamo a prestito una annotazione di Ulderico Munzi tratta dal suo libro: Il Romanzo del Rex.

Quando gli avevano dato l’ordine di battere il record (Nastro Azzurro) del transatlantico tedesco EUROPA, che resisteva dal marzo del 1930, il comandante Antonio Lena aveva detto semplicemente: “Ci proverò”.Il duce ci tiene”, aveva esortato il ministro Costanzo Ciano. “Ha un debole per il Conte di Savoia”… “Le prometto che farò tutto il possibile”, aveva ribadito il comandante rispondendo con un saluto militare alla mano alzata nel saluto fascista del ministro. Antonio Lena non amava Francesco Tarabotto. In pubblico si salutavano, si scambiavano battute, erano impeccabili. Ma si detestavano. Erano due caratteri e due fisici opposti. Magro, di media statura, il volto affilato e i capelli radi, Lena pareva un nobiluomo in vacanza anche quand’era in plancia. Il suo alloggio traboccava di libri e giornali. Recitava i brani di Shakespeare  e di Dante. Parlava l’Inglese senza alcun accento ed era molto amato dalle donne, soprattutto per la sua conversazione. Era un comandante di stile diverso, un gentleman dell’Oceano, come lo aveva definito la miliardaria Doris Duke. Francesco Tarabotto era in tutto e per tutto un marinaio. Lena poteva anche abitare in un castello della campagna inglese. Tarabotto, se restava a terra più di quindici giorni, cominciava a morire spiritualmente. In sostanza, questa era la differenza fra i due uomini”.

Avrete sicuramente capito che le versioni sulla amicizia tra i due Comandanti non combaciano… Purtroppo, come dicevo all’inizio, anche di questi due “giganti” è stato scritto troppo poco!


Il CONTE DI SAVOIA era raffinato come il suo comandante. Era un liner molto veloce, forse più veloce del suo rivale, aveva al suo interno un’atmosfera di modernità ed eleganza che andava oltre la tradizione classica del REX. Ma le grandi imprese non erano nel suo destino.

Antonio Lena, proprio come un inglese, amava le sfide e le scommesse, ma aveva anche un grande rispetto per le persone, quindi per i passeggeri. Per la sua mentalità era giusto mettercela tutta per conquistare il Nastro Azzurro, ma non per obbedire ad un ordine di Mussolini. Lo tentò per un senso di sportività che non gli mancava di certo, lo fece sfiorando il successo in virtù di quel traguardo che avrebbe esaltato semmai la Marineria Italiana, che nulla aveva di politicamente rilevante.

Il REX invece possedeva la grinta di Francesco Tarabotto che aveva motivazioni più aderenti all’ideologia ed alla propaganda del regime.

Antonio Paris Lena aveva un atteggiamento nobile perché discendeva da una facoltosa famiglia che aveva interessi commerciali ed armatoriali in tutto il mondo, ma dentro era un grande marinaio che si era formato sui leudi e poi sui brigantini oceanici della famiglia. Apparteneva a quella scuola che insegnava ad essere umili e rispettosi dinnanzi al dio-mare che impartisce lezioni e non ama le sfide.

La Seconda guerra mondiale blocca o disperde molte delle nostre navi. Antonio Paris Lena si ritira nella sua cittadina con l’angoscia nel cuore per la fine di tanti sogni. All’indomani dell’8 settembre muore a Sestri Levante travolto da un mezzo tedesco. Un membro d’acquisto della famiglia, l’avvocato Terzi, sarzanese, socialista, viene deportato e muore in Germania.

Nel destino del Comandante A.P.Lena era scritto che doveva morire pochi giorni prima della sua nave.

L’11 settembre 1943 la più bella unità italiana fu ridotta ad un ammasso di lamiere fumanti, sotto i bombardamenti di una squadriglia d’aerei tedeschi. I tedeschi incendiarono il CONTE DI SAVOIA per impedirne la fuga e la consegna agli alleati. La nave bruciò completamente e affondò nella rada. Il 6 ottobre 1945 il relitto fu recuperato, ma per una serie di motivi tecnici e soprattutto economici, la decisione fu quella di demolirla nel 1950.

Nessuno dei discendenti Lena intraprenderà più la carriera del comando marittimo dopo i fratelli Antonio Paris e Paolo Erasmo. Per la famiglia la guerra segna uno spartiacque non privo di risvolti tragici anche se l’attività prosegue, malgrado tutto, con successo. Il conflitto interrompe bruscamente i rapporti con l’America che le avevano dato nome, fama e prestigio, consolidando in maniera definitiva il suo rango di grande famiglia sestrese.

 

CARLO GATTI

Rapallo, 30 dicembre 2016

 


Il veliero FORTUNATA FIGARI rimorchia il vapore CONJEE

UNA IMPRESA  ECCEZIONALE

La “Nave” FORTUNATA FIGARI

al comando del Capitano  camogliese Rocco Schiaffino, ha preso a rimorchio e portato in salvo il Piroscafo da passeggeri CONJEE in avaria, contro il quale è entrato in collisione.

Lo Stretto di Bass tra l'Australia e la Tasmania.

Tutti conoscono, per sentito dire, le famose tempeste di Capo Horn che inghiottivano due velieri su cinque tra quanti  osavano sfidarlo.

Pochi, invece, hanno sentito parlare dello Stretto di Bass, che è il tratto di mare che separa la costa meridionale dell’Australia dall’isola della Tasmania. Tutte le insidie che solitamente minacciano le rotte dei naviganti, si trovano concentrate e ben distribuite in quel braccio di mare: rocce semisommerse, bassi fondali, isole deserte, coste impervie, correnti forti, nebbie, venti fortissimi e variabili che giungono direttamente dall’Antartide.

Questa “Scilla e Cariddi” australiana cade in mezzo ai terribili “40 Ruggenti”. Questa  denominazione, che risale all’epopea della vela,  sta ad indicare  le zone intorno ai 40° di latitudine Sud, ove si succedono in continuazione importanti perturbazioni accompagnate da venti tempestosi. Quattrocento sono le navi, fin qui annoverate, tra le vittime sacrificali della terribile natura di quel braccio di mare, tuttavia, la collisione che desideriamo raccontarvi è passata alla storia per il suo atipico ed eccezionale epilogo.  Il drammatico episodio non rientrò, per fortuna, nelle “normali” statistiche dei naufragi di quella zona tremenda, sebbene le due navi protagoniste della collisione ne uscissero a pezzi da quella collisione e purtroppo si contarono anche due vittime.  “Il Cooje, della Huddard Parker  Co. salpò alla vigilia di Natale del 1903, per la sua ennesima traversata dello Stretto di Bass, proveniente da Victoria (Tasmania) ed era diretto a Merlbourne.

Il Piroscafo passò Low Hoad alle 19.15 con una notte chiara, buona visibilità e mare calmo. Purtroppo, il giorno di Natale, verso le 2 di notte, il Cooje incontrò dei banchi di foschia che poi s’infittirono formando una densa coltre di nebbia. Il Capitano Carrington, che aveva una notevole esperienza di simili condizioni meteo, decise di ridurre  la velocità e di azionare ad intervalli regolari i segnali acustici per nebbia. Vi fu nuovamente un peggioramento della visibilità e, intorno alle 3,45, apparve sulla dritta la sagoma di un vascello fantasma ...

Si trattava del Veliero camogliese Fortunata Figari, al comando del Capitano Rocco Schiaffino di Camogli, che avanzava inesorabile, come un cavaliere medievale, “lancia in resta”, col suo lungo e micidiale  bompresso metallico. Il Capitano Carrington ordinò immediatamente di fermare le macchine e di mettere il timone tutto a dritta, ma fu troppo tardi e tutto inutile. Le due navi si scontrarono con un frastuono straziante. L’albero di fiocco della Fortunata Figari penetrò e demolì la maggior parte delle sovrastrutture e dopo aver abbattuto il Ponte di Comando, distrusse le scialuppe, l’albero ed il fumaiolo del piroscafo Cooje.

Il più celebre e lussuoso postale australiano dell’epoca, in pochi attimi fu devastato e ridotto ad una massa di metalli contorti. Un giornale locale scrisse: “Il Coojee sembra più una chiatta che trasporta rottami che un piroscafo postale”. Il capitano morì sul suo ponte di comando. Un marinaio, rimasto imprigionato sotto le lamiere contorte, morì dissanguato ed il suo corpo fu recuperato dieci ore dopo la collisione. In quei momenti di panico non si riscontrarono vittime tra i 160 passeggeri. Alcuni di loro furono presi dal terrore che la nave stesse per affondare, ed il caos aumentò con il sibilo del vapore dei tubi rotti nella collisione. Molti passeggeri si arrampicarono sulla Fortunata Figari che nel frattempo si era affiancata al Coojee. Le avarie subite dal veliero camogliese furono tutt’altro che superficiali: la prua e l’ancora del piroscafo australiano avevano, infatti, causato una falla lunga tre metri ed alta uno, sul dritto di prora, all’altezza della linea di galleggiamento, ma nonostante la quantità d’acqua imbarcata, le paratie stagne avevano evitato ulteriori danni e soprattutto l’affondamento. Gio Bono Ferrari, nel resoconto dell’episodio pubblicato sul libro “La Città dei Mille Bianchi Velieri” racconta: “Capitan Schiaffino, il comandante della Fortunata Figari, non volle abbandonare al suo destino quelle 160 persone. Sebbene la sua nave fosse gravemente danneggiata, il camogliese tentò nobilmente il salvataggio e fatto calare un grosso cavo verso il vapore ormai sbandato, lo prese a rimorchio e lentamente proseguì la difficile e pericolosa navigazione.

La navigazione proseguì per vari giorni fra difficoltà; ma a tutto, rimediò la tenacia del Capitano e del suo equipaggio composto da camogliesi.

E così, un buon mattino, la vedetta del porto di Melbourne vide avanzarsi verso il porto un grande veliero battente bandiera italiana, con a rimorchio un più grosso vapore tutto sbandato e pullulante di passeggeri. Caso forse unico nella storia marinaresca: quello di un Barco che salva un Vapore.

La Camera di Commercio australiana votò la Cittadinanza Onoraria al valoroso Capitan Schiaffino e il Governo inglese lo condecorò della “Medaglia d’Argento al Valore.” L’Armatore del Coojee non volle accettare il compenso dovuto al salvatore e preferì ricorrere alla Corte dei Lloyd’s, la quale stabilì che il Capitano Carrington era colpevole per non aver ridotto a sufficienza la velocità in quelle condizioni di scarsa visibilità. Il Comandante Rocco Schiaffino fu completamente scagionato. “Dovreste essere nato in Inghilterra”, disse il Presidente della Corte al Capitano camogliese e crediamo che una lode di questo tipo non sia stata mai proferita da un giudice inglese.

 

La “Nave” FORTUNATA FIGARI al comando del Capitano  camogliese Rocco Schiaffino, ha preso a rimorchio e portato in salvo il Piroscafo da passeggeri CONJEE in avaria, contro il quale è entrato in collisione.

Le guerre, solitamente, chiudono epoche che la gente vuole dimenticare; altri cicli si aprono e si riparte da zero.  L’intera storia della gente di mare, al contrario, parte da lontano e avvolge a spirale tutti i suoi marinai, con un velo purissimo che si chiama solidarietà.

In questo senso siamo convinti che il mare, nonostante le sue continue “intemperanze”…sia pur sempre il più grande maestro di civiltà.

Carlo GATTI

Rapallo, 20.06.11

Si ringrazia Emilio Gandolfo per averci dato in visione materiale recuperato dal camoglino Vincenzo Merlo, residente in Tasmania, e che ci è servito per integrare la storia della collisione pervenutaci, a suo tempo, dagli scritti di Giò Bono Ferrari.


NAZARIO SAURO: STORIA DI UN MARINAIO

PRESENTAZIONE LIBRO

NAZARIO SAURO: STORIA DI UN MARINAIO

Lunedi 7 Novembre 2016 all'Auditorium San Francesco di Chiavari si è svolta la conferenza per la presentazione del libro NAZARIO SAURO - STORIA DI UN MARINAIO tenuta dal nipote dell’eroe, il Contrammiraglio Romano Sauro. L'evento è stato presentato dal Presidente della Lega Navale di Chiavari Umberto Verna in collaborazione con il Com.te Ernani Andreatta a nome del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta. Presenti all'EVENTO numerose Autorità, Associazioni cittadine e del comprensorio. Ottima lezione per le Amministrazioni extra chiavaresi che ignorano sistematicamente ogni sforzo di chi s’impegna per ricordare ed esaltare i valori culturali e storici della nostra Nazione.

Hanno partecipato all'evento: il Comandante della Scuola Telecomunicazioni FF. AA.  Giuseppe Cannatà, una delegazione del Comune di Chiavari col Vicesindaco Sandro Garibaldi, il Dott. Maurizio Barsotti e il Dott. Nicola Orecchia.

L'Associazione Mare Nostrum Rapallo, era rappresentata dal suo Presidente Com.te Carlo Gatti e da una decina dei suoi soci. Presenti anche Membri dei Marinai d'Italia della sezione di Rapallo con il loro presidente Sergio Bernardini che ha donato un artistico crest al Contrammiraglio Romano Sauro.

Presenti anche i Marinai d'Italia della sezione di Santa Margherita ligure con il Presidente Luciano Cattaruzza.

L’occasione dell'evento era il centenario della morte dell’EROE ITALIANO avvenuta per impiccagione quale traditore dell’Impero Austriaco.

L’Austria applicava già a quell’epoca la legge IUS SOLI in virtù della quale, anche i cittadini delle terre occupate (in questo caso l’ISTRIA) erano austriaci.

Nel corso della conferenza abbiamo scoperto, con una certa meraviglia, che la maggioranza degli italiani, tuttora, credono che Nazario  Sauro sia stato un uomo di terra, cioè dell’Esercito. Chi ha navigato per fortuna sa quanto siano MARINAI gli istriani, e lo siano stati per secoli nell’area politico-militare di Venezia.

Il nostro eroe, prima Comandante di navi mercantili e poi Tenente di Vascello durante la Grande Guerra, nell’occasione della sua cattura, era imbarcato sul sommergibile italiano Giacinto PULLINO come esperto di navigazione, quindi Pilota pratico in quei mari insidiosi.

Il sommergibile era in missione in acque nemiche e finì incagliato su una scogliera non segnalata da luci, fari, fanali, boe e fu catturato dagli austriaci. Non era epoca di Radar, Loran, Decca , JPS  ecc… per cui la notte era ceca veramente. Toccò proprio a lui pagarne in modo tragico le infauste conseguenze, per essere stato colto in fragrante al servizio degli italiani in guerra contro l’Austria.

Il dinamico Contrammiraglio  Romano Sauro (che ha camminato per oltre un'ora da una parte all’altra della scena sotto il palco dell'Auditorium), sta compiendo in barca a vela il giro di 100 porti italiani (100 come gli anni del giubileo della morte). La MISSIONE si concluderà in questo periodo nel 2018 a Venezia, dove riposano le spoglie dell’eroe.

In tutte le soste programmate, il Contrammiraglio  s’impegna nella presentazione del libro da lui scritto con la partecipazione del figlio Francesco.  Ha inoltre precisato che il ricavato delle vendite andrà a favore dell’ente Peter Pan di ricerca che studia le diagnosi e le terapie per i bambini affetti da cancro. L’importanza di questo libro, sta nelle fonti documentali della famiglia e delle numerose testimonianze e racconti orali trasmessi da una generazione all’altra come preziosa eredità, oggi “patrimonio nazionale”.

Verso la fine della conferenza, il Comandante Ernani Andreatta ha emozionato il Contrammiraglio Romano Sauro con un’autentica “sorpresa”. E’ stato infatti tolto il velo da un reperto del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta di Chiavari:

ed è apparso un frammento metallico del sommergibile Giacinto Pullino sul quale era imbarcato l’eroe Nazario Sauro al momento della sua cattura da parte degli Austro-Ungarici.

E’ doveroso precisare che si tratta dell'unico frammento ancora esistente dello scafo del sommergibile Giacinto Pullino.

La conferenza si è poi conclusa con un aperitivo nel “Salone Mastro Checco” dell'antica Casa Gotuzzo in Piazza Gagliardo, con scambio di doni e gagliardetti. La manifestazione si é conclusa con un'ottima cena nel ristorante della celebre piazza dove cinquanta commensali hanno rievocato una gloriosa pagina della nostra marineria. Il taglio della torta offerta dalla Lega Navale  ha suggellato il magnifico EVENTO.

A CURA DI MARE NOSTRUM RAPALLO

Rapallo, 21 Novembre 2016

 

ALBUM FOTOGRAFICO

Una parte del pubblico dell'Auditorium S.Francesco di Chiavari

Il Contrammiraglio Romano Sauro durante la conferenza

Da sinistra Romano Sauro, al centro Giuseppe Cannatà a destra Ernani Andreatta.

La torta offerta dalla Lega Navale di Chiavari

Umberto Verna taglia la torta offerta dalla Lega Navale.


STORIE DI NAVI: T/N FLAVIA

STORIE DI NAVI

T/N FLAVIA

 

La T/N FLAVIA fu acquistata dalla Cunard nel 1961 da parte della "Cogedar" (acronimo di "COmpagnia GEnovese Di ARmamento"), Società di Navigazione che nulla aveva all'epoca a che fare con la "Giacomo Costa fu Andrea" ovvero "Linea "C", come era pubblicizzata commercialmente.


La nave, ex-"MEDIA" della Cunard, fu infatti acquistata dalla Cogedar per essere adibita al servizio di linea di classe turistica Europa-Australia in coppia con la M/N "AURELIA" (ex-HUASCARAN) in sostituzione della M/N FLAMINIA (ex-GENOVA) oramai del tutto obsoleta. La "FLAVIA" venne sostanzialmente adibita al trasporto di Emigranti tra il Nord Europa (Bremerhaven) e l'Australia via Suez, talora (ma non sempre) con uno scalo a Napoli, mentre il viaggio di ritorno era un viaggio lungo un itinerario denominato "turistico" che comprendeva la traversata del Pacifico con scali a Auckland (Nuova Zelanda) e Papeete (Polinesia Francese), il passaggio del canale di Panama (scalo a Balboa), uno scalo a Curaçao (Antille Olandesi) per ritornare a Bremerhaven via Southampton e Rotterdam. Mentre il viaggio di andata era frequentato essenzialmente da emigranti che abbandonavano definitivamente l'Europa, quello di ritorno era frequentato da emigrati residenti in Australia e anche nelle Antille che tornavano in Europa in viaggi turistici, soprattutto verso la Gran Bretagna, ma mediamente senza ristabilirvisi.

La nave rimase su questo servizio, che a tutti gli effetti era un servizio di linea e non di crociera, fino alla chiusura del Canale di Suez nel 1967 quando le due navi, FLAVIA e AURELIA, furono fatte passare per Città del Capo. Ad un servizio del tutto analogo e con vicende del tutto analoghe erano adibite le navi della SITMAR (FAIRSEA, CASTEL FELICE e FAIRSKY, cui nel 1964 si aggiunse la FAIRSTAR (ex-OXFORDSHIRE).


I servizi della Cogedar, vuoi per cambiamenti nei contratti di trasporto degli emigranti, vuoi per la chiusura del Canale di Suez, furono sospesi nel 1968 e la FLAVIA, dopo l'ultima crociera in partenza dall' Australia, il 20 settembre 1968 lasciò Melbourne diretta in Europa.


Durante il suo viaggio di ritorno fu noleggiata alla "Atlantic Cruise Line" per crociere da Miami e verso la fine dell'anno venduta alla Costa cui la nave non era prima mai appartenuta. Con l'occasione gli equipaggi della Cogedar furono in parte trasferiti alla Costa e in parte alla SITMAR e da allora cominciò la nuova storia della "FLAVIA" sotto i colori dei Costa.



Dopo l'acquisto dalla Costa Armatori fu sottoposta a lavori di ristrutturazione e trasformazione presso le Officine A & R Navi di Genova e diventò una nave da crociera. Fu allungata di 7,92 m questo comportò l'aumento della stazza da 13.345 TSL a 15.465 TSL. Potè trasportare 1.320 passeggeri in classe turistica. La nave fu ribattezzata FLAVIA C e utilizzata per le crociere nel mondo. Nel 1982 fu venduta al Shipping Company di Hong Kong e rinominata FLAVIO per essere utilizzata come nave da crociera casinò, ma queste crociere erano impopolari e FLAVIO trascorse la maggior parte del tempo ormeggiata nel porto di Hong Kong. Nel 1986 fu rinominata LAVIA per la Lavia Shipping di Panama, il 7 gennaio 1989, durante alcuni lavori scoppiò un incendio che in breve si diffuse in tutta la nave, fortunatamente non vi furono morti. Furono impiegati quattro fireboats e oltre 250 vigili del fuoco per domare l'incendio ma LAVIA affondò a causa delle grandi quantità di acqua pompata a bordo nel tentativo di spegnere le fiamme. La nave fu rimessa a galla e rimorchiata a Taiwan, dove arrivò il 19 giugno. È stata demolita da Chi Shun Hia acciaio Co Ltd, Kaohsiung.

QUESTE INFORMAZIONI STORICHE SONO STATE AGGIORNATE GRAZIE ALLE RICERCHE DEL SIG.MARIO SANNINO.

A cura del Comandante Mario Terenzio PALOMBO

Fotografie a cura del webmaster Carlo GATTI

 

Rapallo, 19 ottobre 2016

 

 


LA GEOGRAFIA DEI MARINAI LIGURI NELL'ETA' DELLA GALEA

La geografia dei marinai liguri nell’età della galea

di Marcella Rossi Patrone

Genova Nervi, 26 agosto 2016.

Franz Hogenberg, acquaforte (in Civitates Orbis Terrarum di Georg Braun,1572)

I) La Geografia …

Nata in età greco-romana con l’obiettivo di rappresentare la Terra, la geografia è cresciuta descrivendo luoghi, producendo carte, esaminando il rapporto tra l’uomo e l’ambiente, dividendosi  infine nelle due grandi, articolate branche della geografia fisica e della geografia umana. Quest’ultima, che notoriamente si occupa degli aspetti economici, politici e culturali, è strettamente collegata alla storia, non solo studia come gli uomini si adattano e  interagiscono in un ambiente, ma anche di come interpretano e vivono gli ambienti in cui si trovano ad operare.

Lo studio delle antiche rotte è quindi un affascinante filone di ricerca storico geografica, che garbatamente inoltra nelle fonti archeologiche, letterarie, iconografiche e archivistiche.  Avvicinandosi al rapporto fra gli uomini e lo spazio marittimo, si aprono paesaggi, spuntano vicende e si muovono personaggi. Allora lo spazio marittimo diventa uno spazio umano fatto di prospettive, direzioni e distanze. Allora lo spazio marittimo diventa un’area di contatti e relazioni.

Gli studiosi hanno oramai dimostrato che nell’antichità le coste furono descritte seguendo le rotte marittime e le testimonianze dei naviganti, secondo lo spazio da loro percepito ed i percorsi da loro scelti.

Da sempre l’uomo ha desiderato conoscere il mondo, misurarlo e rappresentarlo nella sua totalità, esplorarlo e raccontarlo nei suoi particolari. Ben presto si capì che per produrre, commerciare, viaggiare e comunicare era necessaria la conoscenza geografica; questa divenne poi uno strumento al servizio della politica e della crescita economica. Nel considerare il rapporto tra potere e geografia basterà pensare come la denominazione mare nostrum si associò all’espansione romana nel mar Mediterraneo.


In età romana Ostia è centro commerciale e portuale

Comunque la geografia si intrecciò con la storia dell’uomo, anzi possiamo dire che l’uomo plasmò la geografia.

La necessità di riferimenti precisi, immediatamente riconoscibili, spinse poi a nominare i singoli luoghi con differenti  inequivocabili appellativi. I primi luoghi ad essere nominati furono i monti elevati, i grandi corsi d'acqua, gli astri ed i tratti costieri capaci di imporsi alla vista. Costituirono quei toponimi che oggi tanto attirano l’attenzione e la fantasia dei geografi, perché evocano culture passate, manifestando non solo antiche reti di rapporti sociali e ambientali, ma anche gli atteggiamenti mentali che caratterizzarono questi rapporti. Nel caso nostro terremo conto quindi di documenti descrittivi e linguistici.


Kylix attica raffigurante nave commerciale e nave da guerra, VI secolo a.C. (Museo del Louvre).

La geografia mosse i primi passi col raccontare il mondo. Nell’Iliade e nell'Odissea Omero raccontò la geografia con precisi riferimenti e particolari illuminanti. Nei Canti Ciprii, il poema omerico sugli antefatti dell’Iliade, si narrò persino del madornale errore geografico dei guerrieri greci, che, partiti per saccheggiare Troia, sbagliarono rotta verso oriente sbarcando in Misia, dove combatterono ferocemente ma inutilmente.

Sicuramente nel secondo millennio a.C. i popoli affacciati sul Mediterraneo possedevano una rudimentale conoscenza geografica: la geografia come scienza nacque nell’ambito della Grecia classica. Gli studi geografici e cartografici dell’antichità classica, compresa l’intuizione della sfericità terrestre, furono riscoperti solo nel XV secolo, mentre in epoca alto medievale conoscenze, credenze e religiosità si mescolarono, per fornire comode nozioni d’orientamento a mercanti, pellegrini e viaggiatori.

Col disgregarsi del mondo classico la geografia aveva subito una sorta di arresto, era diventata un sapere fluido, capace di adattarsi a qualunque contenitore: da un lato si adattò alla cultura storica, letteraria e biblica, dall’altro si adattò alla tradizione degli spostamenti. Con l’espansione islamica, la rinascita carolingia e la ripresa economica dell’anno Mille le conoscenze geografiche rinnovarono un interesse, preparando la svolta delle grandi scoperte geografiche.

Riguardo a questo processo due considerazioni sono opportune: innanzi tutto il ruolo da protagonista del mar Mediterraneo, poi il contributo dei pellegrinaggi religiosi, delle repubbliche

Marinare e delle crociate.

A seconda dei punti di vista gli antichi popoli lo avevano chiamato il mare superiore, il mare grande, il nostro mare, per gli arabi fu il mare bianco, finché ci si accorse che era circondato da terre e divenne per tutti il mare interno.


Iniziò così ad essere chiamato mediterraneus, parola romana usata in verità per indicare un territorio senza sbocco al mere, esattamente l’opposto della parola maritimus. Già dal nome comprendiamo allora quanto il mare Mediterraneo sia stato il crocevia tra l’Europa, l’Asia e l’Africa e perché Fernand Braudel lo abbia definito un continente liquido, senza offendere alcun geografo.

A favorire la comunicazione, lo scambio di conoscenze geografiche el’affermarsi di rotte commerciali concorsero poii pellegrinaggi, la nascita delle repubbliche marinare e le crociate.


Madaba - Giordania,chiesa di S. Giorgio, particolare del mosaico pavimentale Mappa di Terrasanta (VI sec.)

La devozione e la penitenza permearono l’Europa medievale, che fu vitalizzata dalle vie terrestri, fluviali e marittime in direzione dei santuari cristiani di Gerusalemme, Roma e Santiago. Il movimento dei pellegrini favorì quello dei mercanti, che preferivano viaggiare con merci preziose e poco pesanti come le spezie e le sete.

Attorno all’anno Mille la popolazione europea cominciò a crescere rapidamente: da circa venticinque milioni, nel 1300 oltrepassò i settanta milioni. Aumentarono gli scambi, la varietà delle merci, la circolazione monetaria; crebbero i centri urbani e molti di essi si liberarono dai vincoli feudali trasformandosi in Comuni autonomi. In particolare, le città portuali di Amalfi, Gaeta, Venezia, Ragusa di Dalmazia, Ancona, Pisa, Genova e Noli arrivarono ad affermare la propria supremazia navale,a controllare i traffici nel Mediterraneo, a creare fondachi in Oriente. Fu proprio la posizione geografica ad agevolarle: difese da monti o da lagune, lontane dalle vie militari, si inserirono silenziosamente nei traffici mediterranei, tra bizantini e islamici. Le città stato di Amalfi, Genova, Pisa e Venezia riuscirono anche a creare un'espansione territoriale oltremare.

Con lo sviluppo delle rotte commerciali le città marinare iniziarono così la propria storia economica e politica, organizzando delle flotte capaci di difendersi dagli attacchi pirateschi. Le rotte orientali furono definitivamente confermate dalla partecipazione alle Crociate, combattute in Terra Santa tra l'XI e il XIII secolo dagli eserciti cristiani europei contro gli eserciti islamici. Le crociate fecero seguito all’espansione dell’Islam, iniziata nel VII secolo con la conquista del Nord Africa, del Medio Oriente, dell’Asia Minore e di buona parte della Spagna, proseguita con la sottomissione della Sicilia, lo sbarco in Provenza, le incursioni in Liguria e in Piemonte. Nell’XI secolo l’Islam divenne una costante minaccia alle coste tirreniche, liguri e adriatiche.


L’espansione islamica

Come sappiamo, Amalfi fu la prima città marinara ad affermarsi, spingendosi a commerciare nei paesi africani e arabi, con basi d’appoggio fino in India. Venezia, rivolta all'Europa centrale ed all'Oriente, ottenne dall'Impero bizantino considerevoli privilegi nel Mediterraneo.

Pisa e Genova dapprima diressero i loro interessi nel Mediterraneo occidentale,  sottraendo la Sardegna ai Saraceni, poi nel Mediterraneo orientale, fornendo un rilevante contributo alla prima crociata.


La prima crociata - 1096-1099

Sebbene la maggior parte dei crociati provenisse dalla Renania e dalla Normandia, la spedizione fu resa possibile dalle ricche città marinare italiane in grado di armare flotte attrezzate, che conoscevano bene le rotte e che finirono col reinventare la geografia del Mediterraneo.

Amalfi e Pisa decaddero di fronte alla potenza di Venezia e di Genova.


II) … dei marinai liguri …

A proposito di geografia ligure, Tiziano Mannoni scrisse:

La Liguria storica è una costa montagnosa di trecento chilometri circa, inserita fra due lunghi tratti di coste pianeggianti con foci di grandi fiumi … la sua parte centrale costituisce il tratto del Mediterraneo occidentale più vicino all’Europa continentale … si capisce perché lungo la costa ligure passasse la più importante rotta del Mediterraneo occidentale, quella che univa i porti tirrenici, e le rotte che per lo stretto di Messina proseguivano nel Mediterraneo orientale, a quelli della Francia e della Spagna, fino alla stretto di Gibilterra, dove incontrava l’altra rotta che seguiva invece le coste del Medio Oriente e del Nord Africa.

Da epoche antichissime nei territori liguri confluirono vie di comunicazione dirette ovunque e la realtà geografia fece i Liguri marinai.

Tra il Neolitico (9.000 - 4.500 a.C.) e l’Età del Ferro (1200- 750 a.C.) l’etnia ligure era presente nell’area continentale compresa tra l’Arno, l’Ebro e le Alpi, nelle isole tirreniche, in Sicilia e nel Lazio; tale diffusione mutò e si ridusse nel tempo, rendendo difficile la definizione di una Liguria preromana. Per i Romani i Liguri furono un insieme sfuggente di tribù montane e marine, capaci di destreggiarsi in ogni ambiente.

Verso la metà del I secolo a.C. lo storico Diodoro Siculo tramandò: Sono coraggiosi e nobili non solo in guerra, ma anche in quelle circostanze della vita che comportano terribili difficoltà. Commerciando, infatti, navigano per il mare Sardo e per quello Libico affrontando prontamente pericoli dai quali non esiste difesa. Una cinquantina d’anni dopo il geografo greco Strabone  scrisse: … occupano le terre vicine al mare e specialmente i monti. Hanno qui ricche foreste che forniscono legname per la costruzione delle navi.

Nel  14 d.C.Augusto sottomise definitivamente i Liguri, creando la IX regio Italiae: la Liguria. Allora le navi romane furono le protagoniste della storia. Allora lentamente e gradualmente crebbe la marineria ligure e crebbe la città portuale di Genova, prima all’ombra della dominazione romana, poi di quella bizantina, longobarda, carolingia, alla frontiera tra il mar Mediterraneo e l’Europa  occidentale, dove si intrecciarono spostamenti religiosi, commerciali e bellici. Evidenziamo alcune tappe esemplari.


Ostia Antica, Foro delle Corporazioni, mosaico con navi e faro (tardo II sec d.C.).

Secondo l’editto sui prezzi di Diocleziano,nel 301Genova fu uno dei principali scali di mercato, con altri quali Roma, Aquileia, Alessandria d’Egitto, Efeso, Tessalonica, Bisanzio, Nicomedia, Trebisonda. L’articolato calmiere del tardo impero ha per noi un grande valore geografico, perché involontariamente delinea le rotte commerciali e fa comparire l’importanza di Genova.

Decaduto l’Impero romano, la Liguria marittima sopravvisse ai Goti e trasse notevoli vantaggi mercantili sotto i Bizantini, diventando Provincia Maritima Italorum. Neppure la violenta conquista del re longobardo Rotari(643) riuscì a sottrarla al mare. Nel 680il re dei Sassoni Cledoal navigò da Genova a Ostia per ricevere il Battesimo a Roma,un esempio presto seguito da re, nobili, chierici e popolani anglosassoni. Nel 711, quando il condottiero islamico Tāriq oltrepassò lo stretto di Gibilterra, da Tarragona il vescovo Prospero fuggì con le reliquie di San Fruttuoso per mare, sbarcando prima a Cagliari poi a Portofino.

Nel 725il re cattolico longobardo Liutprando riscattò dagli arabi insediati in Sardegna i resti di sant’Agostino, che navigarono da Cagliari a Genova per essere portati a Pavia.

All’epoca la navigazione ligure si svolgeva nel Mediterraneo occidentale, tra le coste ispano-francesi, le isole, l’Africa, e tale restò in epoca carolingia, quando fu introdotto il feudalesimo.


Nella geografia carolingia il territorio ligure venne denominato Litora maris ed ebbe un’amministrazione comitale, cui fu affidata la protezione delle coste e delle isole. Sappiamo che nell’806 un comes civitatis ianuensis di nome Ademaro morì in Corsica combattendo i Saraceni.

Carlo Magno aveva ereditato un territorio esposto alla pirateria, che alla fine del secolo si fece minacciosa per il covo di Frassinetum, nella baia di Saint-Tropez.In questo periodo le reliquie di San Romolo furono trasferite da Villa Matutiana, oggi Sanremo, a Genova.

Genova, che  pure risultava una città murata e sicura, nel 934 subì l’assalto ed il saccheggio di una flotta araba;quest’unica aggressione suscitò l’immediata reazione degli abitanti ed una spedizione navale annientò il nemico. Quindi si decise di passare al contrattacco, in difesa della libertà civile e religiosa.

Ora possiamo con chiarezza individuare un decisivo momento di passaggio all’età comunale:il ruolo delle città costiere cresceva e si affermava l’economia mercantile, che grazie alla navigazione assunse ben presto portata internazionale.


Navigando dalle coste iberiche al mar Nero, passando per le coste africane e la Sicilia, nell’XI secolo i Liguri iniziarono a creare monopoli di grano, zucchero, pesce essiccato, corallo, allume, mastice, ad aprire fondachi, a fondare colonie commerciali. Incredibilmente, ma non troppo, le crociate, le azioni militari, le operazioni diplomatiche, le relazioni internazionali tessute con bizantini e islamici concorsero tutte insieme ad una politica estera che assicurasse rotte commerciali. Di conseguenza si rafforzò e si esportò il modello politico, economico e sociale cittadino, creando una geografia tutta ligure, in Liguria e fuori Liguria.

Il paesaggio ligure si divideva tra la coltura promiscua, il pascolo montano ed il bosco, fondamentale per la costruzione navale. Per la scarsità di proprie risorse lo sviluppo delle città costiere fu legato tanto ai collegamenti degli approdi con l’entroterra padano ed il Nord Europa, quanto all’attività di abili commercianti che navigassero per procurarsi merci da rivendere. Naturalmente maggiori erano la rarità della merce, la lunghezza del viaggio e la difficoltà del trasporto, maggiore era l’utile. Quando si sviluppò la società mercantile si prese la via del mare. Da levante a ponente, Lerici, La Spezia, Portovenere, Levanto, Sestri, Lavagna, Chiavari, Rapallo, Portofino, Recco ,Varazze, Celle, Savona, Vado, Noli, Finale, Loano, Albenga, Laigueglia, Cervo, Diano, Oneglia, Porto Maurizio, Sanremo e Ventimiglia furono le comunità rivierasche che prosperarono con Genova fin dalla prima crociata. La sovranità di Genova lungo il golfo si affermò nei secoli attraverso alterne e complicate vicende, favorita da concessioni di autonomia e sgravi fiscali, sfavorita dal monopolio per la vendita del sale e dall’imposizione dei caratti, ovvero i tributi sul commercio marittimo.

I liguri si sparsero poi nel  mar Mediterranea e nel mar Nero. A ricchezza, emancipazione politica, espansione territoriale nel 1138 si era aggiunto il privilegio di batter moneta.  Nel corso dei secoli XIII e XIV gli insediamenti mercantili di Genova divennero sorprendenti.

Proprio di fronte a Costantinopoli c’era Pera, in greco Galata, dove il numero delle contrattazioni era pari a quello di Genova; Caffa, in Crimea, era popolata da centomila commercianti di differenti etnie ed attorno ad essa gravitavano gli altri borghi con partecipazione genovese; Trebisonda era una preziosa base navale della costa turca affacciata sul mar Nero; floridi possedimenti erano a San Giovanni d’Acri in Palestina, a Focea in Asia Minore, a Famagosta di Cipro, sulle isole di Lesbo, di Chio, di Tabarca.


Chio in un dipinto anonimo del XVI secolo(Museo Navale di Pegli).

Le colonie agivano da tramite tra economie lontane e complementari, oppure valorizzavano le risorse locali. Dalle sponde della Crimea partivano per l’Occidente sete, spezie e schiavi, da Focea l’allume, dall’isola di Chio il mastice, dall’isola di Tabarca il corallo.

Senza sottomettere la popolazione, si prendevano accordi economici con le élite locali per avere una banchina riservata nel porto prescelto e poter popolare un quartiere cittadino dotandolo di botteghe e fondachi.


Istambul: la torre sulla sommità dell’antica cittadella genovese di Pera, o Galata.

Col complicarsi dei traffici navali e dei rapporti economici tra popoli diversi,assunsero un ruolo fondamentale i notai. Non era strano che si imbarcassero nelle spedizioni militari e commerciali per relazionarne lo svolgimento e redigere eventuali atti  giuridici di efficacia esecutiva. La ricca documentazione del notariato genovese offre quindi un prezioso contributo nell’identificazione dei luoghi di scambio e delle imbarcazioni utilizzate, tratteggiando l’intenso movimento di risorse umane e commerciali che si legò alle navi genovesi.

La navigazione medievale necessitava di scali intermedi e lungo tutte le rotte commerciali sviluppò una serie di approdi ben conosciuti, un patrimonio di comuni punti di riferimento che costituì la geografia dei marinai liguri. I portolani, veri e propri manuali di navigazione, e le carte nautiche ne furono l’espressione multiforme.

Un grande geografo francese ha scritto che la nave scivola sull’acqua, i flutti divisi riprendono la propria forma ed il solco si cancella; la terra è più fedele e conserva la traccia dei cammini che per tempo gli uomini hanno calcato (Vidal de la Blache 1922); ma nel Medioevo, quando dominava la visione  teologica del mondo, le descrizioni dei portolani e i disegni delle carte nautiche furono la prima razionalizzazione della superficie terrestre.

Le rotte mediterranee erano determinate dai venti e dall’uso della bussola. Grazie alla bussola ed all’esperienza dei marinai si produssero carte di una precisione incredibile, perché il mondo veniva rappresentato dal punto di vista del navigante ed i contorni terrestri venivano disegnati dai mari.

La documentazione presente oggi nei musei è di alto livello, perché alcune preziose carte portolaniche non furono mai usate in navigazione, ma conservate come un bene pregiato.

Osserviamo che i cartografi medievali non utilizzavano determinazioni astronomiche, gradi di latitudine o longitudine, meridiani e paralleli, ma nei loro disegni compariva un fitto reticolato di rette multicolori che si intersecavano: erano il prolungamento dei raggi della rosa dei venti, posta generalmente al centro di una porzione di mare. Su questa rete il cartografo ordinava sistematicamente direzioni e distanze sui dati della propria esperienza; con l’aiuto della bussola disegnava il contorno delle coste e posizionava i luoghi, senza tener  molto conto della loro reale distanza.


Pietro Vesconte, cartografo genovese. Autoritratto (Atlas 1313,Bibliothèque Nationale de France a Parigi) e particolare della costa georgiana del Mar Nero (Carta nautica 1321, Zentralbibliothek di Zurigo).

La carta più antica che possediamo è la Carta Pisana, tracciata da un anonimo genovese nella seconda metà del XIII secolo,  rinvenuta nei dintorni di Pisa ed oggi conservata al Départment descartes et plans della Biblioteca Nazionale di Parigi. Si tratta di una carta portolanica, che dettaglia le coste ed i  porti del mar Mediterraneo, del mar Nero e dell’Europa Atlantica.

La Carta Pisana



Foto della Tabula del Mediterraneo

Al 1333 risale la Tabula del Mediterraneo firmata dal monaco genovese Giovanni di Mauro da Carignano, a lungo conservata nell’Archivio di Stato di Firenze e andata distrutta in un bombardamento del 1943. Alla prima metà del XIV secolo risalirebbe anche il cosiddetto atlante Tammar Luxoro, dal nome della famiglia genovese cui appartenne, composto da otto piccole tavole (Genova, Biblioteca Berio).


Atlante Tammar Luxoro

Sono solo alcune citazioni, ma esemplari come questi richiedono trattazioni specialistiche, sostenute da conoscenze cartografiche, nautiche, storiche, sociologiche e artistiche.

Le carte potevano avere diverse funzioni perché potevano essere degli strumenti d’orientamento, o di riconoscimento, o di sicurezza, o di pianificazione militare; inoltre nella redazione e nella lettura presupponevano saperi diversi, da quello dell’ammiraglio a quello del comandante, o del pilota, o del nostromo, o del nocchiero. Il marinaio analfabeta ricorreva invece alla cultura orale ed alle cosiddette carte mentali, come la litania della Bonna Parolla, il cosiddetto portolano sacro. Era una preghiera recitata in latino ed in genovese prima dell’imbarco ed in caso di pericolo, per chiedere il soccorso di Dio, della Madonna e dei santi patroni di alcuni luoghi, che si susseguivano formando un itinerario geografico del mondo medievale. Tra le funzioni, la Bonna Parolla univa la funzione religiosa di pregare per la salvezza della nave, degli uomini e delle merci, a quella geografica di memorizzare la successione dei luoghi. L’itinerario sacro iniziava in Egitto e toccava la Palestina, il Libano, la Siria, le isole di Cipro e di Rodi, la Crimea, la Turchia, il golfo di Tessalonica, le isole di Lesbo, di Chio e di Creta, il Peloponneso, le terre affacciate sul mar Adriatico, l’isola di Sicilia, le terre affacciate sul mar Tirreno, l’isola di Corsica, la Liguria, la Francia, la penisola Iberica, l’Inghilterra e le Fiandre. Nella parte medio orientale e adriatica l’itinerario ligure si concentrava sulle colonie genovesi e chiaramente prestava grandissima attenzione alla Liguria ed ai luoghi ad essa limitrofi.


Cartina da: Valentina Ruzzin, La Bonna Parolla. Il portolano sacro genovese, 2013

Lo scorso autunno, il percorso documentario Tutti i Genovesi del Mondo, ovvero una mostra creata con le carte conservate nell'Archivio di Stato di Genova,ha testimoniato la presenza e l’attività dei Genovesi nei mercati di tutto il bacino del Mediterraneo, dell’Estremo Oriente, dell’Inghilterra, delle Fiandre e del Mar Nero.


Particolare della locandina

I Genovesi impararono presto a disegnare i loro mari. Secondo la cronaca dell’ottava crociata, redatta nel 1270dal monaco francese Guglielmo de Nangis, ad un certo punto della navigazione i genovesi srotolarono una carta nautica davanti allo sbigottito re francese Luigi IX, per convincerlo senza troppi discorsi che erano vicini a Cagliari.

Alla fin fine, la memoria, il portolano e la carta nautica fissavano le stesse rotte ed insieme andavano a costituire quella che chiamiamo la geografia dei marinai liguri. Ma chi erano in realtà questi marinai liguri? Sarebbe forse meglio parlare di uomini di mare, perché la terminologia attuale non è in grado di esporre i numerosi ruoli svolti da ciascun navigante. Prendiamo ad esempio Benedetto Zaccaria, che nel XIII secolo percorse tutte le coste del Mediterraneo: fu ammiraglio, pirata, commerciante, imprenditore, finanziere, diplomatico, politico, spia, signore di Focea e di Chio. Per noi fu sicuramente un esperto conoscitore della geografia marittima. Vero è che nel XIV secolo la marineria ligure era capace di percorrere grandi distanze ed era rappresentata da una solida, pragmatica e consapevole classe dirigente.

Vi si aggiunsero gli esploratori. Se nel 1291 i fratelli Vivaldi scomparvero nel tentativo di circumnavigare l’Africa, anni dopo Lanzarotto Malocello e Nicoloso da Recco trovarono le Isole Canarie, mentre Luca Tarigo raggiunse il mar Caspio partendo da Caffa sul mar Nero,  attraverso il Mar d'Azov , risalendo il Don e discendendo il Volga. I Liguri frequentarono  il mondo conosciuto e si spinsero oltre, usando due mezzi differenti e complementari quali la diplomazia e la galea. Quest’ultima issò il vessillo di San Giorgio dappertutto.

In progressione serrata dal Medioevo fino a tutto il XVII secolo,la galea fu l’icona dello spregiudicato sistema commerciale mediterraneo, dove si combatteva per conquistare una posizione privilegiata sul mare. Possiamo quindi pensare ad un’età della galea? Certo, poiché questa imbarcazione caratterizzò la storia marinara di un lungo periodo,  prima di uscire lentamente dalla scena.

III) …nell’età della galea.


Cristoforo Grassi (Genova, Museo Galata)

Nell’Alto Medioevo dominarono le flotte orientali, prima quella bizantina e poi quella islamica, finché dopo il Mille comparve all’orizzonte la marineria ligure e crebbe in fretta. I commerci e le guerre non potevano rinunciare all'efficienza ed alla velocità della comunicazione marittima. Nel XII secolo, gli Annali del Caffaro e gli atti del notaio Giovanni Scriba citano la galea, la sottile imbarcazione a remi, e la navis, il veliero tondo da carico, insieme a navi di piccole dimensioni come il bucious e il golabis. La sostanziale differenza stava già tra la galea e la navis. Entrambe si evolsero nel tempo mantenendo queste caratteristiche: la prima era agile, veloce e indipendente dal vento, che poteva comunque sfruttare grazie alla presenza di alberi e vele; la seconda aveva  maggior capacità di carico e maggiore opera viva, ma dipendeva dal vento ed era più lenta.

L’espansione mercantile innescò competizioni,conflitti navali, azioni di contrabbando e di pirateria, guerre di corsa senza esclusione di colpi. In questo scenario le galee vennero utilizzate sia a scopo militare che mercantile e ben presto si trasformarono in uno strumento di dominio navale tale da disegnare la geografia europea fino all’epoca delle grandi scoperte oceaniche. Si navigava a remi  con disinvoltura, avendo ben chiaro dove ricoverarsi, nascondersi, riposare, fare rifornimento d’acqua, identificando parimenti i porti maggiori e gli scali minori.

Nel 1602, dopo che le grandi scoperte geografiche avevano sconvolto il mondo, Iacopo Vesconte Maggiolo, magister cartarum pro navigando della Repubblica di Genova, diede alle stampe una mirabile carta portolanica. Nel 2010 la Utet - De Agostini ha riedito quest’opera in tiratura limitata, per favorirne la conoscenza.  Fu questa una grande carta nautica del Mediterraneo e del  Nord Europa destinata a principi e potenti, una vera opera d’arte decorata in oro, dove a grandi caratteri svettava Genova, la capitale dei traffici e della finanza,città simbolo dell’epoca. La carta, posta su una pergamena poteva essere ruotata e letta da tutti i lati, poiché i toponimi erano scritti perpendicolari alla costa. In quei disegni, testimoni di vasta conoscenza geografica, si poteva e si può ancora leggere la grandiosa storia della Repubblica.


Iacopo Vesconte Maggiolo, carta portolanica del 1602

Iacopo Vesconte Maggiolo discendeva dalla famiglia di cartografi più importante d’Italia, una famiglia che aveva le sue origini in Rapallo, ai piedi della collina di Sant’Ambrogio.


Gli atti notarili provano che da un ramo Maggiolo di Rapallo nacque a Genova il  Vesconte Maggiolo capostipite dei cartografi. Nella Storia letteraria della Liguria (1826) Giovanni Battista Spotorno a pag. 282 scrisse: Alle glorie di Ottaviano Fregoso, doge celebratissimo, non doveva mancare quella di promuovere i buoni studi e le arti migliori. E di fatto, giunto egli alla suprema dignità della sua patria nel 1513, chiamò in Genova alcuni eccellenti ingegni...Tal fu Vesconte Maggiolo, rinomato per la sua perizia nel delineare carte geografiche e mappe nautiche. Effettivamente il doge Ottaviano Fregoso aveva chiesto a Vesconte Maggiolo, che allora lavorava a Napoli, di ricoprire l'incarico di magister cartarum pro navigando con l'obbligo di risiedere nello Stato genovese. Nel 1529 il Senato gli aveva inoltre riconosciuto la facoltà di trasmettere il suo privilegio ai figli. Vesconte Maggiolo compose atlanti, planisferi e carte nautiche del Mediterraneo con due finalità: fornire strumenti di navigazione mediterranea alla marineria genovese ed aggiornare sui progressi delle conoscenze geografiche. Fu il primo ad inserire nelle carte nautiche una miniatura dell'orbe conosciuto.

Il figlio minore Iacopo ereditò in fine l’attività paterna, concentrandosi sulle carte nautiche del mar Mediterraneo, nelle quali apportò continui aggiornamenti, con abbondanza di illustrazioni.

Osservando la carta di Iacopo Vesconte Maggiolo sorge spontanea la nostra conclusione. Mentre i toponimi infittivano i portolani e le carte nautiche, i marinai liguri continuarono a navigare con sapienza e perizia nel Mediterraneo, spesso stabilendo e modificando  le rotte per opportunità o necessità, magari allungando il percorso ed i tempi di sosta. Rimane indubbio che l’esistenza di Genova come Stato marittimo sarebbe impensabile senza la particolare geografia dei marinai liguri nell’età della galea.

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webmaster: Carlo Gatti

Rapallo, 29 Agosto 2016


 


MARINERIA NELLA ANTICA ROMA

MARINERIA NELLA ANTICA ROMA

Uno dei tanti misteri irrisolti riguardante Roma Imperiale è il capire come i romani riuscissero a costruire delle flotte di notevole consistenza in tempi incredibilmente celeri.


TRIREME


Replica di un CORVUS in primo piano


La più sorprendente flotta fu approntata nel 260 a.C. in 60 giorni dal taglio degli alberi: comprendeva 100 quinqueremi e 20 trireme che, mancando di esperienza, le copiarono dai Cartaginesi. Poi, nel 254 a.C. misero in acqua in soli tre mesi, 220 quinqueremi e durante la prima guerra Punica, costruirono ben 900 quinqueremi. Inesperti marinai, i romani specialisti sulla terra ferma, inventarono il “corvo”, passerella rostrata che agganciava il battello nemico trasformando l’arrembaggio in una battaglia “in piano”, famigliare ai legionari.

Nella seconda guerra contro Cartagine, iniziarono con 220 per passare, sotto l’impulso che diede Scipione, a 30 nuove poliremi utilizzate come scorta delle prime che erano destinate a portare tutto l’occorrente per sbarcare in Africa e distruggere Cartagine. Queste 30 le approntarono in 44 giorni dall’arrivo del legname in cantiere e, siamo nel 205 a.C.

Da lì in poi  il Mediterraneo fu veramente < Mare nostrum>. Iniziando da  Pompeo e sino ad Ottaviano Augusto (30-23 a.C.), Roma raggiunse e mantenne la completa egemonia sul mare.

Questa sorprendente potenzialità, và anche detto che molte navi erano realizzate con legname ancora fresco rivelandosi quindi di difficile governo, si pensa dipendesse dalle tecniche di assemblaggio di elementi prefabbricati ma questo non basta a spiegarne la rapidità di allestimento. Tutto fa pensare che contemporaneamente lavorassero più cantieri disseminati lungo il Tevere visto che tutte le flotte, nel III secolo, partivano o da Roma o da Ostia.

Modellino statico di una BIREME

Una bireme è un tipo di imbarcazione a vela e a remi, diffusa principalmente nell'età classica: si trattava di un'imbarcazione, prevalentemente destinata a usi militari, con la particolarità di avere una doppia fila di remi su ogni fiancata, da cui deriva il nome.

Le navi da guerra più usate furono: le BIREME, lunghe 23 metri e larghe 3, disponevano di due file di rematori seduti nella stessa panca;


Classica rappresentazione pittorica della TRIREME

la TRIREME, lunga 40 metri e larga 5,5 era la più comune, pesava 250 tonnellate e contava su 156 rematori più l’equipaggio e i militi; cosiddetta perché disponeva di tre serie di rematori.


QUADRIREMI. Cosiddetta perché disponeva di quattro ordini di rematori


QUINQUIREMI. Cosiddetta perché disponeva di cinque ordini di rematori.

la QUADRIREME, 48 metri per 8,10 con 240 rematori e infine la QUINQUIREMI, nave veloce che, per essere tale, venne costruita utilizzando una struttura più leggera del solito per cui il mare ne disfece i resti affondati senza lasciarcene reperti, e quindi non si possono sapere con precisione le proporzioni. Plinio dice che avevano  470 uomini a bordo di cui 300 rematori, 120 armati e 50 membri dell’equipaggio. Per essere veloci pescavano attorno al metro. Và anche detto che i rematori, all’epoca, non erano schiavi ma stipendiati, reclutati nelle classi più povere, la quinta e non incatenati e, solo eventualmente se carenti, rinforzati con galeotti o schiavi.

Ma  torniamo all’importanza e alla costruzione delle navi.P er il commercio e l’approvvigionamento alimentare dell’Impero, si utilizzavano, oltre alle navi dei fornitori stranieri,  anche e soprattutto le  proprie navi ‘onerarie’. Tondeggianti, pescavano circa 3 metri ed erano di varie dimensioni, oggi ben documentate negli interessanti Musei archeologici in cui sono custoditi tutti i reperti rinvenuti, frutto di campagne di ricerche subacquee.

In genere erano galere a propulsione mista, cioè remi e vele quadre che venivano issate su di un albero, o due o tre a seconda della capacità di trasporto delle navi stesse. Una apposita flottiglia era dedicata esclusivamente ad approvvigionare il grano proveniente dalle varie regioni mediterranee.

Chi faceva giungere derrate dalle 70 tonnellate in su, godeva di vantaggi concessi da Roma sui canoni di noleggio, pur di essere approvvigionata. E’ ragionevole stimare che la stessa fosse abitata, mediamente, da circa 800.000 persone e che tutti i giorni venissero distribuiti quasi gratis a pressoché 650.000 persone, sia il frumento che la carne di maiale. Sotto i vari Imperatori, i “beneficiari” e le “quantità”variavano a seconda del consenso che il Governante di turno desiderava ricavarne. Facile quindi immaginare la quantità di derrate che dovevano arrivare a Roma tutti i giorni perché non tutte erano immagazzinabili; ci si nutriva con legumi, cereali, grano e farro; ortaggi, frutta, vino e olio che giungeva da tutto il Mediterraneo; basti pensare che la collina dell’attuale Parco del Testaccio, al Porto di Ripa Grande ( Emporium), è sorta a furia di accumularvi i cocci di 25 milioni di anfore utilizzate per trasportare grano, olio e semiliquidi da Ostia a Roma, risalendo il Tevere con barconi trainati da bufali. Molto presente la  carne suina, caprina e ovina in genere allevata in zona (agro pontino) oltre alla selvaggina quali il ghiro o l’asino selvatico, passando per i cinghiali e le lepri; molto presenti le costose spezie orientali già allora provenienti dalla Persia o dall’India. La carne bovina, da prima ritenuta di animale sacro e poi da lavoro, era poco utilizzata. C’era un grande consumo di oche, polli, uova e piccoli volatili; non mancava il consumo di latte di capra ma molto meno quello di vacca. Il dolcificante era il miele; il pesce lo si gustava sia che fosse d’acqua dolce che di mare. Con un tale consumo di derrate alimentari, l’efficienza della flotta aveva un’importanza vitale perché molte merci, specie le più “sofisticate”, arrivavano alle banchine di carico dalle più svariate parti del mondo conosciuto, magari attraversando deserti a dorso di cammello, passando persino da quelle zone sconosciute ai Romani e che loro  indicavano con <hic sunt leones>.

La mancanza degli attuali mezzi di conservazione obbligava a consumare presto certe derrate che dovevano quindi arrivare subito all’Urbe.

MADRAGUE DE GIENS 75 - 60 a. C. - Scoperto nel 1967 in Francia. A circa 20 metri di profondità, a largo della Penisola di Giens, in Francia. Ha una lunghezza di 40 metri e larga 9 metri per un’altezza di 4,5 metri. Lo scavo, durato dieci anni iniziato nel 1972, è stato portato avanti con estrema precisione e rigore scientifico, da Patrice Pomey e Andrè Tchernia. La nave poteva contenere 7000-8000 anfore, come grandezza fino ad ora è seconda solo alla nave di Albenga. È accertato che la nave fu visitata in antico probabilmente ...

Si ha testimonianza nel Museo di Madrague de Giens, Francia, del recupero di una imbarcazione lunga 40 metri da 400 tonnellate contenente 10.000 anfore per il trasporto dell’olio, del vino o del rinomato sugo di pesce (Garum) provenienti dalla Spagna, per un carico pari a 500 tonnellate; per altro oneraria del tutto simile alla nave “A” romana di Albenga; oggi diremmo <della stessa “classe”>. La propulsione era esclusivamente a vela. Va tenuto presente che le speciali anfore utilizzate, a che non si frantumassero con i marosi, venivano appilate e infilate con il “piede”, la parte terminale, fra i colli e le anse di quelle poste al di sotto e poi il tutto stabilizzato con sabbia: immaginarsi quindi il peso complessivo e la difficile manovrabilità di quelle “super” panciute navi. Siccome la navigazione era preferibilmente a vista lungo le coste, in presenza di improvvise tempeste o ventolate, e la rotta proprio quella zona piena di capi percorreva,  era facile essere sbattuti dal libeccio o dal maestrale contro gli scogli; da lì i tanti reperti subacquei disseminati lungo quella rotta.

Si ha descrizione di navi ancora più grandi, tanto da non potere navigare lungo il Tevere e addirittura presentavano difficoltà a ormeggiarsi persino nei due porti che Roma si costruì ad Ostia: quello di Claudio prima ed il successivo di Traiano, un vero gioiello esagonale (vedere: Storia Navale- Articoli Storia n° 101). Si sa che è esistita una nave attrezzata per portare l’obelisco di Caligola (1.500 ton.) e altre grandi, costruite per specifici trasporti speciali. Le imbarcazioni erano realizzate, lo abbiamo visto, con legnami a volte non ancora stagionati, ma tutte terribilmente “massicce” per resistere ai marosi. Così costruite non potevano che avere limitate velocità; infatti viaggiavano sui 4/5 nodi che consentivano di raggiungere Alessandria  in 6 giorni e l‘Africa, da Ostia, in 2 giorni.

Ma torniamo alla cantieristica. E’ evidente che, data la difficoltà dei trasporti via terra, di solito trainati da lenti buoi e per facilitarne i vari, i cantieri venissero approntati lungo i fiumi e nel nostro caso il Tevere o il Nera suo affluente mentre il legname per gli scafi veniva ricavato dai vicini boschi; l’Italia all’epoca era tutta un bosco. Unica eccezione i remi e gli alberi delle navi. Di solito i primi venivano fatti altrove per la  facilità di trovare colà il legno idoneo e gli alberi perché dovevano essere alti e diritti, tipico delle piante che crescono nei folti boschi di montagna dove  si “allungano” per raggiungere il sole.

La struttura del Cantiere Navale di Stifone di Narni


Cantiere Navale Romano (di Stifone di Narni)

In tempi recenti gli archeologi hanno individuato spazi per cantieri in un sito lungo il Nera e poco discosto da Narni, l’antica colonia romana chiamata Narnia, a conferma e testimonianza che molti erano i cantieri che costruivano le navi tutto lungo il Tevere.

Questa simultaneità di costruzione mi fa venire in mente la realizzazione delle mitiche Liberty nell’ultima guerra e che poi fecero la fortuna di tanti nostri armatori; gli Americani riuscirono a produrne tante perché incaricarono più cantieri di costruirle.

Anche Giulio Cesare quando, nel 49 a.C., dovendo sottomettere Marsiglia che era proprio sulla strada per la Spagna e che godeva o, meglio, abusava di precedenti accordi con Roma e della amicizia con Pompeo Magno, suo grande nemico, decise di dare vita ad un cantiere navale per assediarla anche via mare, visto che nel precedente tentativo essa si salvò proprio grazie al mare non ostacolato. Ne costruì uno sul Rodano per realizzarvi la flotta necessaria. Poi, sconfitta Marsiglia, verso la quale si dimostrò generoso, era pur sempre sulla strada per la Spagna, andò a Roma per sistemare una volta per tutte le cose: e ci riuscì oltrepassando il famoso Rubicone, dal Senato considerato confine invalicabile se armati, perché questo gesto sarebbe stato considerato un imperdonabile affronto  da Roma.

Recenti studi e ricerche d’archivio tendono invece a indicare la piana di Voltri-Pra come sito che lui individuò al posto di quello sul fiume francese. Il sito alle spalle è collinoso e, a quel tempo, ricoperto di boschi che potevano garantire legna per le costruzioni  e da Masone si vuole giungessero le alte piante da utilizzare per fare gli alberi. Si narra che costruì navi atte a trainare dei barconi/chiatte che riempì di cavalli e attrezzature e partì per Marsiglia. Questa volta, capito il punto di forza di quella Città, fu proprio neutralizzando quello che la conquistò.

Cosa ci sia di vero in questa affascinante ipotesi, non saprei; certo l’idea è esaltante specie per me che sono “prain”, (di Prà), ma purtroppo contrasta con la confermata abitudine di far sorgere cantieri lungo i fiumi e non con davanti il mare aperto senza il riparo di un porto. Oltretutto per arrivare poi ad assediare la Città avrebbe dovuto doppiare tutto l’Esterel e i successivi Capi, spesso battuti da improvvisi e indomabili “Mistralate”; il Rodano sfocia invece proprio in faccia a Marsiglia. Stiamo parlando del temuto, ancor oggi, Golfo del  Leone.

Certo che più si studiano i romani e maggiore è l’ammirazione per la  loro  genialità e capacità organizzativa.

Renzo BAGNASCO

Fratello della Costa "Bareno".

Disegni e foto di Carlo GATTI

Rapallo, 19 agosto 2016

 


CONSIDERAZIONI SU DRAGUT

CONSIDERAZIONI su DRAGUT


Nella rilettura del libro che Emilio Carta ha scritto sul “pirata” Dragut, ancora una volta ci si è soffermati sugli aspetti militari e non si è evidenziato quello religioso delle varie fedi in quel periodo storico.

Le tre Religioni Monoteiste, l’Islam, il Giudaismo e il Cristianesimo, nate tutte sulle parole e sull’operato dei profeti e messaggeri di Dio, sono basate sulla tolleranza e il rispetto delle religioni altrui.

Gli uomini poi nei vari secoli, l’attuale compreso, le hanno “piegate” al loro tornaconto personale e al potere che poteva derivarne se opportunamente manipolate, fuorviandone le finalità. Ne è prova che tutte siano di origine divine, il fatto che gli uomini passano ma loro no.


All’epoca del Dragut l’Islam era tollerante tanto che se i rapiti dai pirati e poi non riscattati nei luoghi esibiti nella vicinanze dei loro paesi, venivano portati e venduti come schiavi in Nord Africa, se cattolici restavano in stato di schiavitù dal punto di vista fisico ma liberi di professare le rispettive religioni. Lo dimostra il fatto che i sacerdoti o i monaci, pur essi rapiti nelle varie razzie, una volta a Tunisi o ad Algeri o altrove potevano, la Domenica, celebrare Messa a conforto dei cristiani cola’ prigionieri: era sufficiente devolvessero ai loro “padroni”, parte delle offerte raccolte.

Di contro la Chiesa Cattolica, che vedeva che molti suoi fedeli, durante la prigionia, abbracciavano la fede islamica, cercava di contrastare queste improvvise vocazioni. Per certo un ruolo importante lo giocava il fatto che, una volta abiurata la vecchia fede per abbracciare la nuova, il “convertito” poteva godere di tutti i diritti degli Islamici. Cessava la schiavitù e poteva esercitare qualsiasi attività alla pari degli Arabi sino, se erano in gamba, ad inserirsi e risalire nella gerarchia locale. Alcuni, lo abbiamo visto, divennero Capi  in quei paesi.

A fronte di questa tolleranza Islamica, la Chiesa Cattolica, seguiva la linea del Diritto che si era imposta, dimenticandosi del comportamento di Cristo e di quanto predica il Vangelo. Se un cristiano, una volta fuggito e liberatosi dalla schiavitù tornava alla sua fede originale, Essa stessa anziché ricordarsi del buon Pastore che lascia le 99 pecore per cercare quella smarrita o far festa per il ritorno del figliol prodigo, sottoponeva il “ritornato “ ai soliti suoi processi, basati su leggi che essa stessa e non il Cristo, si era data per mantenere il suo potere temporale e le cose spesso si volgevano al peggio per il malcapitato che aveva a fatica ripreso la propria liberta’.


Quando il Profeta Maometto dovette abbandonare la Mecca a seguito di difficolta’ e opposizioni sempre crescenti ed emigrò a Medina, trovò in quella citta’, oltre ai suoi fedeli, anche moltissimi ebrei che non cercò di convertire anzi, stipulò con loro accordi di pace  e non li chiamò “infedeli” ma <ahlul kitab> cioè ‘Gente del libro’. Nonostante le torture che i suoi seguaci subirono, il Profeta trattò  sempre con tolleranza i miscredenti di Mecca. A tale proposito ci resta un pezzo della sua cultura alla tolleranza in un breve capitolo della <rivelazione>. Quando scrisse ai vari Paesi confinanti, non li minacciò di aggressione militare nell’ipotesi non avessero accettato il messaggio dell’Islam. La lettera al Re cristiano di Abissinia ne è testimonianza, diceva <Io ho trasmesso il messaggio ed ora spetta a voi accettarlo. Una volta ancora, pace su colui che segue la vera guida>.

Certo oggi, come capitò a noi cristiani quando nel medio evo, assetati di potere, cercammo di piegare la religione a nostro vantaggio (Dio lo vuole !) i suoi seguaci, per fortuna non tutti, abusano pur di sfogare il loro odio contro chi gli sottrae seguaci e dimostra alla storia che l’oscurantismo becero che loro professano, non fa fare progressi.  Cancellano così una loro cultura importante, per tornare in dietro di secoli.

L’altro aspetto che mi premeva sottolineare è l’idea che i Pirati, assetati solo di schiavi da vendere e meno alle povere merci che arredavano le case del popolino in quei tempi, assalissero le Chiese per odio religioso: niente di più fuorviante.

Per antica consuetudine, sempre rispettata da tutti gli eserciti, le chiese erano territori inviolabili. Anche qui và precisato che questa norma non scritta era voluta dai vari capi  perché era loro convenienza non inimicarsi il Papa che, all’epoca, fungeva da Tribunale Supremo a cui tutti i  Regnanti si rivolgevano a che mediasse fra le loro liti.


La basilica nel XVIII secolo in un disegno-stampa di Gio Bono Ferrari

Forti di questa consolidata esperienza le donne, le più ricercate dai rapitori, fuggivano nelle Chiese locali, (a proposito: la Basilica di Rapallo all’epoca era limitata all’attuale abside) portando con se quelle poche gioie di casa mentre gli uomini o fuggivano o erano a tentare di sottrarre più che difendere, disarmati come erano, la Citta’ e con essa le loro case. Le donne in quel luogo Sacro si ritenevano al sicuro. Ben presto i Pirati capirono questo meccanismo e così, assalendo le chiese, prendevano in un sol colpo donne e preziosi. Non rispettando la, per loro sconosciuta, inviolabilità le assalivano. I loro Capi, i vari Sultani, non si servivano del Papa per derimere le loro controversie, che risolvevano ogni volta con bagni di sangue.


Bartolomeo Maggiocco, effigiato in un dipinto che decora l'aula consiliare, verrà sempre ricordato per questo gesto e meriterà anche l'intitolazione d'una strada.

Un’ultima constatazione. Come la storia cambia a seconda di chi la “rilegge”. Il Magiocco, l’eroe locale, quando il Dragut assalì la citta’ non corse sulla spiaggia o fra i vicoli a combattere gli invasori, ma  si precipitò a prendere la sua ragazza per fuggire in altura, zona che ai pirati non interessava. Con questo non edificante episodio, abbiamo trasformato in eroe difensore della Patria, un giovane innamorato e veloce di gamba.

E’ per questo che i più accorti evitano di fare atti eroici e pensano invece a salvare la pelle. La storia insegna che, dopo,  se sei vivo conti ma se muori, al di la’ della medaglia, non resta altro.

Oggi la strada che, costeggiando il San Francesco, porta in altura, è intestata appunto a lui: decisione subliminale ??

Renzo BAGNASCO

Rapallo, 20 luglio 2016