IL RADDOPPIO DEL CANALE DI SUEZ

IL RADDOPPIO DEL CANALE DI SUEZ

 

 

 

Vista satellitare del Canale di Suez

 

 

Un po’ di storia

 

 

Il bisogno di collegare il Mediterraneo con il Mar Rosso fu soddisfatto per la prima volta dagli antichi egizi, circa quattromila anni fa, con l’apertura di un’altra via d’acqua, che collegava il braccio più orientale del Delta del Nilo con il Grande Lago Amaro e questo con il Golfo di Suez. Di un collegamento diretto fra i due mari si cominciò a discutere prima a Venezia, nel Cinquecento, poi, nei due secoli successivi, in Francia. Fu anche allo scopo di esaminare sul posto il problema che il Direttorio inviò Napoleone in Egitto nel 1799, ma l’ingegnere incaricato dello studio, Charles le Père, scrisse nella relazione che l’idea era irrealizzabile, a causa di un presunto dislivello di dieci metri fra i due mari. L’errore fu corretto mezzo secolo dopo da un altro ingegnere francese, M.L. Linant de Bellefonds, il quale dimostrò che in realtà il dislivello era di scarsa importanza. Così il «sogno» millenario tornò di attualità. Uno dei tecnici che con più passione si dedicò alla realizzazione del progetto fu un ingegnere italiano, Luigi Negrelli di Moldelba, nato nel Trentino e perciò suddito austriaco. Grande tecnico ferroviario e idraulico, realizzatore di opere importanti in Austria, Italia, Svizzera, Germania, il Negrelli studiò il problema dal 1838 al 1858, anno della sua morte, redigendo, insieme con esperti di varie nazionalità, compreso il piemontese Pietro Paleocapa, ministro dei Lavori pubblici del Regno Sabauda, i piani con cui la via d’acqua fu poi effettivamente realizzata da Lesseps. Geniale avventuriero, Lesseps riuscì a persuadere il pascià d’Egitto Mohammed Said della possibilità e necessità di aprire il canale, che fu scavato in dieci anni (dal 25 aprile 1859 al 17 novembre 1869) da una compagnia internazionale con capitali francesi ed egiziani.

 


 

Il canale, costato il doppio delle stime originali, era di proprietà del governo egiziano (44%) e della Francia (attraverso più di 20.000 azionisti), mentre altre grandi potenze si mostrarono molto scettiche sulla redditività dell'opera. La prima nave attraversò il canale il 17 febbraio 1867, ma l’inaugurazione dello stesso avvenne il 17 novembre 1869 alla presenza dell'Imperatrice Eugenia con una cerimonia sfarzosa, per la quale Johann Strauss jr compose la Egyptischer Marsch (Marcia egizia). Per l'inaugurazione, il Kdivé d'Egitto aveva chiesto a Giuseppe Verdi di comporre un inno, ma Verdi, restio a comporre musica d'occasione, aveva rifiutato; i contatti con Verdi comunque continuarono, e culminarono nella composizione dell'AIDA, andata in scena al Teatro Khediviale dell'Opera del Cairo il 24 dicembre del 1871.

 

Inaugurato con fastose cerimonie, il canale misurava all’epoca 161 km di lunghezza, da 70 a 110 metri di larghezza alla superficie, 45 metri alla profondità navigabile e 32 metri a livello del fondo piatto; il pescaggio massimo era di 11 metri e mezzo; il limite di velocità (negli anni Trenta e Quaranta di questo secolo) era di 10 km all’ora. Il transito richiedeva circa 18 ore. In base alla convenzione internazionale di Istanbul, il canale fu dichiarato «neutrale», nel senso che tutti potevano usarlo, «in pace o in guerra, senza distinzione di bandiera. Controllato militarmente dagli inglesi dal 1882 al 1954, nazionalizzato da Nasser il 26 luglio 1956, con un anticipo di 13 anni rispetto alla scadenza della concessione di 99 anni, il Canale di Suez fu chiuso due volte: dal 29/30 ottobre 1956 all’aprile 1957, in seguito alla triplice aggressione anglo-franco-israeliana, e dal 5 giugno 1967 al 5 giugno 1975 a causa della «guerra dei sei giorni».

 

Fu poi notevolmente ampliato, in modo da poter accogliere petroliere da 260 mila tonnellate a pieno carico e da 370 mila scariche. Le nuove misure sono le seguenti: larghezza alla superficie da 193 a 352 metri; sul fondo 107; pescaggio massimo 16 metri e mezzo. Il transito dura circa 15 ore.

 

 

Il Canale di Suez nel 2015

 

 

Egitto, pronto il nuovo canale di Suez: un'opera faraonica voluta da al-Sisi

 

 

Tutto è pronto per domani. L'Egitto si prepara all'inaugurazione del nuovo tratto del Canale di Suez. Le misure di sicurezza sono state rafforzate in tutto il Paese. Per questa giornata speciale si potrà viaggiare gratuitamente in treno. L'annuncio è arrivato dal ministro dei Trasporti, Hany Dahy, che ha così voluto «ringraziare» i cittadini che hanno finanziato il progetto. Oltre ai treni, sarà gratuito anche il servizio ferroviario metropolitano nei governatorati del Cairo e di Giza. Una fastosa cerimonia alla presenza del presidente Abdel Fattah al-Sisi. Per l'occasione sono stati mobilitati più di 10mila poliziotti e soldati, compresi quelli dei reparti speciali.

 

 

Opera maestosa. Questa grande opera è considerato un vero e proprio dono dell'Egitto al mondo. A 146 anni dalla costruzione del Canale di Suez, si realizza un sogno: il raddoppio di una parte del tratto esistente, grazie ad un canale parallelo, che velocizzerà il traffico rilanciando l'economia del Paese. Una vera opera faraonica voluta dal presidente al-Sisi e costruita a tempo di record, in un solo anno. Decine di capi di Stato e di governo, re e principi, emiri e governatori sono stati invitati ad assistere domani all'inaugurazione di questa nuova autostrada del mare. Maestosa la cerimonia con il presidente al-Sisi che attraverserà la seconda via acquatica sullo yacht Mahroussa, la prima nave che navigò nello storico passaggio nel lontano 1869, studiato da Ferdinando Lesseps e realizzato da Alberto Negrelli. A bordo vi saranno le delegazioni dei diversi Paesi.

 

 

Dall'acqua al cielo, dove alcuni F16 sorvoleranno l'area con una dimostrazione aerea. Poi l'entrata in funzione effettiva del tratto seguito dal suono delle sirene che risuoneranno in vari porti del mondo. Una lunga giornata di festa, con fuochi d'artificio e performance di folklore locale, che si concluderà con un concerto della marcia trionfale dell'Aida, opera che fu commissionata dal vicerè d'Egitto, Ismail Pascià a Giuseppe Verdi in occasione dell'apertura del Canale sul finire del XIX secolo ma mai eseguita in quella occasione, bensì due anni dopo. Da settimane i principali quotidiani del Paese esaltano l'opera e parlano di uno «storico» evento, mettendo in evidenza come il progetto, «leggendario e mitico» rilancerà l'economia, con ricadute positive sull'occupazione. Nazionalismo e orgoglio anche sui social media con numerosi cinguettii: «Siamo i nuovi faraoni, facciamo miracoli» o «Scriviamo la storia».

 

 

Il Canale si allunga per 72 km: un nuovo tratto di 35 chilometri parallelo a quello esistente, oltre all'ampliamento e all'approfondimento dell'attuale per una tratta di 37 km. Un lavoro considerato necessario. Il Canale era diventato inadeguato perché non vi potevano transitare le gigantesche

superpetroliere e i mercantili erano costretti a lunghe attese prima di poterlo percorrere. Lo scopo è velocizzare il transito, diminuendo i tempi di percorrenza attraverso la riduzione dei tratti a senso unico alternato e raddoppiando il traffico giornaliero. Si prevede che farà salire gli incassi dei moli dai 5,3 miliardi di dollari attuali a 13,2 nel 2023, portando vantaggi ai trasporti mondiali. Il costo stimato del progetto è di 8,2 miliardi di dollari. Oltre al raddoppio il piano prevede la costruzione di porti, di una zona industriale, con cantieri navali per riparazioni e altre strutture. Tantissimi egiziani hanno risposto un anno fa all'appello del governo del Cairo a finanziare il progetto e in soli otto giorni sono stati raccolti 6,5 miliardi di dollari tramite la vendita di obbligazioni. Secondo alcuni studi entro il 2050 il nuovo Canale potrebbe garantire all'economia egiziana fino al 35% delle sue risorse.

 

 

Con il raddoppio del Canale aumenterà la centralità del Mediterraneo. Sarà questo, secondo l'Osservatorio di Srm sui trasporti marittimi e la logistica, l'effetto dell'apertura del nuovo Canale di Suez, che sarà inaugurato giovedì 6 agosto, sulle rotte marittime. Nel Mediterraneo, infatti, circola già il 19% del traffico mondiale di merci ed i traffici sonoaumentati negli ultimi 15 anni di oltre il 120%. Nell'area inoltre vanno insistendo importanti investimenti portuali nelle varie nazioni del bacino, come Tanger Med, Pireo, Algesiras e Valencia. Tra il 2000 e il 2014 il trend di traffico del Canale ha visto registrare un aumento di oltre il 120% delle merci transitate, valore che sale +202% se si considerano solo i traffici container; (+187% nella direzione Nord-Sud e +219% nella direzione Sud-Nord). Il Raddoppio del Canale consentirà l'aumento del numero di navi di passaggio da 49 a 97 navi al giorno e la diminuzione del tempo di transito da 18 ore a 11 ore; inoltre, a differenza del Canale di Panama che manterrà anche dopo i lavori di ampiamento il limite delle navi da 13.000-14.500 container, il Canale di Suez non ha limiti nella dimensione delle navi che possono transitare. La combinazione di questi tre fattori (diminuzione dei tempi, aumento del numero dei passaggi e nessun limite dimensionale) aumenterà la convenienza di passaggio attraverso Suez anche per alcune rotte dall'Asia verso la costa occidentale degli Stati Uniti che attualmente usano Panama.

 

 

 

In questa foto si nota il raddoppio del Canale

 

I numeri del secondo canale

Un progetto che avrebbe dovuto essere completato in tre anni ma che il Al-Sisi ha voluto venisse terminato in meno di uno. E così è stato: 72 chilometri resi operativi in meno di dodici mesi, anche grazie all'entusiasmo della comunità industriale e finanziaria locale che in appena otto giorni ha messo a disposizione gli 8,5 miliardi di dollari necessari per la costruzione del passaggio. Il primo Canale di Suez, inaugurato nell'ormai lontano 1869 , è stato costruito in dieci anni.

 

Carlo GATTI

 

Rapallo, 28 Agosto 2015

 

 


SYRAKOSIA: Gigantismo dell'Antichità

SYRAKOSIA

Gigantismo Navale nell’antichità

Modello del SYRAKOSIA

Il re di Siracusa Ierone II, a dimostrazione della prosperità del suo regno, fece costruire, nei cantieri navali siracusani intorno al 240 a.C., quella che a tutto oggi è ritenuta la più grande Nave dell’antichità. Di questa Nave hanno scritto molti autori attingendo tutti alla medesima ed unica fonte, quella che Ateneo erudito enciclopedista ci ha fatto pervenire con il suo capolavoro: I Deipnosofisti, cioè I Dotti a Banchetto, fortunatamente e fortunosamente sopravvissuto sino ai nostri giorni.

Il trattato rappresenta un’opera importantissima che non è esagerato definire enciclopedica, nella quale si conservano la maggior parte dei frammenti della commedia attica media e nuova, e copiosissimi resti di storiografia greca, e rarità di ogni genere, oggi fondamentali per conoscere la cultura greca.

Ierone di Siracusa, amico incondizionato dei Romani, era anche un ambizioso armatore che costruiva navi da trasporto oltre che templi e ginnasi, infatti  fu proprio lui a rivolgersi ad Archimede per la costruzione della famosa nave di cui oggi ci occupiamo.

La Syrakosia in un dipinto del 1798 – In servizio con Gerone II – Tolomeo III

Lunghezza: 110 mt. – Capacità: 1000 tonnelate di carico – Equipaggio: 400 soldati, 100 passeggeri

Artiglieria: 1 balista – 2 catapulte

(senza fonte precisa)

La grandiosa nave Syrakosia, (Siracusana), che Archimede progettò per Ierone II.

Si tratta della più grandiosa nave dell'antichità. La descrizione del Syrakosia, scritta dall’antico costruttore navale Moschione, fu inserita insieme a tantissimi resti di storiografia greca, da Ateneo (II-III sec. d.C.) ne "I Deipnosofisti" (I Dotti a banchetto). La conferma che si tratta della più grande nave dell'antichità, ci viene da Lionel Casson, dell'Università di New York, il quale ne stima la portata in 4.000 tonnellate, superata soltanto da navi costruite nel XIX secolo, quando si utilizzò ferro e acciaio per costruire le stive. La Syrakosia era, quasi certamente, un catamarano, ed il progetto di Archimede, nell'anno 240 a.C., venne affidato, per la realizzazione, ad Archia di Corinto, a Moschione e ad un certo Filea di Taormina.

Alcuni dati tecnici

Moschione ci racconta: “Per costruire questa vera e propria città galleggiante, gran parte del legno arrivò dai boschi dell'Etna, per la corda, sparto dall'Iberia, mentre la canapa e la pece arrivarono dal Rodano. Per i lavori vennero impiegati 300 artigiani e tantissimi aiutanti, che lavorarono i necessari materiali. La Syrakosia, che mostrava al mondo la potenza ed il benessere di Siracusa, disponeva di venti banchi di remi. La cabina del capitano aveva 15 divani e tre camere. Tutte avevano un pavimento a quadrelli di mosaico, fatti di pietre diverse, ove era ricostruito tutto il racconto dell'Iliade. Sulla nave erano stati impiantati anche dei giardini, formati da centinaia di piante, contenute in giare ed irrigate da sentieri di tegole di piombo.

C'era anche un padiglione dedicato ad Afrodite e gran parte delle porte erano in avorio e tuia. Tutte le camere interne erano arredate con quadri, statue, calici e suppellettili oltre ogni immaginazione. Una sala era adibita a biblioteca e sul soffitto di questa sala era disegnata una volta celeste, copia fedele dell'eliotropio di Acradina. Nel bagno realizzato in marmo di Tauromenio, vi erano tre caldaie di bronzo. Tantissime stanze erano riservate ai circa 600 soldati che trasportava ed altro spazio della nave era riservata alle dieci scuderie, contenenti i cavalli, gli attrezzi dei cavalieri. Si trovava anche un serbatoio d'acqua a prua dalla capacità di 2000 metri e nei pressi del serbatoio c'era una peschiera chiusa, piena di acqua di mare e tanti pesci. C'erano 4 àncore di legno e otto di ferro, c'erano, poi, 8 torri e su ognuna montavano 4 giovani con armatura pesante e due arcieri. Sui tre alberi si trovano degli uomini a cui, in cesti intrecciati, erano affidati pietre e proiettili. Infatti, la Syrakosia, benchè sia stata varata come nave mercantile, era equipaggiata anche come nave da guerra e conteneva diverse macchine belliche inventate da Archimede. L'equipaggiamento da guerra era necessario per fare fronte ai pirati che infestavano il Mediterraneo. Poteva trasportare 60 mila misure di grano, 10 mila vasi di pesce siculo sotto sale, 20 mila talenti di lana e 20 mila di altra merce. Soltanto che la Syrakosia fu vittima della sua stessa grandezza. Infatti, non tutti i porti dell'antichità erano attrezzati per ospitarla e quindi, Ierone decise di disafarsene. In occasione di un periodo di carestia in Egitto, la riempì di grano e decise di spedirla in dono al re Tolomeo, ad Alessandria. Qui, venne tirata a secco e si concluse la storia della più grande nave che nell'antichità abbia solcato il Mediterraneo. Archimelo, il poeta degli epigrammi, scrisse un carme per ricompensare Ierone: ‘Chi portò a terra questa nave, questo prodigio?... Già, dice, fu Ierone di Ierocle che a tutta la Grecia e alle isole in dono portò ricche messi, quello che ha lo scettro di Sicilia, il Dorico. Ma, Posidone, custodisci tu questa nave sul bianco fragore dei flutti".

Archia di Corinto quale direttore dei lavori. Dalla storiografia confluita in Ateneo sappiamo che Archimede, nel suo ruolo di epóptes (soprintendente ai lavori), programmò la costruzione della nave in due fasi:

1) - Il varo al termine dei primi sei mesi di lavoro, cioè al completamento dell’opera viva, quando lo scafo sarebbe stato ancora privo degli allestimenti e delle sovrastrutture dell’opera morta e soprattutto quando la stabilità (altezza metacentrica) dello scafo avrebbe garantito un equilibrio idrostatico perfetto.

2) – La fase successiva al varo, prevedeva altri sei mesi di cantiere in mare, da dedicare all’opera morta distribuita su tre ponti con sfarzosi allestimenti interni e imponenti attrezzature belliche.

La nave disponeva di venti banchi di remi, con tre passaggi: il più basso portava al carico, e vi si accedeva da una rampa di scale dritta; il secondo passaggio consentiva l'accesso alle cabine; dopo di questo l'ultimo, per gli amanti. Dal passaggio mediano, lungo i fianchi, vi erano trenta cabine per gli uomini, ognuna delle quali con quattro divani. La cabina del capitano aveva tre camere con tre divani, di cui quella di poppa era adibita a cucina. Tutte le cabine avevano un pavimento a mosaico, che ricostruiva tutto il racconto dell'Iliade, realizzato con pietre diverse. All'altezza del passaggio più alto c'erano una palestra e dei giardini ricchi di piante, irrigati da sentieri di tegole in piombo coperti, e fondali di edera bianca e viti, le cui radici affondavano in giare riempite di terra e irrigate con lo stesso sistema di tegole. Accanto vi era il padiglione di Afrodite, con tre divani, un pavimento in gemme d'agata e altre, tutte preziose. I fianchi e il soffitto del padiglione erano realizzati in cipresso, le porte di avorio e tuia. Quadri, statue e suppellettili adornavano l'ambiente. Accanto una sala studio con biblioteca era arredata con cinque divani. I fianchi e le prte erano in bosso, sul soffitto vi era una volta celeste, copia fedele dell'eliotropi di Acradina. E ancora un bagno a tre divani con tre caldaie in bronzo e una tinozza. Erano state costruite anche diverse stanze per i soldati di bordo e per le guardie. Su ogni fianco erano infine dieci scuderie, ed in corrispondenza di queste, le provviste per i cavalli e gli attrezzi per servi e cavalieri. A prua c'era anche un serbatoio d'acqua, fatto di assi con pece e pezze di lino, dalla capacità di 2000 litri.

L'imbarcazione era talmente complessa e organizzata da possedere una giurisdizione speciale per i crimini commessi a bordo, giudicati da un tribunale costituito dal naukléros , dal kybernétes e dal proréus, secondo le leggi di Siracusa.

La grandiosa imbarcazione fu concepita come una vera e propria domus aurea galleggiante, la cui magnificenza conclude l’iter della fervida attività cantieristica siracusana; venne battezzata con il nome di Syrakosía e donata a Tolomeo Filadelfo (!?) con il nome di Alexandrís.

Un’altra versione modellistica della Syrakosia

La "Syrakosia", progettata e realizzata nei cantieri navali siracusani, è la nave fatta costruire da Ierone II intorno al 240 a.C., a dimostrazione della prosperità del suo regno.

 

Carlo GATTI

Rapallo, 26 Agosto 2015


GIGANTISMO NAVALE - Un sogno che viene da lontano

“GIGANTISMO NAVALE”

 

Un sogno che viene da lontano ...

 

JAHRE VIKING

Ecco come si presenta la nave più grande del mondo! “L’opera viva”, cioé la parte immersa della nave s’aggira sui 30 metri d’altezza o giù di lì. È una superpetroliera che, ovviamente, non è in grado di navigare nella Manica e neppure nei canali di Suez e Panama. Nessun porto al mondo é in grado di ospitarla, la supernave può ormeggiare soltanto in certe rade provviste d’impianti particolari. Lo stesso problema si ripropone oggigiorno con  le grandi navi porta container di 400 metri di lunghezza che continuano ad essere varate ignorando i limiti strutturali e logistici della portualità mondiale: “E ora dove la metto?” Pare sia questa la domanda che ricorre più frequentemente nelle calate dei nostri porti d’impianto medievale. Ma oggi ci occupiamo d’altro!

 

ll primato di ‘nave più grande al mondo’ lo detiene la super petroliera JAHRE VIKING che oggi non è più in circolazione. Questa nave nel corso degli anni ha cambiato diversi nomi: la sua costruzione è iniziata nel 1979 con il nome Knock Nevis, poi, prima ancora di esser stata ultimata, diventò Seawise Giant. Il nuovo proprietario la fece allungare e raggiunse le dimensioni che ancora oggi le garantiscono il primato: si parla di una lunghezza di 458 metri, larghezza di 69 metri e una portata lorda di 564.763 tonnellate. Dal 1986 al 1989 fu impiegata come nave magazzino nella guerra tra Iran e Iraq e in quegli anni fu pesantemente danneggiata dalle bombe. Nel 2010 venne demolita in India.

GREAT EASTERN

Andando a ritroso nel tempo, c’imbattiamo in un’altra nave che navigò fuori del suo tempo ... La Great Eastern fu costruita nel 1854 da Isambard Kingdom Brunel, uningegnere inglese specializzato nel settore dei trasporti, noto per aver collaborato alla realizzazione della galleria sotto il Tamigi. La G.E. era la nave più grande mai costruita al mondo. Lunga 211 mt. e con stazza superiore alle 30.000 t. mantenne tale primato per quasi cinquant'anni. Alta come un palazzo, era dotato di cinque fumaioli; poteva portare 4.000 persone (come una nave passeggeri della nostra epoca) ed era mossa da due gigantesche ruote a pale, un'elica e sei alberature per la navigazione a vela di sicurezza. Era inoltre dotata di un doppio fondo che si estendeva per tutta la lunghezza della chiglia. A causa delle sue dimensioni, subì molti incidenti di vario tipo. Il suo maggior contributo lo diede durante la posa del primo cavo telegrafico tra l'Europa e l'America, nel 1865. Il cavo era lungo 3.700 chilometri e fu arrotolato in tre stive della nave; fu steso sul fondale tra l'Irlanda e Terranova. Dopo la prima trasmissione transoceanica, l'evento fu celebrato come l'Ottava meraviglia del mondo. Il Great Eestern fu demolito nel 1888. A questo famoso bastimento s’ispirò Jules Verne per ambientare il suo celebre romanzo "Una città galleggiante", edito nel 1870.

LE NAVI DI NEMI

 

Tra sogno e realtà. La nostra curiosità ci porta ancora indietro di 2000 anni per immaginare due magnifiche navi che per pochi anni hanno ‘oziato’ alla fonda sul lago di Nemi, poi hanno dormito due millenni nel letto del vulcano, proprio come in certe favole per bambini, ed infine sono riapparse per essere distrutte dalle fiamme e dalla stupidità dell’uomo. Di loro non si sono mai trovate tracce scritte,  ma solo testimonianze di pescatori locali che hanno alimentato per secoli il mito di un tesoro di proporzioni inaudite. La spoliazione di reperti archeologici continuò per secoli nell’attesa che sarebbe maturata l’idea della ricerca scientifica, quindi una forte volontà di recuperare una parte ancora nascosta della nostra storia nazionale. E, per fortuna, così fu!

Ricostruzione ideale d'una delle navi di Nemi, quella che, secondo un’interpretazione degli storici, l'imperatore Caligola costruì per i suoi svaghi personali, ma anche per sbalordire i suoi ospiti. Le navi di Nemi confermano la predilezione che ebbe Caligola per l’arte, non solo navale, del periodo ellenistico e pompeiano.

 

LA NAVE CHE TRASPORTO’ L’OBELISCO VATICANO DALL’EGITTO

 

Sicuramente il lettore avrà in mente l’obelisco di piazza San Pietro che viene inquadrato ogni domenica al momento dell’Angelus, raramente invece é focalizzata la storia del viaggio avventuroso dello splendido monolite dall’Egitto in Italia. Il tanto bistrattato Caligola lasciò dietro di sé molte brutte storie, ma come uomo di mare, o quanto meno di “genio navale”, detiene ancora oggi qualche primato imbattuto... Plinio ce lo conferma con le seguenti notizie (Nat. Hist. XVI, 40,201): “Un abete degno di particolare ammirazione fu usato sulla nave che trasportò, per ordine dell’imperatore Caligola, l’obelisco destinato al circo Vaticano. Nulla di più meraviglioso di questa nave fu senza dubbio visto dal mare: ebbe un carico di zavorra di 120 mila moggi di lenticchia (=1.050 tonnellate n.d.r.). Con la sua lunghezza si ricoprì quasi tutto lo spazio del molo sinistro del porto Ostiense.

 

 

Ivi infatti fu affondata dall’imperatore Claudio e sopra vi fu edificata una triplice torre (il celebre Faro di Ostia Antica) costruita con pietra di Pozzuoli...”.

 

Trasportare l'obelisco egiziano (25 metri d’altezza x 350 tonnellate di peso) a Roma fu un'autentica impresa navale. A bordo della nave pensarono di riempire la stiva con delle lenticchie utilizzate come imballaggio. L’obiettivo fu raggiunto grazie all’alto grado di marineria, ed al ‘sorprendente’ livello raggiunto dall’ingegneria navale romana che seppe costruire una nave lunga ben 130 metri e che fu utilizzata solo per quella missione. Infatti, una volta terminato il suo compito, la nave fu rimorchiata nel porto che l'imperatore Claudio stava costruendo ad Ostia, fu riempita di massi e affondata. Su questa solida base fu edificato il celebre faro di Ostia Antica!

Carlo GATTI

Rapallo, 30 Luglio 2015

 


COME VIVEVANO I "RAPITI"

COME VIVEVANO I "RAPITI"

E’ opportuno, prima di riprendere il discorso, puntualizzare che la differenza fra <pirata> e <corsaro> è stata definita, e universalmente accettata, nel volume edito in Olanda nel 1678 intitolato <<Buccaneers of America>>. Entrambi erano esperti e coraggiosi uomini di mare ma i Corsari, mercenari, agivano di volta in volta per conto di una potenza marittima che, in cambio di protezione ( da qui lalettera o patente di corsa’ = autorizzazione) pretendeva parte del bottino. Naturalmente dovevano agire solo contro le navi delle flotte indicate da chi li aveva ingaggiati: a seconda  di chi, di volta in volta li assoldava, colpivano gli obiettivi loro indicati.  Se catturati erano “coperti” perché considerati, a tutti gli effetti, prigionieri di guerra e come tali protetti e giudicati. Naturalmente queste “ruberie ufficiali” venivano sempre mascherate da pretesti politici o religiosi, mentre altro non erano che rapine per ridimensionare la potenza dell’avversario.

 

 

I Pirati invece erano quelli che oggi chiameremmo “cani sciolti”: depredavano autonomamente chi volevano e dove potevano ma, se catturati, non essendo protetti come i primi, venivano sommariamente e, a volte barbaramente, giustiziati. Quanti sono finiti appesi ai pennoni.

 

 

 

 

Torniamo a noi. Gli abitanti rapiti dai villaggi costieri venivano, lo abbiamo visto, esibiti il più a lungo possibile in zone limitrofe a dove era avvenuta la cattura, per facilitare di raggiungerli per tentare di riscattarli;  ma, a lungo andare, gli “invenduti” venivano portati ai mercati di schiavi del Nord Africa. Da quel momento la loro vita cambiava, ma non la speranza di poter, in qualche modo, divincolarsi dalle catene. E’ chiaro che i pirati preferivano venderli sul posto perché riscuotevano più soldi che non sul mercato Africano che, come oggi la Borsa, fluttuava a seconda della quantità e qualità offerta, Per poterli vendere ad un prezzo concorrenziale, tenevano conto che cessava la spesa di doverli mantenere e il costo per  sorvegliarli. La quotazione variava se da qualche parte dell’Africa era in atto una morïa per peste o epidemie varie: la paura di perdere il materiarle umano che possedevano, faceva si  che i loro Padroni li svendessero” sotto costo” a chiunque. Erano quelli i momenti di più bassa quotazione non remunerativa. Di contro più erano efficienti le flotte dei vari Stati Europei nel contrastare i pirati e maggiormente salivano le quotazioni degli schiavi offerti. Anche questo era un vero e proprio investimento finanziario, su cui molti puntavano per guadagnare dei soldi.

 

Una volta comprati gli schiavi, erano selezionati per età e prestanza fisica; venivano poi raccolti o “ internati” in “bagni” come si chiamavano quelle costruzioni che colà li contenevano. Ben presto vi installarono pure delle taverne gestite da schiavi e addirittura vi edificarono delle cappelle per permettere ai prigionieri cristiani di assistere alle Messe, celebrate da sacerdoti a loro volta schiavi. Sia gli uni che gli altri, per poter “esercitare”, dovevano cointeressare i padroni.

 

Il numero degli uomini era di gran lunga superiore a quello delle donne. Queste ultime trovavano impiego nelle case e utilizzate come domestiche o a produrre stoffe,  mentre le più avvenenti, finivano nell’harem del Sultano o dei vari ricchi e potenti. Invece gli uomini venivano impiegati a lavorare la terra, nel campo delle costruzioni edili o stradali o navali e comunque a svolgere i lavori più faticosi mentre, ai più sfortunati ma più robusti, toccavano i remi. A volte succedeva che i prigionieri fossero talmente in gamba di essere di aiuto ai loro Padroni che, in compenso, potevano liberarli e/o associarli a loro.

 

A quell’epoca i Mussulmani erano rispettosi delle religioni altrui, tanto che, pur essendo anticristiani per ragioni politiche, concedevano agli schiavi di santificare le loro feste assistiti da sacerdoti fatti schiavi che però potevano esercitare, in quei momenti, la loro funzione. Lo abbiamo visto: era sufficiente dividessero con i Padroni quanto riscuotevano in elemosine. A chi era impegnato nei cantieri navali o a riassettare le strade, capitava di incontrare loro concittadini che colà commerciavano e ai quali raccontavano le loro disavventure chiedendo di portare notizie e perorazioni ai loro cari e, se liguri, pure alla Repubblica di Genova che, nel frattempo,  aveva istituito un apposito Magistrato che avrebbe dovuto coordinare i riscatti. La maggior parte di queste liberazioni avveniva tramite il Governatore di Tabarca che aveva accesso ai maggiorenti Berberi. Certo utilizzare quei canali comportava tempi lunghi perché la burocrazia, già allora, imponeva passaggi obbligati e scartoffie per non versare soldi a chi non ne aveva diritto. Meglio quindi utilizzare le strade offerte dai vari Ordini religiosi che, per la tolleranza di cui sopra, potevano essere ascoltati dagli Ottomani. Famoso era il Padre Dan, dell’Ordine trinitario ma esistevano anche “trafficanti” laici; in genere erano ebrei livornesi con accesso ovunque, grazie alla loro capacità di essere aperti al commercio con tutti e di godere della protezione delle < Costituzioni Livornine> volute da Ferdinando I°.

 

 

 

Mercato delle schiave

 

Si calcola che si trovassero in Algeri più di 25.000 schiavi, a Tunisi circa 10.000 e a Tripoli alcune centinaia. Questi pare siano stati gli anni migliori: da li in poi andranno calando.

 

Già all’epoca va rilevato che il Mediterraneo veniva attraversato per fuggire dall’Africa e raggiungere le coste d’Europa. Mi riferisco a chi, schiavo ma ottimo marinaio, tentava la fuga: da Tunisi si puntava alla Sicilia, da Algeri alle Baleari. Ovviamente ci fu chi si organizzò per lucrare su queste fughe. Come non cambia il mondo!!! In questi casi però la Repubblica non le favoriva perché rischiavano di compromettere trattative in corso e poi lei, su quelle,  non poteva lucrare.

 

Dal momento della loro liberazione però ai disgraziati non era così facile  inserirsi di nuovo nel tessuto dal quale, anni prima, erano stati strappati. La lunga assenza di contatti trasformava pure i parenti che si erano dati pace e rifatti una vita o cambiato sito. Molti di loro, o per più approfondita conoscenza della religione mussulmana o per convenienza, abbracciavano la fede dei loro Padroni, divenendo liberi di commerciare e vivere alla pari di un qualunque altro mussulmano. Non così da noi: la cattolica Repubblica non accoglieva i “rinnegati” anzi, di essi diffidava. Qualcuno che tentò di riabbracciare la vecchia fede abiurata, se la passò brutta perché i “Padri della Redenzione” , all’uopo incaricati, non volevano ammettere che in così tanti avessero abbracciato la fede mussulmana. Altri invece sostenevano che, per il fatto di esser fuggiti  per ritornare cristiani, potessero essere perdonati e riammessi. In realtà furono cosi tanti i rinnegati che in Algeri, Tunisi e Tripoli se ne contarono dai 6 agli 8000. Molti di loro fecero una carriera luminosa: Morato divenne capo della flotta tunisina, sino a divenire Bey ( Capo dello Stato), Morat Agà e Mustafa Rais ( nomi nuovi di vecchi cristiani) divennero personaggi influenti a Douz “la Porta”, i calabresi ribattezzatisi Sidi Mustafà e Hossein Kapodan furono nominati ministri a Tunisi e a Tripoli, Occhialì, rinnegato calabrese nominato Capitan Pascià e  un tal Sinia Pascià, alias Scipione Cicala da Genova, addirittura gli successe.

 

La storia si ripete: ancor oggi, attraverso loro Cooperative e facendosi scudo con nomi cristiani ( ad esempio: Comunione e Liberazione) si è scoperto continuino a lucrare sui migranti. Lo Stato riconosce ad esse 900 € al mese per ogni assistito, e quelli, i disgraziati, non vedono un euro.

 

E noi paghiamo !!!

 

 

 

 

GARGANTUA RICETTA DEI CORSARI

 

DAMASCADO : stufato di carne

 

 

INGREDIENTI: burro o olio, noce moscata, coriandolo, pepe rosa, chiodi di garofano, cannella, un pezzo a commensale di carne del collo del maiale,due albicocche secche a testa,capperi sotto sale,rum bianco.

 

 

ESECUZIONE: marinare per una notte i pezzi di carne con tre quarti di ogni spezia, le albicocche e spruzzando di rum. Scaldare il burro o l’olio in una padella, unirvi le restanti spezie e i capperi per salare. Unirvi la carne e le albicocche, rosolando per bene su fuoco vivo. Irrorare di rum e servire subito a che non si asciughi.

 

Renzo BAGNASCO

Foto del webmaster Carlo GATTI

Rapallo; 12 Giugno 2015

 

 

 

 

 


CORSARI BARBARESCHI

 

CORSARI BARBARESCHI

Tutto quello di cui non si parla mai

 

Dei pirati sappiamo ormai quasi tutto, molto anche infarcito da leggende romanzate. In realtà i “corsari barbareschi”, quelli che imperversavano anche da noi, erano degli abili marinai e ardimentosi predatori mussulmani, nord-africani e ottomani con frammisti anche qualche italiano rinnegato, che svolgeva a proprio vantaggio questa attività di brigantaggio, magari camuffando il proprio vero nome con improbabili nomignoli  berberi.

 

Le basi di appartenenza di questi pirati erano Tunisi, Tripoli, Algeri, Salé, porti localizzati in quella che allora noi europei chiamavamo <Barberia>, storpiando il nome  dei Berberi, i veri abitanti dei luoghi.

 

Poi, per quanto ci riguarda, visto il successo, i pirati si organizzarono creandosi rifugi negli anfratti della rocciosa costa Ligure che permetteva di rimanere nascosti, fare cambusa ed essere però anche pronti a scattare per depredare le ricche e lente navi che costeggiavano per raggiungere Genova e, in mancanza di quelle, assalire i Borghi costieri. I secoli in cui imperversarono furono, soprattutto il XVI e il XVII. Anche allora la religione era un pretesto infervorante.

 

Tutto nacque dalla potente flotta ottomana che dominò, per un certo periodo, il Mare Mediterraneo, forte anche del fatto che gli Stati europei non furono capaci di farle fronte comune. Quando lo fecero, gli Ottomani si acchetarono e quella flotta, intenta anche a sanarsi le ferite finalmente subite, non veleggiò nel Mediterraneo per lunga tratta. Da allora piccole ed isolate frange, intrapresero la nuova attività non più sotto l’egida del Sultano Solimano, pur inalberando “mezze lune”.

 

La pirateria fu una vera e propria attività industriale che ogni pirata si gestiva autonomamente. Come ultima ratio, il rapito veniva venduto in Nord Africa,  solo se non si riusciva ad ottenere “in loco” un riscatto. Per consentirne il pagamento, lo sventurato veniva esibito in varie spiagge vicine a casa sua sino a che qualcuno non ne avesse pagato il richiesto; con calma, perché nel frattempo veniva messo a lavorare per loro, in primis ai remi. Fra gente tirchia come siamo e poveri come eravamo, non era facile trovare parenti pronti a versare i propri risparmi per “acquistare” la libertà ad un “furesto”, ancorché parente. Invece i beni, le barche o i leudi e i loro carichi appena depredati lungo la costa, venivano rivendute ad acquirenti  senza scrupoli, interessati ad averli subito e a prezzi stracciati; c’erano già allora commercianti locali organizzati che offrivano denari per poterli avere. Sembra strano ma la disorganizzazione e la miseria che regnava in tutte le cittadine, non permetteva alle stesse di riprendersi con la forza, quanto era stato loro appena rapito ed offerto a pochi passi da casa.

 

 

Isola del Tino (La Spezia)

 

Basti pensare che il frutto delle malefatte compiute nel golfo della Spezia, veniva poi messo in vendita appena dietro il Tino e così, per tutta la riviera. La merce depredata trovava subito acquirenti ma le persone, se non abbienti o importanti per i signorotti locali che avevano i mezzi per riscattarli, erano difficili da affrancare.

Le scarse e mal pagate guardie, assoldate per difendere i Borghi, troppo spesso di notte dormivano, quando non erano in combutta con i predatori.

 

 

Genova - Magistrato per il riscatto degli schiavi

Tutti i paesi sudditi si rivolgevano pungolando l’intervento della matrigna Repubblica di Genova, ma trovarono sempre orecchio da marcante, sino a quando non decise di dar vita, vista l’enorme disorganizzazione dovuta anche alla miseria dominante sulle riviere e per evitare sollevazioni, alla nomina del <Magistrato per il riscatto degli schiavi> (1597). Ma anche lui senza denari poteva far poco e allora si cercò, diciamolo subito <vanamente>, di ricavare le somme ricorrendo ad istituire delle “bussole” per raccogliere le offerte, o devolvere le entrate delle concessioni da parte dei Pontefici di “indulgenze” estese all’intero Dominio della Repubblica a chi avesse donato per il riscatto.

 

 

 

In fine si decise di raggruppare tutti i denari sino ad allora amministrati da molte Opere Pie, Confraternite (oggi ne abbiamo testimonianza nella antiche Casacce) e di Misericordia, incaricate allo scopo per tentare di ragranellare qualcosa. Falliti anche questi tentativi, solo allora, i rapiti venivano inviati ai mercati degli schiavi del Nord Africa dove venivano pagati, data la massiccia presenza, assai meno del richiesto riscatto in loco. Altra cosa che và precisata per sfogliare il “carciofo” della leggenda: questi delinquenti non erano ne lussuriosi ne anticristiani per il fatto che non rispettassero l’immunità dei luoghi sacri, convenzione che invece veniva osservata all’epoca da tutti gli eserciti perché i loro Regnanti non volevano inimicarsi il Papa che era il vero “intermediatore”fra gli Stati. In Chiesa  le donne e le giovani (merce di facile vendita) si radunavano pensando di essere protette, portando con se quei pochi valori di famiglia mentre gli uomini, se non fuggiti nelle alture, stavano opponendosi ai pirati. Quindi le Chiese erano i siti più sicuri e facili da espugnare e dove trovare donne in età da lavoro e appetibili, con tutti gli oggetti preziosi della comunità: in un sol colpo si ci impadroniva del meglio di ogni cittadina rivierasca. La miseria, va detto, era tale che neppure le modeste e malandate guarnigioni, ove esistevano, potevano disporre di armi, polvere da sparo e quant’altro. Non parliamo dei cannoni dal costo di acquisto e di gestione proibitivi e che, invece, avrebbero fatto comodo per poter cannoneggiare le navi barbaresche al solo avvistarle all’orizzonte. L’altro modo per evitare le invasioni sarebbe stato che alcune navi armate, battessero la costa così da intercettare e fugare i veloci ma piccoli battelli pirata. Ma anche qui la sola che potesse disporre di simili mezzi era la Serenissima Repubblica di Genova che,  se non retribuita, non le inviava.

 

 

Molte cittadine si fecero carico, naturalmente a loro spese ma sotto la soprintendenza dei tecnici della Repubblica che in quello “metteva naso”, di costruirsi dei fortilizi sulle cui terrazze alloggiare dei cannoni che avrebbero reso possibile fugare a distanza, le barche barbaresche; ma, una volta costruite le “castella”, non c’erano più fondi per acquistare l’armamento o, quando c’erano, mancava la possibilità di fornirli della polvere da sparo, delle palle in piombo e delle stoppacce per “armarli”. Quindi quei forti servirono più come rifugi inespugnabili per ricoverare la popolazione, che per difesa del territorio. Mentre la popolazione era  colà rinchiusa e protetta, i pirati saccheggiavano le case ignorando i fortilizzi.  Tutto si svolgeva in poche ore; si iniziava di primo mattino così’ da cogliere nel sonno la maggior parte delle persone, meglio se il mattino dopo di una festa di paese. I tempi veloci erano dettati dalla prudenza di ritirarsi prima che eventuali rinforzi dai borghi vicini, rendessero più rischiose le scorribande. La storia ci dice che questi “aiuti” non avvenissero mai o, al più, tardivi ma, all’epoca, i barbareschi non lo sapevano.

 

Come si vede in molti non avevano interessi a che cessasse questa situazione perché se ben organizzata e seguendo indirizzi precisi noti a tutti permetteva a molti dei locali di speculare pure su questa situazione inumana, arricchendosi.

 

Alla prossima puntata vedremo come vivevano i rapiti non riscattati..

 

Renzo BAGNASCO

Foto del webmaster Carlo GATTI

Rapallo, 12 Giugno 2015


COME E COSA SI MANGIAVA NEL MEDIOEVO

 

COME  E COSA SI MANGIAVA NEL MEDIOEVO

 

Conoscendo e avendo visto gli Amici del Gruppo Storico Rapallo 1608, mi sono nuovamente appassionato al Medioevo. Tutti sappiamo esserci stato, ma la sua conoscenza non  l’abbiamo più approfondita una volta finita la scuola, al di là delle Crociate.

 

Questo “periodo” lo si fa iniziare nel 472 d.C., V secolo, con la caduta dell’Impero Romano di Occidente, e si può considerare finito nel 1492, XV secolo, con la cacciata degli Arabi da Granada, ultimo loro baluardo in Europa, la contemporanea scoperta dell’America e la successiva Riforma Protestante, iniziata da Martin Lutero che prese spunto, fra l’altro, dalle vendite delle indulgenze per far soldi e poter completare la Basilica di San Pietro, rivelatasi più costosa del preventivato.

 

Ma, dal punto di vista culinario, è stata, una prosecuzione della gastronomia della Roma imperiale? No: è il frutto di un coacervo di cucine arrivate da tutta Europa che si sono incontrate, assorbendo anche quella Araba, molto presente quando l’Islam era ancora alcune spanne più avanti di noi. Da allora ben poco è cambiato, se si accettano le evoluzioni.

 

Esposizione di spezie dolci in un Bazar mediorientale

 

 

Spezie mediorientali

La prima cosa che mi ha colpito è l’uso delle spezie, quelle dolci però, e della frutta secca. Avendo studiato un po’ l’alimentazione sui velieri antichi si accetta che in mare si usassero le spezie “forti”, per mascherare il gusto del deteriorarsi dei cibi, difficilmente conservabili. Nel Medioevo invece erano una scelta di gusto e una ostentazione di ricchezza. Anche queste spezie amabili arrivavano dall’Oriente ed erano perciò costose. I cuochi, per non affievolirne il tenue sapore, ve  le univano alla fine, poco prima di servire; se cotte avrebbero perso il loro delicato aroma. Il problema della conservazione dei cibi a terra non si poneva, perché coglievano solo il necessario da ciò  che coltivavano vicino ai villaggi (oggi diremmo a chilometro zero), limitandosi a macellare quello che sapevano poter consumare a breve. Il latte invece, poco usato in cucina perché impossibile a conservarsi per più di un giorno, diventava formaggio e poco  veniva usato come legante di intingoli. Una presenza che invece nella loro cucina abbondava, era il grasso animale usato come condimento: poco l’olio perché non presente dappertutto mentre i suini, allevati in casa  e macellati, si conservavano a lungo se salati.  Il burro era conosciuto e le uova usate soprattutto come coagulante. Diciamo che era un’epoca nella quale, bene o male, mangiavano tutti.

 

I contadini perché avevano le verdure e gli animali da cortile ma non la selvaggina, di proprietà esclusiva del Principe, ed i ricchi e i Monsignori, perché alimentati con i generi che arrivavano dai loro contadi. I poveri parroci di campagna, come i contadini, si dovevano accontentare di quello che coltivavano attorno alla canonica. Durante i  “digiuni”, i primi disponevano di pesce, la “carne della Quaresima”, questi ultimi invece di sola verdura: così andava già il mondo. La classe operaia, intesa come la intendiamo ora, non esisteva. O si era contadini, o si lavorava al servizio del Signorotto, oppure si era Prelati.

 

Non a caso le Chiese le troviamo sempre collocate in tutti i Borghi Antichi,fra il paesino sottostante e l’entrata al Maniero;

 

 

con questo lungi dal pensare che fungessero da “stampella” al Signorotto ma, per conservare quella protetta posizione il Parroco, che “istituzionalmente” sapeva tutto di tutti, come poteva, dal pulpito, stigmatizzare le malefatte del Principe ? Quei pochi che lo fecero vennero bruciati vivi. Non a caso la Provvidenza mandò San Francesco a < sostenere la Chiesa che stava crollando>,, convincendo  un riottoso Papa Innocenzo III ad ascoltarlo ed ufficializzarne l’Ordine.

 

Peasant wedding / peasant Bruegel c.1586; Kunsthistorisches Museum, Vienna

 

Ma veniamo al tema. Le tavole da pranzo non erano, come adesso, costruite allo scopo. Se da un Antiquario trovate un tavolo d’epoca, diffidate: è fasullo. Solo nelle case umili li usavano per confezionare il cibo, nutrirsene e lavorarci sopra. Nella borghesia e nella nobiltà, che altri non erano coloro che con le loro malefatte si erano arricchiti e riconosciuti “degni” dal Signorotto o dal Principe cointeressato, venivano allestite di volta in volta adagiando delle tavole su cavalletti, poi ricoperte dalle tovaglie. Ogni commensale poteva disporre di: bicchiere col piede ( calice), piatto, stecco in legno appuntito a mò di forchetta ( quella non esisteva ancora e, quando iniziarono ad usarla, fu avversata pure dalla Chiesa perché richiamava il forcone del Demonio) un coltello o stiletto personale, bicchiere e un cucchiaio, solo però se il menù prevedeva <brodetti> (zuppe o minestre). Il resto lo si portava alla bocca con le mani. Il cibo veniva disposto  in vassoi posati al centro fra due commensali e ognuno se ne serviva. Il Principe veniva servito dagli infiniti domestici che provvedevano a tutto, compreso disossare le carni e mescere vino. A fine pasto, pressoché tutti si pulivano le mani strofinandole sulle tovaglie, se non troppo belle e linde, altrimenti sui propri panciotti o sui fianchi. La bacinella con acqua profumata era un privilegio riservata a pochi. Molti i caci e i formaggi, parmigiano compreso. Erano presenti vari  tipi di ravioli, cotti in brodo di cappone e conditi con spezie dolci e grana, quest’ultimo già noto fin dai tempi della cucina Imperiale Romana. A questo proposito merita ricordare quanto scritto nel Decamerone (1349-53 ) , VIII giornata, 3^ novella, là dove narra del Paese di Bengodi e vi descrive una montagna di parmigiano grattugiato, lungo le cui pendici vengono fatti cadere dei ravioli che, rotolando, si insaporiscono con il solo grana. Ancor oggi se volete sapere se un raviolo merita o no, conditelo unicamente con il formaggio; i sughi ne camuffano le eventuali carenze o li castigano, se buoni.

 

La carne o era di porco o di ovino o di vitello, perché i buoi erano immangiabili, essendo considerati solo animali da lavoro e quindi dalle carni dure.

 

Certa frutta era cara perché, nelle zone non vocate, bisognava approvigionarsene, mentre il pesce era, laddove si confinava con l’acqua, facilmente reperibile ma altrove difficile consegnarlo fresco: da lì la conservazione sotto sale. In genere tutti mangiavano a sufficienza, tranne che nelle grandi carestie dovute o alle guerre dove gli eserciti, che si muovevano senza scorte, razziavano tutto per sopravvivere, o alle catastrofi atmosferiche. Lì veramente i contadini soffrivano la fame, obbligati a  mangiare di tutto, mentre i Signori attingevano alle scorte. La farina era prodotta macinando tutti i tipi di cereali, ghiande comprese: và da se che quella bianca al Principe e ai suoi cortigiani non mancava mai; le altre, diversificate, mano a mano che si scendeva la scala sociale. Il vino, anche se non alterato dal miele come quello romano, se lo assaggiassimo oggi, non credo lo gradiremmo, mentre l’attuale birra è simile a quella.

 

In genere, lo abbiamo visto, i cibi non erano piccanti, perché insaporiti con solo spezie aromatiche mentre invece erano “colorati”, perché si badava molto alla cromia dei manicaretti  appositamente tinti per ottenere armoniosi effetti; molto usato lo zafferano che, con il suo giallo, richiama l’oro, l’antico mangiare degli Dei, le rape rosse, gli spinaci e lo zenzero (Decamerone,VIII giornata, 6^ novella) anche per il suo valore medicamentoso. La cipolla era molto presente, specie affettata e fritta, così come l’aglio, pur esso anche per i suoi innegabili poteri  terapeutici.

 

Questa massima riportata da F. Sacchetti <Trecento novelle>(1332-1400), fa chiarezza sulle introvabili donne–cuoco: <<Sia buona che cattiva il bastone ci vuole per ogni donna>>. Quanta dura strada ha dovuto conquistarsi “l’altra metà del cielo”, per arrivare ad oggi !

 

In ultimo va detto che è difficile localizzare un cibo comune a tutta l’Europa, visto che quella civilizzata era organizzata in paesotti, anzi in Castelli con intorno il borgo e utilizzavano principalmente prodotti locali. Gli “Staterelli” prenderanno corpo poco dopo. L’Italia, grazie alla Savoia, comunicava con la Francia, tanto che le due cucine erano e sono rimaste intercambiabili. Quando Caterina de Medici andò a Parigi sposa del Re di Francia, portò con se i propri cuochi fiorentini che si confrontarono con gli autoctoni influenzandosi a vicenda ma, soprattutto, innovando i menù francesi.

 

Renzo BAGNASCO

Foto del webmaster Carlo GATTI

Rapallo, 12 giugno 2015

 

 


VIAGGIO DAL MERIDIANO DEL FERRO A QUELLO DI GREENWICH

VIAGGIO DAL MERIDIANO DEL FERRO A QUELLO DI GREENWICH

Vista satellitare dell’Isola del Ferro

Isola del Ferro, in spagnolo: El Hierro, detta anche Isla del Meridiano, è un'isola spagnola. Si trova nell'Oceano Atlantico, nelle Isole Canarie di cui é la più piccola e la più a ponente dell'arcipelago

Per gli antichi naviganti il meridiano di riferimento era il Nilo al centro del mondo conosciuto d’allora, tuttavia, il PRIMO MERIDIANO CONVENZIONALE per il calcolo della longitudine ha continuato a spostarsi sul mappamondo con le progressive esplorazioni geografiche.

 

Possiamo sintetizzare la successione geografica in questo modo:

 

- A ovest delle Colonne d’Ercole fu posto il meridiano, in seguito arretrato alle Canarie (Isole fortunate).

 

- Copernico lo stabilì a Freudenburgo (Renania-Palatinato)

 

- Keplero a Uraniburgo (Uraniborg – Osservatorio astronomico gestito dall’astronomo danese Tycho Brahe).

 

- Mercatore, inizialmente lo stabilì all’isola di Forte Ventura (Canarie), successivamente all’ISOLA DEL FERRO.

 

- Nel secolo successivo, G.B. Riccioli lo fissò nell’isola di Palma.

Nel 1724, durante un viaggio di studio, fu stabilita l’esatta posizione del meridiano. In molte carte geografiche del 1600 e 1700, il meridiano di ORCHILLA appare come Meridiano 0. Il faro rappresentato in questa immagine, fu costruito sopra la LINEA DEL MERIDIANO 0.

 

Per mettere un punto fermo che togliesse ogni confusione, ci provò Luigi XIII, con un decreto del 1° luglio 1634 e fissò IL PRIMO MERIDIANO all’Isola del Ferro (Canarie), uno tra più diffusi. Come abbiamo visto nella didascalia, tale meridiano prendeva il nome dall'isola del Ferro (El Hierro), la più occidentale dellIsole Canarie e allo stesso tempo la parte più estrema del Vecchio Mondo.

 

Si deve sottolineare un particolare importante: il famoso geografo greco Tolomeo definì già nel II Secolo d.C. il meridiano dell'Isola del Ferro come Meridiano Zero. La scelta adottata fu molto fortunata in quanto favorì i calcoli astronomici della cartografia europea dovendosi calcolare soltanto longitudini positive (ad est dell'Isola di El Hierro ).

 

Verso la metà del Settecento, le nazioni marinare più prestigiose ritornarono a meridiani di riferimento sulla base d’interessi economici ed anche nazionalistici:

 

- Gli Inglesi a Londra

 

- I Francesi a Parigi

 

- Gli Olandesi sul Picco della Tenerifa – considerato il monte più alto del mondo

 

- Gli Spagnoli alle Azzorre.

 

Verso la metà dell’Ottocento, L’Inghilterra ed i Paesi sotto la sua influenza, adottarono GREENWICH, mentre gli Stati Uniti e l’Italia preunitaria scelsero Parigi. Finalmente, nel 1881, nel 3° Congresso Geografico Internazionale fu proposto di adottare il MERIDIANO E IL TEMPO MEDIO DI GREENWICH. Il “tempo” non era ancora maturo... Prestigio culturale, Potenze marittime, Spinte azionalistiche ecc... ritardarono l’approvazione ormai nell’aria.

 

La penultima fase di avvicinamento al traguardo passò per Roma, dove fu organizzata nel 1883 la Conferenza Geodetica Internazionale. E ci fu ancora una spaccatura:

 

Stati Uniti decidevano di adottare il meridiano del Ferro e la Germania optava per quello dell'Europa centrale, a 15°E da Greenwich, nel 1893 accolto anche dall'Italia.

 

Osservatorio di Greenwich

Si dovette attendere il Congresso Geografico Internazionale di Washington del 13 ottobre 1884 per stabilire definitivamente quale dovesse essere questo meridiano. In quell'occasione venne definito da 41 delegati provenienti da 25 paesi, alla presenza del Presidente degli Stati Uniti d'America, il meridiano zero, ossia quello che passa per l’Osservatorio di Greenwich.

 

Meridiano di Greenwich

 

Meridiano di Greenwich (angolatura per Meridiano)

 

 

Qui furono stabiliti i seguenti principi:

 

1. L'adozione di un unico sistema di meridiani a livello mondiale, in sostituzione dei diversi esistenti.

 

2. Il meridiano passante attraverso il più importante strumento di controllo del traffico dell'Osservatorio di Greenwich sarebbe stato il primo meridiano.

 

3. Tutte le longitudini, sia a est sia a ovest sarebbero state calcolate a partire da questo meridiano da 0° a 180°.

 

4. Tutti i paesi avrebbero adottato la data universale.

 

5. Il giorno universale sarebbe cominciato alla mezzanotte di Greenwich e misurato su un orologio di 24 ore.

 

6. I giorni nautici e astronomici sarebbero cominciati ovunque alla mezzanotte convenzionale (di cui sopra).

 

Sarebbero stati supportati tutti gli studi tecnici finalizzati a regolamentare ed estendere l'applicazione del sistema decimale alla divisione del tempo e dello spazio.

Il 23 febbraio 2007 nei Giardini vaticani fu inaugurata la targa indicante il tracciato del Primo Meridiano d’Italia.

Carlo GATTI

 

Rapallo, 12 Giugno 2015

 



MILETO, UN GRANDE COMPLESSO PORTUALE DELL'ANTICHITA'

MILETO

UN GRANDE COMPLESSO PORTUALE DELL’ANTICHITA’

Mileto nell’attuale Turchia

 

Mileto nei primi secoli a.C. si trovava al termine di un’importante via carovaniera (vedi linea rossa) che collegava la Mesopotamia alle coste del Mar Egeo e alle sue isole.

 

Baia di Mileto- Evoluzione dei fondali nei secoli. Nella cartina si nota l’ampia vallata del fiume Meandro circondata dai rilievi ferrosi Mycale, Latmos e Grion.

 

 

A partire dall'epoca arcaica Mileto fu la principale città della Ionia: punto focale dell’economia, della politica e del pensiero filosofico del mondo occidentale d’allora.

Mileto (Miletos in greco e Miletus in latino) per la sua posizione geografica fu  soprattutto un importante polo portuale, su un promontorio alla foce del fiume Meandro che portava le sue acque nel Mare Egeo. Quello che fu un golfo oggi é interrato dai sedimenti portati a valle dal fiume che vi sfocia. Mileto fu fondata da coloni greci fra il 1077 e il 1044 a. C. in una regione allora chiamata Caria. Questa città-stato continuò ad avere un ruolo di primo piano sia durante l’epoca ellenistica che durante il periodo dell’Impero Romano.  I coloni greci furono attirati dalla penisola che offriva insenature, altrettanti ridossi, quindi approdi sicuri per le navi. Vi era inoltre una certa varietà di rocce adatte per realizzare edifici e mura; vi era acqua in abbondanza e, dulcis in fundo, l’intera regione era circondata da notevoli quantità di minerali di ferro. I minerali metalliferi furono cercati e sfruttati in un raggio d’azione sempre più ampio, non solo lungo le coste della Ionia (sponde asiatiche del Mare Egeo, ossia le coste nord-orientali della attuale Anatolia) ma anche nel Ponto Eusino (Mar Nero), e ciò spinse i Milesiani a fondare colonie con lo scopo commerciale, ma anche per reperire minerali.

 

L’insediamento urbano, molto probabilmente, fu stimolato proprio dalla presenza di minerali ferrosi del Monte Mykale (oggi Samsun Dag), del Latmos e del Gurion, ma anche dalla metallurgia del rame, del bronzo e del piombo, con cui venivano realizzate armi e utensili, per il mercato interno e per l’esportazione.

 

Ad arricchire il già fiorente quadro economico, occorre aggiungere anche il carbon fossile che si trovava nel raggio d’azione dei cittadini di Mileto.

 

La stessa valle del Meandro costituiva una facile via di penetrazione commerciale verso l’entroterra. I fondatori-commercianti furono pertanto attirati, sia dalla facilità di accesso dal mare, sia da un percorso carovaniero parallelo al fiume per raggiungere i clienti all’interno. Il territorio della città, e in particolare la pianura alluvionale del suo fiume, era esteso e fertile perciò fu anche sede di una redditizia attività agricola, in particolare il grano, che veniva esportato in Grecia. Per concludere, le montagne vicine erano coperte da foreste, il cui legname veniva utilizzato per l’industria navale.

 

Carta dei processi di sedimentazione del Fiume Meandro nei secoli. I porti di Mileto erano riparati dall’isola di Lade (a sinistra in alto). Si noti il notevole avanzamento della ”linea di riva” fra l’età classica e i tempi attuali, dovuto ai depositi alluvionali del Meandro. Mileto si trovava sul mare mentre oggi si trova a circa 9 km. diventando una città dell’entroterra durante la prima età cristiana.

L’area intorno a Mileto aveva quindi tutte le caratteristiche per essere un polo d’attrazione per moltissime attività commerciali ed economiche e quindi per un insediamento urbanistico di prima grandezza. La sua espansione durò circa un millennio e terminò a causa dell'insabbiamento dei suoi porti, che penalizzò i suoi traffici marittimi. Le attuali rovine di Mileto si trovano 9 chilometri lontani dalla costa.

 

La causa principale del suo insabbiamento pare sia stato lo sfruttamento intensivo delle foreste con i conseguenti smottamenti e processi erosivi, che le piogge scaricavano a fondo valle sedimentando nella foce del Meandro. Ma ora ritorniamo a quel grande millennio che rese famoso Mileto.

 

Mileto. Un complesso portuale di primo ordine

Come abbiamo già analizzato, la posizione privilegiata e le cospicue esportazioni di prodotti locali (tessuti, ceramiche, grano, utensili di metallo e armi, ecc.) determinarono il potenziamento del commercio marittimo di MILETO che indusse i Milesiani ad ampliare il numero degli approdi, per cui dal più antico porto, quello di Atena, che era diventato troppo piccolo, si passò al grande porto del Leone. Ambedue erano esposti ad ovest, ma fu utilizzato anche il porto di Nord-Est (di cui non conosciamo il nome) quasi all’estremità della penisola.  In tal modo poteva essere scelto il porto più riparato dalle traversie del mare e del vento. La decadenza socio-economica di MILETO si manifestò definitivamente verso il VI sec. d. C., ma in realtà si trattò di un fenomeno che iniziò qualche secolo prima, innescato, come abbiamo visto, da un processo geologico d’interramento progressivo del delta.

 

Quasi al centro di Mileto c’è una collina, ai lati della quale sono i due porti principali di Ponente: quello più settentrionale “del Leone”, quello meridionale “del Teatro”. Nell’ampia zona centrale che collegava i due porti, sorgevano gli edifici commerciali, religiosi, amministrativi. Le tre zone residenziali si trovavano: una a nord, l’altra sulla collina tra i porti, la terza, più ampia a sud.

La cartina sopra indica:

 

 

- Le due AREE COMMERCIALI (due macchie nere con punti bianchi) alle spalle del Porto dei Leoni (la profonda insenatura, in alto a sinistra) e del

 

Porto del Teatro (la golfata più ampia, sotto a sinistra)

 

- L’AREA CIVILE (tratteggiata nel verso orizzontale) unisce le aree commerciali dei due porti.

 

- AREE RELIGIOSE (trattegiate di traverso). Vicino ai porti ed ai mercati, un poco distaccati da essi vi sono le rovine di due santuari, rispettivamente di Apollo Delphinios (a nord sul porto «del Leone»), di Athena (a sud sul porto del Teatro).

 

MILETO, CENTRO FINANZIARIO E CULTURALE

Il traffico marittimo, l’alleanza con Atene, la cultura filosofica, la vicinanza con la Lidia (alle spalle), ne fanno la città ideale per la prima coniazione monetaria. Nell’Iliade Mileto è ancora una città della  Caria e i suoi abitanti combattono contro gli Achei. Secondo la tradizione, successivamente, durante la cosiddetta prima colonizzazione greca, la città fu rifondata da colonizzatori Ioni provenienti dall’Attica e dalla Beozia, (vedi cartina sopra) che sottrassero il territorio ai Carii. Il governo fu esercitato dall’aristocrazia, che fece diventare Mileto un attivissimo centro di scambio. Furono fondati scali commerciali e colonie destinate a diventare importanti, fra cui Abido sullo stretto dei Dardanelli, Cizico sulla costa asiatica del mar di Marmara, Sinope e Histria  sul Mar Nero, Naucrati sul delta del Nilo. La politica di Mileto in quel periodo fu ispirata a mantenere buoni rapporti con le grandi potenze mediterranee che avrebbero potuto danneggiare la sua espansione economica.

 

Particolarmente stretti furono i rapporti con l’Egitto, che Mileto appoggiò contro gli Assiri. Attorno al VII secolo a.C. dodici città della Ionia, tra cui Mileto (la cosiddetta Dodecapoli ionia) si unirono a formare la Lega Ionia, per meglio resistere all’espansionismo dell’Impero Persiano. In quegli anni Mileto era divenuta il centro intellettuale della Ionia: Talete, Anassimandro ed Ecateo le attribuirono, nella storia della cultura occidentale, la prestigiosa condizione di culla della filosofia, delle scienze naturali, degli studi geografici e storiografici. L’alfabeto in uso nella città si estese a numerosi altri centri di cultura e, dopo essere stato adottato da Atene nel 403-402 a. C., divenne l’alfabeto comune a tutto il mondo greco. Si calcola che nel VI sec. a. C. la popolazione di Mileto raggiungesse i 60.000 – 70.000 abitanti. Aristagora guidò un’insurrezione contro i Persiani, conclusasi con la sconfitta navale degli Ioni (e dei Milesi) davanti all’isola di Lade (494 a. C.) e con la distruzione della Mileto arcaica, la cui popolazione fu deportata sul Fiume Tigri. La caduta della città fu accolta in tutto il mondo greco come una sciagura nazionale. Ma dopo la vittoria dei Greci sui Persiani a Mykale (479 a. C.), si decise la ricostruzione di Mileto, il cui piano regolatore fu probabilmente concepito dall’innovatore dell’urbanistica antica, Ippodamo, nativo appunto della città. Il cosiddetto “impianto ippodameo” fu seguito da varie nuove colonie greche. Nel 401 la città fu assediata da Ciro il Giovane e tornò a subire completamente l’autorità persiana, dalla quale la liberò Alessandro Magno nel 334 a. C. - Contesa per due secoli fra i sovrani ellenistici, Mileto entrò a far parte nel 133 a.C., come città libera, della provincia romana d’Asia ma perse del tutto la sua indipendenza dopo il 78 a. C. per essere stata favorevole a Mitridate nel corso della guerra contro Roma. Durante l’ellenismo* e nella prima epoca imperiale romana la città ebbe grandissimo sviluppo, documentato dalla costruzione di imponenti edifici pubblici fra cui la Biblioteca di Celso.

 

 

* Il termine Ellenico viene usato a partire dal V secolo a.C. ad indicare le genti di lingua e cultura greca rispetto ad altri popoli.

 

Il termine Ellenistico indica il periodo storico-culturale in cui la cultura greca si diffonde oltre i confini della Grecia e fu coniato nell’Ottocento per indicare il periodo che va dall’epoca di Alessandro Magno alla definitiva conquista romana avvenuta con la battaglia di Azio nel 31 a.C.

 

I più grandi centri dell’arte ellenistica rimasero al di fuori della Grecia, in particolare Alessandria d’Egitto, Antiochia di Siria, Rodi, Efeso, Pergamo Laodicea ecc...

L’URBANISTICA DI MILETO

 

PIANTA DI MILETO: La pianta regolare secondo le idee di Ippodamo di Mileto V secolo a.C.

 

1 – Teatro

2-3 – Leoni di pietra

4 – Agorà del Sud

5 – Stadio

6 – Agorà

7 – Tempio di Atena

8 – Sito Arcaico

9 – Porta Sacra

10 – Via Sacra (congiungeva Mileto al Tempio di Apollo a Didime)

MiletoPlanimetria generale del promontorio di Mileto. Si noti il tessuto urbano costruito all’estremità di un promontorio, e l’impianto  ippodameo della città, secondo un rigido schema ortogonale. Nelle varie epoche si succedettero i vari insediamenti: quello settentrionale fu arcaico, quello occidentale fu ellenistico, e quello meridionale fu greco-romano.

Ciò che maggiormente impressiona, nella divisione dei quartieri, è la pianta disegnata a scacchiera. Gli isolati base misurano mt 29,50 X 51,60 e sono variamente suddivisi nel senso della lunghezza.
Le strade, i cui assi coincidono con quelli della penisola, sono larghe mt 4,50; si distinguono tre arterie maggiori, larghe mt 7,50 (una in senso longitudinale, due in senso latitudinale), che servono come vie principali. Una di esse, quella longitudinale, portava dal centro della città verso la porta principale sud (Porta Sacra, che non è perfettamente sull'asse di essa), che immetteva nella via diretta al Tempio di Apollo (extraurbano) di Didyma.

 

Il sistema costruttivo della città è il risultato dell'adattamento ad uno schema perseguito sin dalla fondazione Mileto e che durò sino alla fine dell'Ellenismo (31 a.C.).

I PORTI DI MILETO

I resti di uno dei due Leoni all’ingresso del Porto

 

 

La nuova citta’ ebbe, secondo il progetto di Ippodamo di Mileto, pianta circolare e robuste mura di cinta.
Il sistema adottato prevedeva vie parallele che intersecandosi perpendicolarmente creavano una maglia rettangolare adornata da templi, ginnasi, teatri ed altri splendenti edifici. Una cinta, considerata tra le migliori opere difensive dell’epoca, proteggeva la citta’ da ogni incursione nemica.
Almeno cinque porti accoglievano nelle loro insenature le navi provenienti da tutto il mondo, riempiendo la citta’ di mercanzie e di ricchezze. L’antica rete urbana della scuola di Ippodamo e’ visibile ancor oggi nell’attuale topografia della citta’, e si estende sia dentro che fuori le mura medioevali della Citta’ dei Cavalieri (1480 d.C.).

Partendo da sinistra: In corrispondenza della freccia indicante il Nord si nota l’ansa del

 

1) - Porto di Atena; 2) Porto del teatro; 3) Porto dei Leoni; 4) Porto del Nord Est (collina di Kalabak).

–La principale caratteristica del porto di Mileto era la seguente: le navi in arrivo potevano scegliere la baia più ridossata o comunque più idonea dal punto di vista meteo-marinaresco, consentendo alla città portuale di essere operativa tutto l’anno con qualsiasi tipo e forza di vento.

 

Strabone dice che Mileto aveva quattro porti, ma solo dei tre più importanti si conosce il nome e  la posizione esatta.

Il Porto dei Leoni si trovava nell'insenatura più profonda e sicura fra Humeitepe e Kalehtepe.

Il porto del Teatro in quella fra Kalehtepe e la platea dell'Athenaion, che è più ampia ma anche più aperta.

Gli altri due porti probabilmente vanno situati l'uno nell'insenatura a S-O dell'Athenaion lungo cui si estendeva la città arcaica, l'altro nell’insenatura E, accanto all'Agorà Stoà e al centro della città.

 

La grande cerchia di mura, su cui tacciono completamente le fonti antiche, fu costruita probabilmente alla fine del V sec. a. C. in relazione agli agitati avvenimenti che riportarono Mileto sotto il dominio persiano.

Pare che le mura, scavate però solo in minima parte, seguissero in origine tutto il contorno della penisoletta, includendo anche Kalabaktepe. Le porte principali erano solamente due: la Porta Sacra, da cui usciva la via omonima che portava a Didyma, e la Porta del Leone a S-E, non molto distante dall'agorà S, da cui usciva una strada costiera. Agli inizi del II sec. a. C. il settore S-O della cerchia, compresa Kalabaktepe, fu abbandonata: un nuovo tratto di mura andava dritto dalla Porta Sacra al mare.

 

Un addio nel porto di Mileto....

 

 

Plastico di Mileto -  200 d.C. Museo di Pergamo

 

Plastico di Mileto - 200 a.C. – Museo di Pergamo

Il porto principale di Mileto (porto dei Leoni), era fronteggiato da una piazza su cui si ergeva il santuario del dio patrono della città. Apollo Delphinios. Il grande recinto porticato (iniziato verso il 470 - 450 a. C.) fungeva anche da archivio di stato, conteneva numerose iscrizioni, rilievi votivi e statue onorarie. Dalla piazza del porto iniziava la grande strada che conduceva al santuario di Apollo a Didima. Presso di essa si trovavano le piazze principali di Mileto, in mezzo a un complesso di edifici pubblici e privati: il vero e proprio centro della città era la piazza in cui sorgeva il Buleuterio (175-164 a. C.), contenente all'interno una gradinata semicircolare capace di ospitare ca. 1200 persone. Dalla piazza del Buleuterio si passava alla vastissima Agorà Stoà, attraverso una porta monumentale, di età antonina, i cui elementi sono stati pressoché interamente trasportati e ricomposti nel museo di Pergamo a Berlino.

MILETO - Il monumento del porto, commemorativo della vittoria di Ottaviano ad Azio nel 31 a.C. Sull’insenatura del porto dei leoni si apriva l’Agorà Sud, prossima al santuario di Apollo Delphìnios, costituito da un cortile costruito intorno all’altare; in questo edificio si custodiva l’archivio della città.

 

Le rovine del vecchio porto di Mileto

 

La nuova aristocrazia giunta al potere fece di Mileto una pòlis “moderna”, dove l’ascesa sociale era possibile non solo ai “valorosi” in senso omerico, ma anche a coloro che si rivelavano abili nel “maneggiare denaro”, quindi nel commercio, nell’industria, importazione di materie prime ed esportazione di prodotti finiti.

 

Asia Greca. Ionia, Mileto. Diobolo, ca. 478-390 a.C.

 

Protome di leone con la testa volta a destra con le fauci aperte.

 

Due innovazioni si rivelarono decisive: l’introduzione della moneta di elettro, (una lega metallica di oro e argento) che, oltre a facilitare, “laicizzò” gli scambi commerciali tra i vari popoli svincolandoli da rituali e credenze religiose. Il diffondersi dell’alfabeto greco d’origine fenicia diede corso alla cosiddetta “numerazione ionica” i numeri corrispondono alle lettere dell’alfabeto greco (alfa = 1; beta = 2; gamma = 3.

 

 

EVOLUZIONE DELLE SCIENZE NAUTICHE

I naviganti del Terzo Millennio sanno quanto possono essere insidiosi i venti e i mari dell’Egeo e che percorrere in sicurezza le rotte marittime tra i vari empori commerciali richiede una conoscenza approfondita di tutti gli elementi meteo-marini di tutte le zone, compreso i fondali, le secche, le scogliere e i ridossi, durante la navigazione costiera. Ma quando il capitano marittimo dell’antichità era costretto a lasciare la costa che ben conosceva, e metteva la prua verso il mare aperto, dopo aver rivolto una preghiera ad Eolo e Poseidone “Eliconio” (a cui era dedicato il santuario pan-ionio del monte Micale, di fronte al porto di Mileto), le competenze meteorologiche e geografiche non bastavano più. Per “orientarsi” (ovvero fare vela verso “oriente”, là dove sorge il sole) occorreva “masticare” nozioni d’astronomia complesse, derivanti dall’osservazione e dallo studio dei cieli che Caldei, Babilonesi, Egiziani, andavano conducendo da secoli. Quando sopraggiungeva la notte (i viaggi potevano durare anche settimane), i naviganti si lasciavano guidare dalla posizione dalla Stella Polare. Geografia, meteorologia, astronomia, ma anche trigonometria per calcolare, ad esempio, la distanza di una nave dalla costa, sono tutte scienze “positive”, di immediata applicazione pratica, che richiedono tuttavia abilità e precisione nell’osservazione del cielo stellato, dei fenomeni naturali e del calcolo matematico.

Mileto – La zona dell’antico porto

 

 

L’Agorà – Gli scavi hanno riportato alla luce i resti pre-persiani (sec.VII a.C.) degli edifici, e inoltre un cospicuo numero di statue virili sedute disposte lungo la Via Sacra risalenti al sec.VI a.C.

L’Agorà (Stoà) di Mileto – Ingresso del tempio greco

 

 

La stoà ("eretto") è una struttura tipica dell'Archittetura greca antica, costituita da passaggi coperti o portici per uso pubblico in un edificio di forma rettangolare allungata che presenta uno dei lati lunghi aperto e colonnato, generalmente prospiciente una piazza o una via, mentre l'altro è chiuso da un muro; la copertura può essere a spioventi, a terrazze oppure l'edificio può sopraelevarsi ripetendo lo schema del piano inferiore.

 

L'Agorà S (foto sopra) era fiancheggiata da grandi porticati. Presso il porto più interno sorgeva un grande complesso termale, donato da Faustina (probabilmente la moglie di Marco Aurelio), che conteneva numerose e preziose opere d'arte; il Teatro, uno dei più grandi dell'Asia Minore (140 m di diametro), iniziato alla fine del secolo IV a. C.; e lo Stadio, rettangolare, lungo 194,5 m, capace di ospitare sulle gradinate ca. 14.000 persone. La via processionale che partiva dalla piazza del porto dei Leoni, passava per il sobborgo occidentale di Panormos e raggiungeva dopo ca. 16 km Didima, la sede del tempio di Apollo Pilesios, uno dei più importanti Santuari Oracolari del mondo antico. Gli scavi hanno riportato alla luce i resti pre-persiani (sec. VII a. C.) degli edifici, e inoltre un cospicuo numero di statue virili sedute, disposte lungo la via sacra, risalenti al sec. VI a. C. L'edificio del tempio, ricostruito integralmente in età ellenistica, era uno dei più imponenti e ammirati dell'antichità: un grandioso tempio ionico diptero, con dieci colonne sui lati brevi e ventuno sui lati lunghi. Fu distrutto da un terremoto verso l'anno 1000.

Mileto - Frontone del Tempio di Serapide

Milesi famosi

Mileto (mitico fondatore)

Talete - "primo" filosofo naturale greco; "il padre della scienza".

Anassimandro - filosofo; allievo di Talete

Anassimene - filosofo; amico e allievo di Anassimandro

Leucippo - filosofo; fondatore dell'atomismo e maestro di Democrito

Eubulide - filosofo; formulò il "paradosso del mentitore"

Ecateo di mileto - geografo e storico

Ippodamo di Mileto - architetto e urbanista

Eschilo Illustrio - cronachista e biografo

Aristide - scrittore

Isidoro - architetto

Timoteo - poeta. Cadmo - storico, forse immaginario

 


 

La Porta del mercato di Mileto – E’ un reperto archeologico, Capolavoro dell'architettura romana, attualmente si trova nel Pergamon Museum di Berlino. La porta del mercato è una maestosa facciata costruita intorno al 120 a.C. mettendo insieme l'idea dei propilei a colonnato greco, la porta ad arco e la facciata del teatro romano. Proprio per questa mescolanza di stili la porta è considerata un importante esempio della relazione tra la tradizione costruttiva ellenistica e l'espressione artistica della Roma imperiale.

 

Il mercato di Mileto-Pergamom Museum, Berlino

Le rovine dell’antica città di Mileto

 

 

Resti delle Terme di Faustina (moglie dell'imperatore Marco Aurelio)161-180 d.C. e della Palestra.

 

Mileto: terme, particolare di statua di leone

 

Mileto, il teatro, vista d'insieme

 

Il grande teatro di Mileto visto dalla via del porto. Costruito nel IV sec. a.C. contava 5000 posti nel periodo ellenistico e 25.000 in epoca romana nel II sec. Solo in parte è ricavato nella collina ed un lato appoggia su poderosi muraglioni. La sovrastante rocca bizantina venne edificata anche con materiali asportati dal teatro

Mileto: Bassorilievo del gladiatore nel teatro

 

Mileto, la zona dell'antico porto

 

Procedendo dal teatro verso il porto antico ci s’imbatte nel monumento ancora visibile con le due teste di leone di dimensioni gigantesche. Ciascuno di questi leoni fu posto su ogni lato dell’imboccatura come monito contro eventuali nemici.

 

Cavea dei gladiatori. La cavea del teatro, ancora oggi ben conservato, poteva contenere 25.000 spettatori.

LA MILETO CRISTIANA - San Paolo si fermò a Mileto nel suo terzo viaggio missionario, sulla via di ritorno a Gerusalemme.

 

L’apostolo Paolo giunse a Mileto verso il 56. Poiché voleva essere a Gerusalemme per la Pentecoste e non desiderava rimanere più del necessario in Asia Minore. Paolo, che si trovava a quanto pare ad Asso, decise di prendere un battello che non si fermava a Efeso. Tuttavia non trascurò i bisogni di questa congregazione. Da Mileto, senza dubbio per mezzo di un messaggero, mandò a chiamare gli anziani della congregazione di Efeso, distante quasi 50 km. Il tempo necessario perché giungesse loro il messaggio ed essi venissero a Mileto (almeno tre giorni) era evidentemente meno di quello che avrebbe impiegato Paolo se fosse andato a Efeso. Questo forse perché le navi provenienti da Asso che toccavano il porto di Efeso facevano più fermate di quelle che si fermavano a Mileto. Oppure perché le circostanze avrebbero richiesto che Paolo si trattenesse di più se si fosse recato a Efeso.

 

Parlando agli anziani della congregazione di Efeso, Paolo ricordò il ministero che aveva svolto fra loro, li esortò a prestare attenzione a se stessi e al gregge, li avvertì del pericolo che “oppressivi lupi” si insinuassero nella congregazione e li incoraggiò a restare svegli e a rammentare il suo esempio. Sentendosi dire che non l’avrebbero più visto, quegli anziani piansero “e gettatisi al collo di Paolo, lo baciarono teneramente”; poi lo accompagnarono alla nave.

In un’epoca imprecisata, dopo la sua prima detenzione a Roma, sembra che Paolo sia tornato a Mileto. Trofimo, che in precedenza l’aveva accompagnato da Mileto a Gerusalemme, si ammalò e Paolo dovette lasciarlo.

CARLO GATTI

Rapallo, 11 Giugno 2015

 

 

 


SPRECARE UN SILURO PER UN VELIERO

 

Sprecare un siluro per un veliero

La notte del primo luglio 1915, il Capitano Nardo Bianchi osservava sereno

l’ultima parte dell’agile navigazione del suo Sardomene (pron. Sardomìn), veliero armato dagli imprenditori camogliesi Mortola e Bozzo.

Entrata della Chiesa di S.Rocco (Camogli): sul pavimento di marmo, uno splendido brigantino classico (brig), dono dell’Armatore Giuseppe Mortola nel 1896 (foto B. Malatesta)

I pensieri del Comandante

Con quella splendida nave a vela, considerata un veloce “clipper“, era partito il 21 febbraio da Bunbury in Australia, con destinazione Liverpool. Portava con sé un carico di legno pesante, il “jarrah”. Quel materiale era usato nel Regno Unito soprattutto all’esterno: travertini, cancelli, recinzioni, pavimentazioni varie, eccetera. Aveva il pregio di indurirsi fortemente una volta maturato, fino al punto di non poter essere trattato da nessun utensile dei falegnami.
Bianchi, un trevigiano trentacinquenne, pensava a quanto successo due mesi prima in quelle acque. Il transatlantico Lusitania era stato silurato da un U-Boot tedesco e s’era portato dietro milletrecento persone.

Il Lusitania, colpito a morte, affonda; è il 7 maggio 1915

L’Italia a quel tempo era già in guerra con l’Impero Austro-Ungarico, ma non esisteva di fatto una formale dichiarazione di ostilità tra il nostro Paese e la Germania, alleata dell’Austria. 
E’ possibile che il Capitano non ritenesse il Sardomene un obiettivo strategico, anche se poche ore prima, una cannoniera inglese l’aveva avvertito della presenza di U-Boot in quelle acque. La stampa alleata di quell’epoca definiva “pirateria tedesca” certe aggressioni alle navi mercantili e il governo aveva assegnato perciò alle inermi unità alcune navi scorta in quell’area. 
Il vociare multilingue dell’equipaggio lo distolse da quei cupi pensieri.

Gli armatori camogliesi del Sardomene: a sn. Giuseppe Mortola (Sanrocchìn) e a ds. Vittorio Bozzo (Torrixân)

Quegli armatori camogliesi avevano costruito un’azienda grande e florida, che riuscì in seguito a traghettare abilmente il business dei traffici a vela ottocenteschi verso i più moderni  piroscafi. Bianchi rifletteva anche sulla stranezza che quella nave non ospitasse nessun membro d’equipaggio proveniente dalla “Città dei Mille Bianchi Velieri”. Ciò era spiegato dalla sua lunga permanenza all’estero: infatti, oltre agli italiani, a bordo lavoravano russi, svedesi, spagnoli e scozzesi.

Il disastro

Ad un tratto, una forte esplosione sconquassa il veliero camogliese. L’equipaggio è in preda al panico, le sovrastrutture e lo scafo cedono, la nave – appesantita dal carico di legno duro – collassa e affonda in pochi minuti. Undici dei ventidue membri d’equipaggio – incluso il Capitano – periscono nella tragedia (fonte: Alfredo Noris, sopravvissuto). I naufraghi vengono salvati dalla nave scorta inglese, ma per gli altri non c’è niente da fare. Il colpo fatale era stato sferrato da un sommergibile tedesco, l’U-Boot U24, comandato dal Capitano Rudolf Schneider.

Un sommergibile della stessa classe dell’U-Boot U24, che lanciò il siluro verso il "Sardomene" (1 luglio 1915)

Sicuramente, mentre affondava, Bianchi si chiedeva perché non venne dato nessun preavviso dell’attacco e perché una nazione formalmente non ostile avesse attaccato un’unità italiana, “sprecando” così un siluro per un innocuo veliero. Va qui ricordato che solo un mese dopo, sarà accordato tra i belligeranti di preavvertire le unità mercantili prima di colpirle.

Il racconto di un superstite

Tra gli italiani sopravvissuti c’era il genovese Alfredo Noris – Primo Ufficiale -  che raccontò quegli orribili attimi:
“Era circa l'una di notte quando avvistai un periscopio a circa trecento metri a sinistra della prua: l'impressione che tutti ne avemmo fu che il sommergibile si allontanasse dal nostro veliero, che evidentemente non formava un bersaglio che ripagasse la spesa del siluro. Ma fu probabilmente la bandiera italiana che lo invogliò a farci la festa. Fatto è che all'improvviso il sommergibile si voltò, lanciando un siluro verso di noi. Non era neppure il caso di evitarlo: il veliero era impotente a manovrare e poi la distanza era cosi breve che si può dire che avemmo appena il tempo di vedere in acqua il siluro che già ci colpiva giusto al centro. La scossa sembrò sollevare la nostra nave fuori dall'acqua. L'esplosione fu terribile: abbatté di colpo gli alberi, le vele, le sartie, spogliò per cosi dire il veliero, facendolo inclinare fortemente a sinistra. Per l'urto, due marinai stranieri furono sbalzati in acqua dal castello di prua: uno affogò e l'altro fu salvato. Il nostromo, l'irlandese O’Neill, che si trovava al castello di prora, si diresse verso la scialuppa di dritta.

Passando per il ponte, vide due marinai, Francesco Orteghe e un altro, gravemente feriti; capimmo allora che non ci sarebbe stato il tempo di lanciare le scialuppe. Venne dato l'ordine di afferrarsi ai salvagente e di gettarsi in acqua, che ognuno provvedesse a sé stesso e Dio per tutti. 
Fu allora che vidi per l'ultima volta il Comandante. Il Capitano Bianchi forse non voleva lasciare la nave senza prima aver messo in salvo qualche carta preziosa oppure la cassa: entrò nella sua cabina e non ne usci più.

Posizione del relitto del “Sardomene”

Noi balzammo in acqua: due minuti dopo, il Sardomene colò a picco con gran risucchio, trascinando con sé quanti non erano così lontani da evitare quel vortice. Contammo undici cadaveri in acqua e tanti ne vennero raccolti dalla nave di scorta affrettatasi in nostro soccorso. Due italiani erano stati uccisi dalla esplosione: il cuoco Giorgio Valle e il marinaio Luigi Molla, fra gli scampati, oltre a me e a sei marinai stranieri, lo spezzino Ernesto Capetta e il napoletano Salvatore Molla».

A Camogli

Anche a Camogli l’eco della tragica notizia riempì di tristezza le vie cittadine. In un incontro del Consorzio degli Armatori e dei Capitani di Camogli, il rappresentante Antonio de Gregori inviò formalmente all’Ammiraglio Giovanni Bettolo – a quel tempo parlamentare - una lettera di protesta così da essere inoltrata al Primo Ministro Salandra.

Camogli: la vecchia Scuola di Marina (grafica di G.B. Ferrari, 1925 ca.)

Bettolo affermò che “il Governo ha avanzato adeguate proteste per l’aggressione e che a tempo opportuno speriamo siano dati risarcimenti adeguati”.  L’affondamento del Sardomene venne registrato nella storia come la prima perdita di una nave mercantile italiana nel Conflitto 1915-18.

Breve storia del Sardomene

L’unità fu costruita a Southampton nel 1882 per conto della grande flotta Fernie, Henry & Sons di Liverpool, che fu attiva dal 1870 al 1905. Aveva una portata lorda di 1927 tonnellate, lunga ben 92 metri (i brigantini a palo camogliesi erano di circa 65 metri), tre alberi con vele quadre. Aveva lo scafo in ferro, come era d’uso in Inghilterra a quel tempo di transizione tra la propulsione eolica e quella meccanica. Va qui ricordato che molti nostri armatori acquistarono a fine secolo velieri inglesi con struttura in ferro, ovviamente più resistenti alle operazioni marittime e pressochè inesistenti in Italia. Era quindi una grande nave, che sicuramente sarebbe stata più veloce se avesse avuto un albero extra, mettendola così davvero alla pari coi rapidi clipper inglesi e americani adibiti al traffico del tè.

Immagine d’epoca del Sardomene nella Sede della Società Capitani e Macchinisti Navali di Camogli (foto B.Malatesta)

L’ultima partenza del “Sardomene” riportata dalla stampa: è il 21 febbraio 1915, da Bunbury, Australia. L’inserto mostra erroneamente come tipo di veliero “barque”, cioè brigantino a palo; in realtà l’unità camogliese era una “ship”, poiché provvista di tre alberi a vele quadre.

Nell’ultimo viaggio, il veliero camogliese partì da Marsiglia il 28 luglio 1914 al comando di Nardo Bianchi con un carico di piastrelle con destinazione Bunbury, nei pressi del porto di Fremantle (Perth), nell’Australia Occidentale. Lì arrivò il 17 gennaio e, dopo le necessarie operazioni portuali, il 21 febbraio partì per Liverpool con 4.000 tonnellate di legno “jarrah”. Da notare, che durante il viaggio Australia-Inghilterra il veliero fece una toccata in Sud Africa per scaricare parte del legname. E’ inoltre possibile che l’equipaggio fosse poco informato sull’entrata in guerra italiana (maggio 2015) poiché la nave era in alto mare; fu sicuramente avvertito quel primo luglio, all’arrivo in acque inglesi.

Splendido dipinto del “Laomene”, unità gemella del “Sardomene”: ha a riva la bandiera bianca e rossa, vessillo della compagnia inglese “Fernie, Henry & Sons” (opera di Antonio Jacobsen)

Il toccante commento della sorella del Comandante Bianchi

La sorella del Capitano Bianchi, ricordò tristemente alcuni episodi di famiglia, affiorati mentre osservava le rovine del suo palazzo nei pressi di Treviso, abbattuto dall’artiglieria austro-ungarica nel Primo Conflitto.

“Sotto le macerie rinvenni la fotografia di mia madre. Sempre bella. Diseppellii pure quella del mio prediletto fratello. Non è bastato al nemico lanciare il perfido dardo, colpire l’innocuo veliero guidato da Nardo nelle isole d’Irlanda e cacciato a fondo con un siluro assieme a quasi tutto l’equipaggio. Ha voluto ancora, quel vile, colpire l’effige del capitano del Sardomene nella sua casa di campagna, fra le pareti domestiche”.

Bruno Malatesta/maggio 2015

Fonti: -    Articoli vari locali d’epoca – Biblioteca Civica “N.Cuneo” - Camogli
-    Pro Schiaffino: I soprannomi degli armatori di Camogli;
-    G.B. Ferrari: Capitani e Bastimenti di Liguria;
-    Pro Schiaffino: I 1000 bianchi velieri di Camogli;
-    Vari articoli liberi da copyright su Internet;
-    Alcune immagini non originali sono libere da copyright.=

Eventuali precisazioni o ulteriori informazioni sono benvenute. Grazie


USS CONSTITUTION - Una leggenda

 

USS CONSTITUTION

Una Leggenda

La USS Constitution, detta "Old Ironsides" è una fregata pesante a tre alberi, in legno, della United States Navy. Battezzata in omaggio alla Costituzione degli Stati Uniti d'America, è la più vecchia nave al mondo ancora galleggiante (la HMS Victory è più vecchia di trent'anni, ma è stata tirata permanentemente in secca).

La Constitution fu una delle sei fregate originali autorizzate alla costruzione dall'Atto Navale del 1794. Joshua Humphreys le progettò per essere le navi capitali della marina e quindi la Constitution e le sue sorelle furono più grandi e meglio armate delle fregate standard dell'epoca. Per un certo periodo alla Constitution venne assegnato il numero di classificazione di scafo IX-21 ("IX" significa "Miscellanea non classificata"), ma venne riclassificata "nessuna" il 1 settembre 1975

La Constitution abbatte l'albero di mezzana della Guerriere. La Constitution venne costruita nel cantiere navale di Edmund Hart a Boston, Massachusetts con assi di quercia virginiana spesse fino a 178 mm. Fu varata il 21 ottobre 1797 ed entrò in servizio il 22 luglio 1798. Il suo primo servizio fu il pattugliamento delle coste sudorientali degli Stati Uniti durante la guerra non dichiarata con la Francia del 1798-1800.

Nel 1803 venne designata come nave ammiraglia dello squadrone del mare Mediterraneo sotto il comando del capitano Edward Preble e servì nel corso della prima guerra barbaresca contro gli Stati barbareschi del Nordafrica che chiedevano il pagamento di tributi dagli Stati Uniti, in cambio del permesso dell'accesso delle navi mercantili ai porti mediterranei. Preble iniziò una campagna aggressiva contro Tripoli bloccando i porti e bombardando fortificazioni. Infine Tripoli, Tunisia e Algeria accettarono di firmare un trattato di pace.

La Constitution pattugliò la costa del Nordafrica per due anni dopo il termine della guerra, per far rispettare i termini del trattato.

Ritornò a Boston nel 1807 per due anni di raddobbi. La nave venne rimessa in servizio come nave ammiraglia dello squadrone del Nord Atlantico nel 1809 al comando del commodoro John Rodgers.

All'inizio del 1812 le relazioni con il Regno Unito si erano deteriorate e la Marina iniziò a prepararsi per la guerra che venne dichiarata il 20 giugno. Il capitano Isaac Hull che era stato nominato ufficiale comandante della Constitution nel 1810 prese il mare il 12 luglio per prevenire il blocco dei porti. La sua intenzione era di unirsi alle cinque navi dello squadrone di Rodgers.

Il 17 luglio la Constitution avvistò cinque navi al largo di Egg Harbor nel New Jersey. Il mattino seguente le vedette avevano determinato che si trattava di uno squadrone britannico che aveva a sua volta avvistato la Constitution e che si era messa al suo inseguimento. Trovandosi in bonaccia, Hull e il suo equipaggio misero in mare le barche per trainarla fuori tiro. Tonneggiando tenendosi sull'ancorotto (tecnica per trainare o far virare una nave usando l'ancorotto) e bagnando le vele per sfruttare ogni alito di vento la Constitution iniziò a guadagnare lentamente vantaggio contro i britannici. Dopo due giorni e due notti di incessante lavoro sfuggì infine ai suoi inseguitori.

Un mese più tardi, il 19 agosto incontrò la fregata HMS Guerriere al largo della Nuova Scozia e ingaggiò battaglia, riducendola dopo 20 minuti ad uno scafo privo d'alberi, così gravemente danneggiata da non valere la pena di essere trainata in porto. Hull usò efficacemente le sue bordate più pesanti e la superiore capacità di manovra della sua nave, mentre i britannici assistettero sgomenti alle loro bordate che rimbalzavano apparentemente senza effetto dalle fiancate della Constitution, che si guadagnò così il soprannome di Old Ironsides ("vecchia corazzata").

Nel dicembre, al comando di William Bainbridge, affrontò la HMS Java, un'altra fregata britannica. Dopo tre ore di scontro la Java era così danneggiata da essere irreparabile e venne data alle fiamme. Le vittorie della Constitution furono di grande sostegno al morale americano.

Nonostante abbia dovuto trascorrere molti mesi in porto, o a causa di riparazioni o a causa di blocchi navali, al comando di Charles Stewart la Constitution catturò altre otto navi prima della dichiarazione della pace nel 1815, inclusi una fregata ed uno sloop britannici che navigavano insieme e che combatté simultaneamente. Dopo sei anni di estensive riparazioni ritornò in servizio come nave ammiraglia dello squadrone del Mediterraneo. Ritornò in porto a Boston nel 1828.

Nel 1830 venne giudicata non in grado di navigare, ma l'indignazione pubblica alla raccomandazione che venisse smantellata (specialmente dopo la pubblicazione del poema Old Ironsides di Oliver Wendell Holmes), spinse il congresso a decidere di ricostruirla e nel 1835 rientrò in servizio. Servì come nave ammiraglia nel Mediterraneo e nel Sud Pacifico e compì un viaggio di 30 mesi intorno al mondo nel marzo 1844.

Negli anni 1850 pattugliò la costa africana in cerca di schiavisti e durante la Guerra di secessione americana servì come nave scuola per gli allievi dell'Accademia navale.

Dopo un altro periodo di ricostruzioni, nel 1871 trasportò beni per l'Esposizione Universale di Parigi del 1877 e servì nuovamente come nave scuola. Venne ritirata dal servizio nel 1882 e servì come nave ricevimenti a Portsmouth nel New Hampshire. Ritornò a Boston per celebrare il suo centennale nel 1897.

Nel 1905 l'opinione popolare la salvò nuovamente dalla demolizione; nel 1925 venne restaurata grazie alle donazioni di scuole e gruppi patriottici. Rimessa in servizio il 1 luglio 1931 venne trainata in un tour di 90 città portuali lungo la costa atlantica e pacifica degli Stati Uniti. Dal 1920 al 1923 venne rinominata Old Constitution, per liberare il suo nome per un nuovo incrociatore da battaglia in corso di costruzione, ma che non venne mai completato.

Più di 4.600.000 persone la visitarono durante il suo viaggio durato tre anni. Essendo ormai un'icona americana ritornò al suo porto di Boston. Nel 1941 venne messa in servizio permanente e nel 1954 un atto del Congresso rese il Segretario della Marina responsabile del suo mantenimento. Attualmente è ancorata nel vecchio cantiere navale di Charlestown a Boston. È aperta al pubblico per visite (per maggiori informazioni vedi il sito indicato sotto).

Dal 1992 al 1995 venne raddobbata e revisionata e riportata alla piena capacità di navigare. La revisione fu molto meno intensiva di quella della Constellation, dato che la Constitution era in forma migliore.

Il 21 luglio 1997 durante le celebrazioni per il suo duecentesimo compleanno la Constitution riprese il mare per la prima volta in oltre un secolo. Venne trainata dal suo ormeggio fino a Marblehead, quindi innalzò sei vele (fiocchi, vele di gabbia e driver) e si mosse senza assistenza per un'ora sparando 21 salve.

Ormeggiata a Boston, il ruolo moderno della Constitution è quello di "nave di Stato". Incaricata di promuovere la marina, viene visitata annualmente da milioni di visitatori. Il suo equipaggio di 55 marinai partecipa a cerimonie, programmi educativi ed eventi speciali, mantenendo la nave aperta la pubblico ed organizzando giri guidati. È ancora un vascello in servizio attivo della US Navy. L'equipaggio è composto da marinai in servizio attivo e l'assegnamento a questa nave viene considerato un incarico speciale nella marina. Tradizionalmente il titolo di capitano viene assegnato ad un capitano in servizio attivo della marina.

Caratteristiche e armamento

Dislocamento: 2.250 ton

Lunghezza: 204 piedi, 175 al galleggiamento

Larghezza: 43 piedi e 6 pollici

Pescaggio: 19 piedi e 2 pollici di prua, 22 piedi e 9 pollici di poppa

Alberi: Maestra 220 piedi, Trinchetta 198, Mezzana 172 e 6 pollici,

Superfice velica: 3967,89 mq con 36 vele; 1135,74 mq con 6 vele nel 1997

Equipaggio: nel 1797 – 23 ufficiali, 273 marinai, 60 marines nel 1821 – 40 ufficiali, 395 marinai, 60 marines

Disegnatore: Joshua Humphreys

Costruttore: George Claghorne

Costruita a: Hartt Shipyard, Boston, Massachusetts

Varata: 21 ottobre 1797 alle 12,15

Prima navigazione: 22 luglio 1798 alle 20,00

Velocità: Record per 1 ora – 14.0 nodi. Record in 24 ore – 10.3 nodi.

Record in 72 ore – 9.2 nodi

Armamento: 1798 – 30 cannoni da 24 libbre, 16 da 18 libbre e 14 da 12 libbre 1812 – 30 cannoni da 24 libbre, 1 da 18 libbre, 24 carronate da 32 libbre

Date essenziali

21 ottobre 1797 varo della USS Constitution al cantiere Edmond Hartt’s Shipyard di Boston;

Agosto 1798 in azione nella “Quasi guerra” con la Francia; 1803–1806 nave ammiraglia della flotta del Mediterraneo nella guerra contro Tripoli;

18 agosto 1812 vittoria contro la HMS Guerrière da cui il soprannome Old Ironsides;

29 dicembre 1812 battaglia contro la fregata Java e altri cinque vascelli inglesi;

Marzo 1844 viaggio intorno al mondo, della durata di 30 mesi; 1931-1934 viaggio che la conduce a toccare 90 città statunitensi e ritorno a Boston;

1996-1997 sottoposta a un restauro della durata di 44 mesi, con uscita in mare nel luglio 1997;

21 ottobre 1997 compie 200 anni.

ENTRATA IN BACINO USS CONSTITUTION

La nave USS Constitution è entrata martedì scorso nel bacino della CHARLESTON NAVY YARD BOSTON NATIONAL HISTORICAL PARK per un programmato lavoro di restauro del costo di diversi milioni di dollari. La USS Constitution è la più vecchia al mondo tra le navi militari tuttora in servizio. Essa è stata consegnata alla US NAVY  il  21 ottobre 1797. Tuttavia dal 1907 la nave è stata utilizzata come simbolo per preservare la storia della Marina Americana. Il restauro prevede un costo tra i 12 e 15 milioni di dollari, durerà più di due anni e sarà la prima volta che la Constitution viene tirata in secco dal 1992. Il lavoro prevederà: la sostituzione della parte inferiore  del fasciame della carena;  la rimozione delle 1995 piastre di rame sostituendole con 3400 fogli di rame nuovo che proteggeranno lo scafo sotto la linea di galleggiamento;  la sostituzione dei bagli della coperta; la manutenzione ed eventuale sostituzione della parte superiore degli alberi e del sartiame.  Durante il periodo di carenaggio la nave resterà aperta alle visite del pubblico.

ALBUM FOTOGRAFICO




Testo a cura di CARLO GATTI

Album fotografico

A cura di PINO SORIO

Rapallo, 22 Maggio 2015