LA TRAGICA FINE DELLA BALENIERA ESSEX
LA TRAGICA FINE DELLA BALENIERA ESSEX
ISPIRO’
L’AUTORE DI MOBY DICK
A partire dal 1400, i coraggiosi pescatori baschi furono i primi a cacciare le balene con agili scialuppe che, una volta arpionati i capodogli, avevano anche il compito di rimorchiarli a terra. In seguito i cetacei scelsero rotte più lontane per evitare gli agguati sotto costa e i pescatori, diventarono “marinai d’altomare” per poterle inseguire utilizzando Karake alte e potenti della lunghezza di 20 metri. Più tardi queste imbarcazioni furono sostituite dalle Caravelle dotate di maggiore manovrabilità e capacità di stivaggio. Tra il 1700 e il 1800 la caccia ai cetacei immortalata da Melville, raggiunse il suo apogeo e la tipica nave-baleniera acquisì il suo shape definitivo. I primi Sloops ad un solo albero furono costruiti e armati a Nantucket nel 1715, ma in seguito, come accadde alcuni secoli prima in Europa, le zone di caccia si estesero per tutti i sette mari. Fu così che l’Oceano Pacifico diventò la nuova meta dei cacciatori di balene, ma per superare le insidie di Capo Horn occorrevano baleniere a tre alberi di almeno 400 tonnellate, con una capacità di stivaggio idonea per affrontare campagne di pesca della durata di 3-4 anni.
Quando, il 6 settembre del 1841 il Charles W.Morgan (nella foto) salpò per il suo viaggio inaugurale dal porto di New Bedford, nel Massachusetts; erano trascorsi solo nove mesi da quando un’altra nave, la baleniera Acushnet aveva imbarcato per la sua prima esperienza di caccia un giovane scrittore: Herman Melville. Oggi, quel che di più tangibile resta dell’epopea delle baleniere americane è quanto di vero Melville scrisse in “Moby Dick“, e poi c’è la Morgan, ultima superstite di una flotta che contava 2700 navi dedicate alla sola caccia ai cetacei.
Ma se vogliamo farci un’idea più precisa dobbiamo salire a bordo di una qualsiasi baleniera ed ascoltare il narratore:
“Il ponte della nave era soggetto a rapido deterioramento vista l'azione di bollitura del grasso di balena e dello squartamento dei cetacei, effettuato con pale estremamente taglienti. All'arrivo nelle zone di caccia sul ponte principale veniva eretta una piattaforma di mattoni sulla quale erano poste grandi marmitte metalliche (in genere 2) e un recipiente di raffreddamento pieno d'acqua per cercare di limitare gli effetti del calore. Al termine della caccia, riempite le stive, il forno veniva demolito: questa circostanza era accompagnata da festeggiamenti dell'equipaggio. Le baleniere erano prevalentemente di colore nero, con una striscia bianca su entrambi i fianchi intervallata da riquadri neri, disegnati per simulare alla distanza la presenza di bocche da fuoco, onde prevenire in qualche misura attacchi”.
Nel 1820 la baleniera ESSEX, che faceva compartimento Nantucket-USA, entrò in collisione con un enorme capodoglio. La tragica storia che ne seguì, pare abbia ispirato il più celebre narratore americano Herman Melville per il suo Moby Dick.
Pollard, il comandante della Essex, era incappato in mari poco pescosi, le stive della baleniera erano quasi vuote e il grasso di balena era molto richiesto per l’imminente inverno. Dalle coste atlantiche di Nantucket era necessario passare dall’altra parte, nell’Oceano Pacifico, ma era pur sempre una sfida infernale. Nessuno era mai riuscito a doppiare Capo Horn senza soffrire le pene dell’inferno e Pollard ne ebbe la conferma, ma ci riuscì senza danni eccessivi ai tre alberi e all’attrezzatura di bordo.
Scampato il pericolo dei “Quaranta Ruggenti”, risalì per meridiano le coste spelate del Cile e poi si spinse al largo dell’Oceano verso rotte solitarie, forse mai navigate, alla ricerca del carico più prezioso che il mare poteva offrire due secoli fa: una grande balena, la cui cattura non era mai gratuita. Dopo settimane e settimane di snervante “niente in vista”, improvvisamente si sentì un urlo partire dalla coffa, il marinaio di vedetta aveva avvistato una grande famiglia di capodogli.Il comandante Pollard toccò il cielo con un dito: fece calare tre scialuppe-baleniere e ordinò agli equipaggi d’inseguire quel branco entrato, in quel periodo, nella stagione degli amori.
La lancia più veloce mise la prua su un enorme maschio di capodoglio che si fece astutamente raggiungere per attirare su di sé il predatore. L’esperienza dei marinai di Nantucket non fu sufficiente ad evitare la tremenda collisione che li fece volare insieme ai loro remi e alla scialuppa che nella ricaduta si capovolse e finì in pezzi sulle loro teste. Due uomini si salvarono a nuoto e furono recuperati a stento dai marinai terrorizzati delle due altre lance che accorsero immediatamente.
Il capodoglio fece un ampio giro, poi mise la ESSEX nel mirino, prese la rincorsa e si scagliò con la sua incredibile massa verso il fianco della nave-officina procurandole una “tragica” falla. L’equipaggio sotto schock non sapeva come reagire, ma la balena si.
L’enorme cetaceo riemerse nuovamente e con la stessa potenza devastante colpì ancora una volta la già ferita ESSEX colandola a picco con i marinai che non fecero in tempo a saltare sulle lance.
Passati 78 giorni dal naufragio, i 20 superstiti approdarono fortunosamente sulla spiaggia dell’atollo di Henderson. Purtroppo, in breve tempo esaurirono le scorte di frutta e di acqua, quindi decisero di ripartire lasciando tre compagni sul piccolo atollo nell’attesa d’improbabili soccorsi.
L’Oceano chiamato Pacifico dimostrò ancora una volta di essere calmo, ma letale. Un crudele destino era alle porte di quella sfortunata spedizione. I naufraghi, estremamente indeboliti e senza una attendibile posizione nautica, andarono alla deriva con le loro lance cominciando a morire di sete e di fame. La disperazione mista a follia li spinse al cannibalismo dei compagni morti e quando anche questa risorsa si esaurì, si convinsero della necessità di una terribile, estrema soluzione: uccidere un compagno, estratto a sorte e mangiarne il corpo. Così fu, perché così fu raccontato dal capitano e da Owen Chase quando, finalmente, 300 miglia al largo delle coste del Cile, una nave salvò i due sopravvissuti.
Il rimorso per il cannibalismo e il tragico sorteggio avrebbe segnato il resto della vita degli uomini sopravvissuti. Il resoconto di uno degli otto superstiti, Owen Chase, sconvolse il pubblico ottocentesco: in particolare colpì Herman Melville, che ne trasse ispirazione per Moby Dick, la storia della Pequod, anch'essa salpata dal porto di Nantucket.
L’impari lotta degli uomini di mare contro le tempeste, il freddo, le malattie, l’ombra della morte che saltella sui pennoni nell’attesa di scagliarsi sulla prossima vittima, l’impercettibile cima della sopravvivenza cui si aggrappa la ciurma disperata, altro non sono che la realistica parabola sul destino umano. Il Dio dei marinai di Nantucket li rende padroni del mare e delle sue creature, ma pone anche un limite al loro orgoglio scagliandoli negli abissi dell’oceano, oppure trasformandoli in vermi costretti a nutrirsi della loro stessa carne.
Carlo GATTI
Rapallo, 28 Dicembre 2014
DONNE
Donne
E sedutosi davanti al tesoro (Gesù) osservava come la folla gettava monete nel tesoro; e tanti ricchi ne gettavano molte. Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino. Allora, chiamati a se i discepoli, disse loro: <In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri, poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere.>
Marco, 12,38-44
Questo è ciò che anch’io penso delle donne e della loro generosità.
Non ne ho parlato molto in questi miei ricordi, non perché, ininfluenti, abbiano attraversato la mia vita, anzi; se la vivo serena, è anche grazie alle straordinarie figure femminili che ho avuto la fortuna di incontrare, da mia madre a mia moglie sino all’ultimo sempre al mio fianco, anche in quanto ho qui scritto, ma perché, ragazzo a quel tempo, ci si soffermava meno sull’altro sesso, imbevuti com'eravamo di “fascistico” maschilismo. Avanzando negli anni, capii che, come ricordava l’affascinante attrice Michèle Morgan, sono loro <…che sempre pagano un prezzo più alto >.
Volendo rendere omaggio a tutte sotto una visione laica, mi limiterò a ricordare quelle del tempo di guerra perché, proprio in simili situazioni estreme, emergono le qualità essenziali; furono leonesse nel portare avanti il loro ruolo di perpetuatrici della specie.
E’ provato statisticamente che nove mesi dopo luttuose calamità, c’è un incremento della natalità; è l’uomo che, a fronte di tanta morte o paura, tenta, a volte anche inconsciamente, di rilanciare la vita come fa l’albero che, prima di morire, produce in un ultimo sforzo vitale, più frutti e quindi più semi, così da assicurare la continuità alla specie.
E’ difficile parlare di loro senza cadere nell’ovvio o nel moralismo, ma una cosa va detta: l’Italia, spaccata in due e abitata da italiani ormai fuori di senno, senza alcuno che facesse rispettare la legge, occupata da stranieri che in casa nostra si combattevano e ci combattevano, grazie alle donne, ha continuato a vivere.
Le famiglie, ancorchè smembrate da forzate assenze d’alcuni suoi componenti, non si sono sfasciate per loro merito e le hanno traghettate sino ai giorni nostri, sopperendo alle assenze maschili, sostituendole in casa, nel lavoro e nella scuola, rivelando una combattività fino allora insospettata.
Oggi, passata l’emergenza e dimenticandosi alcuni cosa seppero fare quelle donne per salvare la famiglia dallo sfascio, accompagnando per mano quei bambini sino a divenire uomini, oggi dicevamo auspicano di poter impunemente sostituire quel coagulante con non si sa quale alternativa.
Noi figli, nonostante crescessimo in quel caos generale che per quanto se ne parli oggi, resta inimmaginabile, siamo stati, al limite dell’impossibile, accuditi e dalle nostre madri abbiamo appreso ancora i vecchi principi fondamentali che ora, in tempo di benessere, sono messi in discussione, se non dimenticati da chi ci ha seguito. Quell'educazione si rivelò preziosa per il nostro equilibrio, facendoci sperare e stimolandoci, fin da allora, a credere e, appena possibile, a dar vita ad un domani migliore anche se, quotidianamente in quei tempi, i violenti con il loro agire, parevano smentirle e disattenderle.
All’epoca della Repubblica di Salò, negli ultimi tempi della guerra, uscendo da casa, potevi incappare in uno sconosciuto morto ammazzato in strada; era consigliabile non fermarsi per recitare anche una sola preghiera perché, con quel gesto d’umana pietà potevi, platealmente e senza neppure volerlo, dare l’impressione agli esecutori di non condividere le motivazioni di quell’uccisione; agli occhi degli altri invece, saresti stato “etichettato” e perseguito assieme alla tua famiglia, quale sostenitore della parte che lo aveva ucciso, anche se a te, quest’ultima, continuava ad esserti realmente ignota. Vicino a quei morti ho sempre visto una qualche donna pregare piangendo.
In tutto questo sovvertimento di valori umani, si possono anche capire se non giustificare, quelle donne che si dettero agli occupanti tedeschi, non certo per condivisione della loro fede politica o per accettazione ideologica della dittatura; molte v’incapparono nella ricerca di un contatto, che poi si rivelò galeotto, atto a poter liberare il congiunto appena caduto in una retata cittadina, attuata per catturare forze di lavoro da deportare in Germania a sostituire i lavoratori tedeschi inviati al fronte, o peggio, solo per eseguire una rappresaglia vendicativa.
Altre, irretite da promesse rivelatesi poi mendaci, pensarono di rendersi utili ai parenti “internati” nei lager (all’epoca, non si sapeva cosa realmente succedeva in quei campi) dimostrandosi compiacenti con gli occupanti sperando di, attraverso questi, influenzare i loro camerati aguzzini, per permettere almeno di far arrivare colà, aiuti e corrispondenza.
Questa disponibilità finiva con il “rompere il ghiaccio”, anche fin troppo, fra le parti. Gli occupanti potevano apparire, agli occhi di chi aveva bisogno di tutto per vivere che, attraverso loro, si sarebbe anche potuto tentare di alleviare le sofferenze dei loro cari “internati”. In molti casi, in quei giorni, gli occupanti parevano detenere tutto ciò che esse ritenevano vitale. In fine c’è anche l’altro aspetto che non và sottaciuto; tutti gli uomini validi erano da troppo tempo lontani da casa e, si sa, la carne è debole. A loro volta gli stessi occupanti avevano dovuto lasciare le loro famiglie, e sapevano anche che anche là quotidianamente venivano bombardate. Solo dopo si seppe cosa realmente, in quei giorni, stava succedendo in Germania; mio zio Mario, lavoratore deportato, “aggiustatore” dalle mani d’oro, seppe rendersi utile in mille frangenti. Quante volte, il giorno dopo l’ennesimo bombardamento, veniva inviato a riassestare le case bombardate dove incontrava vedove bianche, a loro volta disponibili.
Finita la guerra, quelle che avevano ingiustificatamente perso la testa furono, dai partigiani, arrestate, insultate ed esposte al pubblico ludibrio, dopo essere state rasate e aver loro imbrattato con pittura il cranio nudo; venivano poi fatte sfilare per le strade e tutti si sfogavano ad insultarle o peggio. In quelle occasioni, come sovente capita, le più implacabili accusatrici furono spesso le altre donne, quelle la cui condotta, nel frattempo, non era certo irreprensibile con gli ultimi arrivati, i “liberatori”.
Generalmente, le prime, venivano rinchiuse per qualche giorno in guardina e, dopo averle sommariamente processate e redarguite, rispedite a casa, additandole come <puttane >.
Quelle invece che si portarono, in letti del tutto simili, i “liberatori”, sono passate alla cronaca dell’epoca con l’accattivante nomignolo di <segnorine >. Entrambe però furono spinte, forse senza neppure saperlo, dalla necessità di riconfermare il trionfo della vita sulla morte, andando assieme al maschio, in quel momento, “dominante”. Questo, di massima, era la situazione che poi, caso per caso poteva anche avere altre motivazioni.
Non intendo dare giudizi morali perché racconto cose viste e memorizzate con gli occhi di un ragazzo cresciuto, per alcuni anni, in mezzo alla morte, al dolore, alle privazioni e alla paura; bisogna inquadrare tutto in quel particolare momento storico e psicologico in cui spesso non era facile ravvisare il bene dal male, il torto dalla ragione e il falso dal vero. Eravamo troppo affamati, terrorizzati ed assonnati per poterlo nettamente percepire.
E tutte le altre donne? Come sempre capita a chi, in silenzio, compie il proprio dovere, la quasi totalità soffrì a casa, tacitamente cercando, nei limiti del possibile, d’essere punto di riferimento, supplendo così anche chi era forzatamente assente; stettero, finché fu loro possibile, vicino ai propri uomini, non facendo loro mancare la propria presenza ogni qual volta ve ne fosse l’opportunità.
Contrariamente alla guerra “15/18”, quest’ultima portò il fronte in mezzo alle nostre case e nelle nostre strade; anche qui si poteva morire a causa dei continui bombardamenti o per mano di avversari fuori di senno, soffrendo disagi, spesso paragonabili a quelli di chi combatteva. E le donne, eterno punto di riferimento, passarono attraverso quest’immane tempesta, preparando noi ragazzi, nell’attesa del ritorno dei padri sopravissuti, ad affrontare il dopoguerra senza mai perdere di vista i veri valori dell’uomo, mai come in quei giorni così travisati e calpestati.
In questo ricordo è giusto accomunare le donne della gente di mare che a Genova, ed in Liguria in generale, terra di marittimi, sono sempre state numerose. Se pur allenate a lunghi periodi di forzata separazione, in tempo di conflitto quella trepidazione divenne incubo continuo perché le notizie negative o, quanto meno contraddittorie, fornite dai vari bollettini radio, che per ragioni di segretezza frammista alla propaganda, censuravano i dettagli, non indicando mai dove erano realmente avvenuti gli attacchi che stavano segnalando ne sapevano dove quel giorno stava navigando il loro congiunto. Nell’indeterminatezza, ognuna poteva pensare di aver perso il familiare e, quindi tutte indistintamente, n'erano coivolte; né contribuiva a confortarle il nostro servizio postale, cronicamente inefficiente ma che in tempo di guerra, ove possibile, lo era ancor più.
Quelle poche lettere che riuscivano ad arrivare, moltissime andarono distrutte per causa di eventi bellici, avevano molte righe cancellate da un impenetrabile largo segno nero, specie in quei passaggi che indicavano luoghi o date ma anche semplici espressioni di sconforto o disappunto a riprova che l’unica cosa da noi funzionante efficientemente era la censura fascista che, in questa specifica attività, faceva faville.
Molte volte gli scriventi tornavano prima che giungessero le loro ultime lettere ma, troppo spesso, succedeva che quelle ferali del Ministero fossero recapitate alla famiglia dai Carabinieri, magari un attimo dopo aver finito di leggere la tanto attesa lettera, consegnata poco prima dal postino tradizionale e firmata da chi, nonostante tutto, continuava a scrivere di credere in un avvenire migliore da edificarsi a fine guerra.
In ultimo, non posso non ricordare tutte quelle donne ebree, madri o spose che, pur di non distaccarsi dalla propria famiglia, decisero spontaneamente di imbarcarsi esse stesse sui treni che deportavano nei lager i loro cari e poi, contemporaneamente ad essi, ma in campi rigorosamente separati, soccombere.
Tutto quello che ho scritto è frutto di ciò che oggi rivedo come se stessi guardando uno sfocato dagherrotipo; come quello, anche la memoria non è sempre di facile “lettura”. Posso anche aver descritto cose che, pur nella più completa buona fede, la patina del tempo che sbiadisce ogni cosa, mi può aver fatto travisare; perdonatemi, sarà l’età e l’infinito amore per questa mia Liguria.
Volendo fare un bilancio della mia vita devo dire che fu varia e senza insormontabili mutamenti; questo grazie alle persone che mi sono state attorno. Mio padre mi ha dato esempio di retta onestà e mia madre di profonda e partecipata fede. Per parte mia posso essere onorato d’aver vissuto accompagnato da pochi veri amici ma per me importanti, due dei quali sono oggi tumulati nel Famedio dei Genovesi Illustri a Staglieno.
Un solo grande, incolmabile rimpianto è quello di aver perduto, negli ultimi chilometri che mi rimangono da percorrere, la insostituibile compagnia di mia moglie. Il destino, insensibile ai miei desiderata, ha dato invece corso al proprio programma già predeterminato.
A tutte loro dedico questa poesia di Vito Elio Petrucci, il poeta che mi ha è stato amico per una vita:
FIN CHE NO TI SENTI
Fin che no ti senti
in te’na notte de lunn-a
l’ödô do limoneto
derrê a-a muagetta:
allöa l’è primmaveja.
Gh’è drento tutti i peccoei do mondo
E a coae de fâne di atri.
Allöa lìè primmaveja, pe accorzise
Che appreuvo a quello fî d’äia döçe
( o gusto ti o senti in bocca)
Gh’è o segreto de ‘na natüa
Che de peccòu in peccòu a fa cammin.
Libera traduzione: Finché non senti in una notte di luna l’odore del pittosporo dietro al muricciolo: allora è primavera. Ci sono dentro tutti i peccati del mondo e la voglia di farne degli altri. ■ Allora è primavera per accorgersi che dietro a quel filo d’aria dolce (il gusto lo senti in bocca) c’è il segreto di una natura che di peccato in peccato fa cammino.
Renzo BAGNASCO
foto del webmaster Carlo GATTI
Rapallo, 28 dicembre 2014
SANTA MARGHERITA L. e la Guerra '15-'18
SANTA MARGHERITA
la guerra ’15 -‘18
<Santa Margherita è forse, in inverno, la stazione climatica che gli Inglesi e i Teutonici amano di preferenza affollare. Quando imperversa con la calura la torrida estate, non è italiano che non vi trascorra qualche giorno per tuffarsi nelle glauche acque del Tirreno. Si leva nel golfo di Rapallo come una ninfea voluttuosa, in una baia ridente, protetta da tutte le furie di Eolo. Santa Margherita accoglie oggidì nei suoi alberghi di primo ordine tutte le categorie degli errabondi che lasciano le nordiche case e si installano in questa riva magica che il dattero di oriente profuma, maturando >.
Trascrizione integrale nella quale é difficile ritrovarsi oggi, ma così appare nel volume <Liguria > della collana “Bellezze d’Italia” con tanto di dedica bene augurante, posta sotto il ritratto a tutta pagina in apertura del libro, firmata da Benito Mussolini; era il Gennaio del 1924.
In quegli anni, qualche italiano turista era possibile ci fosse; solo quei pochi che se lo potevano permettere erano accomunati ai nordici, compreso il brivido dell’avventura di <solcare i mari >, anche se in realtà si limitavano a circumnavigare i capi del golfo del Tigullio su motoscafi privati, gli unici che all’epoca facessero servizio a noleggio. Fino ai primi decenni del ‘900, quel golfo, com’è facile intuire, era meta di un turismo di élite, per altro anche l’unico in circolazione all’epoca, nonostante sia scritto <..non è italiano che..> nel libro menzionato.
Papà, giovanissimo appassionato di motori e di salsedine, comandava, guidava e manuteneva uno di quei battelli e accompagnava i clienti a vedere quelle che D’Annunzio, in “Elettra”, descrive come:
le rupi che nel mar di Liguria
si protendono come sfingi
coronate di fiori!
Il servizio di battelli che oggi trasportano masse di gitanti, non esisteva ancora, così come, lo abbiamo detto, non esistevano per altro neppure le “masse di gitanti” che potessero permettersi il lusso di esserne trasportati.
Ogni qual volta navigo in quelle acque, non posso dimenticare quanto mi raccontava, di quel poco che ha voluto dirci della sua vita, mio padre a proposito di una decisione, per lui giovinetto, importante.
Nel 1915, appena ventenne, decise di lasciare l’ottimo posto di lavoro che aveva presso gli stabilimenti Ansaldo per seguire, volontario, i suoi più anziani colleghi che, invece, erano stati chiamati alle armi per combattere nella “grande guerra”, già scoppiata; “grande” la si definì solo alla fine anche se, come per tutte le guerre, sarebbe stato più consono definirla “immane”.
Prese quella decisione perché aveva ritenuto ingiusto restare a casa, magari facendo pure carriera grazie alla loro assenza, anche se la Direzione dell'Ansaldo aveva per lui ottenuto l’esenzione dal servizio militare. Era ritenuto, per certe sue intuizioni migliorative della produzione, indispensabile, perché capace di risolvere problemi normalmente ovviabili solo dopo lunghi studi a tavolino; in tempo di guerra la velocità può rivelarsi decisiva.
Venuto a conoscenza che il figlio “dandy”, prediletto e viziato dalla madre, una nobildonna milanese sua assidua cliente ai tempi del cabotaggio, era stato chiamato alle armi, prese contatti con la signora stessa, ponendosi a sua disposizione.
All’epoca, per essere graduati, non era indispensabile un titolo di studio; si poteva ovviare portando in <dote > un’attrezzatura che fosse ritenuta utile per la patria in armi. Entro certi limiti, si aveva diritto ad un grado proporzionale all’apporto offerto; poteva essere valido già un cavallo, per poi salire ad una moto, un’auto, un camion, un motoscafo sino ad arrivare all’ambitissimo aeromobile, in quei tempi agli esordi.
La signora, conoscendo la serietà e le capacità tecniche di mio padre, acquistò per il figlio un motoscafo e lo equipaggiò anche con un pilota-meccanico di prim’ordine, in modo che potesse fungere da angelo custode al figlio e garantire, nello stesso tempo, un’efficiente manutenzione all’imbarcazione: papà, per l’appunto.
Subito il “signorino” fu nominato Ufficiale e aggregato al Comando della Marina a Venezia dove, libero dalla presenza vigilatrice della madre, si dette alla bella vita con i “soldi di mammà”. Mio padre avrebbe dovuto fargli da attendente-pilota ma, una volta arrivati a destinazione e trovato per “l’armatore” una comoda sistemazione al Lido, noblesse oblige, domandò e ottenne di potersi aggregare, barca al seguito, a Chioggia, con compiti operativi. D’altro canto lui era lì per combattere, purché sul mare, e questo intendeva fare. All’epoca era in auge D’Annunzio con il suo dire:
Il mare è la mia patria, la patria dei liberi.
Era spesso inviato a risalire il Piave o l’Isonzo, per missioni di guerra; appena calata la notte doveva trasportare, oltre gli avamposti austriaci, gruppi di <arditi > assalitori con il compito di neutralizzare silenziosamente, usando solo pugnali e corti cavetti d’acciaio, gli occupanti di certe postazioni nemiche che, durante il giorno, avevano dato del "filo da torcere" agli alleati. Poi, prima del rischiarare dell’alba, in ora e sito stabilito, doveva recuperarli per riportarli alla base; moltissime volte, purtroppo, il motoscafo ritornò semivuoto. Normalmente, non appena rimbarcati i presenti all’appuntamento, sfruttando la corrente discendente del fiume per ridurre al minimo il rumore dei motori, a luci spente, iniziava il ritorno fra sponde infide.
Nel tentativo di far recuperare agli arditi le perdute e intirizzite energie, preparava sottocoperta delle spaghettate; a mano a mano che le missioni s’intensificavano, sempre più spesso quel pasto caldo serviva a sedare frequenti incontrollabili tremori. L’acqua per cuocere l’attingeva direttamente dal fiume e, raccontava che, in occasione della ritirata di Caporetto, era insolitamente rossastra tanto che era difficile trovare un’ansa dove l’acqua non fosse insanguinata.
Per il suo coraggio e la sua capacità lo addestrarono per partecipare alla <Beffa di Bucari > in qualità di riserva ma, alla fine, non venne chiamato.
Suo fratello, poco più anziano di lui, era anch’esso combattente ma “fantaccino pesta fango” sul Carso; quest’ultimo, uomo di tutt’altro carattere rispetto a quello di papà, pragmatico, disincantato e da sempre un mattacchione mai ligio alle norme, aveva avviato, in prima linea, un fiorente commercio d’alcolici, arrivando persino a barattarli con il nemico, facilitato in questo dalla sedentarietà prolungata delle reciproche postazioni, tanto che certuni, pur su fronti opposti, avevano installato fra loro un certo dialogare.
La bevanda più compravenduta era la grappa che, se fraudolentamente distribuita prima d’ogni assalto in misura leggermente inferiore al prescritto, gli permetteva di commerciarne il residuato surplus.
Un giorno papà decise di dedicare un permesso ottenuto, andando a trovarlo, così da poter poi mandare notizie alla loro madre che, in ansia e in preghiera, a casa attendeva. Partì per il Carso con lo stesso spirito, ho motivo di credere, con il quale oggi partiremmo per un fine settimana fuori porta; giunto in prima linea, non faticò molto a farsi indicare in quale trincea avrebbe potuto trovare il fratello, tanto il personaggio si era fatto conoscere. Stanco del viaggio e non trovandolo si accoccolò, per attenderlo, nella “tana” che il fratello si era ricavata fra le rocce e, qui, si addormentò.
Lo svegliò un fastidioso raggio di sole che, all’improvviso, filtrò dal pezzo di sacco assurto a tenda d’ingresso; nello sbirciare, focalizzò contro luce, un Capitano che, scostata la tenda, stava entrando. L’abitudine lo fece balzare in piedi di scatto, ancorché semistordito dalla stanchezza e dal sonno, mentre tentava di qualificarsi perché si rendeva conto che, per quello, non era usuale incontrare un marinaio sul Carso senza adeguata giustificazione. Subito però riconobbe nei panni del graduato suo fratello che, con sottobraccio una botticella gli spiegò, con la più invidiabile naturalezza, che stava per l’appunto tornando da una missione “commerciale”.
Una volta dentro, si sfilò dal berretto cilindrico, tipico degli ufficiali di quella guerra e immortalato nelle foto di Vittorio Emanuele III, il re soldato, i galloni che erano formati da cerchi in passamaneria “coda di topo” dorata, tanti quanto il grado imponeva, e appendedoli ad un chiodo, tornò soldato semplice quale effettivamente era; spiegò, al sempre più trasognato e ligio fratello, che quelli gli erano indispensabili per poter liberamente circolare ad alimentare il suo commercio. Una volta appurato a quale grado apparteneva il comandante di giornata, s’infilata un cerchio in più di quanti non n’avesse l’altro, per non correre il rischio di essere ostacolato in una delle sue frequenti “missioni”.
Mentre il fratello raccontava queste “allucinanti” cose, papà avvertì crescenti fastidiosi spifferi d’aria che, all’arrivo lassù, non aveva accusato; si guardò e non potè che costatare che la sua logora divisa di panno da marina, era ormai tutta un buco, nemmeno fosse fatta di sottili fette di gruviera. La spiegazione la scoprì ben presto; durante il sonno, i topi avevano banchettato, come da mesi non capitava loro, a base di panno intriso d’olio da motore frammisto a grasso per i supporti degli assi delle eliche. Rimediata una divisa, forse tolta a qualcuno che nell’ennesimo tentativo d’assalto non aveva avuto fortuna, rientrò a Chioggia, apparentemente arruolato in un’arma che non era la medesima di quando era partito.
Così i nostri padri accettarono o dovettero accettare di mortificare i migliori anni della loro giovinezza nella speranza almeno, di contribuire a creare una Patria forte e in pace. Nel nome dello stesso ideale, altri combatterono poi in Africa ed in Spagna, non pensando che da lì a poco molti di loro, ormai non più giovani, si sarebbero trovati inspiegabilmente alleati con quelli che sino ad ieri avevano considerati nemici e, per di più, ora uniti in una nuova disperata avventura.
Renzo BAGNASCO
Rapallo, 28.12.2014
Incrociatore BOLZANO - Un recupero eccezionale
Incrociatore Pesante
BOLZANO
UN RECUPERO ECCEZIONALE
Sommergibile britannico UMBROKEN
disegno da warshipsww2.eu
La classe britannica U era originariamente stata ideata come una serie di semplici e piccoli battelli specificatamente ideati per fungere da bersagli per altri sottomarini durante addestramenti.
Le necessità di guerra videro tuttavia un interessante sviluppo del progetto per poi giungere ad una classe prodotta in gran numero che vide il culmine del suo servizio nel Mediterraneo (grazie alle modeste dimensioni e alla maneggevolezza).
La terza (ed ultima) variante della classe, di cui faceva parte anche Unbroken, aveva visto una serie di miglioramenti rispetto al progetto originale.
Molte unità di questa classe vennero poi cedute alle marine Alleate che necessitavano di rinforzare i propri ranghi: Le flotte libere in esilio di Olanda, Francia, Norvegia, Polonia, Grecia, ed infine la flotta Sovietica, ricevettero battelli in prestito.
V-2 ex-Unbroken: Questo sottomarino aveva visto un grande servizio nella Flotta Britannica, le sue vittime furono quasi tutte italiane e furono:
I mercantili Edda, Bologna, la nave-pilota F-20/Enrica, il dragamine ausiliario n°17/Milano, affondati. Danneggia inoltre il veliero Vale Formoso-II e il mercantile Titania (quest'ultimo poi finito dal sottomarino Safari).
Danneggia anche la petroliera tedesca Regina.
Il suo attacco più importante fu però ovviamente il doppio siluramento il 13 Agosto 1942 degli incrociatori italiani Bolzano e Muzio Attendolo che vennero entrambi pesantemente danneggiati.
Nelle sei fotografie che seguono appaiono, in tutta la loro drammaticità, le condizioni dell’incrociatore pesante italiano BOLZANO (12.000 tonnellate), silurato nelle Isole Egadi, il 13 agosto 1942, dal sommergibile britannico UNBROKEN. Il BOLZANO, colpito a centro nave e arrestatosi in fiamme, nonostante i locali allagatisi per l’acqua che entrava dalla falla causata dall’esplosione di un siluro, fu portato ad incagliare, con il cavo da rimorchio, dal cacciatorpediniere GENIERE nei bassi fondali di Lisca Bianca nell’Isola Panarea, e ci vollero due giorni prima che l’incendio fosse domato.
I lavori di recupero, iniziati sul BOLZANO il 18 agosto, e che si svolsero, durante cinque settimane, sotto il pericolo di attacchi di aerei e di sommergibili, furono diretti dal Comitato Progetto Navi, e con personale specializzato e attrezzature fatte affluire dagli arsenali di Taranto, Palermo e Messina, che evidentemente sapevano come lavorare bene e rapidamente, senza perdere tempo.
Il 15 settembre la nave poté essere sollevata dal fondale, e avendo raggiunto l’assetto sufficiente per affrontare una navigazione a rimorchio, l’indomani fu portata a Napoli, ove arrivò alle ore 19.00 trainata dai rimorchiatori TITANO TESEO e SALVATORE I. La navigazione di trasferimento, senza essere disturbata da nessun aereo o sommergibile nemico, si svolse alla velocità media di cinque nodi e mezzo, con l’assistenza di due cacciatorpediniere, una torpediniera e quattro cacciasommergibili.
Visto questo capolavoro di velocissimo recupero, resto alquanto scettico per quanto tempo ci è voluto per risollevare e portare via la COSTA CONCORDIA.
I lavori per risollevare il BOLZANO vennero realizzati senza disporre di una ben minima parte della sofisticata e computerizzata organizzazione impiegata sulla C.CONCORDIA della Ditta addetta ai lavori, e senza e il clamore che ha accompagnato il recupero di questa grande nave, in cui hanno lavorato tecnici provenioenti da mezzo mondo, e che ha fatto gridare al “miracolo”.
Sorvolo sulle bischerate della pericolosità del relitto per la tranquillità e gli eventuali speronamenti di Cetacei, e per la reclame, ridicola a mio parere, che si è fatta la allarmata Ministra francese, a bordo di una nave da guerra francese.
Francesco MATTESINI
webmaster Carlo GATTI
Rapallo, 12 Agosto 2014
CANAL DU MIDI
CANAL DU MIDI
NAVIGANDO CON IL RE SOLE...
La cartina mostra i canali navigabili che collegano il Mediterraneo all’Atlantico: Canal du Midi (241 Km) - Canal de Garonne (193 km) - L’estuario della Garonna che collega Castets-en Dorthe a Bordeaux (57 km)
Il Canal du Midi Costruito sotto il regno di Luigi XIV, dal 1666 al 1681, fu considerato il più moderno progetto idraulico del mondo che aprì la strada alla rivoluzione industriale. Nel 1996 fu inserito nell'elenco dei Patrimoni dell'Umanità dell'UNESCO.
Il Canale della Garonna é certamente il meno celebre dell’asse Mediterraneo-Atlantico, ma la scoperta della sua storia e del patrimonio delle regioni che attraversa, merita il viaggio. La sua costruzione risale al 1860.
La navigazione sull’estuario de la Garonne verso Bordeaux é affascinante, ma soggetta a maggiori difficoltà nautiche (venti, correnti e onde di marea). Occorre esperienza, prudenza e rispetto delle regole prescritte dall’Autorità.
Dal Mediterraneo all’Atlantico
Realizzare il sogno di collegare l'Atlantico al Mediterraneo...
Sin dall'antichità era stato elaborato un gran numero di progetti volti allo scavo di un canale di collegamento dei due Mari, ma per realizzarlo ci volle la fortuita combinazione dell’unione di tre personaggi formidabili: il Re Sole Luigi XIV, il suo ministro delle finanze Colbert* ed un ingegnere caparbio come il Riquet**.
L’opera idraulica avrebbe risparmiato ai francesi la circumnavigazione della nemica Spagna con un risparmio di 3.000 Km (circa un mese di navigazione).
Inizialmente il canale fu utilizzato prevalentemente da chiatte a vela di piccole dimensioni, con alberi facilmente abbassabili, per il commercio delle granaglie e del vino Bordeaux verso la riviera francese e l’Italia ed ebbe un incremento strepitoso. La nuova via d’acqua fu sfruttata anche per scopi militari da imbarcazioni che trasportavano truppe e armi. Verso la metà del XVIII secolo , furono utilizzati anche i cavalli per rimorchiare battelli da carico fino all'avvento dei mezzi a vapore che iniziarono nel 1834.
Nel 183 8 fu registrato il passaggio di 273 navi, sia per trasporto di merci, sia di quello passeggeri, e il suo utilizzo continuò fino all'avvento delle ferrovie nel 1857 .
L’architetto di quest'opera riuscì a coniugare la sua grande funzione tecnica con il rispetto del paesaggio. Una prodezza tecnica e un'opera d'arte integrata nella grande varietà dei paesaggi attraversati.
La rapida evoluzione tecnica dei trasporti terrestri, marittimi e aerei, non incise affatto sul traffico commerciale sul Canal du Midi che durò fino al 1980. In seguito, a causa della persistente siccità della fine degli anni ’80, iniziò a diminuire per cause naturali, cessando quasi del tutto.
La frequentazione del canale, iniziata negli anni sessanta del XX secolo, registrò il suo boom nel decennio 1980-1990. Tra i principali siti attraversati citiamo i più famosi per la loro storia, arte antica e moderna: Tolosa, Castelnaudary, Carcassonne, Trèbes, Béziers, Narbonne, Sète, Agde…
Il canale, aperto da marzo a novembre, oggi è una delle mete principali del turismo fluviale e della possibilità di praticare numerosi sport: canottaggio, pesca, ciclismo e, naturalmente escursioni su chiatte di lusso come l'Anjodi. Gli ultimi dati stimano una media annua di 100.000 turisti che l’attraversano da un mare all’altro.
Canal du Midi - Escursioni all’ombra dei platani
Lungo il canale che collega Sète - Tolouse a Bordeaux L'alzaia *** funge da pista pedonale e ciclabile e. Le biciclette possono essere noleggiate presso diverse stazioni lungo il Canal du Midi. Inizialmente il canale era arricchito da filari di platani maestosi su ogni lato. I 42.000 alberi, che risalgono al 1830, furono piantati per stabilizzare le banchine. Nel 2006 un’infezione fece appassire e successivamente morire gli alberi. Circa 2.500 vennero distrutti a metà del 2011, dopo di che l’Amministrazione decise che l’intera piantagione sarebbe stata distrutta e sostituita nel giro di 20 anni.
Inizialmente, i 42.000 platani che costeggiavano le Canal du Midi, erano stati piantati per ridurre il movimento franoso e stabilizzare le sponde del canale.
L'allineamento di questi alberi, posti a 7-8 metri di distanza l'uno dall'altro, crea ancora, dopo 350 anni, l'effetto di un colonnato, dando così luogo a un “magnifico monumento paesaggistico”. I platani filtrano la luce e proteggono i turisti-naviganti dalla calura estiva del Sud della Francia.
Il ponte-canale di Cesse costituisce tuttora un’autentica ed audace invenzione d’architettura idraulica. Fu costruito dagli ingegneri Riquet e Vauban tra il 1689 e 1690. Misura 64 metri di lunghezza e 20 d’altezza.
Fonsèranes a Beziers - Le nove chiuse a sinistra e l’ascensore d’acqua a destra.
Le famose “Nove chiuse di Fonserannes” alle porte di Bezieres
Lungo il percorso che porta a Bezieres oltre alle chiuse vinciane multiple di Fonsèranes, si passerà il ponte-canale sull’Orb e il tunnel di Malpas qui fotografato.
Il Ponte-canale sull’Orb fu costruito nel 1854 per risolvere il problema dell’attraversamento del fiume Orb, assai capriccioso per le forti escursioni in altezza delle sue acque che non consentono un livello medio adatto alla navigazione.
Le Canal du Midi nei pressi di Carcassonne
Ma chi fu il vero ideatore del progetto?
Nel 1662, la proposta di Pierre-Paul Riquet, alto funzionario della regione della Linguadoca, suscitò l'attenzione di Luigi XIV che vide in essa molte opportunità economiche e soprattutto militari. A questa enorme operazione finanziaria diede il proprio contributo il Colbert (Ministro delle Finanze).
Con l'editto reale dell'ottobre del 1666 si diede avvio alla costruzione del canale la cui apertura alla navigazione avverrà il 15 maggio del 1682. L’opera fu resa possibile grazie all’impiego di ben 12.000 operai e ad una precisa e scrupolosa organizzazione del lavoro.
Un'opera d'arte eccezionale, una sfida tecnica
Da Toulouse a Carcassonne. La cartina mostra la posizione del Bacino di San Ferreol rispetto al Canal du Midi.
La diga ha una lunghezza di 780 m, un'altezza massima di 32 m e uno spessore-base di oltre 140 m. L'acqua può essere prelevata dal bacino tramite un tunnel a volta di pietra posto alla base della diga, pertanto il limo può essere rimosso dal fondale del bacino attraverso il tunnel. Quando il livello si trova alla sua massima capacità, l’invaso contiene circa 680.000 metri cubi di acqua.
Il bacino di Saint-Ferréol constituisce la risorsa principale per l’alimentazione del Canal du Midi. Si tratta in effetti del luogo in cui Pierre-Paul RIQUET decise, nel 1667, di posare la prima pietra di una diga gigantesca che doveva sbarrare la vallata del Laudot e trattenere una immensa quantità d’acqua: più di 4,5 milioni di metri cubi che l’architetto Vauban aumenterà, qualche anno più tardi, ad una capacità di 6,5 milioni di metri cubi.
Il Bacino de Saint-Ferréol e la diga costruita appositamente per fornire acqua al Canale navigabile du Midi, costituirono l’opera di ingegneria civile più importante d’Europa.
Originariamente, il lago artificiale doveva essere alimentato dal solo fiume Laudot, ma quando questo fu ritenuto insufficiente, P.P. Riquet fece convogliare altri emissari in un unico canale chiamato "rigole de la montagne". Questo flusso raccolse in seguito le acque dei fiumi Alzau, Vernassone, Lampillon, Lampy e Rieutort e li confluì nella galleria di Cammazes; 132 m di lunghezza e 2,7 metri di diametro che si collega al bacino. Il tunnel è stato costruito dall'ingegnere militare Marshall Sebastien Vauban nel 1686-1687.
Il lago si trova nei tre comuni di Vaudreuille (Haute-Garonne), Les Brunels (Aude) e Sorèze (Tarn) .
Bassin de St-Ferrol
L'opera fu inaugurata ufficialmente il 15 maggio 1681 con il nome di Canal Royal de Languedoc. Pierre-Paul Riquet finì in bancarotta per gli ingenti costi da lui sostenuti in prima persona dopo che le casse di Luigi XIV non poterono più fornire il sostegno necessario e morì nel 1680, pochi mesi prima dell'apertura del canale alla navigazione.
Ancora qualche dato:
Il Canal du Midi ha 103 chiuse che servono a superare un dislivello totale di 190 metri. Considerando anche i ponti, le dighe, e un tunnel, il canale è costituito complessivamente da 328 strutture. La via d'acqua è lunga 240 chilometri, larga anche 15-20 metri e profonda 2.
Una curiosità: l’opera fu costruita grazie al lavoro di centinaia di donne che portarono canestri pieni di terra nel vasto cantiere.
Il progetto del canale prevedeva anche la costruzione del primo tunnel mai realizzato per permettere il passaggio di un canale, il tunnel de Malpas , una galleria lunga 173 metri, all'interno di una collina nei pressi di Nissan-lez-Enserune. Questo tunnel è considerato un simbolo dell'ostinazione di Pierre-Paul Riquet contro le avversità.
Note:
*Jean-Baptiste Colbert (Reims, 29 agosto 1619 - Parigi, 6 settembre 1683) è stato un politico ed economista francese .
La sua opera fu diretta principalmente ad accrescere la ricchezza del Paese, incoraggiandone lo sviluppo industriale e coloniale. Modernizzò le finanze pubbliche francesi, salvandole dalla bancarott a e facendo raggiungere il pareggio al Bilancio dello Stato , ma la sua opera risanatrice fu gravemente ostacolata dalle enormi spese belliche di Luigi XIV . Nel 1669 ottenne dal re la creazione del Ministero della Marina , carica di cui fu il primo titolare e che fece di lui il padre della moderna marina francese. La politica di Colbert è considerata una delle più genuine interpretazioni del mercantilismo.
** Pierre-Paul Riquet (Bèzieres, 29 giugno 1609 - Tolosa, 4 ottobre 1680) è stato un ingegnere francese, responsabile della costruzione del Camal du Midi.
Sin da ragazzo Riquet era interessato soltanto alla matematica e alla scienza. All'età di 19 anni ha sposato Catherine de Milhau. Era «fermier général» (colòno generale) della «Languedoc-Roussilon» con la qualifica di appaltatore d'imposte, cioè era responsabile della raccolta e dell'amministrazione della gabella in Linguadoca . Riquet divenne facoltoso e gli fu concesso dal re di imporre le proprie tasse. Ciò gli conferì una discreta ricchezza, che gli consentì di eseguire grandi progetti con competenza tecnica.
Riquet è l'ingegnere responsabile della costruzione del canale navigabile dalla lunghezza di 240 km che collega la costa meridionale della Francia alla baia di Biscay, una delle grandi opere ingegneristiche del XVII secolo. La logistica fu talmente immensa e complicata che gli antichi Romani ne discussero il progetto ma non lo realizzarono. Ciò nonostante re Luigi XIV fu propenso a realizzare il progetto, principalmente a causa dell'aumento delle spese e del pericolo per il trasporto marittimo delle merci attorno alla Spagna meridionale, dove i pirati erano comuni. La progettazione, il finanziamento e la costruzione del Canal du Midi assorbirono completamente Riquet dal 1665 in poi. Si presentarono numerosi problemi, compreso la navigazione intorno a molte colline e a un sistema per riempire il canale con l'acqua anche durante i mesi estivi. I miglioramenti nell'ingegneria delle chiuse e dighe del canale, e la creazione di un lago artificiale di 6 milioni di metri cubi permisero di risolverli. Il canale venne completato nel 1681, un anno dopo la morte di Riquet.
*** L'alzaia è la fune che serviva a tirare dalla riva di fiumi e canali chiatte e battelli controcorrente.
Carlo GATTI
Rapallo, 14 Luglio 2014
MUSEO STORICO dello Sbarco in Sicilia 1943-Catania
MUSEO STORICO DELLO SBARCO IN SICILIA 1943
CATANIA
Viale Africa, Piazzale Asia Le Ciminiere, Catania, Sicilia Italia
Il Museo occupa una superficie di circa 3000 mq, ha sede presso il complesso Le Ciminiere, di proprietà della Provincia Regionale di Catania. Il complesso, è un sito di antiche zolfatare recuperate alla città di Catania ad opera dell’architetto Giacomo Leone che ha coniugato modernità architettonica e memoria storica dei luoghi. Questo esempio di archeologia industriale che sia affaccia sul mare oggi è centro non solo del museo dello Sbarco e del Cinema, ma di convegni ed iniziative culturali.
Tra i numerosi testi inerenti l’Operazione Husky da noi consultati, riteniamo che il presente compendio storico pubblicato dalla Direzione del Museo Storico dello Sbarco in Sicilia 1943 sia il più idoneo, completo ed aderente al contesto generale del materiale esposto nelle sale museali di questo ECCELLENTE Museo di cui non possiamo che parlarne e scriverne con grande ammirazione. Ringraziamo la Direzione per la gentile concessione.
Carlo GATTI
Presidente della Associazione Culturale
MARE NOSTRUM RAPALLO
https://www.marenostrumrapallo.it
La seconda guerra mondiale
Passati gli anni dell’unità d’Italia, le spedizioni in Africa, la guerra Italo – Turca e la prima guerra mondiale, l’evento più importante della storia contemporanea che riguarda la Sicilia e Messina è sicuramente la seconda guerra mondiale ed in particolare l’Operazione Husky ovvero lo sbarco in Sicilia che fu la più grande operazione anfibia del secondo conflitto mondiale in relazione al numero di divisioni (7 contro 5 dello sbarco in Normandia) sbarcate entro il primo giorno d’invasione.
Proprio dalla Sicilia infatti partì l’invasione dell’Italia da parte Angloamericana segnando l’inizio della liberazione dell’Italia ed il conseguente tracollo del dominio nazista in Europa.
Perchè la Sicilia?
Già nel 1941 era stato programmato dagli alleati uno piano d’invasione della Sicilia denominato Whipcord, con sbarchi da effettuarsi contemporaneamente a Palermo, Milazzo, Catania ed Augusta ma che fu nello stesso anno annullato in previsione del piano d’invasione del 1943.
La decisione dello sbarco nacque durante la conferenza di Casablanca nel febbraio del 1943 nell’incontro tra Churchill e Roosevelt. I due leaders notando che i loro stati maggiori non avevano piani strategici a lungo termine, mancavano cioè di un piano offensivo di largo respiro, un’operazione in grande stile tale sia da aprire un secondo fronte in Europa allo scopo di alleggerire lo sforzo delle truppe Sovietiche contro quelle Tedesche, sia da iniziare la liberazione dell’Italia. Ci si rese subito conto che per motivi strategici la Sicilia era la zona meglio indicata per uno sbarco, poiché la Sardegna e la Corsica, anche se più vicine alle coste Francesi, non erano un punto fondamentale per la distruzione del dominio nazifascista nella penisola, ovviamente la tesi Inglese sullo scelta della Sicilia era anche mossa da un certo interesse imperialistico nei confronti dell’isola, gli Americani infatti temevano che gli Inglesi potessero considerare la Sicilia come una seconda Malta. Nel frattempo mentre gli Italiani avevano in un certo senso previsto che esso sarebbe stato effettuato in Sicilia, i Tedeschi invece pensando erroneamente alla Sardegna e la Corsica (grazie alle azioni di depistaggio), bloccarono l’afflusso delle divisioni Tedesche verso l’isola cancellando forse così l’ultima possibilità di contrastare e rendere inefficace lo sbarco.
Il Depistaggio: l’Operazione Mincemeat
Nell’ autunno del 1942, quando l’invasione del nord Africa era in pieno svolgimento e procedeva verso il successo, gli strateghi Angloamericani stavano già pensando all’operazione successiva da compiere, fissando agli inizi del 43 come prossimo obiettivo la Sicilia.
Tuttavia l’invasione dell’isola poteva essere prevista dall’avversario. Si ideò quindi un piano diversivo con lo scopo di far credere al nemico che il prossimo sbarco non sarebbe avvenuto in Sicilia distogliendone così l’attenzione ma soprattutto le forze nemiche.
Nacque così l’Operazione Mincemeat che scattò il 30 aprile 1943.
Si decise di far ritrovare nelle acque della Spagna il cadavere di un finto giovane ufficiale Inglese caduto in mare con un aereo diretto in nord Africa (luogo in cui vi era il Comando Generale alleato), il 30nne maggiore William Martin, (vedi foto) con addosso documenti comprovanti che lo sbarco sarebbe avvenuto in Grecia o in un altro punto del Mediterraneo occidentale, ma non in Sicilia che invece era utilizzata come copertura per gli obiettivi reali.
L’operazione era molto rischiosa perché se qualcosa fosse andata storta, i Tedeschi avrebbero capito che lo sbarco sarebbe realmente avvenuto in Sicilia.
Invece tutto andò per il verso giusto, i Tedeschi recuperarono il cadavere del finto ufficiale e visionarono i documenti giudicandoli attendibili e credendo così che l’attacco alleato sarebbe avvenuto in Sardegna con uno sbarco sussidiario in Grecia.
Di conseguenza l’Alto Comando Tedesco trasferì un’intera divisione corazzata dalla Francia in Grecia, fece collocare campi di mine al largo della costa Greca, ed installare numerose batterie costiere.
Inoltre un intero gruppo di dragamine venne trasferito in Grecia dalla Sicilia, un’unità corazzata fu inviata in Corsica mentre furono rafforzate le difese sulla costa della Sicilia settentrionale dove lo sbarco non avvenne.
Tutti questi cambiamenti e scombussolamenti provocati dall’esito positivo dell’Operazione Mincemeat fece indebolire notevolmente le forze di difesa Tedesche presenti in Sicilia rendendone sicuramente più facile lo sbarco e probabilmente risparmiando la vita di migliaia di soldati .
In realtà, tale operazione non fu da sola determinante per la conquista della Sicilia, infatti gli stessi Tedeschi, nonostante tutto, non avevano nessuna intenzione di difendere ad oltranza le basi aeree e navali Siciliane, abbandonandole in caso di estremo pericolo allo scopo di salvare così uomini e mezzi da poter utilizzare in successive battaglie lungo lo stivale Italiano. E così accade.
La pianificazione dello sbarco
Il piano iniziò nel febbraio 1943 con uno staff di 15 persone dell’esercito chiamato ‘ forza 141 ’ con base ad Algeri.
I pianificatori della forza 141 si concentrarono sulla selezione di punti contro i quali sarebbero stati condotti i principali assalti.
I più importanti obiettivi immediati furono i porti, necessari per rifornire le forze di invasione, e i campi di volo, entrambi da togliere al nemico e per essere usati dalle forze aeree di sostegno alleate.
A Messina, sulla punta nordorientale dell’isola, vi era il porto più grande, ma un attacco diretto contro di essa fu sconsigliato a causa delle notevoli fortificazioni che si sapeva esistessero lungo lo stretto e perché era fuori dal reale raggio d’azione dei velivoli di combattimento aereo con base a Malta ed in Tunisia.
Gli altri porti principali erano Palermo, nel nord ovest, e Catania, Siracusa ed augusta nel sud est. Inizialmente si pensò di effettuare due distinti sbarchi sulle coste nordoccidentale e sudorientale, ma l’ipotesi venne scartata in quanto troppo distanti tra esse, si optò quindi per uno sbarco presso la costa sudorientale della Sicilia concentrando tutte le forze contro un’eventuale accanita difesa delle forze dell’Asse.
Fu scelto il giorno dell’evento, il 10 luglio 1943. L’operazione prevedeva lo sbarco simultaneo di 7 divisioni lungo un fronte complessivo di circa 160 km, ed il lancio di 2 divisioni aviotrasportate dietro le linee nemiche. L’ordine finale di battaglia e piano di attacco furono i seguenti:
Comandante supremo dell’operazione:
Vice comandante:
Unità operativa orientale (Forza 545):
Ottava Armata Inglese:
Comandante:
Comandante Navale:
Ammiraglio B.H. Ramsay
Comandante dell’aviazione:
Vice Maresciallo H. Broadhurst
Composizione:
13 Corpi del Ten Gen. M. C. Dempsey, formata dalla 5a e 50a divisione e dalla 4a Brigata Armata, e dai ‘30 Corps’ del Ten Gen O. Leese, comprese la 1a e la 50a Divisione canadese, le Brigate Armate 231a Indipendente e la 23a.
Di riserva in nord Africa c’erano la 78a Divisione e la prima Brigata Armata Canadese
Obiettivo : Seguono le foto relative allo Sbarco Alleato a Gela
Navi Alleate sotto bombardamento dell'Asse
Navi Alleate entrano nel golfo di Gela
Inizia lo sbarco
Testa di ponte USA
Il generale Patton a Gela
Sbarcare con 4 divisioni, una brigata indipendente e unità di commando su cinque spiagge del golfo di Noto ed intorno alla penisola di Pachino per un raggio complessivo di 65 km, con la missione di catturare Siracusa ed Augusta e prendere i campi di volo orientali, prima di una rapida avanzata su Catania ed alla fine su Messina.
Per sostenere lo sbarco, la prima Brigata di atterraggio della Divisione trasporto truppe doveva prendere l’importante Ponte Grande, ponte a sud di Siracusa.
Unità operativa occidentale (Forza 343)
Settima Armata Statunitense
Comandante: Gen.Patton
Comandante Navale: Vice Ammiraglio H. K. Hewitt
Comandante Aereo: Maggior Generale E. J House
Composizione:
‘Cent Force’ (45a divisione), la “ Dime Force ” (prima divisione Statunitense, rinforzata da due battaglioni di Ranger truppe d’assalto, sotto il comando del Generale Maggiore O. N. Bradley, la “ Joss Force ”ovvero la 3a Divisione Statunitense con un battaglione di ‘ Ranger ’ ed il Comando di Combattimento A della 2a Divisione Armata Statunitense come riserva galleggiante.
Nella riserva della Settima Armata galleggiante c’erano il resto della Seconda Armata e la 18a Fanteria della 1a Divisione.
Come riserva in nord Africa c’erano il resto della 82a Divisione Aerea statunitense e la 9a divisione.
Obiettivo:
Sbarco di tre divisioni nel golfo di Gela, conquistarne i campi di volo insieme a quelli ubicati tra Comiso e Licata giungendo sino a 30 km nell’entroterra, per poi proseguire l’avanzata sino a Piazza Armerina per controllarne la rete stradale.
In totale le forze alleate impegnavano 160.00 uomini, 1475 navi da guerra e da trasporto, 1124 mezzi, 4000 aerei , 600 carri armati e 800 camion da sbarco.
L’avversario Italo-Tedesco
Sesta armata Italiana
Comandante: Gen.Guzzoni
Composizione: due corpi XII° e XVI°, comprese cinque divisioni costiere, due brigate costiere, un reggimento costiero e quattro divisioni regolari da campo:
la 4a Livorno
la 26a Assieta
la 28a Aosta
la 54a Napoli
Comandante delle forze Tedesche in Italia:
Maresciallo di campo: Albert Kesserling
Divisioni Tedesche:
Comandante: Tenente Generale Fridolin Von Senger und Etterlin
Composizione:
15a Divisione Panzergrenadier, Divisione Panzer Hermann Goering
In totale i tedeschi schieravano con le due divisioni 15.000 unità e 60 carri armati e 17.000 unità e circa 110 carri armati inclusi 17 pesanti PzKpfw VI Tigers appartenenti alla 2° compagnia del 504° Schwere Panzer Abteilung.
Nel complesso in Sicilia erano impegnati 170.000 Italiani con 100 carri e 325 aerei Italiani ( 200 combattenti ), più 32.000 tedeschi con 170 carri armati e 430 aerei Tedeschi (250 dei quali erano aerei da combattimento). Le truppe Italotedesche potevano contare anche su cinque porti e comandi di difesa di base navale, parecchie unità di difesa indipendenti dell’aerodromo e cinque gruppi mobili posizionati in punti chiave interni
L’imponente flotta navale Italiana che disponeva ancora di 4 corazzate, 7 incrociatori, 32 cacciatorpediniere, 48 sommergibili, ecc se fosse intervenuta avrebbe sicuramente inflitto notevoli danni all’avversario forse vanificando l’intera operazione, invece rimase rifugiata nei porti di Taranto e La Spezia.
Dislocazioni e Compiti
Nel D- Day le divisioni Aosta e Assieta e due terzi della 15° Panzergrenadier per ordine di Kesserling erano nella Sicilia occidentale a guardia di Palermo, le divisioni Livorno e Napoli insieme al grosso della divisione Hermannn Goering si trovavano nella parte centro e sud orientale dell’isola, pronte a contrastare una invasione da sud, mentre il battaglione Tedesco Kampfgruppe Schmaltz composto da una forza armata della H.Goering ed un reggimento di Panzergrenadier della Divisione Panzergrenadier, era posizionato nei pressi della costa orientale, proprio davanti Catania.
L’ORA H – IL GIORNO D.
Il D- Day fu programmato per sabato 10 luglio 1943 alle ore 2,45.
Gli Sbarchi
VIII ARMATA.
Truppe aviotrasportate su alianti
Dopo i disastrosi tentativi di paracadutare le truppe, alle 2.45 del mattino iniziarono gli sbarchi dal mare.
In generale, l’assalto fu un anti- climax. Molte unità sbarcarono successivamente e senza opposizione.
A causa del mare agitato ci fu un ritardo nelle posizioni del rilascio dei natanti.
Nella punta sud orientale dell’isola, 30 Corps sbarcarono su tutti e tre i lati della penisola di Pachino: la 231a Brigata Malta sulla spiaggia orientale, la 51a divisione Highland sulle spiagge intorno alla punta sud, e la 1a Divisione canadese nella baia ad est della punta.
I canadesi e gli Highlanders conquistarono rapidamente Pachino e i suoi campi di volo e spingevano verso l’interno. La 231a Brigata iniziò una marcia veloce verso il nord per unirsi con i 13 Corps a Noto .
Più a sud il settore 13 Corps, la 50a Divisione Northumbria attaccò con successo le spiagge a nord della cittadina marinara di Avola.
Più a nord, la 5a Divisione sbarcò a Cassibile senza trovare resistenza, entro le otto del mattino si erano assicurati la città.
Il primo squadrone speciale di incursione del secondo Reggimento SAS, atterrando prima della forza principale, neutralizzò una batteria costiera nelle vicinanze.
Sull’estremo fianco destro dell’Ottava Armata, Commando n.3 fece lo stesso con una batteria a Capo Murro di Porco.
Nel pomeriggio la 5a Divisione si avviò a nord per ricongiungersi con le truppe aeree a Ponte Grande, le quali erano state da allora duramente colpite dai contrattacchi italiani.
Gli ultimi sopravvissuti erano stati appena cacciati dal ponte quando arrivarono le forze di soccorso.
La 5a Divisione attaccò il ponte con le portaerei Bren, catturandolo nuovamente intatto e liberando le truppe aeree che erano state fatte prigioniere e prendendo il porto di Siracusa indenne.
VII ARMATA.
La Cent Force , 45esima Divisione si gettò sulle spiagge a destra e sinistra di Scoglitti e cercò di spingersi verso l’interno per circa sette miglia, in molti posti unendosi a piccoli gruppi di paracadutisti.
Più a ovest la Dime Force (prima Divisione), attaccò il settore di Gela. Mentre i Rangers attaccarono la città stessa, la principale forza della Divisione atterrò sulle spiagge tre miglia ad est. Presto gli Americani iniziarono a muoversi verso l’interno, verso gli obiettivi loro assegnati.
Sul fianco sinistro della Settima Armata, Joss Force arrivò sulla terraferma ad est ed ovest di Licata.
La terza Divisione prese il porto con un movimento a tenaglia e alla fine della giornata aveva preso tutti gli obiettivi previsti.
Le navi alleate si avvicinano alle coste Siciliane Mezzo anfibio Americano Sbarco della fanteria Americana.
La risposta dell’asse
La reazione dell’Asse agli sbarchi del nemico fu condotta in tre modi.
In primo luogo, non appena ne fu a conoscenza, il Generale Guzzoni ordinò un contrattacco contro la linea della spiaggia che egli riteneva più pericolosa, quella di Gela.
La Divisione Herman Goering dalle sue basi intorno Caltagirone, aveva il compito di attaccare da nord-est, assistito da due dei gruppi mobili Italiani che erano già più vicini alla costa, e la Divisione Livorno doveva fare lo stesso dal nord-ovest, l’attacco doveva essere forte e coordinato.
In secondo luogo egli ordinò che la 15a Panzergrenadier che aveva già completato uno spostamento verso la Sicilia occidentale, ritornasse sui propri passi e tornasse al centro dell’isola.
In terzo luogo, verso il tardi del D-Day, non appena ebbe saputo della perdita di Siracusa, egli ordinò al Kampfgruppe Schmaltz e alla Divisione Napoli di precipitarsi verso sud da Catania e riprendere il porto.
A causa delle cattive comunicazioni l’ampio fronte visualizzato e spinto verso Gela si trasformò in una serie di attacchi indipendenti e scoordinati provenienti da piccole unità in vari momenti e in vari posti lungo il centro del fronte americano.
Il primo attacco dal Gruppo Mobile – E – fu respinto dal fuoco navale Americano e fu fermato nei pressi di Piano Lupo da valorosi combattenti paracadutisti e successivamente dalle truppe della 1a Divisione, e a Gela dai Rangers di Darby.
L’attacco della Divisione Livorno fu furiosamente respinto anche dai Rangers. La Divisione Herman Goering uscendo da Caltagirone in due colonne, si muoveva molto lentamente e non attaccò fino alle due del pomeriggio.
La sua colonna occidentale fu fermata a Piano Lupo dal devastante fuoco navale; la sua colonna orientale ebbe uno scontro con la 45a Divisione e, dopo una battaglia dura, si disperse nel panico, così i contrattacchi dell’Asse nel D-Day fallirono del tutto.
Guzzoni il giorno successivo aveva rinnovato l’ordine di contrattacco, ma questa volta meglio coordinato.
Per tutto il giorno la battaglia infuriò sulla piana di Gela e sulle colline che la circondano.
Gli uomini del 33° e 34° Reggimento della Divisine Livorno, colpendo verso Gela da ovest, furono respinti dall’artiglieria navale e dal fuoco dei mortai. Quest’azione distrusse del tutto la Livorno come forza di combattimento.
La ritirata strategica
L’8 agosto, Kesselring, di sua iniziativa e senza attendere l’assenso di Hitler ordinò a Hube di iniziare l’evacuazione delle forze tedesche dalla Sicilia.
L’operazione era stata pianificata e preparata a lungo.
Oberst Ernst-Gunther Baade, era stato nominato Comandante per lo Stretto di Messina , incaricato di proteggere entrambi i lati dello stretto passaggio d’acqua contro gli attacchi aerei e marittimi.
Baade aveva ammassato circa 500 cannoni di ogni calibro, incluse 4 batterie di 280mm di cannoni costieri, due di170mm ed alcune tedesche di 88mm e Italiane di 90mm a doppia funzione.
Un ufficiale navale, Capitano di Fregata barone Gustav Von Liebenstein era stato nominato capo dei trasporti.
Von Liebenstein non avendo fiducia dei normali servizi di traghetto Italiani, organizzò una flotta propria di 7 Marine-Fahrprahme (chiatte di 80 tonnellate, con rampe d’accesso ognuna in grado di trasportare 3 ‘tanks’ o 5 camion ), 10 L-Boote ( pontoni landing boats che potevano contenere 2 camion ), 11 Siebel – ferries (a doppia entrata, costruiti per portare10 camion, 60 tonnellate di rifornimenti o 250 uomini) e 76 piccole imbarcazioni.
Egli organizzò anche 6 nuove rotte per i traghetti con 12 differenti punti di attracco su ogni lato dello Stretto.
Il 1 agosto Von Liebenstein cominciò alcune evacuazioni preliminari.
Il piano di evacuazione di Hube (nome in codice ‘ Lehrgang Ia 9), indicava esattamente 5 linee di resistenza convergenti su Messina, ognuna doveva essere mantenuta per un giorno.
Durante ogni notte, circa 8.000-10.000 uomini dovevano essere lasciati andare dalle 3 divisioni per dirigersi verso le barche.
Per prima sarebbe andata la 15a Panzergrenadier , seguita dalla H. Goering ed infine la 29° ‘Panzergrenadier’.
Quando arrivò l’ordine di Kesselring, Hube fissò il 10 agosto come ‘ X-Tag ’ il primo giorno del ritiro scadenzato e la notte dell’11 come la prima di 5 notti per trasportare le truppe al di là dello stretto.
L’attraversamento iniziò come previsto. All’inizio i traghetti operarono solo al buio. Il 13 agosto, dopo che Von Liebenstein aveva visto che le operazioni notturne erano non solo difficili, ma anche meno efficienti, e contrariamente alle aspettative, anche maggiormente ostacolate dagli attacchi aerei nemici di quelle diurne, egli ordinò che i traghetti continuassero anche durante il giorno.
L’evacuazione fu un successo al di là di ogni previsione che i Tedeschi potessero fare.
Tra l’altro, trattenendo una di queste linee più del previsto, Hube guadagnò un’altra notte ed un altro giorno per l’attraversamento.
Perfino gli storici ufficiali Alleati concordano che gli Alleati stessi non avrebbero dovuto consentire al nemico di fuggire in quella maniera. Forse lo sbaglio più grande fu il fatto che i comandi alleati fallirono del tutto nel coordinamento degli attacchi aerei e navali per prevenire l’evacuazione del nemico.
La Marina si rifiutò di ingaggiare una grande battaglia navale nello Stretto fino a quando le forze aeree non avessero messo a terra i cannoni costieri del nemico.
Durante tutto quel periodo, la Marina non rischiò di inviare qualcosa di più potente delle pattuglie leggere costiere e solo di notte. Le forze aeree fecero uno sforzo, ma esso iniziò troppo tardi, non fu forte abbastanza ed inoltre diretto contro obiettivi sbagliati e con tipi di aerei sbagliati.
Dal 29 luglio al 17 agosto tra bombardieri di media grandezza e bombardieri da combattimento, volarono 2.514 missioni contro la flotta nemica e le strutture navali dello Stretto.
Erano in funzione contro quella che era probabilmente la più pesante e più concentrata contraerea dell’intera guerra.
Circa 31 aeromobili andarono perduti, tuttavia, a dispetto dei raid aerei che continuavano giorno e notte, l’evacuazione procedeva come previsto. Grazie ai cannoni ammassati di Baade il bombardamento fu eseguito senza troppa cura e provocò pochi danni ai punti di imbarco.
Le perdite Tedesche furono poche, in tutto 15 vascelli furono affondati o distrutti, altri 5 danneggiati.
Solo un Tedesco rimase ucciso negli attacchi aerei alleati. Gli italiani persero un’imbarcazione e non ebbero alcuna vittima.
Sebbene gli Alleati conoscessero fin dai primi di agosto, dalle decriptazioni dei servizi segreti, che una evacuazione sarebbe stata imminente, e avessero acquisito chiare prove che questa era già in atto, le operazioni d’aria sullo Stretto non cominciarono che il 13 agosto.
Nuovamente essi attaccarono le imbarcazioni del nemico, jet, spiagge e strade d’accesso, ma poco della contraerea e dei cannoni sulle coste. Gli Alleati non fecero un uso completo delle capacità dei loro bombardieri.
C’erano 869 pesanti bombardieri disponibili e questi aerei avrebbero potuto operare fuori della portata della contraerea nemica. Tuttavia ai B-17 americani fecero ben poche missioni diurne contro Messina e tutte queste si svolsero tra il 5 e l’8 agosto, prima che l’evacuazione salpasse del tutto.
Il 13 agosto, la 9a Divisione Statunitense, spingendo verso est lungo la strada statale 120, verso Messina, prese la città di Randazzo, sul versante settentrionale dell’Etna, spremendo in tal modo i ’ 30 Corps ’ Inglesi che stavano combattendo intorno al lato occidentale del vulcano
Dopo la caduta di Catania, 13 Corps continuarono verso nord sul fronte stretto tra la linea dell’Etna ed il mare.
L’avanzamento attraverso questa parte di Sicilia più densamente popolata, fu lento e costoso, Valverde, solo 6 miglia più avanti fu raggiunta l’8 agosto.
L’avanzata alleata verso Messina
Sulla strada costiera settentrionale, la 3a Divisione Statunitense il 1 agosto era venuta in soccorso della esausta 45a Divisione e si era avvicinata alla successiva linea/crinale Tedesca.
Detta la posizione San Fratello, era così formidabile che la 29a Panzergrenadier-Division respinse facilmente un attacco dopo l’altro della 3a Divisione.
Perfino il fuoco dei cannoni e l’uso di fumogeni non riuscì a sloggiarli.
Alla fine, il 6 di agosto, i generali Bradley e Truscott decisero di lanciare un anfibio ‘ end run ’ (fine corsa) per entrare nelle posizioni del nemico. Questa prima operazione a ‘salto di rana’ nella notte tra il 7 e l’8 agosto, fu un successo misto.
Utilizzando il Marina LST, con base a Palermo, Truscott mise in postazione il 2° Battaglione rinforzato della sua 30a Fanteria- ‘Task Force Bernard ’ che sbarcò, virtualmente senza trovare opposizione, a Sant’Agata, dietro la linea di San Fratello.
Aiutato da questo, la principale forza della 3a Divisione, dopo una fiera battaglia, irruppe nella linea e subito dopo soccorse la ‘task force’.
Comunque, poco prima dello sbarco, la 29° Panzergrenadier del generale Fries aveva iniziato un ritiro ed il grosso del gruppo se ne era andato appena in tempo.
La seconda operazione anfibia ebbe luogo tre notti dopo e 25 miglia ad est e fu forzata su Bradley e Truscott da Patton il quale stava diventando sempre più impaziente di raggiungere Messina.
Fries aveva stabilito ancora un’altra linea di difesa, lungo il fiume Zappula, nella Penisola di Capo D’Orlando, e Patton voleva un altro sbarco della ‘ Task Force Bernard ’ a Brolo, dieci miglia dietro le linee nemiche.
La piccola forza del Tenente Colonnello L. A. Bernard sbarcò senza trovare opposizione, ma fu contrastata non appena si diresse verso il Monte Cipolla che sovrasta Brolo e pesantemente contrattaccata.
Quando la principale forza della 3a Divisione soccorse i propri commilitoni il 12 agosto, Bernard aveva perso 177 uomini ed il nemico era nuovamente fuggito.
Verso l’interno, la 9a Divisione aveva nel frattempo soccorso la 1a Divisione.
Per la prima volta operavano come un’unica cosa, la 9a spinse in avanti lungo la 120 e prese Cesarò il giorno 8, ma il giorno dopo Randazzo, un centro vitale per la ritirata tedesca, fu strenuamente difesa.
Per quanto fosse colpita dai bombardieri Alleati fino alla rovina totale, essa resistette per quattro giorni e la 9a Divisione vi poté entrare solo il 13 agosto.
Dopo la caduta di Adrano, i 30 ‘Corps’ dell’Ottava Armata avevano premuto verso nord, a ovest dell’Etna.
Tra i pendii senza sentieri del vulcano e la profonda gola dell’alto Simeto, c’era spazio per una sola divisione, la 78a.
Bronte cadde l’8 agosto, ma da quel momento in poi gli Inglesi incontrarono una forte resistenza Tedesca, così essi non presero Maletta, solo 4 miglia più a nord, che il 12 agosto.
Il giorno seguente essi raggiunsero la strada statale 120 e aiutarono la 9a Divisione nella cattura di Randazzo, le truppe della H. Goering , avevano bloccato le strade con crateri, mine, ponti saltati ed ogni altro ostacolo immaginabile.
La 50a Divisione ci mise una settimana per avanzare di 16 miglia da Catania a Riposto, in cui entrarono l’11 agosto.
Alla loro sinistra, avanzando sui fianchi dell’Etna c’era la 5a Divisione. Montgomery, nel decidere che un attacco di due divisioni attraverso la stretta gola avrebbe potuto rendere più veloce l’avanzata, il 9 agosto decise di coinvolgere nuovamente la 5a divisione. Il 12 essa fu soccorsa dalla 51a che era stata trasferita dai 30 ‘ Corps ’.
Il 14 agosto, la Herman Goering aveva interrotto i contatti e la velocità di inseguimento era, adesso, governata dalla velocità con cui gli ingegneri potevano riaprire le strade interrotte. Il 15, la 50a Divisione raggiunse la famosa località turistica di Taormina, la 51a e la 78a Divisione completarono il circuito dell’Etna e si unirono alle forze vicino Linguaglossa. Nello stesso giorno, Montgomery decise anche di portare fuori un anfibio ‘end- run’.
Nella mattina del 16, i ‘ Currie Force ’ (Commando n.2 con alcuni ‘ tanks ’ della 4a Brigata Armata in tutto 400 uomini) sbarcarono 16 miglia a nord sulla costa, vicino a Scaletta.
Il nemico si era ritirato già dopo quel punto ed una retroguardia tedesca impedì una spinta su Messina.
Nel frattempo, sulla costa settentrionale, la 3a Divisione Statunitense aveva velocizzato i tempi di inseguimento
Entro il 15 agosto i contatti con il nemico erano virtualmente cessati.
Un piano per un lancio di truppe su Barcellona per tagliare le truppe tedesche in ritirata, fu cancellato allorché truppe di terra arrivarono lì per prime, su insistenza di Patton, una terza operazione anfibia proseguì.
Il 16 agosto, il 157° Reggimento ‘Combat Team’ sbarcò vicino al bivio Salica, a est di Capo Milazzo.
Comunque, prima che essi raggiungessero la spiaggia, la 3a Divisione, era avanzata nuovamente oltre il posto dello sbarco e truppe amiche salutarono la prima ondata dalla spiaggia.
Al contrario di quanto previsto dai piani, alle 6,30 del 17 agosto, fu la 3a Divisione Americana ad entrare per prima a Messina (dalla statale 113), seguita alle 10,30 dal Generale Patton, poco dopo una pattuglia di Commando dei ‘ Currie Force ’ Inglesi entrò in città da sud.
Gli Americani trovarono Messina vuota di truppe tedesche. Dopo 38 – 39 giorni di battaglia continua la campagna di Sicilia era terminata.
Poco prima il Generale Hube aveva attraversato lo Stretto con le sue ultime retroguardie, i Tedeschi avevano completato la loro evacuazione fino all’ultimo. Tra il 1° ed il 17 agosto i Tedeschi evacuarono truppe per un totale di 39.951 (inclusi 14.772 feriti), 9.789 veicoli, 51 tanks, 163 cannoni, 16.791 tonnellate di attrezzature e 1.874 di carburanti e munizioni.
Nello stesso tempo gli Italiani, utilizzando tre battelli a vapore, un traghetto per treni e 10 gommoni a motore, ritirarono anche circa 59.000 uomini, 227 veicoli, 41 cannoni e 12 carrelli.
Ciò che all’inizio era atteso come un disastro si rivelò un successo sbalorditivo, grazie alla riuscita operazione di traghettamento di uomini e mezzi in Calabria, i Tedeschi poterono rallentare l’avanzata alleata in Italia come accadde infatti a Salerno, Cassino, Anzio ecc
L’Operazione Husky vide combattere 60.000 tedeschi dei quali 20.000 morirono o furono fatti prigionieri, gli Italiani persero 130.000 uomini in gran parte catturati dagli Angloamericani i quali contarono 31.000 uomini tra morti e prigionieri.
E’ giusto ricordare in particolare come i soldati della divisione Livorno furono tra i miglior a contrattaccare il nemico sino all’ultimo uomo, mentre la divisione Napoli, dopo aver tentato invano di fermare l’avanzata alleata tra i 10 e 13 luglio subendo gravi perdite, si sacrificò quasi totalmente per permettere ai Tedeschi di ripiegare nel settore Caltagirone/Vizzini.
La Divisone Assieta contrastò duramente il nemico fino al 29 luglio a S.Fratello, dove unitasi ai reparti Tedeschi combattè duramente sino al 7 agosto, giorno in cui i pochi soldati rimasti furono trasbordati in Calabria. La Divisone Aosta ubicata nella zona occidentale della Sicilia si portò a piedi nella zona orientale decimandosi nei duri scontri e sotto il fuoco aereo nemico.
In ultimo si distinse particolarmente ilo 10° Reggimento bersaglieri che fu tra i migliori reparti di tutta la guerra.
Cronologia della conquista della Sicilia.
8 maggio 1943. Cominciano i bombardamenti alleati sull’isola di Pantelleria.
12 maggio 1943. La Tunisia cade completamente in mano Alleata. E’ la fine della Campagna d’Africa per le forze dell’Asse .
1 giugno 1943. Offensiva aerea alleata su Pantelleria.
6-10 giugno 1943. Su Pantelleria si intensifica l’attacco alleato contro le batterie costiere dell’isola, da parte di aerei e navi inglesi.
11 giugno 1943. Pantelleria si arrende agli alleati prima ancora di essere attaccata dalle forze di sbarco
12 giugno 1943. Anche il presidio di Lampedusa si arrende al nemico senza combattere. Continua senza soste l’azione dei bombardieri alleati che con successive incursioni su Catania e Palermo causano decine di morti e seri danni.
13-14 giugno 1943. Si arrendono i presidi delle isole di Linosa e Lampione.
18 giugno e 25 giugno 1943. Attacchi aerei e bombardamenti su Messina.
9-10 luglio 1943. Con l’Operazione Husky inizia lo sbarco in Sicilia: all’alba del 10 luglio, alle 4,45, la 7^ Armata Usa sbarca sulle spiagge di Gela e l’8^ Armata inglese su quelle di Pachino e Siracusa.
10-12 luglio 1943. Violento scontro tra la 7^ Armata Usa e le divisioni Tedesca Hermann Goring e Italiana Livorno, che si ritirano solo alle ore 14 del 12 luglio.
13 luglio 1943. Viene occupata Augusta.
15 luglio 1943. Il premier inglese Winston Churchill e il presidente americano Roosevelt lanciano un comune appello agli Italiani affinché decidano “se vogliono morire per Mussolini e Hitler oppure vivere per l’Italia e la civiltà”.
Il re incontra Badoglio per sondare la sua disponibilità a presiedere un nuovo governo.
17 luglio 1943. Gli Alleati conquistano Agrigento e il giorno dopo Caltanissetta.
19 luglio 1943. La notte è tristemente ricordata come “notte di san Lorenzo” per il primo bombardamento alleato su Roma. I danni sono immensi. Il quartiere di san Lorenzo è quasi completamente devastato; morti e feriti si contano a migliaia. Sul luogo si reca il pontefice.
22 luglio 1943. Gli Alleati conquistano Palermo.
25 luglio 1943. Il Gran Consiglio del Fascismo sfiducia Mussolini, il re ordina il suo arresto e affida a Badoglio l’incarico di guidare il nuovo governo.
27 luglio 1943. Il Gen. Alexander, comandante il XV Gruppo d’armate, sposta il suo Quartier Generale dall’Africa in Sicilia.
5 agosto 1943. Occupazione alleata di Catania.
17 agosto 1943. Alle 10,15 le truppe del Gen. Patton entrano a Messina, la conquista dell’isola è stata portata a termine in 39 giorni, i tedeschi tuttavia sono riusciti a trasbordare sul continente buona parte dei loro uomini con l’equipaggiamento, nonostante la supremazia aerea e navale alleata.
3 settembre 1943. Le truppe Alleate sbarcano in Calabria.
SECONDO CONFLITTO MONDIALE
LA GUERRA NEL RAGUSANO
Nella prime ore del l0 luglio 1943 due armate ” alleate ” VIII britannica e la VII americana iniziarono l’invasione della Sicilia che dopo trentotto giorni si concluderà con l’occupazione da parte dei ” 3° reggimento (7° divisione) del ten. col. Ben Barrel. Della città di Messina.
Si vedrà che l’unico territorio investito da entrambe le armate sarà costituita dalla provincia di Ragusa.
Le forze britanniche comandate dal Gen. Sir. Bernard Law Montgomery sarebbero sbarcate nella cuspide sud orientale dell’isola, quelle americane comandate dal Gen. George Patton sarebbero sbarcate su tre direzioni: Licata, Gela e Scoglitti.
Fase dello sbarco a Scoglitti
Tra le due armate vi era uno spazio di una cinquantina di chilometri, ma è ovvio che non si trattava di competenza territoriale e che gli occupanti comunque l’avrebbero colmato, tant’è che Scoglitti essendo considerata la più importante zona (anche per gli aeroporti di Biscari – Acate e Comiso) la “direttrice” di sbarco conosciuta in codice “Cent Force” impegnava 26.600 uomini, ossia 6.600 in più della “Dime Force” (Gela) e ciò perché nei compiti di occupazione era prevista l’aggancio con le forze canadesi dell’VIII Armata.
Occorre permettere che l’ora X per lo sbarco era stato fissato per le ore 02,45, ma i responsabili marittimi per sopravvenute difficoltà proposero di ritardare lo sbarco di un’ora trovando d’accordo il contrammiraglio Alan G. Kirk. Ordini e contrordini portarono a molta confusione ritenuto tra l’altro che dovevano essere richiamati alcuni mezzi partiti per l’assalto. Difficoltà furono create dalle coste e i molti scogli, sicché i primi soldati sbarcarono alle 04,45. Anche questo ritardo fu giustificato per gli attacchi di aerosiluranti italiani. Poi con le luci dell’alba sia per l’intervento dell’incrociatore “Philadelphia” che catapultò 4 aerei (uno fu abbattuto), che di altre navi da guerra, la situazione prese una piega favorevole per gli americani e da questo momento non vi è zona costiera che non sia nelle mani degli uomini dello Zio Sam.
Giova ricordare che la 45° divisione era giunta direttamente dagli Stati Uniti, ma alcune fonti d’informazioni affermano che per un breve periodo si esercitò ad Orano e Azzew (Algeria). L’unità aveva una consistenza numerica di 17.000 uomini, su 9 battaglioni, con armamento standard di 100 carri armati, 45 autoblinde, 100 cannoni da campagna, 350 cannoni controcarro. Più o meno uguale la consistenza di uomini e d’armamento delle divisioni inglesi.
Di contro le divisioni italiane erano costituite da Il.000 uomini su sei battaglioni, più due di Camicie Nere, 48 cannoni di campagna, 36 cannoni controcarro.
FORZE ITALIANE PREPOSTE ALLA DIFESA NELLA PROVINCIA DI RAGUSA – 206 DIVISIONE COSTIERA
L’unità fu costituita nel novembre 1941 e schierava 450 ufficiali e 9.600 sottufficiali e militari di truppa su otto battaglioni di fanteria, cinque gruppi di artiglieria e cinque nuclei antiparacadutisti; il tutto su tre reggimenti: 1460, 1220 e 1230.
Il l0 aprile 1943 si riorganizzò la difesa costiera dell’isola (1.400 chilometri comprese località dell’entroterra) e, sotto la stessa data si assegnò un ufficio di posta militare alle divisioni, mentre le brigate ed altri reparti avrebbero continuato ad appoggiarsi, in linea di massima, agli uffici di “concentramento”. Nelle stesso mese di aprile furono celebrate cerimonie di consegna dei “capisaldi” e si ordinò alle “costiere”, nell’eventuale sbarco di resistere ad oltranza sino a che non fossero intervenute le divisioni mobili. Eppure si sapeva che le “costiere”, formate da personale anziano, erano male armate e scaglionate in modo di non offrire alcuna garanzia: 36 uomini per ogni chilometro, 215 fucili mitragliatori, 474 mitragliatrici (3,6 per chilometro), 34 mortai da 81 (1 ogni 4 chilometri), 14 batterie (56 pezzi), ossia 4 pezzi per ogni 9 chilometri.
L’unità al comando del Gen. Achille D’ Havet, con sede a Modica si scaglionava lungo la cuspide dell’isola, subito dopo la base di Augusta-Siracusa, dipartendosi da Masseria Palma (contrada “Fanusa”) sino a Capo Passero e poi lungo la costa meridionale sino a Punta Braccetto per 132 chilometri. A disposizione del comando di divisione operava il 440 raggruppamento comandato dal Col. Romeo Escalar;
1460 reggimento – comandato Col. Felice Bartimmo Cancellara (sede a Noto), su tre battaglioni (430, 374, 437) che si estendeva su un fronte di 41 chilometri, da Masseria Palma a Isola Vendicari;
a) – 4300 battaglione, copriva la distanza di 18 chilometri sino a Punta Giorgi; il battaglione fu attaccato da 18 battaglioni del XIII Corpo d’Armata britannico;
b) – 3740 battaglione (comando ad Avola); scaglionato da Punta Giorgi a Isola Vendicari. Il reparto disponeva di una compagnia mitraglieri e delle batterie LXXX e LXXXI. Dirigeva il reparto il Magg. Umberto Fontemaggi;
c) – il 4370 battaglione fungeva di riserva in quel di Noto, ma il Gen. D’Havet venuto a conoscenza degli atterraggi di paracadutisti, né ordinò l’impiego. AI battaglione era aggregata la LXXIX batteria;
1220 reggimento – (con sede ad Ispica), comandato dal Ten. Col. Camillo Apollonio su due battaglioni (3750 e 2430) poteva disporre del CII gruppo e della 470 batteria. Il reggimento era scaglionato da isola Vendicari a Punta Regligione (55 chilometri);
a) 2430 battaglione, che disponeva di due compagnie mitraglieri, una compagnia del 5420 battaglione “bersaglieri costieri” (già del Gruppo Mobile “F” di Rosolini) e 4 batterie d’artiglieria.
Il battaglione si trovò a fronteggiare l’urto del XXX Corpo d’Armata inglese, compresi due “Commandos” (21 battaglioni);
a) 3750 battaglione dislocato da punta Castelluzzo a Punta Regligione (21
chilometri).
Il reparto ebbe il compito di rastrellare i paracadutisti e squadre di “Commandos” nemici;
1230 reggimento – (con sede a Scicli), comandato dal Col. Giuseppe Primaverile. Si ripartiva su tre battaglioni (542,383,381) e poteva disporre della CLXII gruppo da 149/35 (su cinque pezzi e della batteria LXXIV, nonché del XXVII gruppo artiglieria d’armata. Il 5420 battaglione bersaglieri costieri è privo della 20 compagnia che forma il Gruppo Mobile, difesa aeroporti, di Rosolini.
Il reggimento occupava un tratto di costa ove non si effettuò alcuno sbarco nemico (da Punta Religione alla foce del fiume Irminio, ma si trovò a fronteggiare i paracadutisti nemici. Il col. Primaverile fu chiamato al telefono ed invitato ad arrendersi. La voce era di un italo-americano e minacciava con le buone e con le cattive, lusingando il valore militare del comandante, che era meglio arrendersi. Il Primaverile, passò al contrattacco e catturò oltre cento paracadutisti che consegnò ai carabinieri di Scicli. L’episodio è ricordato da alcuni prigionieri che credevano di essere passati per le armi poiché la propaganda dei “liberatori” ci aveva dipinti come incivili !.
I due battaglioni 3810 (Noto) e 3830 (Santa Croce Camerina) si trovarono ad affrontare il 1570 reggimento della 450 divisione USA e la sopraggiungente IO divisione di fanteria canadese, nonché la 154 brigata scozzese. Il col. D’Apollonio fu costretto a ripiegare su Ispica.
Un episodio degno di essere ricordato riguarda le forze attaccate a Santa Croce Camerina, che furono sostenute da soldati il licenza e da civili del luogo. Nella battaglia si distinsero il Caporalmaggiore Rosario Granata, il Ten. Giuseppe Saja (del 1220 reggimento – medaglia d’argento al v.m. ad entrambi) e il Ten. Antonio De Francisc, medaglia di bronzo.
DIVISIONE “NAPOLI”
La divisione agli ordini del Gen. di Divisione Giulio Cesare Goffi Porcinari nel primo trimestre del 1942 viene stanziata nella regione centro meridionale della Sicilia (comando a Caltagirone). Il comandante della fanteria è il Gen. di Brigata Rosario Fiumara, capo di S.M. il Ten. Col. Tancredi Tucci. I reggimenti sono distribuiti: il 750 fanteria (comandato dal Col. Francesco Ronco) a Siracusa; il 760 fanteria (comandato dal Col. Giuseppe Salerno) a Caltagirone; il 540 reggimento artiglieria (comandato dal Col. Amedeo Moscato) a Piazza Armerina; la 1730 Legione Camicie Nere (comandata dal Console Giuseppe Busalacchi) a Ispica.
Tutti i reparti prenderanno parte alla battaglia. A Modica dopo una cruenta battaglia, fu preso prigioniero il Gen. D’Havet: le sue decorazioni stupirono il nemico e per il valore dimostrato gli fu concesso di tenere la pistola in dotazione. Il Gen. D’Havet, marchese Achille, giunse in Sicilia come comandante della 2060 Divisione Costiera, vantava una medaglia di bronzo nella guerra italo turca, due medaglie d’argento, Croce di guerra Militery Cross, Croiz de Guerre, Cavaliere della “Legion d’Bonore” (guerra 1915-18), Ordine Militare di Savoia.
Una menzione particolare va rivolta al Col. Ronco, sorpreso da un massiccio bombardamento da parte di trentasei superfortezze volanti che si abbatterono su Palazzo lo Acreide, causando alla colonna la perdita di duecento uomini e alla città un migliaio di morti. Il colonnello si precipitò in aiuto della popolazione civile, riprendendo poi la marcia. Un secondo attacco si abbattè su un reparto tedesco de “88″: i resti furono aggregati alla colonna del Ronco. Un ultimo attacco distrusse la colonna: il colonnello riuscì a sotterrare la bandiera del reggimento.
Alcuni mesi prima, ma il piano sarà attuato a fine giugno 1943, furono predisposti “Gruppi Tattici” (rinforzo alla Difesa costiera) e “Gruppi Mobili” con il compito di “rinforzo” difesa fissa aeroporti.
Il XVI Corpo d’Armata, a cui spettava la competenza territoriale della Sicilia Orientale aveva organizzato quattro Gruppi Tattici uno dei quali nel Ragusani che assunse la denominazione di “Comiso-Ispica” al comando del Console Busalacchi della 173° Legione CC.NN. e con i seguenti effettivi:
a) CLXXIII battaglione CC.NN., 174° Compagnia mitraglieri della stessa
Legione;
b) 2° compagnia morta del LIV battaglione “Napoli”;
c) 1° plotone controcarri 47/32 e dallo gruppo 100/17 del LIV artiglieria
“Napoli” .
A Comiso vi era dislocato il “Gruppo Mobile ‘G’ agli ordini del Tenente Colonnello Porcù, costituito dai:
a) CLXIX battaglione CC.NN. della 173° Legione; 3° compagnia del CII
battaglione controcarri;
b) 1 ° plotone della 2° compagnia CI battaglione carri R/35; 8° batteria 75/18
del II Gruppo del LIV art. Napoli.
In linea di massima la difesa aeroporti sarebbe dipesa da ufficiali dell’ Aeronautica. Ma sia i Gruppi Tattici che i Gruppi Mobili formalmente sarebbero dipesi dal Comando della VI Armata.
Un aeroporto qualificato era quello di Comiso, da dove partivano la maggior parte delle incursioni su Malta: 1’11 luglio il “Magliocco” fu occupato dagli americani dopo aver avuto ragione di un presidio di 150 tedeschi. L’occupazione fu così improvvisa che un “Junker 88″ atterrò non essendo stato preavvisato del combattimento di campo.
Da Punta Braccetto a Punta Due Rocche vi era dislocata la XVIII Brigata costiera agli ordini del Gen. di brigata Orazio Mariscalco (comando a Niscemi. La brigata era costituita da due reggimenti: 134° e 178°. Quest’ultime, al comando del Col. Sebastianello si ripartiva nei battaglioni, 134, 389 e 501 ed era dislocata in territorio regusano.
Il 389 “costiero” combatte ad ovest di Scoglitti anche contro gli americani della “DIME FORCE” diretti su Gela. Il 501° “costiero” il cui comando si trovava a Scoglitti, “Fattoria Randello”, difese l’ala sinistra della divisione “Goering” ma alle ore 12 del lO luglio, interamente circondato dalla “Forza X” del Ten. Col. William O. Darby dovette cedere.
Una pagina poco conosciuta di storia fu scritta dagli “arditi” del II battaglione del Maggiore Vito Marcianò dislocato in tutte le “zona calde” della Sicilia. La 113° compagnia al comando del Cap. Ciro Zuppetta era ubicata a Santa Croce Camerina e scaglionata nella regione iblo-aretusea.
Giova ricordare che gli “arditi” effettueranno azioni di “commandos” anche dopo l’occupazione (31 luglio – 1 agosto) pagando un alto tributo di sangue.
Ma anche durante la battaglia nel ragusano molti di loro caddero sotto il piombo nemico: Ardito Guido Giordano a Capo Vendicari; Ardito Vittorio Girono vivente, med. di bronzo (Ispica), Ten. Massimo Salemi, vivente, medaglia di bronzo (Santa Croce Camerina).
A cura del webmaster Carlo GATTI
Alcune recensioni:
- straordinari effetti scenografici, di grande impatto emozionale e ben documentato.
- L`esposizione, il percorso, il materiale originale in mostra sono solo alcuni elementi che rendono questo museo indimenticabile. Meriterebbe piu visibilita e pubblicita.
- Un museo molto ben organizzato e ricco di reperti, con un percorso obbligato che aiuta a conoscere e a riflettere.
- Le ricostruzioni del bunker, il rifugio antiaereo, la ricostruzione delle case..
- particolare è la ricostruzione di un villaggio pre e post bombardamento, con tanto d simulazione di rifugio anti aereo
- Ci sono molti cimeli e personaggi di cera. Importantissimo non dimenticate la mostra fotografica di Stern difronte al museo, un fotografo dell'esercito usa poi diventato un famoso fotografo dei divi di hollywood, il video del suo...
- Interattivo e adatto anche ai bambini soprattutto se in età scolare.
- Interessante, istruttivo. Da visitare per gli amanti della storia. Da far visitare alle scolaresche per far toccare con mano un periodo di storia recente. Da non perdere l'esperienza del rifugio antiaereo ( simile a quello del Museo della guerra di Londra) e le statue di cera dei personaggi storici dell'epoca.
ALBUM FOTOGRAFICO
L'armistizio di Cassibile (detto anche armistizio corto), fu un Armistizio siglato segretamente, nella cittadina di Cassibile , il 3 settembre del 1943, e l'atto con il quale il Regno d'Italia cessò le ostilità contro le forze Anglo-Americane Alleate, nell'ambito della Seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un Armistizio, ma di una vera e propria resa senza condizioni.
Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente citato come "8 settembre", data in cui, alle 18:30, fu reso noto prima dai microfoni de Radio Algeri d a parte del generale Swight Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19:42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell'EIAR.
Obice-cannone leggero: Ordonance Q.F. 25 lb.Mk2. Fabbricazione britannica. Introdotto nel 1939. (Cortile esterno Museo)
Interno Museo. Ricostruzione Casa Comunale
Le foto che seguono si riferiscono alle abitazioni sotto bombardamento animate con luci e suoni che creano perfettamente il clima di quei momenti tragici.
Casa distrutta dai bombardamenti
Bomba inesplosa
Rifugio antiaereo
Ospedale da campo italiano
Museo delle cere. Benito Mussolini
Stazione Radio
Tipologie di Bunker
Postazione mitragliere
Interno Bunker
Uniformi eserciti Alleati
Uniformi del Terzo Reich
Copricapo Esercito Italiano
Emblemi della Gioventù Fascista
Moto DKW - Germania 1938
Moto Guzzi - ALCE - Italia 1936
Moto Guzzi SUPERALCE - Italia 1942
Cucina da campo - Germania 1943
Cannone antiaereo Bofors 40 mm.
Mitraglia antiaerea Oerlikon 40 mm.
CARLO GATTI
Rapallo, 20 giugno 2014
LO STRANO DESTINO DI PORT ROYAL (Giamaica)
LO STRANO DESTINO di PORT ROYAL GIAMAICA
Nel XVII secolo, Port Royal era il principale centro di commercio della Giamaica. Era una città in continua espansione, costruita sull’estremo lembo di tombolo che racchiude il Golfo di Kingston.
Fu fondata come fortificazione spagnola ma nel 1655 divenne possedimento inglese. Gli Inglesi dell’epoca, veri signori dei mari, intuirono l’importanza del sito posizionato sulla rotta che dai caraibi portava oro in Europa. Quattro anni dopo il forte che sorvegliava l’imboccatura alla baia, era già circondato da duecento edifici fra case, palazzi del potere, negozi e magazzini, a dimostrazione dello sviluppo enormemente rapido del sito. Gli Inglesi, sempre pragmatici, non disdegnavano i rapporti con i Pirati, che in seguito “istituzionalizzarono” in Corsari. Grazie alla massiccia presenza di questi predoni, la città esibiva ricchezza ed era già nota per i costumi dissoluti: pressoché tutti i piani a livello strada erano bettole o postriboli. E’ in quell’epoca che si fece la reputazione di essere <<la città più ricca e malfamata del mondo>> Grazie a questa illimitata libertà, Pirati, Bucanieri e Corsari, vi investivano e spendevano tutti i loro averi. Intorno al 1660 la città si era guadagnata la fama di essere << la Sodoma del nuovo mondo>> dove la maggior parte dei residenti erano ogni sorta di pirati, tagliagole e prostitute. Dai pochi documenti salvati dal terribile terremoto, che più avanti vedremo la distrusse nel1692, si è appurato che già nel 1661 vi era una osteria ogni dieci abitanti e furono rilasciate quaranta licenze per aprire nuove taverne. Erano operanti in città quattro orafi, quarantaquattro tavernieri, moltissimi artigiani e mercanti che esercitavano in duecento edifici occupanti una superficie complessiva di 200.000 mq. Nel 1688 sostarono nel porto ben duecentotredici navi e il commercio si era evoluto dal primitivo scambio di beni a fronte di servizi, all’uso della più pratica moneta.
Quando Charles Leslie scrisse la storia della Giamaica, descrisse i pirati così: il vino e le donne prosciugano i loro averi ad un tale livello che alcuni tra loro sono costretti ad elemosinare. Sono diventati famosi per spendere due o tre mila pezzi da otto(moneta spagnola coniata in argento, poi diffusasi per secoli ovunque) in una sola notte; uno ne diede 500 ad una sgualdrina per vederla nuda. Era abitudine comprare una botte di vino, spostarla sulla strada ed obbligare chiunque passasse, a bere>>
In altre parole la Città divenne il più ricco possedimento inglese nel Nuovo Mondo grazie alla pirateria che poi continuò con il commercio del Rum ma soprattutto con la tratta degli schiavi prelevati dall’Africa occidentale. A seguito della nomina di Henry Morgan a Governatore ( il famoso inglese prima ammiraglio, poi pirata e in fine governatore; morì in disgrazia di cirrosi epatica), Port Royal iniziò a cambiare. Non c’era più la necessità di ricorrere all’aiuto dei pirati per difendersi dalle incursioni francesi e spagnole, nei momenti in cui gli inglesi avevano scarne guarnigioni. Il commercio degli schiavi, assunse maggior importanza mentre i cittadini più elevati, iniziarono ad essere stufi della nomea che la città si era fatta.
Nel 1687 la Giamaica approvò una legge antipirateria. Da “porto franco” per i pirati, Port Royal divenne famosa come luogo che non garantiva più asilo, anzi iniziarono le loro esecuzioni. Charles Vane e Calico Jack entrambi pirati britannici, furono fra i primi ad essere impiccati ma, appena due anni dopo, in un solo mese ne salirono il patibolo ben 41.
Jolly Roger
Merita qui ricordare che proprio Calico Jack inventò quella destinata a divenire poi la bandiera ufficiale della pirateria: un teschio bianco con sotto due spade incrociate in campo nero, più nota come <Jolly Roger>.
Diverse caratteristiche della Città la resero ideale per gli scopi della pirateria.
Era situata, lo abbiamo visto, proprio sulle ricche rotte molto frequentate che univano Panama alla Spagna. La grande baia protetta di Kingston era sufficientemente vasta ma dallo stretto accesso facilmente controllabile, tanto da poter fornire protezione ai loro vascelli e, in fine, strategicamente posizionata da poter lanciare attacchi agli insediamenti spagnoli. Da lì partirono gli attacchi a Panama, Portobelo e Maracaibo. John Davis, Edward Mansveldt ed Henry Morgan utilizzarono Port Royal per organizzare le loro azioni piratesche.
Da parte loro gli Inglesi, in cambio di questa loro “interessata” tolleranza, incoraggiarono, quando addirittura non pagarono, i Bucanieri (i veri Fratelli della Costa) di stanza colà perché attaccassero le spedizioni navali Spagnole e Francesi. Nel periodo intercorrente fra la conquista Inglese dell’isola (1655() e il terremoto, Port Royal fu la capitale della Giamaica. Dopo tale data, non essendo rimasto pressoché più niente, il suo ruolo lo prese Spanish Town, l’insediamento più vicino e meno esposto. Solo nel 1872 il Governatorato fu trasferito definitivamente a Kingston.
Una bella mattina di Giugno, per la precisione Mercoledì 7 dell’anno del Signore 1692, il reverendo Emmanuel Heath, pastore anglicano della principale chiesa del Porto, passeggiava, come di consueto, nel piazzale antistante la Basilica recitando le giornaliere preghiere quando, improvvisamente un boato subito seguito da un tremare violento della terra, lo terrorizzò.
Fuggì di corsa salendo un po’ più in alto mentre il terreno scosso, stava sgretolandosi in mare come se vi si sciogliesse. Infatti la lingua di terra o tombolo su cui era stata edificata la Città, era formata da sabbia e ghiaia fluviale, per uno spessore di 30 metri. Il materiale, scosso dalle ondate sismiche del 7° grado della scala Mercalli, scivolò in mare e in men che non si dica, il tombolo su cui poggiava la Città, sprofondò facilitato dal naturale declivio verso il mare mai consolidato. Questo insolito sconvolgimento, sprofondando senza “spaccarsi” perché il terreno non era roccioso, trascinò sul fondale, non più profondo di 15 metri, tutto il paese senza, di fatto, frantumarlo. La base superficiale su cui era stato edificato, affondò come una zattera subito ricoperta da tutto quel turbinio di sabbia, limo e terra, sparendo alla vista. A completare lo scempio poi tre successive ondate (oggi lo chiameremmo “tsunami”, che regolarmente segue gli sconvolgimenti del fondo del mare a causa di un terremoto) spazzò via tutto quel poco che era rimasto.
Alla fine si contarono oltre 2000 morti mentre, del fiorente porto, non emergevano che le parti più alte, ma ridotte in rovine. Naturalmente, come era nella cultura dell’epoca il Reverendo, scrivendo nel suo rendiconto per spiegare ai suoi Superiori come aveva perso la Chiesa, chiosò < spero che questo terribile giudizio di Dio induca i superstiti a cambiare vita, perché non penso che esistano persone altrettanto prive di timor di Dio sulla faccia della terra>. Questa volta però Dio non fu il feroce giustiziere immaginato dal Reverendo: semplicemente lui non sapeva che la Giamaica era, come è, zona sismica, purtroppo attiva ancor oggi, perché si trova lungo il margine della placca caraibica che si scontra con il bordo più meridionale della placca nord-americana, traslando di 20 mm all’anno.
Papa Francesco oggi ci ha fatto capire che Dio non è mai giustiziere, ma padre.
Come sempre accade, specie in zone in cui l’igiene non viene praticato, al disastro seguirono malattie che, in modo incontrollato, si diffusero portando a morte ulteriori 2000 persone. Quando la notizia si diffuse, nella mente dei contemporanei scattò giustificativa la pessima reputazione della Città, attribuendo la calamità alla giusta “punizione divina”.
Si tentò di ricostruirla iniziando da dove non era stato sommerso, ma avvennero altri disastri: nel 1703 un incendio la distrusse un’altra volta tanto che poi, nella prima metà del XVII secolo, Port Kinston eclissò definitivamente Port Royal.
Sulle carte, al posto del tratto finale di quella mitica lingua di terra, oggi è indicata un’isoletta staccata: su di essa e il canale che la divide dalla terra ferma, c’era Port Royal.
Atlantide dei Caraibi
Solo e per caso nel 1959 due archeologi americani, scandagliando il basso fondale, scoprirono, sotto una coltre di limo e sabbia, una città pressoché intatta con case e negozi ancora perfettamente conservati, con all’interno tutto quello che contenevano quella mattina. Su di un ronfò scoprirono i resti di una tartaruga che doveva essere il pranzo di quel giorno. Poco più in là una bottega da falegname conserva ancora un letto così come lo stava costruendo e, in una farmacia, fanno bella mostra numerosi flaconi ancora allineati e contenenti medicamenti e albarelli da farmacia, perfettamente conservati. Altrove bottiglie e monili d’oro; in un “fondo” c’era una cassaforte semicorrosa, contenente oltre 1536 monete d’argento.
Come oggi giorno si usa, la scoperta di questa “Atlantide dei Caraibi” sta mettendo in moto la macchina del turismo. Intendono, in pochi anni, creare un parco sottomarino con tanto di alberghi e ristoranti < vista sul fondale>, in quanto lo stesso è veramente facilmente raggiungibile: non più di 15 metri.
RENZO BAGNASCO
Fratello della Costa
Foto di Carlo GATTI
Rapallo, 23 Maggio 2014
COSA MANGIAVANO I PIRATI?
Ma cosa davvero mangiavano i pirati ?
Avendo fatte ricerche, come appare in altra parte, sulla gastronomia caraibica ai tempi dei Bucanieri, i mitici Fratelli della Costa, non vi nascondo che la tentazione di riuscire a sapere cosa realmente ci fosse nei piatti di quei masnadieri, fu forte. Per saperlo con una certa qual certezza e non ricorrendo ai vari Salgari, bisognava però fare delle ricerche, perché sino ad allora non ero mai incappato in qualcosa di attendibile. Persino nei romanzi ispirati a quelle imprese o nei rendiconto, non compaiono mai dei possibili “menu” anche se, ben inteso, non come oggi li conosciamo, cioè una sequenza di portate. Sarebbe stato sufficiente qualcosa che ci descrivesse, anche sommariamente, come erano composti i loro “manicaretti.
Ho fatto allora ricerche presso la prestigiosa Civica Biblioteca “Berio” di Genova, Città notoriamente sensibile alle cose di mare. Nulla. Ho coinvolto anche gli amici della <Fondazione B.IN.G – Bibliotèque Internationale de Gastronomie – Lugano> una delle due più complete raccolte di manoscritti e stampati delle opere di gastronomia dal sec. XIV al XIX, esistenti al mondo: ricerche rivelatesi inutili.
Di cosa mangiavano nelle antiche marinerie “ufficiali” dell’epoca, conosciamo quasi tutto a cominciare dalle derrate imbarcate prima di partire, senza però poi sapere in che modo venissero preparate. Addirittura esiste un dettagliato elenco di cosa imbarcò Colombo prima di partire per la sua avventura; sappiamo persino delle lenze per la pesca segretamente occultate, così da poter essere eventualmente usate per pescare, nello sventurato caso che si esaurissero le scorte per l’imprevedibile non rispetto dei tempi di navigazione ipotizzati, visto che si andava verso l’ignoto; deprecata possibile ipotesi che però un precisino come lui (quella stessa“ostinata” precisione che lo portò poi alla rovina) aveva, pur tenendosela per se, messa in conto.
Con il tempo e il migliorare dell’organizzazione dei vari Ammiragliati, si cominciò a studiare e prendere nota empiricamente della quantità di razioni che dovevano essere servite per sostenere le fatiche di ogni imbarcato (oggi le chiamiamo “calorie”), ma mai come lo si confezionasse. E’ però facile pensare che, mano a mano che le riserve imbarcate si avvicinavano al deterioramento, gli addetti alla cucina le rendessero commestibili in base alle loro personali esperienze e non secondo un menù precostituito: da qui il largo uso delle spezie. Per altro a bordo, data la configurazione dei quei velieri, è da escludere si preparassero zuppe o minestre o cibi liquidi o intingoli, troppo pericolosi su instabili vascelli non idonei, vuoi per la panciuta forma della chiglia che doveva contenere più merce possibile, vuoi per la esigua stazza degli stessi, (le mitiche caravelle oggi verrebbero classificate fra la nautica minore) non certo ideali per attenuare il rollio ed il beccheggio. La presenza del “fogon”, una sorta di armadio metallico per contenere il fuoco, non garantiva certo la stabilità di cosa vi si stesse cucinando. Il “mulo”, l’incaricato, doveva sempre stare attento a che le “pignatte” non volassero. Questa ipotesi trova conferma nel fatto che in tutti i porti sino agli inizi del ‘900, nell’ora di mezzogiorno, si accostassero sotto bordo, barche che vendevano fumanti zuppe o minestre di verdure, proibite a bordo.
Nel porto di Genova, il "cadrai", italianizzato in cadraio, era quel barcaiolo che portava cibi caldi o meno ai lavoratori delle chiatte o delle navi dalle quali non potevano scendere a terra. Il nome "cadrai" è corruzione dell'inglese "caterer", ossia il fornitore e-o organizzatore di mensa. Nel 1910-11 vi erano nel porto 40 "cadrai" La bellezza della cartolina stà comunque nella retrostante rappresentazione del bunkeraggio di una volta. Archivio P. Berti
A Genova si chiamavano “cadrai” e offrivano minestrone caldo, reso accattivante con l’aggiunta di profumate foglie di basilico spezzettate (il pesto,dato il prezzo dei suoi componenti, era un lusso). Se ne deduce quindi che il mangiare di bordo fosse prevalentemente “asciutto”. So che non è bello auto-citarsi ma per non tediare ripetendo dettagliate informazioni, invito a leggere, a chi ne avesse voglia, ciò che descrivo ampiamente nel mio ultimo volume < LIGURIA amore mio> Mursia Editore.
E’ facile ipotizzare che in quell’ambiente piratesco le “mangiate” vere e proprie avvenissero nelle bettole di terra ferma; in mare era altra musica. Si può pensare che le orge sessual-gastronomiche, quella maramaglia che aveva piena coscienza che ogni volta che andava per mare poteva anche essere l’ultima, le riservasse a quando, venduta la merce rapinata sui velieri depredati, davano sfogo alla voglia di vivere una vita sgregolata che, certo, non offriva loro obiettive prospettive proiettabili a lungo termine. Infatti solo pochi poterono morire nel proprio letto; la maggior parte, se non fatti a pezzi negli arembaggi, finì appesa a un qualche pennone di bordo.
Proprio perché quella vita disagiata comportava sacrifici e rischi ma assicurava un pasto sicuro, da sempre tutti gli imbarcati, anche se semplici componenti la “bassa forza” e in qualunque marineria, venivano assai meglio retribuiti di chi, a terra, svolgeva analogo lavoro e non aveva la certezza di mangiare tutti i giorni.
Solo dei pranzi Regali abbiamo esatti rendiconto, portata per portata. Ma non era certo questo il caso dei “Nostri” presi in esami, la maggior parte dei quali frequentava quella vita, statisticamente ahimé, per un breve arco di anni. Quasi sempre i corsari, perché operanti per un qualche regnante, una volta catturati, finivano nelle galere di chi li aveva fatti prigionieri (meglio conservarli: si sa mai che poi li avrebbero potuti usare per il loro comodo ?) mentre ai pirati, da nessuno protetti, era riservata l’impiccagione.
Scartabellando inutilmente nei volumi riservati alle ricerche che mi stavano a cuore, ho dedotto che nelle Biblioteche italiane, non avrei mai trovato quello che cercavo perché, all’epoca, l’Italia, o meglio le marinerie dei vari Staterelli che la componevano, bazzicavano solo nel Mediterraneo: infatti di tutte queste ho già scritto cosa e quanto consumavano a bordo, a cominciare dalle galere. I Caraibi erano invece solcati da navi spagnole, francesi e inglesi. Queste ultime erano controllate dal più organizzato e puntiglioso Ammiragliato a cui non sarebbe sfuggito alcunché e, quello che conoscevano, lo mettevano per iscritto. Forse, in quel repertorio mitico inglese, ce ne sarà traccia.
Allora ho pensato che, anche se scientificamente non corretto, qualche scrittore anglosassone di avventure piratesche a cui era facile attingere a quel patrimonio, ne potesse aver scritto con la stessa dovizia di particolari che riservava al descrivere il resto di quel mondo.
La scelta non poteva che cadere su Robert Louis Stevenson che nell’800 ne scrisse nel suo famoso < Isola del tesoro > descrivendo nei dettagli gli ambienti degli angiporti e dei pirati del ‘700. Per capirci è lo stesso che ci ha tramandato quel macabro ritornello che tanto ci fece sognare e impaurire da ragazzi:
Quindici uomini sulla cassa del morto
Yo-ho-ho, e una bottiglia di rum!
Nelle 200 e più pagine del romanzo, gli unici accenni al mangiare sono, nell’ordine: in una taverna <E così mi fu servito ad una piccola tavola un pasticcio di piccione e io cenai di gusto …> più avanti, a bordo <Dopo di che, mangiato il nostro lardo e bevuto ciascuno un buon bicchiere di ponce all’acquavite….> e ancora <<messomi a sedere, per attender che fosse buio, mangiai di gusto la mia galletta> in oltre, a terra <… un uomo ci chiamò perché la colazione era pronta, e tosto sedemmo sulla sabbia, intorno al fuoco, con davanti gallette e lardo fritto> e poi < … avevano sbarcato dall’Hispaniola lardo, gallette e acquavite per il pasto di mezzogiorno > ed in fine < Che cena, quella sera, attorniato da tutti i miei amici; e che pasto, con carne di capra salata … parecchie ghiottonerie e una bottiglia di vino vecchio dell’Hispaniola ! > mentre del rum, farcito dalle bestemmie, ne parla ad ogni piè sospinto.
Da questi sommari accenni ai pasti consumati in navigazione, se ne può dedurre che non ci fossero grandi scelte e conseguenti “menù “: l’importante era sopravvivere. A proposito di rum, ad un certo punto venne “adottato” dalla marina inglese nel tentativo di combattere il micidiale sgorbuto.
Morale: i giovani marinai, con la scusa di prevenire, si sbronzavano e allora decisero di allungarlo con acqua. E’ nato così il noto “grog”
Ma torniamo a noi: anche se mi rendo conto di queste lacune e pur conoscendo cibi antichi, non intendo “inventarmi” manicaretti possibili tanto per accontentare la voglia di scrivere cose insolite, come la romanzata < Olla putrida> dall’etimologia del nome assai sospetta e “ruffiana”. I pirati saranno stati crudeli sanguinari assassini o, a seconda delle circostanze, pacchiani gentiluomini, ma per certo non erano fessi. Questa sorta di zuppa composta da legumi e carne, certamente liquida, è assai improbabile venisse servita a bordo, meno che meno rendendola più “esplosiva” da una “presa” di polvere da sparo, come si narra. E’ un classico esempio di piatto unico “antichizzato” che si presta ad essere romanzato; una analoga gustosissima minestra, ma con un nome meno rivoltante, la si gusta ancor oggi sui Pirenei nel Principato di Andorra.
Se mi capiterà mai di trovare traccia che appaghi questa curiosità, mi riservo di scriverne per colmare questa mia lacuna, della quale chiedo venia.
Mi rendo conto che appoggiarmi ad un romanzo per ragazzi, se pur famoso, non mi fa onore ma, quando l’acqua arriva alla gola, tutto può servire per stare a galla.
A questo punto, e per ora, getto la spugna.
Renzo Bagnasco
Ricerche a cura di Rosa Grazia Allaria
Foto a cura del webmaster Carlo Gatti
Rapallo, 11 Maggio 2014
BUCANIERI, FRATELLI DELLA COSTA E LA GASTRONOMIA "CRIOLLA"
I Bucanieri, i veri Fratelli della Costa
e la gastronomia “criolla”
Un bucaniere rappresentato sotto il titolo Buccaneer of the Caribbean nel libro di Howard Pyle, Howard Pyle's Book of Pirates.
Cominciamo con il dire che una gastronomia di bordo, all’epoca della quale parleremo, non esisteva. Gli unici a mangiare in modo adeguato erano il Comandante e gli Ufficiali; la ciurma si nutriva male e in modo assolutamente inappropriato. Gli addetti alla cucina avevano, per dedicarvisi, tempi risicati in quanto nessuno di loro rivestiva il solo ruolo di cuciniere, perché impegnati principalmente a fare i marinai. D’altra parte il fuoco a bordo non era ben visto: basti pensare a quando pioveva o il mare era mosso. Nel “fogon”, una sorta di armadio metallico per contenere il fuoco a che non surriscaldasse il legno, la pece, il cordame e i teloni di cui era piena la nave, lo si poteva utilizzare solo se le condizioni atmosferiche lo permettevano. Anche gli orari erano variabili; intanto si mangiava una sola volta al giorno, attacchi ed arrembaggi permettendo. Il migliore fra i vivandieri, abbiamo visto che erano tutti mozzi di bordo, si occupava del Quadrato degli Ufficiali i quali erano gli unici a “sedersi a tavola”; la ciurma per mangiare si appoggiava dove poteva e al rancio provvedevano i meno esperti. Con il passare dei giorni di navigazione, per rendere appetibili i cibi che inevitabilmente tendevano a deteriorasi, dovevano riempirli di aromi e spezie.
Per fortuna nella zona caraibica gli aromatici “insaporitori” non mancavano. Questo disordine alimentare imperava non solo fra i pirati che bazzicavano la zona del Centro America, ma anche fra tutti coloro che dovevano rimanere in mare a lungo. Era già problematico mantenere “commestibile” la carne dopo qualche giorno dalla macellazione. Non c’erano frigoriferi e il magazzinaggio delle derrate secche in chiglia, luogo deputato allo scopo, non le preservava dall’inumidirsi a causa del trasudare di acqua salmastra, attraverso il fasciame dell’opera viva sempre sconnesso perché, per quanto calafato con stoppa o, più spesso, con fibra di cocco, non restava “fermo” ai primi colpi di mare. Quel sito caldo e umido, non potendo contare su ricambi d’aria, favoriva il deteriorarsi rapido di quanto conteneva.
Stessa sorte colpiva anche i “Fratelli della Costa” consorteria di pirati più noti come <i bucanieri della Tortuga> dall’isola caraibica che elessero a loro rifugio nel 1640. Quasi tutti gli equipaggi erano formati principalmente da marinai francesi, inglesi e, in misura assai minore, olandesi. La “bassa manovalanza” era costituita invece da tutti quegli sbandati sopravissuti alle sconfitte nelle guerre, che nel frattempo, qua e la, venivano combattute. A loro risale il Tricorno, che fu adottato da Re Luigi XV che lo volle copricapo ufficiale delle divise militari, subito copiato da diversi eserciti. Quel copricapo non è “pomposo” come quello della Nobiltà e della Borghesia dell’epoca, caratterizzato da alte e divaricanti tese; è scarno, anch’esso in pesante feltro e ha le tre “ali” ripiegate sulla “calotta” per non creare intralci nei combattimenti. Nei mesi caldi veniva sostituto da uno di paglia.
Ma torniamo al tema: la gastronomia “criolla”, cioè creola. Va da se che i “nostri” riuscivano a mangiare come Dio comanda solo quando sbarcavano nei Caraibi; colà si potevano nutrire con cibi più appetitosi e variati, già in allora conosciuti, ma soprattutto di verdura e frutta, beni preziosi e rari a bordo.
Come non riprendere dai cassetti della memoria l’immagine legata indissolubilmente al castello poppiero di un romantico veliero o su di un rabberciato pontile di un porto sotto il sole tropicale, di uomini con il tricorno in testa, la sciabola in mano e gli alti stivali di cuoio?
La pirateria moderna inizia nel XVII secolo nel Mar delle Antille ed in meno di cinquant’anni si estende in tutti i continenti; il Mar delle Antille rimane ad ogni modo il centro della pirateria, sia perché là i pirati riescono a godere di una serie di appoggi e favori sulla terraferma, sia perché le numerose isole presenti sono ricche di cibo e di anfratti, per di più circondate da bassi fondali che impedivano eventuali inseguimenti da parte delle lente e “pescose” navi da guerra; sia in fine perché in quei mari transitavano navi cariche di imbarchi preziosi provenienti dalle appena scoperte Americhe. Tra le cause dello sviluppo della moderna pirateria non va dimenticata l’azione della Francia e dell’Inghilterra che, per contrastare il dominio commerciale della Spagna nel Mar dei Caraibi, finanziarono vascelli corsari a che saccheggiassero i mercantili spagnoli. La concorrenza commerciale anche allora non andava tanto per il sottile. Successivamente, sia per il venir meno dell’appoggio anglo-francese, sia per una acquisita abitudine allo stile di vita libero ed indipendente, molti corsari divennero …. pirati.
Il potentissimo impero spagnolo, alla metà del diciassettesimo secolo aveva dichiarato il monopolio commerciale delle ricche Antille, tappa obbligatoria dell’oro centroamericano per arrivare nel vecchio continente, il tutto a seguito dell’approdo in loco di Cristoforo Colombo, nel 1493 a St. Croix. I coloni, spagnoli, francesi, inglesi ed olandesi vivevano quasi tutti sull’isola di Hispaniola ( tra l’attuale Haiti e Santo Domingo ). Si specializzarono nella produzione di alimenti a lunga conservazione, come carni essiccate o trattate, indispensabili per i lunghi viaggi in mare. Questo metodo sarebbe stato insegnato loro dagli Arawak, tribù di Santo Domingo. La capanna dove avveniva l’essicazione, su graticole fatte di sottili strisce di legno denominate barbicoa ( dal quale deriva l’attuale termine “barbecue” ) si chiamava boucan: da questo ne derivò il nome di “bucanieri”. Questi erano di diversa nazionalità e non servivano alcun paese anche se in certe occasioni potevano essere sollecitati e supportati. Formarono legami stretti con i coloni ai quali svendevano le merci saccheggiate e dai quali ricevevano la possibilità di entrare nelle città per ogni più varia necessità; queste pullulavano di pirati per via anche delle locande e degli altri “servizi” ad esse correlate. I bucanieri erano presenti nelle navi corsare o pirata anche perché famosi per la loro infallibile mira, allenata da quando erano stati cacciatori. La loro dieta quotidiana, a terra, consisteva in verdura e frutta, come papaia, patate dolci, guaiave e manioca. La mancanza della verdura e della frutta fresca a bordo, uniche fonti di vitamina C, procurava invece il devastante scorbuto. Solo nel 1747 il medico scozzese James Lind intuì sperimentandolo, che bastava mangiare agrumi a bordo per debellarlo. Che fosse poi la carenza di vitamina C, lo scoprirono dopo. Inizialmente la cottura della carne e del pesce avveniva in grandi vasi di un materiale simile alla terracotta, facilmente trasportabile ed immagazzinabile. Trasferitisi sull’isola di Tortuga e a Port Royal, nel 1640 fondarono la Fratellanza della Costa, ( tra di loro i pirati si autodefinivano< Fratelli della Costa> ) smisero di affumicare carne e depredare solo navi: si dedicarono alla predazione dei villaggi lungo le coste, dando vita a quella che noi oggi identifichiamo come “ pirateria”. Redassero un vero e proprio Codice Etico dei Pirati – ( Code of the Brethren States) che conteneva regole di massima che tutte le navi della “Fratellanza” erano impegnate ad onorare: a lui si è ispirato l’Ottalogo, il codice etico degli attuali Fratelli della Costa.
Nei viaggi che solcavano i mari, i pirati avevano a disposizione per lungo tempo solo carne affumicata e rum. Il resto, verdure, formaggi, uova deperiva velocemente ammuffendo e marcendo. Si aggiunsero quindi alla dotazione della dispensa legumi secchi o cibi conservati in salamoia; per i Comandanti anche frutta candita. Polli, ovini e mucche venivano tenuti in vita fino a quando l’approvvigionamento per mantenerli era sufficiente; dopo finivano macellati. Spesso l’impossibilità di conservazione delle carni per il caldo umido dei tropici, ne favoriva la putrefazione. Tutto ciò rendeva carente la qualità e la varietà dell’alimentazione dei viaggiatori del mare. Le erbe e le spezie usate in abbondanza coprivano in parte il sapore degli ingredienti viziati e spesso avariati. La fortunata cattura di una tartaruga marina era motivo di gioia perché fonte di un insperato prelibato pasto. Un caso limite ce lo testimonia Pigafetta nel suo diario di bordo redatto durante la traversata del Pacifico nel 1520, dove si legge << Mangiavamo biscotto non più biscotto, ma polvere di quello con vermi a pugnate perché essi avevano mangiato il buono: puzzava grandemente di orina de sorci e bevevamo acqua gialla putrefatta per molti giorni e mangiavamo certe pelli de bove, che erano sopra l’antenna maggiore ( n.d.r.: strisce di cuoio che rifasciavano le scanalature di testata degli alberi, fungendo da carrucole così da consentire, con un minimo attrito, lo scorrervi delle sartie per issare le vele ) a ciò che l’antenna non rompesse la sartia …..e ancora assai volte segatura di asse. Li sorci si vendevano a mezzo ducato l’uno e se pur ne avessimo potuto avere …>>
Le spezie che trovarono abbondanti e rigogliose in loco, la facevano quindi da padrone. Salse di peperoncino, con l’aggiunta di limone e succo di lime marinavano carne e pesce. Alla cucina caraibica dobbiamo la realizzazione del primo pepatissimo stufato, altro che l’ungherese Gulasch! Oltretutto queste “droghe”un po’ camuffavano i cibi quando iniziavano ad alterarsi, rendendoli ancora appetibili. Così è nato pure il nostro livornese Cacciucco; reso forte per rendere appetibile quel pesce di ritorno, invenduto al mercato. Non esistevano però precise ricette di bordo, in quanto di volta in volta si modificavano e aggiungevano nuovi ingredienti. Importante, lo abbiamo visto, l’utilizzo delle spezie locali, come il curry in polvere, sempre presente sulle carni, dello zafferano peyi , il pepe bianco e nero, il cumino e tutte le varietà di peperoncini.
I nativi della zona, gli Indiani Carib, hanno contribuito a caratterizzare con forte impatto la storia della zona dei Caraibi, tanto che da quella tribù il sito prese nome.
Presto i Caraibi divennero il crocevia del mondo. Venduti dagli europei, arrivarono i primi schiavi provenienti dall’Africa, e con essi nuove “contaminazioni” alimentari. La cucina caraibica si arricchì così con l’introduzione di torte di pesce, manioca, mango, ackee, budini e souse. Ma anche banane e farina di mais.
Gli uomini provenienti dal continente africano erano anch’essi cacciatori nelle loro terre e quindi spesso e per lunghi periodi lontani da casa. Sapevano cucinare carne di maiale piccante su carboni ardenti, e codesta tradizione si affinò maggiormente in Giamaica. Questa preparazione, oggi conosciuta come “jerk”, comporta un lungo processo di cottura della carne. Tutt’ora in molti piatti prelibati giamaicani troviamo ancora il pollo ed il maiale. Dai marinai portoghesi arrivò il baccalà: il riso e la senape, dalla Cina.
Il clima caldo ed in passato anche la scarsità di legname, fecero prediligere metodologie di cottura veloci, quale fritture e grigliate, molto raramente cotture in forno.
La maggior parte dei visitatori che si recano ai Caraibi mai immaginerebbe che gli alberi da frutta così familiari e rigogliosi in queste isole, siano stati introdotti invece dai primi esploratori spagnoli. Da quella nazione giunsero infatti arance, lime, zenzero, banane, fichi, palme da datteri, uva, tamarindi, noci di cocco e canna da zucchero.
Proprio da quest’ultima, si realizzò, attraverso un processo di distillazione, un liquore molto calorico e ad alta gradazione alcolica: il rum, l’indispensabile protagonista del rito finale che chiude sempre gli Zafarrancho (riunione conviviale) degli attuali Fratelli della Costa.
All’America dobbiamo l’introduzione di fagioli, mais, pomodori e patate. Dai Caraibi questi alimenti si diffusero poi nel resto del mondo. Una menzione va anche all’albero del pane dai frutti assai particolari, che ricorderemo presente nel film “Gli ammutinati del Bounty”.
L’elenco potrebbe continuare … Non c’e da meravigliarsi quindi se la Cucina Caraibica sia una commistione così ricca, colorata, creativa e variegata, coacervo di sapori provenienti da ogni dove: Africa, India, Cina, insieme alle influenze giunte dalla Spagna, Portogallo, dalla Danimarca, Francia e Gran Bretagna. I cibi caraibici sono stati influenzati dalle culture di tutto il mondo, ma ogni isola ha assunto ed aggiunto il suo particolare sapore e le proprie tecniche di cottura.
Qualche cenno specifico, luogo per luogo, in una sorta di aggiornato itinerario gastronomico.
Partendo dagli aperitivi non possiamo non menzionare un bicchiere di punch al rum agricole , prezioso distillato e vera istituzione caraibica, parte integrante della cultura delle Antille. E’ considerato uno dei migliori del mondo, l’unico ad aver ottenuto il riconoscimento della DOC locale. Si consuma puro o mescolato a innumerevoli cocktails. Comparve per la prima volta nel 1635 alla “Mardinica”, l’isola dei fiori, antico nome della Martinica. Bevanda regina, possiede un proprio museo sito a Sainte-Marie, dove si può ripercorrere la sua lunga storia.
La cucina Dominicana è prevalentemente di ispirazione spagnola e africana. Molto simile a quella di altri paesi latino-americani, ma con nomi assai differenti. Il piatto-colazione è a base di uova e mangù, diffuso anche a Cuba e Puerto Rico. Può essere accompagnato da fritti di carne e formaggi. Il pranzo è in genere il pasto principale della giornata, e consiste in riso, carne di pollo o maiale, o pesce, fagioli e insalate. La bandera, uno dei piatti tipici, si compone di carne e fagioli rossi su riso bianco. Soncocho è uno stufato cucinato con ben sette varietà di carni. Molte pietanze si realizzano con sofrito, ampia miscela di erbe locali, che ne esaltano i sapori. Ricca la lista dei dolci, dalla torta dominicana ( bizcocho ) ai flan, dulce de leche e cana ( canna da zucchero ). Bevande diffuse birra, rum, batida ( frullato ) e jugos naturales, succhi di frutta appena spremuti.
In Guadalupa, seconda consumatrice al mondo di pesce, troveremo ottime zuppe di vongole, aragoste alla griglia, fricassea di lambis, sorta di conchiglioni locali originari dell’Oceano Indiano. Da quasi 100 anni si rinnova nel mese di Agosto un vero e proprio evento del patrimonio culturale della Guadalupa, la “festa delle cuoche”, ghiotta occasione per gustare prelibatezze preparate secondo ricette ancestrali.
Nel periodo pasquale in Martinica, imperdibili le Fiere dei granchi accompagnate da grandi frittelle ripiene di carne e verdure, o altre farcite con merluzzo e verdure, cuori di palma in insalata, e pollo alle spezie, prelibato ed entusiasmante concentrato della cucina creola. Frutta e verdura locale da scoprire nei variopinti mercati locali, dove si troveranno anche caffè e cacao.
Capitale gastronomica dei caraibi è però considerata Saint-Martin. Straordinari i lolos, sorta di punti di ristoro all’aperto in riva al mare dove è possibile gustare pesce, crostacei di ogni tipo, cucinati si improvvisate griglie e che fanno concorrenza ai tradizionali ristoranti che si incontrano nelle caratteristiche stradine. Imperdibili specialità sono il melone maturato a quel sole ed il caffè caraibico, come pure il “cibo degli Dei”, il cacao, sotto forma di praline e tavolette.
Concludendo questo “breve viaggio” nei paesi sudamericani che si affacciano sul Mar dei Caraibi, dalla storia lunga, sofferta e gioiosa, la cucina caraibica ne esce come unica ed esprime la singolare ed immensa fusione di unione di sapori, colori e profumi che solo la gastronomia di tutti i popoli che vi hanno contribuito, ha saputo portare ad un risultato così stupefacentemente universale.
Un ultimo suggerimento ai possibili viaggiatori: diffidate sempre, se volete mangiare veramente creolo, dei locali che inalberano vistosi riferimenti ai pirati dei caraibi. Sono specchietti per le moderne allodole.
Renzo BAGNASCO
Ricerche a cura di Rosa Grazia ALLARIA
Foto a cura del webmaster Carlo GATTI
Rapallo, 11 Maggio 2014
GALERE GENOVESI: Vita di bordo
GALERE GENOVESI
VITA DI BORDO
Ciò nonostante imbarcarsi per molti voleva dire uscire dalla disperazione o fuggire dai rigori della giustizia. Fra loro cerano anche ex galeotti che, usciti a fine pena dalle patrie galere non avendo ancora pagato i debiti per i quali erano colà finiti comprese le spese processuali, con l’ingaggio si illudevano di potersi riscattare. Abbiamo detto che non erano incatenati ma ci sono documenti della Repubblica di Genova che puntualizzano << il buonavoglia a termini del suo contratto è esente di giorno dalla catena a differenza del forzato…..ma se commette mancanza può essere condannato per qualche tempo alla continua catena…>>
Circa poi la possibilità di contrarre debiti anche mentre vogavano e quindi impossibilitati a sbarcare sino a saldo effettuato, era abbastanza facile perché << il buonavoglia doveva pagarsi tutti gli extra dall’alimentazione al vestiario, dai medicinali ai debiti di gioco contratti durante le pause>> ad ognuno di questi debiti, di volta in volta, faceva fronte il Comandante che, alla fine, doveva però essere rimborsato; in caso di impossibilità, il disgraziato poteva estinguere l’impegno restando…… ancora a remare.
Come si vede questa gente rappresentavano la feccia dell’epoca; non si capisce come un gruppo di intellettuali di Genova, per dare una mano alla Città, si sia in questi ultimi tempi associato appropriandosi di quel nome. Che abbiano erroneamente interpretato quel tristo ricordo come sinonimo di “spontanea buona volontà”, che è altra cosa?
L’altra volta abbiamo visto come le galere, per mole e carenatura, viaggiassero solo da Marzo ad Ottobre quando il mare è relativamente calmo e le giornate di luce sono più lunghe, con la indispensabile necessità di ridossarsi ogni sera anche per rifornire la cambusa.
Durante gli altri mesi i galeotti venivano rinchiusi nelle apposite galere che all’epoca erano edificate su di uno scoglio nel porto: se condannati, scontavano lì i restanti giorni di pena. Erano però riscattabili “ pagandoli” 400 formaggette l’uno. Valevano ben poco.
Museo Galata Genova
A bordo, incatenati o no, tutti sedevano su dei banchi larghi 25 cm che di giorno fungevano da sedile e, di notte, da giaciglio o, più correttamente, da appoggio per tentare di dormire. Fra banco e banco c’era la “banchetta” ovvero una tavola parallela ai banchi su cui sedevano, ma più in basso di questi e sulla quale i vogatori appoggiavano un piede per puntellarvisi durante lo sforzo della voga.
Una fedele riproduzione di una di queste galere è oggi visitabile al Museo Navale “Galata”, nel porto di Genova.
La vita assolutamente disumana che a bordo conduceva la ciurma ci è ben descritta, anche se riferita a galere francesi, da Jean Marteille de Bergerac nobile colà condannato per le sue malefatte. Lo scrive nelle sue memorie edite in Rotterdam nel 1757: suo malgrado fu, all’inizio del ‘700, ospite di una di queste e così descrive la sua esperienza di galeotto << Si immaginino, se possibile, sei uomini incatenati seduti ai loro banchi; (la maniglia del) remo tra le mani, un piede è sulla banchetta, grossa sbarra di legno inchiodata alla panca (banco) e l’altro sul banco davanti. Il corpo allungato, le braccia rigide per spingere innanzi il remo fin sopra il dorso di quelli che sono dopo, intenti nel medesimo movimento (indispensabile rispettare il sincrono). Dopo aver così portato avanti il remo, lo si alza per tuffarlo in mare, e, contemporaneamente, ci si getta o meglio, si precipita indietro per ricadere sul proprio banco, il quale per attutire il colpo di questa pesante caduta, è coperto da un cuscinetto>> e prosegue << E’ vero che una galera non può attraversare i mari con questo sistema, e che ci vuole necessariamente una ciurma di schiavi, ed un còmito che eserciti la sua dura autorità per farli vogare non già per un’ora, né per due, ma persino per dieci, dodici ore consecutive. Rammento di aver remato per ben ventiquattrore, senza un istante di tregua. In questi casi i còmiti e gli altri marinai ci nutrivano mettendoci in bocca un pezzo di galletta inzuppata nel vino e senza che noi togliessimo le mani dai tremi, perché non cadessimo svenuti>> Oggi sappiamo che in quei frangenti veniva somministrato anche dell’hashis e continua << E non si udivano che le urla degli infelici, intrisi di sangue sotto i colpi del flagello; lo schioccare delle corde sui dorsi dei miserabili, le ingiurie e le più atroci bestemmie dei còmiti schizzanti rabbia e minaccia quando la loro galera non andava come avrebbe dovuto o non navigava al pari delle altre>>
E’ vero che la vela ha soppiantato il remo come mezzo di sostentamento del moto, ma il trattamento alla ciurma non variò di molto.
Renzo BAGNASCO
Foto a cura del webmaster Carlo GATTI
Rapallo, 19 Aprile 2014