GALERE GENOVESI: Cosa si mangiava a bordo?

 

GALERE GENOVESI

COSA SI MANGIAVA A BORDO?

 

 

 

Galea trireme. Bastimento sottile, di circa 50 metri di lunghezza, largo circa 7, con due metri di pescaggio

 

 

Siamo nel XV° secolo su di una galera genovese non da guerra, del tutto paragonabile alle altre simili, battenti bandiere di altri Stati. Il nome di questa imbarcazione diventò, ed è tutt’ora, sinonimo di prigione. A bordo c’erano un Capitano, due Gentiluomini di poppa rappresentanti l’Armatore o chi ci aveva messo i soldi, uno scrivano, tre Sottufficiali ( i còmiti), un Pilota, un Chirurgo, un Aguzzino che sapeva ben usare lo staffilo, undici marinai per le vele, trenta marinai per le funzioni più varie, quattro addetti alla manutenzione, e duecentosessanta rematori ai ferri, la così detta “ciurma”.

 

 

Questa era composta da un  20/28 per cento di schiavi, 35/45% da forzati colpevoli di gravi reati e costì condannati e da un 30/50 % da buonavoglia, disperati che per una misera paga si assoggettavano volontariamente a quella vita d’inferno. Queste imbarcazioni navigavano da Marzo ad Ottobre e solo di giorno perché di notte doveva ridossarsi per dormire e ricaricare le derrate e l’acqua consumate durante il giorno. Barche non adatte a tenere il mare (avevano chiglia piatta) sottocoperta avevano sei gavoni così utilizzati: uno leggermente sopraelevato di poppa per il Capitano ed i Gentiluomini. Subito accanto lo “scandolaro” per contenere le armi, gli assi e i teloni da rapidamente montare per riparare dalle improvvise piogge i vogatori, poi la dispensa (detta “compagna”), il pagliolo, la camera di mezzo ed in fine il gavone per le vele. I sottufficiali e gli altri membri “liberi” dell’equipaggio si arrangiavano a dormire dove potevano;

 

 

 

i galeotti restavano in catene e sonnecchiavano sul posto “di lavoro”. Il ponte era tagliato in mezzeria da un camminamento che divideva per il lungo i due banchi dei rematori e su di esso camminava l’aguzzino; al centro il fogon per preparare il rancio, rigorosamente una volta al giorno all’imbrunire. I maligni dicono per non far veder cosa si mangiava.

 

Già, ma cosa si mangiava?

 

Gli unici ad avere pasti quasi normali erano il Comandante e i Gentiluomini, il restante equipaggio poteva contare su di un po’ di baccalà condito con un filo d’olio, a volte pasta o riso e un po’ di carne conservata essicata e una razione di vino.

 

 

 

Ai rematori invece era riservato  un po’ di “biscotto” le classiche gallette sia nei periodi di voga estivi che quando, d’inverno, erano rinchiusi nella loro galera. Venivano sbriciolate a formare una specie di puré; due volte al mese una minestra di fave, riso e olio e nelle solennità religiose, se non costretti a digiunare secondo il dettato di Santa Romana Chiesa per una specifica ricorrenza, una libbra di carne (300 gr circa) ed un boccale di vino (73 cl); spesso e volentieri, per nascondere il puzzo di “rancido” delle derrate mal conservate (da cui il nome “rancio”) veniva spruzzato con aceto. Questo a Genova.

 

Il “menù” della Marineria Pontificia invece prevedeva 850 gr di gallette e, tre volte alla settimana, una minestra che veniva però eliminata d’estate. I Veneziani  passavano 650 gr di gallette, 4 tazze di vino di “onesta misura”e una scodella di minestra; quattro volte alla settimana 240 gr di carne e tre volte 160 gr di formaggio. Il Mercoledì ed il Venerdì 2 sardelle.

 

Più parca la Marineria Toscana dava 500 gr di gallette e una minestra di cavoli, rape e fave mentre, solo nelle solennità annuali, era prevista della carne fresca pari a 340 gr  a testa, oltre a ½ litro di vino. Le fave saranno rimpiazzate poi dai fagioli portati da Colombo con il vantaggio di essere meno flatulenti e più nutritivi.

 

 

Nei momenti in cui era richiesto il massimo sforzo ai remi, è documentato che a volte erano costretti a remare anche per 24 ore consecutive, venivano imboccati dagli aguzzini. Recenti ricerche hanno rivelato che ai rematori, nei momenti sopra descritti, quando ne il vino ne le scudisciate riuscivano a garantire il ritmo infernale imposto, venivano ammannite dosi di hashish, con funzione di sovra alimentatore, un po’ come oggi fanno i turbo nei nostri motori.

 

E’ stato calcolato che le 3000/4000 calorie ingerite avrebbero potuto essere sufficienti se fossero state dispensate regolarmente. In realtà lo zelo maniacale dei Comandanti a far rispettare i digiuni prescritti dalla pratica religiosa, lo documentano i diari di bordo, era applicato con una meticolosità che è difficile oggi stabilire se per profonda fede o non piuttosto come scusa per risparmiare a proprio favore il <non speso>, rendeva la vita di quei poveri disgraziati, se possibile, ancor più grama.

 

Durante i turni massacranti ai remi, sotto i colpi delle sferze degli aguzzini, le bestemmie se le potevano permettere solo i vogatori delle galere che battessero bandiera di Stati non cattolici, perché per questi ultimi vigeva la norma << Chi biastamerà Dio over la sua Madre, et Santi et Sante, sel sarà huomo da remo sia frustato da poppa a prua; sel sarà huomo da poppa, dieba pagar soldi cento>>

 

 

Forse è per reazione a questo forzato silenzio repressivo del proprio sentire che i liberi marinai di Genova, una volta abolite le galere, poterono contare su di un particolare contratto di lavoro articolato su due diverse paghe che essi stessi potevano scegliere al momento dell’ingaggio per l’imbarco: paga più elevata se si rinunciava, durante il lavoro, al “mugugno” oppure paga sensibilmente più modesta ma con il diritto a “mugugnare”.

 

I genovesi preferivano, in genere, questa seconda. E poi non vogliamo sentirci dire che un po’ strani lo siamo.

Renzo BAGNASCO

Foto a cura del webmaster Carlo GATTI

Rapallo, 19 Aprile 2014



L'OPERAZIONE "GROG"

L’OPERAZIONE “GROG”

Il bombardamento navale di Genova del 9 febbraio 1941, effettuato dalle unità della “Forza H” al comando dell’amm. Somerville: l’interpretazione britannica del “command of the sea” nel Mediterraneo occidentale e le manchevolezze dello strumento aeronavale italiano poche settimane prima di Matapan.

Nel corso della seconda guerra mondiale, il Mar Ligure ha costituito un teatro operativo quasi di secondo piano: infatti, non sono molti gli eventi navali di rilievo che hanno avuto luogo nel Golfo di Genova e nelle acque limitrofe, e – tra il 1940 e il 1943 – le potenzialità industriali e cantieristiche della Liguria ebbero sicuramente preminenza rispetto ad aspetti più propriamente bellici ed operativi.

In realtà, il 14 giugno 1940, dopo soli quattro giorni dall’entrata in guerra dell’Italia, quattro incrociatori ed undici cacciatorpediniere francesi – usciti da Tolone – erano giunti di sorpresa di fronte alle zone industriali di Savona-Vado e Genova effettuando un breve bombardamento.  La pronta reazione delle batterie costiere, dei treni armati della Regia Marina e l’intervento della torpediniera Calatafimi costrinsero al ritiro la squadra francese che, sulla rotta di rientro, fu anche attaccata dai Mas della 13a Squadriglia (1).

L’armistizio tra l’Asse e la Francia, tuttavia, rese le acque liguri molto più tranquille e – nel contempo – la Regia Marina e la Royal Navy furono subito coinvolte nella protezione diretta e indiretta dei propri traffici convogliati, su rotte la cui natura rendeva inevitabile il confronto tra le due flotte nel Canale di Sicilia, nelle acque libiche, nella zona di Malta e nel Mar Ionio (2).

Se allo scontro di Punta Stilo la Regia Marina poteva allineare due sole corazzate (Giulio Cesare e Conte di Cavour), all’inizio dell’autunno del 1940 la squadra da battaglia italiana era forte di sei unità, con il rientro in servizio dell’Andrea Doria e del Caio Duilio successivo a un lungo periodo di lavori di rimodernamento, e la piena operatività delle nuove “35.000” Vittorio Veneto e Littorio.


Il Renown all’ancora a Scapa Flow, all’inizio del 1942. L’incrociatore da battaglia partecipò al bombardamento navale di Genova in questa configurazione di armamento; tuttavia, all’epoca, l’unità era ancora verniciata con il grigio scuro tipo “Home Fleet”, dato che la mimetizzazione fu applicata solamente verso l’estate del 1941,  (Foto imperial War Museum)

Questo consistente e omogeneo gruppo di unità maggiori costituiva una notevole fonte di preoccupazione per i vertici della Mediterranean Fleet: fu pertanto pianificato l’attacco contro la base di Taranto nel corso del quale, la notte sul 12 novembre 1940, gli aerosiluranti “Swordfish” della portaerei Illustrious danneggiarono le corazzate Littorio, Duilio e Cavour.  I lavori di riparazione del Littorio si svolsero presso l’Arsenale di Taranto, mentre il Duilio – rimesso in condizioni di galleggiabilità ai primi di gennaio 1941 – raggiunse Genova il 28 gennaio venendo subito immesso in bacino per il completamento del raddobbo.  Il Cavour, danneggiato molto più gravemente, fu trasferito a Trieste ma – all’atto della proclamazione dell’armistizio l’8 settembre 1943 – i lavori di ricostruzione erano ancora ben lontani dall’essere terminati (3).

Le tre restanti corazzate efficienti (Veneto, Doria e Cesare) furono dislocate prima a Napoli e poi alla Spezia, per allontanarle dalla minaccia costituita dall’aviazione navale inglese, ma i loro movimenti erano seguiti – sia pure con precisione non assoluta – dalla ricognizione e dai servizi informativi della Marina britannica.  Verso la fine di gennaio del 1941, difatti, la Royal Navy riteneva che a Genova si trovassero ai lavori il Littorio e il Cesare; in realtà si trattava invece del Duilio e del Cesare, ma quest’ultimo si trasferì alla Spezia ai primi di febbraio, raggiungendo colà il Veneto e il Doria.

Da qualche tempo, considerati gli ottimi risultati conseguiti nella “Taranto Night”, i Comandi della Royal Navy stavano meditando di realizzare una nuova azione di notevole effetto dimostrativo, oltre che militare, contro un obiettivo costiero italiano.

Nei comandi britannici iniziò quindi a maturare la convinzione che convenisse attaccare un porto nel Tirreno per dare l’impressione alla Regia Marina che neppure le nostre basi nella zona potessero essere ritenute sicure, e la città di Genova fu prescelta come obiettivo di un bombardamento navale per molteplici motivi.

La rotta seguita dalla “Forza H” nel corso dell’operazione “Grog”.  Linea continua: rotta di andata –  Linea tratteggiata: rotta di ritorno.

1 – Uscita da Gibilterra delle unità inglesi tra le 12.00 e le 17.00 del 6 febbraio 1941

2 – Posizione alle 19.25 del 7 febbraio

3 – Ore 02.00 dell’8 febbraio: i ct. Jupiter e Firedrake vengono distaccati presso le Baleari per effettuare trasmissioni r.t. aventi lo scopo di trarre in inganno le stazioni radiogoniometriche italiane

4 – Posizione alle 20.00 dell’8 febbraio

5 – Posizione alle 05.10 del 9 febbraio

6 – Azione di fuoco condotta tra le 08.14 e le 08.45 del 9 febbraio

7 – Posizione alle 20.00 del 9 febbraio

8 – Posizione alle 14.00 del 10 febbraio

9 – Rientro a Gibilterra della “Forza H” nel pomeriggio dell’11 febbraio 1941

Innanzitutto, le strutture industriali della città ne facevano un obiettivo di grande importanza dal punto di vista economico, militare e psicologico; le difese costiere di Genova risultavano di entità poco temibile e – in ultimo - i grandi fondali del Golfo Ligure, fin sotto la costa, avrebbero permesso alle navi di avvicinarsi a distanza utile di tiro, senza correre il rischio di incappare in campi minati.

La presenza a Genova di due corazzate italiane fu nota a Gibilterra solamente alla fine di gennaio (anche se, come abbiamo visto, dall’inizio di febbraio nel porto ligure si trovava il solo Duilio) e – a differenza di quanto affermato nel dopoguerra anche da una certa memorialistica britannica – non costituì l’elemento principale nella pianificazione di un’azione dalle preminenti valenze emozionali e strategiche, compresa una “dimostrazione di forza” nei confronti della Spagna franchista, allo scopo di farne perseverare la politica di neutralità.


La nave da battaglia Malaya nel 1931/32, probabilmente a Gibilterra, successivamente ai lavori di radicale ricostruzione svoltisi presso l’Arsenale di Portsmouth tra il settembre 1927 e il febbraio 1929.  Oltre al miglioramento della protezione e dell’apparato motore, una modifica estetica molto importante riguardò gli scarichi delle caldaie, riuniti in un unico fumaiolo di grandi dimensioni che rimpiazzò i due originari.  La Malaya è verniciata con il grigio scuro delle unità appartenenti alla Home Fleet; sullo sfondo, un incrociatore pesante tipo “County” (a sinistra) e – a destra – l’incrociatore pesante York.  (Coll. M. Brescia)

La “Forza H”


La portaerei Ark Royal, in una fotografia risalente ai primi mesi della seconda guerra mondiale.  L’unità è sorvolata da alcuni aerosiluranti Fairey “Swordfish” che – sebbene antiquati e dalle prestazioni non certo eccezionali – giocarono un ruolo fondamentale nell’attacco contro la base navale di Taranto (notte sul 12 novembre 1940), e nelle operazioni che portarono all’affondamento, in Atlantico, della corazzata tedesca Bismarck (maggio 1941).  (Coll. M. Brescia)

Durante la seconda guerra mondiale, e non soltanto per quanto riguarda il teatro del Mediterraneo, la Royal Navy identificò spesso i propri gruppi o “Forze” navali (“Forces”) secondo un metodo alfabetico.  Nel tempo, ad esempio, operarono la “Forza K” (da Malta), la “Forza Q”, la “Forza Z” (in Estremo Oriente), la “Forza A”, ecc.; la “Forza H” fu costituita a Gibilterra verso la fine di giugno del 1940 per colmare il “vuoto” navale venutosi a creare nel Mediterraneo occidentale in seguito all’armistizio tra la Francia e l’Asse.

Al vertice della “Forza H” fu destinato l’amm. Sir James Somerville al comando del quale, inizialmente, furono posti l’incrociatore da battaglia Hood, le corazzate Resolution e Valiant, la portaerei Ark Royal, incrociatori e cacciatorpediniere, tutte unità trasferite dalla Home Fleet.

Ancorché di base a Gibilterra (sede di un Comando Superiore navale), la “Forza H” era un reparto autonomo, e l’amm. Somerville dipendeva direttamente dall’Ammiragliato di Londra; questa peculiare situazione era dovuta alla natura strategica della “Forza H” che – per la particolare posizione di Gibilterra – poteva essere chiamata ad operare flessibilmente, come in effetti avvenne, tanto in Atlantico quanto nel Mediterraneo.

Una delle prime uscite operative della “Forza H” fu l’azione contro le navi francesi a Mers-el-Kebir (3/6 luglio 1940) (17).  Unità della “Forza H”, che avevano nel frattempo sostituito parte di quelle originarie,  furono presenti alla battaglia di Capo Teulada (27 novembre 1940), al bombardamento navale di Genova e alla ricerca della Bismarck (maggio 1941), andando inoltre a costituire la scorta di numerosi convogli in Atlantico e nel Mediterraneo tra il 1941 e il 1942.

La “Forza H” operò attivamente nel corso degli sbarchi in Nord Africa del novembre 1942 (operazione “Torch”) e degli sbarchi in Sicilia e a Salerno dell’estate 1943 (operazioni “Husky” e “Avalanche”).  Poco dopo l’armistizio fra l’Italia e gli alleati, venuta a cessare la minaccia costituita dalla flotta italiana, il Comando fu disciolto e le unità che ne facevano parte furono riassegnate alla Home Fleet ed alla Eastern Fleet della Royal Navy.

I preliminari e l’esecuzione di “Grog”

Un’immagine prebellica dell’incrociatore Sheffield, datata 24 giugno 1938, scattata a Portsmouth e proveniente dal noto archivio fotografico “Wright & Logan”.  Si noti la linea elegante – ancorché massiccia – dell’unità, con i due hangar razionalmente posizionati ai lati del fumaiolo prodiero.  Sui “Southampton”, per la prima volta a bordo di incrociatori britannici, l’armamento principale da 152 mm era sistemato in torri trinate.  (Foto Wright & Logan)

La nave da battaglia Vittorio Veneto, a bordo della quale imbarcò l’amm. Jachino durante l’infruttuosa ricerca delle unità inglesi che bombardarono Genova il 9 febbraio 1941.  Il Veneto è qui ripreso all’ormeggio alla boa, nel Mar Grande di Taranto, nella tarda estate del 1940.  (Coll. A. Fraccaroli)

Tra le unità facenti parte della ”Forza H” il 9 febbraio 1941 vi era anche il cacciatorpediniere Encounter, qui raffigurato nel luglio 1938, in uscita dalla base navale di Portsmouth.  Anche a distanza ravvicinata, soprattutto negli anni precedenti alla seconda guerra mondiale, era piuttosto difficile distinguere esternamente i caccia appartenenti alle classi dalla “A” alla “I”.  L’Encounter è verniciato con il grigio scuro delle unità facenti parte della “Home Fleet”.  (Foto Wright & Logan, g.c. Biblioteca “A. Maj”, Bergamo, Fondo “Occhini”)

L’ammiraglio Sir James Somerville a bordo del Renown

(D.S.O., K.C.B., K.B.E., G.C.B., G.B.E.)

Comandante della “Forza H” – luglio 1940 / marzo 1942

L’ammiraglio Sir James Somerville era preposto al comando della “Forza H” sin dalla sua costituzione nell’estate del 1940, e – a gennaio del 1941 – coordinò la pianificazione dell’operazione “Grog”, il bombardamento navale di Genova del 9 febbraio successivo.

James Somerville era nato a Weybridge, nel Surrey, il 17 luglio 1882; nel 1897 entrò a far parte – come cadetto – della Royal Navy raggiungendo, nel 1904, il grado di sottotenente di vascello.

Durante la prima guerra mondiale si specializzò nel campo delle radiotrasmissioni sino a diventare uno dei massimi esperti della Marina britannica in questa innovativa materia; capitano di fregata nel 1915, nel 1916 fu decorato con il Distinguished Service Order (D.S.O.) per il servizio prestato a Gallipoli e nei Dardanelli.

Nel 1921 giunse la promozione a capitano di vascello e – in questo grado – seguirono numerose destinazioni di servizio: direttore dell’Ufficio Segnalamenti dell’Ammiragliato, aiutante di bandiera dell’amm. John D. Kelly, istruttore all’Imperial Defence College e comandante dell’incrociatore HMS Norfolk.

Promosso commodoro nel 1932 e contrammiraglio (Vice Admiral) l’anno successivo, tra il 1935 e il 1938 fu il comandante delle Flottiglie ct. della Mediterranean Fleet.  Nel 1939, prima del suo ritiro dal servizio attivo (18), all’atto del quale fu decorato con la nomina a Cavaliere dell’Ordine del Bagno (K.C.B.), fu il C. in C. del settore navale delle Indie Orientali con il grado di ammiraglio di divisione (Rear Admiral).

Nel maggio del 1940 l’amm. Somerville fu richiamato in servizio, entrando inizialmente a far parte dello “staff” dell’amm. Bertram Ramsay che pianificò l’evacuazione del corpo di spedizione inglese da Dunkerque.  Successivamente – a luglio – con il grado di ammiraglio di squadra (Admiral) gli fu assegnato il comando della “Forza H”, appena costituita a Gibilterra.

In poco meno di due anni, Sir James Somerville portò più volte al combattimento la “Forza H”: Mers-el-Kebir (luglio 1940), Capo Teulada (novembre 1940), operazione “Excess” (rifornimento di Malta, gennaio 1941), bombardamento navale di Genova (febbraio 1941), caccia alla Bismarck (maggio 1941), operazione “Halberd” (un altro rifornimento di Malta, settembre 1941).  Per i risultati ottenuti, alla fine del 1941 fu decorato con il cavalierato dell’Ordine dell’Impero Britannico (K.B.E.).

A marzo del 1942 l’amm. Somerville passò al comando della Eastern Fleet della Royal Navy, la cui base principale si trovava a Trincomalee nell’isola di Ceylon: seguì un lungo periodo dedicato al rafforzamento delle strutture logistiche ed operative della Flotta seguito – tra marzo e luglio del 1944 – da numerose operazioni contro capisaldi giapponesi nella zona (Isole Cocos, Sabang, Soerabaya e Sumatra).

Ad agosto del 1944 fu rilevato al comando della Eastern Fleet dall’amm. Bruce Fraser e, nominato cavaliere di Gran Croce dell’Ordine del Bagno (G.C.B.), fu destinato a Washington con l’importante incarico di capo della Delegazione Navale inglese presso il Governo degli Stati Uniti.

A maggio del 1945 Sir James Somerville fu promosso al grado di “Admiral of the Fleet” e, al momento del suo definitivo congedo dal servizio (1946) ricevette il cavalierato di Gran Croce dell’Ordine dell’Impero Britannico (G.B.E.).

Ritiratosi a Dinder House (Wells) nel Somerset, morì il 19 marzo 1949.

I Preliminari e l’esecuzione di “GROG”

Malta, novembre 1937.  Un dettaglio della zona centrale di dritta della Malaya, recentemente rientrata in squadra dopo un periodo di lavori (ottobre 1934 / dicembre 1936) nel corso dei quali sono state imbarcate le sistemazioni aeronautiche ed è stato potenziato l’armamento antiaerei dell’unità.  Si notino, difatti, la catapulta trasversale e, ai lati del fumaiolo, gli hangar e l’impianto quadruplo per mg. da 40 mm tipo “pom-pom”. Sulla torre “B” è applicata la “fascia di neutralità” blu bianca e rossa che identificava le unità inglesi all’epoca della guerra civile spagnola.  (Foto Wright & Logan)

La “Forza H” (costituita dalla corazzata Malaya, dall’incrociatore da battaglia Renown, dall’incrociatore leggero Sheffield, dalla portaerei Ark Royal e da dieci cacciatorpediniere) lasciò Gibilterra il 31 gennaio 1941.  Il gruppo navale fece rotta a Sud delle Baleari, con il duplice obiettivo di un attacco alla diga del Tirso in Sardegna con bombardieri ed aerosiluranti (il mattino del 2 febbraio), e del bombardamento navale di Genova il giorno successivo.

Come previsto dal piano di operazioni, otto velivoli dell’Ark Royal attaccarono la diga del Tirso alle 08.00 del 2 febbraio (senza tuttavia conseguire risultati di rilievo), ma le condizioni meteo in forte peggioramento sconsigliarono il proseguimento della missione, e le unità britanniche – sempre transitando a Sud delle Baleari – fecero rientro a Gibilterra nella tarda serata del 3 febbraio.

L’Ammiragliato predispose, con partenza il 6 febbraio, la ripetizione della missione, denominandola  “Grog”, in accordo alla tradizione navale britannica che – durante la seconda guerra mondiale –  assegnava ad ogni operazione un nome in codice scelto tra un’onomastica quanto mai varia e differenziata (4).

L’operazione “Grog” fu studiata con modalità esecutive che ne garantissero quanto possibile la segretezza e, nella fattispecie, le unità della “Forza H” (le stesse che avevano preso parte all’azione contro la diga del Tirso) furono suddivise in tre gruppi, con finta partenza in ore diurne verso l’Atlantico, simulando la protezione di un convoglio diretto in Gran Bretagna che si stava riunendo a Gibilterra.  Tanto all’andata quanto al rientro era previsto il passaggio a Nord delle Baleari, con un itinerario del tutto nuovo e difficilmente presumibile da parte italiana; infine, il bombardamento navale di Genova avrebbe avuto la preminenza, con un attacco secondario degli aerei dell’Ark Royal sulla raffineria petrolifera di Livorno.

L’incrociatore da battaglia Renown nel 1919, poco dopo la fine della “Grande Guerra”.  Insieme al gemello Repulse furono le penultime unità di questo tipo immesse in servizio dalla Royal Navy: saranno seguite – nel 1920 – dall’HMS Hood, affondato dalla corazzata tedesca Bismarck a maggio del 1941.  (Coll. M. Brescia)


Un idro “Walrus” in decollo dalla catapulta di una nave britannica.


Una nota fotografia del Renown, datata 17 agosto 1943.  A fine mese, il primo ministro Winston Churchill e i più importanti capi militari britannici (reduci dalla conferenza di Quebec) imbarcheranno ad Halifax sul Renown, a bordo del quale rientreranno nel Regno Unito.  (Foto Imperial War Museum)

L’Ark Royal a marzo del 1939, in entrata a Portsmouth.  La struttura cilindrica in testa d’albero alloggia un radiofaro “Type 72” per la guida degli aerei imbarcati; I cavi delle antenne radio sono tesi tra gli alberi a traliccio posti ai lati del ponte di volo.  Tali strutture potevano essere abbattute verso l’esterno durante le operazioni di decollo e appontaggio dei velivoli.  (Foto Wright & Logan)

Il Duncan verso la metà del 1942, quando – ormai destinato in Atlantico – faceva parte del Western Approaches Command della Royal Navy.  Si notino le più significative modifiche apportate, nei primi anni di guerra, sui caccia di questo tipo: ribassamento del fumaiolo poppiero (per migliorare i campi di tiro delle armi antiaerei) e installazione di un radar per la scoperta di superficie tipo “271”, alloggiato nella struttura cilindrica che ha sostituito la d/t sul cielo della plancia. (Foto imperial War Museum A 20158, g.c. Biblioteca “A. Maj”, Bergamo, Fondo “Occhini”)

Le unità britanniche uscirono dalla base di Gibilterra nel pomeriggio del 6 febbraio 1941, apparentemente impegnate nella scorta di un convoglio effettivamente diretto in Inghilterra.

-       tra le 12.00 e le 14.00 lasciarono il porto i cacciatorpediniere del Gruppo 2: Fearless (capo squadriglia) (5), Foxhound, Foresight, Fury, Encounter e Jersey, che diressero verso levante come se avessero dovuto effettuare un’esercitazione  o un pattugliamento antisom

-       Alle 13.30 lasciò la rada il convoglio, composto da 16 mercantili e 9 siluranti, diretto in Inghilterra.

-       Alle 17.00 partirono il Renown, il Malaya, lo Sheffield e l’Ark Royal (Gruppo 1), insieme ai cacciatorpediniere del Gruppo 3 (Duncan, Isis, Firedrake e Jupiter).

I cacciatorpediniere del Gruppo 2, dopo aver effettuato una ricerca antisom nello stretto di Gibilterra, diressero verso il punto di riunione con le altre unità della “Forza H”, previsto a Nord di Maiorca per le 08.30 dell’8 febbraio.

Le unità dei Gruppi 1 e 3, una volta entrate in Atlantico, invertirono la rotta, ripassarono isolatamente lo stretto durante la notte e si riunirono circa 55 miglia a levante di Gibilterra verso le 04.00 del 7 febbraio.  Alle 19.25 dello stesso 7 febbraio accostarono verso Nord/Nord-Ovest per passare tra Ibiza e Maiorca riunendosi, nella mattinata dell’8 con il primo gruppo di ct.

I caccia Jupiter e Firedrake furono distaccati a levante di Maiorca con l’ordine di effettuare trasmissioni r.t. che, se intercettate e radiogonometrate, avrebbero potuto trarre in inganno i Comandi italiani sull’itinerario realmente seguito dalla “Forza H” (il che, peraltro, non avvenne).

Nelle prime ore dell’8 la “Forza H” accostò verso Nord-Est attraversando, con questa direttrice, il Golfo del Leone per trovarsi, alle 03.00 del 9 febbraio, una cinquantina di miglia a Sud di Hyeres.

Da qui, la rotta delle unità inglesi proseguì per 70° in modo da raggiungere, attorno alle 06.00, una zona a Sud-Ovest del punto medio della congiungente Capo Corso / Genova.

Alle 05.00 la portaerei Ark Royal (scortata dai ct. Duncan, Isis ed Encounter) iniziò a manovrare autonomamente e, alle 06.00 raggiunse un punto equidistante (70 miglia) dalla Spezia e da Livorno e procedette al lancio di 14 “Swordfish” che effettuarono il previsto bombardamento della raffineria di Livorno e il minamento degli accessi al Golfo della Spezia.

Il Renown, il Malaya e lo Sheffield, scortati dai cinque cacciatorpediniere residui, accostarono verso Nord in modo da trovarsi, alle 07.52, ad una dozzina di miglia a Sud del promontorio di Portofino.  Dopo aver fatto il punto, le navi ridussero la velocità a 18 nodi e accostarono per 290°.  Su questa rotta, tra le 08.14 e le 08.45 del 9 febbraio 1941, avvenne l’azione di fuoco: alcune variazioni di rotta fecero sì che il bombardamento iniziasse ad una distanza di 19.000 metri, terminando a 21.200 metri e passando per la distanza minima di 16.200 metri alla trentesima salva del Renown.

Contro Genova furono sparati 125 proietti da 381 mm e 400 da 114 mm dal Renown; la Malaya sparò 148 colpi da 381 mm (6), mentre 782 furono i proietti da 152 mm dello Sheffield.  In totale, circa 200 tonnellate di acciaio ed esplosivo si abbatterono sul capoluogo ligure.

Anche se, come già abbiamo avuto modo di rilevare, l’operazione “Grog” fu pianificata soprattutto con valenze strategiche riconducibili anche a situazioni di “guerra psicologica”, non va dimenticato che la città di Genova costituiva comunque una agglomerato rilevante di obiettivi molto importanti dal punto di vista portuale, cantieristico e industriale.

Innanzitutto lo stesso porto, da sempre fulcro dell’economia cittadina: alle calate ed agli accosti del “Porto Vecchio” e del “Bacino della Lanterna”, all’inizio degli anni Trenta era stato aggiunto il “Bacino di Sampierdarena”, protetto da una diga foranea di nuova costruzione e comprendente i Ponti Canepa, Libia, Somalia, Eritrea ed Etiopia.  Nel 1941, come del resto anche oggi, importanti installazioni nell’ambito portuale di levante erano costituite dai bacini nella zona del Molo Giano, dagli accosti petroliferi di Calata Canzio, e dalla centrale elettrica situata ai piedi della Lanterna.

A ponente della foce del Polcevera si trovavano l’area industriale ed i cantieri navali della Società Ansaldo anche se, abbastanza stranamente, questi ultimi non furono colpiti con continuità dal fuoco britannico.

Bombardamento navale di Genova (aree più scure: zone ove registrò una maggior concentrazione dei punti di caduta dei colpi britannici)

1 – Molo Principe Umberto (attuale “diga foranea”)

2 – Ponti Eritrea e Somalia

3- Ponte Parodi

4- Zona Bacini

5- Zona dell’Ospedale Galliera

6- Stazione Brignole

7- Stazione Principe

8- Zona industriale della Valpolcevera

9- Cantieri Navali Ansaldo

10- Batteria “Mameli”

Un’immagine rara ed eccezionale: il Renown, ripreso dall’interno del torrione di comando della corazzata Malaya, mentre apre il fuoco durante il bombardamento navale di Genova.  Si tratta, probabilmente, dell’unico documento fotografico raffigurante unità inglesi durante l’azione del 9 febbraio 1941.  La formazione era composta dal Renown (capofila e nave ammiraglia), seguito da Malaya e Sheffield, con due cacciatorpediniere di scorta sul lato dritto (verso terra) e tre su quello sinistro.  (Foto Imperial War Museum A4046, g.c. Biblioteca “A. Maj”, Bergamo, Fondo “Occhini”)

Uno “Swordfish” appartenente allo Squadron n° 818 e conservato in perfette condizioni di volo, ripreso recentemente in Inghilterra durante una manifestazione aerea.  Un “Walrus” e due “Swordfish”  osservarono e diressero il tiro delle navi britanniche durante il bombardamento navale di Genova.  (Archivio Fleet Air Arm)

Nelle ultime versioni Mk IV e Mk V il “Walrus” venne denominato “Seagull”; qui vediamo il Mk V conservato al museo della RAF a Hendon, nei pressi di Londra.  (Archivio Fleet Air Arm

Un  palazzo di Piazza Cavour colpito da un proietto da 381mm, in una foto scattata – probabilmente – nel primo pomeriggio del 9 febbraio 1941.  (g.c. Archivio !Il Secolo XIX”)

Infine, nella valle del Polcevera (tra Rivarolo e la foce del torrente) erano riunite numerose fabbriche, depositi petroliferi e di materiali, officine ed altre installazioni industriali che, di per se’, costituivano – dopo il porto – il gruppo di obiettivi più importanti dell’ambito genovese, e la concentrazione in una zona sostanzialmente ristretta di queste strutture facilitò sicuramente la conduzione e la direzione del tiro, contro di esse, da parte delle unità britanniche.

Poco meno del 50% dei proietti da 381 e 152 mm cadde in acqua; circa un terzo colpì la città, con particolare addensamento sulle zone del porto e della Val Polcevera.  I colpi da 114 mm del Renown furono invece diretti verso la zona del Molo Principe Umberto (7), ma la loro concentrazione nel breve periodo in cui il Renown si trovò a distanze intorno ai 16.000 metri (prossime alla gittata massima dei cannoni di questo calibro) impedì la corretta osservazione dei punti di caduta.

Il bombardamento non colpì obiettivi militari; in effetti, l’unico bersaglio di questo tipo era costituito dalla nave da battaglia Caio Duilio ai lavori nella zona bacini del porto, ma nessun proietto raggiunse questa unità.

I danni subiti dalle unità mercantili presenti in porto furono minimi.  Due colpi (di cui uno di grosso calibro) raggiunsero il piroscafo Salpi, che peraltro non affondò; un altro piroscafo – il Garibaldi – si trovava a secco in un bacino di carenaggio e riportò alcuni squarci nella carena; la nave scuola Garaventa (ex incrociatore-torpediniere Caprera del 1894), fu l’unica unità affondata durante il bombardamento navale.

In aggiunta alle industrie della Val Polcevera, nell’ambito portuale i proietti britannici raggiunsero soprattutto i ponti Somalia ed Eritrea, la darsena a levante di Ponte Parodi (attuale zona dell’Acquario), i Magazzini del Cotone e la zona dei bacini al Molo Giano.

Pressochè nulla la reazione delle difese costiere dell’area genovese, come ebbe modo di evidenziare anche l’amm. Somerville nella sua relazione sull’operazione “Grog” (8).

Un bombardamento effettuato in breve tempo, da una distanza non certo ravvicinata, e condotto più “per zone” che per obiettivi specifici non poteva non causare danni anche alle aree residenziali ed abitative della città.

Si dovettero registrare danni, anche gravi, in tutta la porzione del centro compresa tra la foce del Bisagno, la congiungente Brignole-Corvetto e la Stazione Principe;  anche Sampierdarena fu colpita, nella zona prospiciente l’attuale Lungomare Canepa.

Un proietto da 381 mm che colpì, senza esplodere, la cattedrale di San Lorenzo.  E’ tuttora conservato all’interno della chiesa, con a fianco una lapide commemorativa dell’evento.

Più nel dettaglio, subirono danni di varia natura la Cattedrale di S. Lorenzo, l’Ospedale Galliera e la Biblioteca “Berio”, Piazza Manin e Via Galata.  Circa 250 case furono distrutte, e tra la popolazione civile si dovettero registrare 144 morti, 272 feriti e circa 2.500 senzatetto.

Infine, come previsto dal piano britannico, gli aerei (soprattutto Fairey “Swordfish”) dell’Ark Royal attaccarono Livorno e La Spezia.  Nella città toscana fu colpita la locale raffineria petrolifera, ma due velivoli – per un errore di rotta – colpirono la stazione ferroviaria e l’aeroporto di Pisa.  I quattro aerei che attaccarono La Spezia sganciarono alcune mine nei pressi delle entrate del Golfo delimitate dai due estremi della diga foranea (9).

Terminata l’azione di fuoco, le navi inglesi diressero per 180° al fine di ricongiungersi con il gruppo dell’Ark Royal circa 35 miglia a Sud di Vesima.  Sin qui, i movimenti della “Forza H”  che – seguendo sostanzialmente la stessa rotta dell’andata ma passando a Nord di Ibiza – fece rientro a Gibilterra nel tardo pomeriggio dell’11 febbraio.

In precedenza, alle 10.15 del 10 febbraio, i ct. Jupiter e Firedrake – rimasti presso le Baleari – si erano riuniti alla squadra.

Tuttavia, l’uscita delle navi inglesi da Gibilterra il precedente 6 febbraio era stata subito comunicata a Roma dai nostri informatori nella zona (10), con l’esatta indicazione delle ore e dei nomi delle unità e, nonostante che le apparenze facessero prospettare una partenza verso l’Atlantico, Supermarina ritenne – correttamente – che durante la notte il grosso della “Forza H” avrebbe fatto rientro nel Mediterraneo.

L’Ufficio Piani e Operazioni di Supermarina diramò, pertanto, una serie di disposizioni che avrebbero consentito il dispiegamento di numerose unità per fronteggiare un’azione navale inglese, tanto rivolta a colpire obiettivi in Sardegna quanto, eventualmente, posti anche più a settentrione, nella zona del Mar Ligure.

Fu ordinata la partenza da Messina degli incrociatori della 3a Divisione (Trento, Trieste e Bolzano) agli ordini dell’amm. Sansonetti e le tre unità, scortate da altrettanti cacciatorpediniere, salparono alle 07.00 dell’8 febbraio.

La corazzata Andrea Doria a Trieste nel settembre 1940, al termine dei lavori di trasformazione svolti presso i Cantieri Riuniti dell'Adriatico.  (Foto E. Mioni, Trieste - collezione Maurizio Brescia.

Ancorché caratterizzato da un diverso disegno dello scafo e delle sovrastrutture, il Bolzano (qui fotografato alla fonda il 10 marzo 1938) replicava alcune caratteristiche negative dei “Trento”.  Costruito dopo gli “Zara” (sicuramente tra i migliori incrociatori tipo “Washington” realizzati dalle varie Marine nella prima metà degli anni Trenta), per via delle linee comunque eleganti ed armoniose fu definito, anche negli ambienti ufficiali, “un errore splendidamente riuscito”.  (Foto A. Fraccaroli)

Le volate dei pezzi da 320/44 delle torri prodiere della corazzata Andrea Doria, verso la metà del 1942. (Coll. M. Brescia.

Movimenti navali del 9 febbraio 1941

Linea puntinata: rotta della “Forza H” in allontanamento da Genova – Linea tratteggiata: rotta seguita dalla 3a Divisione in arrivo da Messina sino al punto di riunione con la 5a Divisione – Linea continua: rotta del gruppo navale italiano (5a Divisione dalla Spezia, 5a e 3a Divisione riunite a partire dal punto “2”) – Linea spezzata: rotta del convoglio francese.

1 – Uscita dalla Spezia delle corazzate della 5a Divisione (tardo pomeriggio dell’8 febbraio)

2 – Punto di riunione, a Nord dell’Asinara, tra le unità della 5a Divisione e quelle della 3a Divisione (ore 08.00 del 9 febbraio)

3 – Bombardamento navale di Genova, condotto dalla “Forza H” tra le 08.14 e le 08.45

4 – Lancio, tra le 08.55 e le 09.35, degli idroricognitori del Trento e del Bolzano, che effettueranno un’infruttuosa ricerca del nemico ad Ovest della Sardegna

5 – Posizione della squadra italiana alle 12.30; lancio dell’idroricognitore del Trieste che, volando verso Nord-Ovest, passerà a poche decine di miglia dalla “Forza H” senza avvistarla

6 – Ore 14.30: punto di minima distanza (30 miglia) tra le unità inglesi e quelle italiane

7 – Ore 15.50: identificato il convoglio dei mercantili francesi, le navi italiane accostano per 270° nel tentativo di raggiungere la “Forza H”, ma quest’ultima si trova ormai nel punto “8”, a Sud di Hyeres, ad una distanza troppo grande per essere interecettata

9 – Ore 19.00: le navi italiane dirigono per Est

Nella serata dello stesso giorno, le navi da battaglia Vittorio Veneto, Giulio Cesare e Andrea Doria della 5a Divisione (al comando dell’amm. Jachino, comandante superiore in mare)  lasciarono La Spezia scortate dai sette cacciatorpediniere della 10a e della 13a Squadriglia.

La Regia Aeronautica e il Comando Marina di Cagliari avevano nel frattempo predisposto, nel corso di tutta la giornata dell’8, una serie di ricognizioni aeree ad Ovest della Sardegna che – tuttavia – non consentirono l’individuazione della “Forza H” la quale, come abbiamo visto, si trovava in navigazione più a Nord.

In assenza di precise indicazioni sui movimenti della “Forza H”, le tre corazzate della 5a Divisione (uscite dalla Spezia) e gli incrociatori della 3a Divisione (provenienti da Messina) si riunirono – insieme a 10 cacciatorpediniere di scorta – a Nord dell’Asinara alle 08.00 del 9 febbraio 1941.

Ebbe inizio, a questo punto, una serie (sotto alcuni aspetti quasi incredibile) di avvenimenti, sfortunati ritardi e inconvenienti che – per i più svariati motivi – non rese possibile l’intercettazione della “Forza H” da parte delle unità italiane, precludendo così la possibilità di uno scontro che, vista la relatività delle forze in campo, avrebbe potuto avere esiti molto favorevoli per la Regia Marina.

Le ricognizioni aeree, innanzitutto, “coprirono” una zona posta più a Sud del Mar Ligure, nella presunzione che la “Forza H” si trovasse in mare per la protezione indiretta di un convoglio in navigazione tra Gibilterra a Malta (11).

Gli stessi idrovolanti del Trento e del Bolzano, lanciati tra le 08.55 e le 09.35 del 9 febbraio, effettuarono una ricognizione al largo della costa occidentale della Sardegna (ammarando poi a Cagliari al termine della missione), quindi completamente al di fuori della zona di operazioni delle navi inglesi.

Le prime notizie sulla presenza della “Forza H” davanti a Genova giunsero a Supermarina tra le 07.40 e le 08.32; alle 09.00 (quando il bombardamento era ormai cessato) il Comando del dipartimento della Spezia informò Roma che era in corso un’azione navale contro Genova.  Solamente alle 10.00 fu possibile far assumere rotta Nord al nostro gruppo navale (12) che – sino ad allora – aveva navigato verso ponente ritenendo, in assenza di informazioni, che le unità britanniche si trovassero ad Ovest della Sardegna.

Le navi italiane, giunte poco dopo le 13.00 a ponente della parte centrale della Corsica, accostarono per 30° (Nord/Nord-Est) in quanto alcune segnalazioni della ricognizione della Regia Aeronautica informavano sulla presenza di una portaerei e di altre unità maggiori nel Golfo Ligure indicando, peraltro, posizioni diverse (e nessuna delle quali sufficientemente precisa).

Ne consegue che i messaggi provenienti dalla Regia Aeronautica erano quanto mai contraddittori, e va inoltre considerato il fatto che i velivoli informavano via radio il proprio Comando il quale – a sua volta – “girava” il messaggio a Superaereo:  Superaereo informava quindi Supermarina che provvedeva, infine, a trasmettere l’informazione al Comando Superiore in mare.  Questo complesso giro di messaggi (per di più cifrati, talvolta sopracifrati, e da decrittare ad ogni passaggio) tra Forze Armate e Comandi diversi rendeva quindi intempestive le segnalazioni dei ricognitori.  Gli equipaggi dei velivoli, inoltre, non erano ancora stati addestrati per lo specifico compito della ricognizione marittima, manifestando di conseguenza gravi lacune nel riconoscimento delle unità (tanto nazionali quanto nemiche) e nel corretto apprezzamento dei loro elementi del moto (13).

Alcuni bombardieri Br.20, attorno alle 13.00, individuarono e attaccarono le navi inglesi (peraltro senza danneggiarle), ma l’amm. Jachino non fu informato tempestivamente di questa azione in quanto gli equipaggi degli apparecchi mantennero il silenzio radio ed informarono i propri Comandi solamente al rientro.  In precedenza (alle 11.40) un ricognitore CANT Z.506 della 287a Squadriglia aveva avvistato la “Forza H” una quarantina di miglia a Nord-Ovest di Capo Corso, ma era stato abbattuto subito dopo dalla caccia dell’Ark Royal e l’equipaggio, recuperato nel pomeriggio da una torpediniera, poté far pervenire un rapporto di scoperta solamente nella tarda serata, quando il gruppo navale dell’amm. Jachino non aveva più la possibilità di avvicinare le unità inglesi.

L’ultimo “colpo” a questa catena di manchevolezze, eventi negativi e sfortunate coincidenze fu assestato dalla presenza, in zona, di un convoglio mercantile francese diretto da Marsiglia a Biserta e la cui rotta lo avrebbe portato a passare a Nord e – successivamente – ad Est della Corsica.

Alle 15.24, una cinquantina di miglia a ponente di capo Corso, il Trieste avvistò le alberature delle navi da carico francesi e trasmise il segnale di scoperta alle altre unità italiane.  Lo scontro con la “Forza H” sembrava imminente, al punto che sul Veneto (ad una distanza di 32.000 metri) il Direttore del tiro diede l’ordine di caricare i pezzi dell’armamento principale.

Fu quindi grande la delusione degli equipaggi italiani quando – alle 15.48 – le unità francesi furono effettivamente identificate come tali (14): a nulla valse far accostare la squadra italiana per 270° dato che, a quell’ora, le navi britanniche, si trovavano ormai a grande distanza (molto al largo della costa francese, a Sud di Hyeres) e sarebbe stato impossibile raggiungerle, anche navigando alla massima velocità.

Alle 18.00 l’amm. Jachino diede ordine di assumere rotta Nord e, un’ora dopo, la squadra della Regia Marina diresse per Est riducendo la velocità.  Le navi italiane incrociarono nel Mar Ligure durante la notte; nel corso della mattinata del 10 febbraio, infine, Supermarina ordinò alle corazzate di far rotta su Napoli ed alla 3a Divisione di rientrare a Messina.

Si concluse così, con un “nulla di fatto”, una delle più limpide occasioni mai occorse alla Regia Marina, nel corso di tutto il conflitto, per dare battaglia alla Royal Navy in condizioni di netta superiorità.  Ai 14 pezzi da 381 mm e ai 24 da 152 mm (15) delle unità maggiori inglesi, si sarebbero difatti contrapposti 9 pezzi da 381 mm, 20 da 320 mm e 24 da 203 mm delle corazzate e degli incrociatori italiani; inoltre, considerati gli aspetti tattici dell’ipotetica azione di fuoco, la presenza dell’Ark Royal e dei suoi velivoli non sarebbe risultata – probabilmente – determinante.

Con il bombardamento navale di Genova del 9 febbraio 1941, la “Forza H” compì una delle più audaci azioni della guerra navale nel Mediterraneo, degna delle migliori tradizioni della Royal Navy.  Per le Forze Navali italiane si trattò, in buona sostanza, di una “occasione perduta” dovuta – in buona parte – alla scarsa cooperazione tra Marina e Aeronautica (per non parlare della mancanza di una vera e propria Aviazione di Marina), reale e più significativo “tallone d’Achille” di tutta la guerra navale italiana tra il 1940 e il 1943.

Tuttavia, va anche rilevato il comportamento non certo combattivo manifestato dalla squadra italiana, al di là delle giustificazioni addotte dall’amm. Jachino nel dopoguerra (19); tutto ciò quando erano ben note le critiche di scarsa propensione all’offensiva mosse da quest’ultimo al suo predecessore Campioni.  Peraltro, non bisogna disgiungere questi fatti dalle direttive che contraddistinsero tutta la nostra guerra navale, tese a preservare quanto più possibile l’integrità della squadra da battaglia – tanto per il mantenimento della “fleet in being” quanto essendo ben nota l’impossibilità di sostituire unità maggiori eventualmente perdute o anche solo danneggiate gravemente.

Forse, anche per questi motivi l’operazione “Grog” – a torto – è stata considerata, talvolta, un evento di secondo piano, ma ancora più rilevante sarebbe stato, nel breve, il prosieguo della contrapposizione tra la Regia Marina e la Royal Navy.

Poco meno di due mesi dopo, difatti, con rapporti di forza invertiti (e sulla base, va ricordato, di un’ “intelligence” nemica che aveva in “ULTRA” il suo punto focale) lo scontro di Matapan tra unità italiane e britanniche ebbe purtroppo esiti del tutto opposti, come testimoniato dal sacrificio dei 2.303 uomini del Pola, dello Zara, del Fiume, del Carducci e dell’Alfieri (16) che persero la vita nel corso di quel breve combattimento, nella notte tra il 28 e il 29 marzo 1941.

Maurizio Brescia

Vicepresidente Associazione Mare Nostrum

- L’articolo pubblicato sul n.161 (febbraio 2007) della rivista mensile “STORIA MILITARE” - (Albertelli Edizioni Speciali)

Note:

(1) Si veda: Hervieux, P.: Il bombardamento navale del 14 giugno 1940, in “STORIA Militare” n. 110 (novembre 2002)

(2) La Marina italiana si trovò infatti impegnata con direttrice Nord-Sud per il sostegno logistico del fronte libico, mentre l’attività della Marina britannica era indirizzata sul corso dei paralleli, con operazioni di rifornimento di Malta aventi come punti di partenza Alessandria o Gibilterra, e trasferimenti di unità navali tra queste due basi strategiche.

(3) Si veda: Bagnasco, E.: Perdita e recupero della R.N. Conte di Cavour, in “STORIA Militare” n. 26 (novembre 1995)

(4) Il “grog” è una sorta di “ponce” a base di rum, succo di limone ed acqua calda che a bordo delle navi britanniche – sino agli anni Settanta – costituiva uno dei generi di conforto più apprezzati dagli equipaggi.

(5) In effetti, il Fearless non era attrezzato come capo squadriglia (flotilla leader), ma come capo sezione (divisional leader).  Tuttavia, in mancanza di un’unità specificatamente equipaggiata per questo ruolo, operò come capo squadriglia nel corso dell’operazione “Grog”.

(6) Non è noto il numero dei colpi da 152 mm tirati dalla Malaya.

(7) Di fronte a Sampierdarena, ai giorni nostri semplicemente denominato “diga foranea”.

(8) “. . . Il solo contrasto incontrato dalle navi bombardanti fu quello del tiro di una batteria da 152 mm (si trattava della Batteria “Mameli”, posta sulle alture di Pegli – n.d.r.) e del tiro c.a. diretto contro il velivolo osservatore del tiro.  In entrambi i casi il tiro fu del tutto insufficiente.  Tuttavia, durante una parte del bombardamento, fu disposto che i due ct. posti dal lato della costa facessero fuoco, sia per controbattere il tiro da terra sia per mascherare la composizione della forza bombardante . . .”(da: Fioravanzo, G., Le azioni navali in Mediterraneo dal 10-VI-1940 al 31-III-1941, pagg. 361-363 – op. cit. in bibliografia). L’osservazione del tiro fu effettuata da un “Walrus” dello Sheffield e da due “Swordfish” in versione idro del Malaya e del Renown. Lo stesso Sheffield provvedette, al termine dell’azione di fuoco, al recupero del proprio velivolo nonché di quello del Malaya; lo “Swordfish” del Renown fu invece recuperato dalla portaerei Ark Royal. (Fonte: Macintyre, D., Fighting Admiral, pag. 111 – op. cit. in bibliografia). Il volume del Fioravanzo riporta invece che l’osservazione del tiro fu effettuata da uno “Swordfish” dell’Ark Royal che rientrò sulla portaerei al termine dell’azione di fuoco.  A sua volta, M.A. Bragadin (Il dramma della Marina Italiana – op.cit. in bibliografia, pag. 71) indica in tre il numero degli “Swordfish” della portaerei britannica che operarono su Genova durante il bombardamento. E’ tuttavia probabile che la storiografia italiana sia piuttosto imprecisa sull’argomento, dato che – all’epoca della pubblicazione – gli autori dei due volumi citati non avevano ancora potuto prendere visione della ricordata opera del Macintyre e di altra documentazione di fonte britannica.

(9) La maggior parte delle mine furono sganciate nei pressi dell’accesso di levante, anche se quello utilizzato all’epoca (come pure oggi) dalle unità in uscita era quello di ponente.  Tuttavia, come vedremo più avanti, per maggior sicurezza nell’attesa del dragaggio degli ordigni, al termine dell’infruttuosa ricerca del nemico fu ordinato alle tre corazzate di dirigersi su Napoli.

(10) Va ricordato che, per tutta la durata della guerra, nel territorio spagnolo confinante con Gibilterra fu attiva, con successo, una fitta rete di informatori e agenti della Regia Marina la cui opera – inoltre – fu particolarmente importante per il supporto di “intelligence” alle operazioni dei mezzi d’assalto italiani contro la base britannica. Si veda, in proposito: Pitacco, G.: La “X MAS” ad Algeciras e i mezzi “R”, in “STORIA Militare” n. 31 (aprile 1996).

(11) Una volta nota l’uscita della “Forza H” da Gibilterra, Supermarina allertò i corrispondenti comandi della R.A. e – tra l’8 e il 9 febbraio – consistenti gruppi di velivoli furono utilizzati per la ricerca delle unità britanniche. La Regia Aeronautica impiegò 32 idrovolanti della ricognizione marittima: 20 Cant Z. 501 e 12 trimotori Cant Z. 506; ad essi vanno aggiunti i tre idroricognitori Ro.43 lanciati dalle unità italiane durante l’infruttuosa ricerca del nemico. La Ia Squadra aerea (Comando a Milano) Impiegò nove bombardieri Br. 20 e 2 caccia; la IIIa Squadra aerea (Roma) utilizzò 15 bombardieri Cant Z. 1007, un apparecchio dello stesso tipo attrezzato come ricognitore e sette caccia. Il comando R.A. della Sardegna impiegò 30 bombardieri S.79 ed otto ricognitori (4 Cant Z. 506 e 4 S.79); a questi aerei vanno aggiunti due ricognitori S.79 della IIa Squadra aerea (Palermo). Il X° CAT (Corpo Aereo Tedesco), di base in Sicilia con Comando a Catania, impiegò – per l’occasione – 53 bombardieri, 14 ricognitori e 18 caccia che, nel corso delle operazioni, si appoggiarono  anche agli aeroporti della Sardegna.

(12) Con una certa tempestività, il Comando Marina di Genova segnalò a Supermarina l’inizio del bombardamento navale, ma l’informazione fu ricevuta a bordo del Veneto soltanto poco prima delle 10.00, quando le navi britanniche si stavano ormai allontanando dal Golfo di Genova.

(13) Sono purtroppo ben note le medesime manchevolezze che, a Punta Silo, portarono velivoli della R.A. ad attaccare unità navali nazionali, fortunatamente senza colpirle (è d’altro canto pensabile che il medesimo, scarso, risultato avrebbe potuto caratterizzare un attacco contro navi britanniche).

(14) La rotta del convoglio era nota alla commissione armistiziale italo-francese, ma – probabilmente per l’assenza di contatti diretti tra quest’ultima e Supermarina – il Comando superiore in mare non fu avvertito di questo importante elemento “perturbatore” dell’apprezzamento della situazione.

(15) Peraltro, è probabile che i 12 pezzi da 152 mm dell’armamento secondario della Malaya avrebbero avuto ben poche possibilità di essere utilizzati nel corso di un ipotetico scontro con le navi italiane.

(16) A queste vittime vanno aggiunti anche i tre caduti dell’Oriani, che – pur non affondando – ricevette alcuni colpi nella zona dell’apparato motore.

(17) Si veda, in proposito: Cernuschi, E., Mers-El-Kebir, 3 luglio 1940 (parti 1a e 2a), in “STORIA Militare” n. 80 e 81 (maggio e giugno 2000).

(18) Anche se per il “pensionamento” furono ufficialmente addotti motivi di salute, il collocamento a riposo fu forse dovuto anche ad un incidente “professionale” che, ad Aden, aveva visto l’HMS Norfolk, nave ammiraglia di Somerville, coinvolta in una collisione con una similare unità.

(19) Jachino, A.: Tramonto di una grande Marina (op. cit. in bibliografia)

Bibliografia

AA.VV., Porto e aeroporto di Genova n. 6 – giugno 1978, Genova C.A.P., 1978

AA.VV., Genova in guerra nell’ultimo conflitto mondiale, Genova, “Il Secolo XIX”, s.d.

Bragadin, M.A., Il dramma della Marina Italiana, Milano, Mondadori, 1982

Burt, R.A., British Battleships 1919-1939, Londra, Arms and Armour Press, 1993

Campbell, J., Naval Weapons of World War Two, Annapolis, U.S. Naval Institute Press, 1985

Cernuschi, E., Fuoco dal mare, supplemento alla “Rivista marittima”, maggio 2002

Clerici, C.A:, Le difese costiere italiane nelle due guerre mondiali, Parma, Albertelli Edizioni Speciali, 1996

Craighero, R., Domenica mattina ore 8.14, l’inferno arriva dal mare, in “Il Secolo XIX” del 9 febbraio 2003

Cunningham, A.B., A Sailor’s Odyssey, Londa, Hutchinson & Co., 1951

Fioravanzo, G., Le azioni navali in Mediterraneo dal 10-VI-1940 al 31-III-1941 (vol. IV della serie “La Marina Italiana nella seconda guerra mondiale), Roma, Uff. Storico della M.M., 1976

Giorgerini, G.: La guerra italiana sul mare, Milano, Mondadori, 2001

Jachino, A.: Tramonto di una grande Marina, Milano, Mondadori, 1959

Macintyre, D., Fighting Admiral, Londra, Evans Bros., 1961

Raven, A., Roberts, J., Ensign 4 – “Queen Elizabeth” class battleships, Londra. Bivouac, 1975

Raven, A., Roberts, J., Ensign 5 – “Town” class cruisers”, Londra. Bivouac, 1975

Raven, A., Roberts, J., Ensign 8 – Renown & Repulse, Londra. Bivouac, 1978

 

Rapallo, 28 Marzo 2014

 

 

 


U-455 - Ipotesi Affondamento

U-455

IPOTESI SULL’AFFONDAMENTO DEL SOMMERGIBILE TEDESCO

 

Sperando di fare cosa gradita, per chi della Lista non conosce la storia, o non la ricorda, faccio il punto sul relitto di Portofino che, dopo molte incertezze e discussioni, scoperto da Del Veneziano è stato riconosciuto per il sommergibile tedesco U-455. La causa della sua perdita, e dei suoi 51 uomini d’equipaggio, rimane però per molti versi misteriosa, ed è stata fonte, e lo sarà ancora, di discussioni.

 

L’U-455, al comando del tenente di vascello Hans-Martin Scheibe, entrò nel Mediterraneo nel mese di gennaio 1944 dopo nove missioni di guerra svolte in Atlantico, che lo avevano portato ad affondare con il siluro, il 3 maggio e l’11 giugno 1942, due navi mercantili per 13.908 tsl (le cisterne britanniche BRITISH WORKMAN e GEO H. JONES), e ad effettuare la posa di due sbarramenti minati: la prima nelle acque degli Stati Uniti; la seconda presso le coste marocchine di Casablanca, causando il 25 aprile 1943 l’affondamento del piroscafo francese ROUNNAIS di 3.777 tsl.

 

L’U-455 apparteneva alla 7^ Flottiglia Sommergibili tedeschi di Saint Nazaire, e arrivò a Tolone il 3 febbraio 1941, proveniente da Lorient, per poi essere ufficialmente aggregato alla 29^ Flottiglia del Mediterraneo in data 2 marzo.

 

Partì da Tolone – principale base della 29^ Flottiglia – il 22 febbraio per la sua decima ed ultima missione. La sua destinazione bellica comportava di posare uno sbarramento minato nelle acque dell’Algeria, per poi operare in quella zona di mare, dove l’U-455 stazionò per circa quaranta giorni, senza avere avuto possibilità di realizzare attacchi contro il numeroso naviglio alleato che transitava in quel settore focale di traffico, dove i sommergibili tedeschi della 29^ Flottiglia ottennero, tra l’aprile e i primi di maggio, i loro ultimi successi, prima di essere spazzati via dal Mediterraneo dall’organizzazione difensiva degli anglo-americani, realizzata con la tattica Swam (ricerca metodica). Seguì poi, per bombardamenti aerei statunitensi violentissimi, l’annientamento dei superstiti sommergibili nel porto di Salamina, e nei bacini di Tolone, e ciò avvenne prima che i tedeschi fossero riusciti a ultimare la costruzione dei bunker in cemento armato che avrebbero dovuto proteggerli in quel porto francese.

 

Uno di questi bombardamenti, con 120 quadrimotori B-17 della 12^ Air Force, si verificò l’11 marzo, quando l’U-455 si trovava in mare da diciassette giorni. L’attacco aereo causò quasi settecento morti, inclusi quattordici soldati tedeschi, colpì il Comando della 29^ Flottiglia e molte navi in porto, affondò i sommergibili U-380 e U-410 e due dragamine adibiti al pilotaggio degli U-boote, e in particolare arrecò gravissimi danni alla zona dei bacini, compromettendo il riassetto delle unità subacquee che rientravano dalle missioni belliche. Si aggiunse poi il fatto che il Comandante Marina Ovest, ammiraglio Theodor Krancke, si  mostrò preoccupato per la scarsa difesa di Tolone, da parte della Luftwaffe ed anche dall’artiglieria contraerea (Flak). Fu questo il motivo per cui l’U-455 e l’U-230, rientrando dalle loro missioni di guerra, furono deviati eccezionalmente alla Spezia, che in quel periodo era un porto più tranquillo di Tolone, e possedeva un arsenale al momento forse più efficiente.

 

Dei due sommergibili, l’U-230 (tenente di vascello Paul Siegmann), che il 16 e il 20 febbraio aveva affondato nella zona di Anzio le navi da sbarco per carri armati LST 418 e LST 305, entrambe britanniche, arrivò alla Spezia il 24 febbraio, per poi ripartire il 6 aprile per raggiungere Tolone tre giorni più tardi.

 

Da informazioni chieste dal compianto Achille Rastelli in Germania, e trasmesse, tramite Manfred Krellenberg, dal Dott. Axel Miestlè, considerato uno dei maggiori esperti di sommergibili tedeschi, e da altre notizie di cui sono in possesso, risulta che il capitano di vascello Werner Hartmann, Comandante degli U-boote del Mediterraneo, alle 11.33 del 1° aprile 1044 ordinò all’U-455 di raggiungere La Spezia. Con un secondo messaggio delle ore 11.52 del medesimo giorno furono inviate al sommergibile dettagliate istruzioni per entrare in quel porto della Liguria. All’U-455 fu fissato un appuntamento a ovest del Golfo della Spezia, sul punto “C” (per Caesar”), corrispondente alla lat. 44°07’8” Nord, long. 09°28’6” Est, con una nave di scorta, che avrebbe dovuto fungere da nave pilota nell’entrata in porto del sommergibile.

 

 

Le rotte germaniche nell’Alto Tirreno al 1° febbraio 1944. Il punto “C” è a ovest di La Spezia.

 

Il Comandante della 29^ Flottiglia consigliò all’U 455 di raggiungere il punto “C” al tramonto, e gli chiese di segnalare con urgenza il momento in cui esso riteneva di arrivare all’appuntamento, nella zona stabilita, con la nave scorta, che avrebbe dovuto pilotarlo in porto attraverso le rotte di sicurezza che passavano tra gli sbarramenti minati difensivi e che portavano, da ponente lungo la costa, all’entrata del Golfo della Spezia. Il sommergibile fu, in effetti, avvertito delle difficoltà esistenti, durante la traversata, per mantenersi nei limiti dell’area minata, denominata Gurke. L’U-455, che lasciata la zona di Algeri si trovava a sud-ovest della Corsica, segnalò con la radio, per l’ultima volta, alle 04.42 del 2 aprile 44, informando il Comandante della 29^ Flottiglia della sua intenzione di arrivare sul punto “C” alle 19.30 del giorno 5. Non si presentò all’appuntamento, e non avendo dato sue notizie, il 6 aprile il sommergibile fu considerato perduto per causa sconosciuta.

 

Le informazioni dell’Ammiragliato britannico del dopoguerra, forniscono sulla perdita dell’U-455 due versione: la prima sostiene che il sommergibile sarebbe affondato in lat. 44°04’N, long. 09°51’E, poco a sud dell’Isola Del Tino, probabilmente per causa di una mina tedesca al limite settentrionale dello sbarramento Gurke, esplosa proprio mentre l’unità si apprestava a entrare nel Golfo di La Spezia; la seconda ipotesi, ribadendo quanto sostenuto dai tedeschi, afferma che la causa della perdita era sconosciuta.

 

Da parte nostra sappiamo oggi che rispetto al punto di affondamento ipotizzato dall’Ammiragliato britannico, il relitto dell’U-455, secondo le coordinate fornite da Massimo Bondone, si trova in realtà in lat. 44°18’ 651 Nord, long. 09°02'891 Est. Questa posizione corrisponde a circa 5 miglia da Recco, mentre finora si era detto che l’affondamento del sommergibile era avvenuta a circa 2 miglia a sud di Portofino.

 

Guardando la cartina delle rotte tedesche, il Punto C era quello di avvicinamento all’entrata del canale di sicurezza delle navi che percorrevano la cosiddetta “Via Aurelia”, proveniente da sud-ovest. La rotta proseguiva poi a est (“Via Valeria”) per il punto focale  n. 718 (a sud di Portofino), su cui convergevano da nord altre due rotte, e che naturalmente doveva essere fortemente controllato giorno e notte, potendo infiltrarsi  sommergibili nemici.

 

 

 

Gli sbarramenti minati tedeschi dell’Alto Tirreno al 1° febbraio 1944.

 

Faccio il punto delle mie riflessioni, che potranno anche non essere condivise:

 

 

1°) Non ritengo plausibile l’idea, fornita da alcuni, che il sommergibile abbia sbagliato rotta, finendo sulle mine. Anche se avesse avuto le bussole in avaria (tutte ?), e nonostante una navigazione di 45 giorni, sarebbe stato un errore inconcepibile, direi impossibile, per qualsiasi comandante esperto; per di più navigando vicino alla costa, che poteva servire per fare agevolmente il punto astronomico, anche di notte.  E’ da escludere che l’U-455 fosse affondato sullo sbarramento “Gurke”, ma è possibile che sia andato a urtare su una mina vagante (strappata all’ormeggio), ma essendo pur sempre entro la rotta di sicurezza. E poiché siamo in vena d’ipotesi, non possiamo escludere si fosse verificata l’esplosione di un proprio siluro, a poppa, come successo ad altri sommergibili.

 

2°) Non credo assolutamente che l’U-455 navigasse in immersione, proprio perché si trovava sotto costa e tra gli sbarramenti minati amici e nemici. Nessuno lo avrebbe fatto in queste condizioni, come potrebbe dimostrare un qualsiasi sommergibilista.

 

3°) E’ mia opinione che l’esplosione di una mina avvenuta nella navigazione in superficie entra la rotta di sicurezza, e l’alta colonna d’acqua da essa generata, non poteva sfuggire alla vigilanza tedesca, della nave pilota e da terra, anche se vi era cattivo tempo, e temporali da accertare. L’esplosione della mina e il tuono, più o meno forte, di un fulmine avrebbero dovuto essere contemporanei  Inoltre,  l’affondamento repentino del sommergibile, con la poppa  fortemente squarciata, doveva lasciare tracce alla superficie del mare, sotto forma di detriti, di chiazze di nafta e cadaveri.

 

4°) Quanto ai corpi degli uomini dell’equipaggio, che al momento del sinistro dovevano trovarsi in coperta, è possibile che la corrente possa averli trascinati lontano. Ma se un corpo si rintraccia in mare o sulla costa, e può essere anche identificato per non altro per l’uniforme, si collega sempre a qualche nave affondata. Quindi ai tedeschi, che avevano il controllo dell’Alto Tirreno e della Francia meridionale, e la benevolenza della Spagna, sarebbe stato alquanto facile appurare che si trattavi di un uomo dell’equipaggio dell’U- 455, e quindi stabilire dove presumibilmente il sommergibile si era perduto, e in quale giorno.

 

5°) E assolutamente impossibile che l’U-455, com’è stato ipotizzato, trovandosi in difficoltà per il mare grosso, si sia diretto sottocosta  senza avvertire i Comandi della Liguria, preposti al controllo del traffico (questa è una cosa seria), che avrebbero provveduto a fornirgli tutto l’aiuto necessario per raggiungere la destinazione. Per la difesa del traffico di cabotaggio le precauzioni di vigilanza per una Marina efficiente (e la tedesca lo era) erano continue, sia di giorno che di notte, anche con il cattivo tempo, accettando il rischio di imbattersi nel contrasto aereo del nemico, che  a quell’epoca (aprile 1944), con la linea del fronte a Cassino, proveniva soprattutto dagli aeroporti della 12^ Air Force statunitense in Corsica.

 

6°) In mancanza di una foto sulle ultime modifiche cui era stato sottoposto in torretta il sommergibile, in particolare riguardo all’incremento dell’armamento e delle numerose apparecchiature tecniche, come il radar, la visione dei filmati non mi permette dei dare un giudizio, trovandosi la torretta quasi completamente coperta di reti, soprattutto nella parte posteriore del giardino d’inverno. Si parla di una grossa mitragliera, che però, essendo nascosta dalle reti, potrebbe anche essere la semplice asta della bandiera ?

 

 

 

Ecco come si presentava, in missione di guerra, la torretta di un sommergibile tipo VII C, a due piattaforme. Vi sono alzati i due periscopi (oppure abbassati sulle rispettive colonnine fisse), il radiogoniometro, l’intercettatore di onde radar Naxos, la grande antenna del radar di scoperta aeronavale, le due coppie di mitragliere da 20 mm. sulla piattaforma superiore; la mitragliera da 37 mm. su impianto scudato sulla piattaforma inferiore. Sul davanti della torretta, in basso, il contenitore della bussola magnetica.

Se non sono stati asportati tutti questi strumenti tecnici e di armamento dovrebbero ancora essere presenti sul relitto dell’U-455. Ma finora nessuna, nei numerosissimi difficili filmati degli operatori ad alta profondità, è riuscito a farceli vedere, e per vedere intendo dire “chiaramente” non per quello che hanno visto i subacquei. Attendiamo speranzosi.

 

Ricordo che l’U-455, alla sua decima missione di guerra, stava dirigendo verso la Spezia anziché a Tolone, come inizialmente avrebbe dovuto fare, a causa di un bombardamento degli aerei statunitensi della 12^ Air Force. L’ultima sua trasmissione riporta la data del 2 aprile 1944, ed è praticamente impossibile conoscere cosa abbia fatto, prima di arrivare alla Spezia il giorno 6, in cui era atteso. Era in anticipo o in ritardo; ha sbagliato la rotta per raggiungere la nave pilota all’ingresso (badate bene all’ingresso) della rotta di sicurezza.  E’ un rebus che, temo, rimarrà per sempre.

 

Che poi  nessuno abbia udito nulla dell’esplosione della mina, che non vi fossero cadaveri almeno degli uomini in coperta, anche se rintracciabili a grande distanza, e non fossero state localizzati rottami e perdite di nafta (anche di piccola entità), che potessero far capire ai tedeschi quale era stata la fine del sommergibile, a poche miglia dalla costa ligure, non permette di fare supposizioni e ancor meno di esprimere fantasie.

Ripeto, si potrebbero fare dei calcoli approssimativi sulla rotta seguita dall’U-455, soltanto dopo aver conosciuto le esatte coordinate dell’affondamento. Ma sembra che nessuno voglia darle!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In attesa della traduzione di Francesco, ripeto quanto già segnalato e aggiungo quanto ho compreso dalla lettura dei cinque documenti postati da Milani:

Nella prima scansione e riportato che i dragamine R-189, R-215, il posamine SG-15, e le navi scorta  UJ-2221, 2222 Spezia erano partite il giorno 5 aprile per raggiungere il sommergibile e condurlo alla Spezia.

Se poi si collega questa preziosissima informazione con il paragrafo successivo, costatiamo che altre tre navi, il dragamine R-19, la nave trasporto  KT-8 e la motozattera F-2484, si trovavano quello stesso giorno a percorrere il medesimo tratto di mare.

Nella seconda scansione le cinque navi tedesche ricevettero l’ordine di partire da La Spezia alle ore 1900 del 5 aprile per raggiungere l’U-450 sul previsto Punto “Ceaser” (Punto C), passando a sud dell’Isola del Tino e proseguendo la loro rotta nella “Via Augusta”.

Vi sono poi altri movimenti navali a dimostrazione che nella zona vi era un gran traffico.

Nella terza scansione, il solito grande traffico nella zona tra il Punto C e la Spezia. Le cinque navi della 7^ Divisione di Sicurezza diressero sul Punto C scortando il sommergibile U-230, salpato dalla Spezia  alle 19.30  per poi arrivare alle 2100 sul Punto C. Alle 23.45 l’U-230 proseguì la sua navigazione (per Tolone), mentre le cinque navi scorta restarono ad attendere fino all’alba l’U-455, che non arrivò all’appuntamento (scansioni 4 e 5).

Ribadisco che in queste condizioni come sia avvenuta  la perdita dell’U- 455 a sud di Recco, senza che nessuno se ne accorgesse, appare veramente un mistero!

 

Se l’U-455 era in ritardo al momento dell’appuntamento, una volta entrato nella rotta di sicurezza, sarebbe stato dovere del comandante del sommergibile di informare le locali autorità della zona, senza badare al rischio di usare la radio. Che cosa gli era successo ?

 

Francesco MATTESINI

Rapallo, 3 Gennaio 2014



ARTIGLIO, una vita gloriosa

LA VITA GLORIOSA DELL’”ARTIGLIO”

 

La vicenda che rese famoso l’”Artiglio” e che rappresenta, una delle più celebri e drammatiche campagne di recuperi sottomarini, ebbe inizio il 20 maggio 1922 al largo dell’isola di Ouessant, a ovest di Brest.

 

 

Quel giorno la nave passeggeri inglese “Egypt”, (nella foto) partita da Tilbury alle foci del Tamigi e diretta in India e in Australia, fu speronata nella nebbia dal piroscafo francese “Seine” e affondò in poco più di venti minuti.

 

L’“Egypt” aveva a bordo 338 persone e un autentico tesoro nascosto in una camera blindata: 1.089 barre d’oro puro, 164.979 sterline d’oro, 1.229 lingotti d’argento del peso complessivo di 43 tonnellate e migliaia di banconote indiane.

 

Nel naufragio perirono ottantotto persone.

 

La zona in cui era affondata la nave presenta fondali bassi e non si poteva escludere, in teoria, la possibilità di recupero del tesoro. La posta in gioco era molto allettante, pur essendo certamente pesanti i rischi e costosa l’impresa.

 

Per anni inglesi, francesi e tedeschi cercarono il relitto: le tempestose acque dei mari del nord sembrava avessero suggellato per sempre la tomba dell’“Egypt”.

 

Frattanto si era costituita a Genova, 11 ottobre 1926, la “SO.RI.MA.” (Società Ricuperi Marittimi) con lo scopo di effettuare in tutti i mari, ma specialmente nel golfo di Guascogna e nella Manica, rigorose e vaste ricerche di navi piene di materiali pregiati affondate a profondità accessibili, e cercare di recuperare il carico.

 

Le acque dove si proponeva di operare la “SO.RI.MA.” erano molto pericolose, sia per le frequenti tempeste e le forti correnti, che per la presenza, sui fondali, di relitti carichi di materiale esplosivo e ostacoli di ogni genere. Quelle acque erano state il campo di operazioni dei sommergibili tedeschi durante la prima guerra mondiale. A centinaia le navi da carico provenienti dall’America e dall’Inghilterra, destinate a rifornire di armi, munizioni e materie prime gli eserciti alleati in lotta con la Germania e l’Austria-Ungheria, erano state vittime dell’inesorabile caccia condotta dagli U-Boat. Operare in quei mari era come arare un campo minato.

 

Di ciò erano perfettamente consci i dirigenti della “SO.RI.MA.”, ma essi non si lasciarono impressionare, perché sapevano di poter contare su equipaggi pronti a tutto, rotti alla fatica, impavidi in faccia alla morte. E i dirigenti stessi erano pronti a condividere, come fece specialmente il presidente e amministratore delegato comm. avv. Giovanni Quaglia, la vita dei marinai.

 

La “SO.RI.MA.” acquistò subito alcune piccole navi di alte qualità nautiche e robustissime, e le fece attrezzare per i recuperi a grande profondità.

 

 

I loro nomi “Artiglio”, “Arpione”, “Raffio”, “Rampino”, rievocano tutti episodi di grande eroismo e sono entrati ormai nella letteratura delle gesta leggendarie.

 

La ricerca del relitto dell’“Egypt” e il recupero del suo tesoro, che era stato assicurato dai Lloyd’s di Londra per più di un milione di sterline, furono affidati appunto all’”Artiglio”. Furono accettate, senza batter ciglio, le dure condizioni imposte dai Lloyd’s di Londra: ricerca a rischio e spese della “SO.RI.MA.”, divisione a metà del tesoro recuperato.

 

Se si pensa che l’impresa appariva aleatoria, dati i precedenti tentativi , tutti falliti, di altre ditte specializzate, che i pericoli erano sempre in agguato, che a quei tempi i mezzi tecnici a disposizione non erano ancora abbastanza sperimentati e che ci sarebbe voluto, oltre all’abnegazione degli uomini, anche un grande dispendio di tempo e di capitali, si può facilmente comprendere quale coraggio ci sia voluto e quale fede nella riuscita, per apporre la firma a quel contratto.

 

 

L’”Artiglio” si mise subito all’opera. La zona di mare dove era affondato l’“Egypt” fu scandagliata a palmo a palmo, i palombari s’immersero, in speciali scafandri, centinaia di volte. Dopo due anni di estenuanti ricerche, durante le quali furono localizzati altri trentotto relitti di navi, il 30 agosto 1930 finalmente fu scoperta la posizione dell’“Egypt”, a 130 metri di profondità. La nave si era appoggiata, senza rovesciarsi, su un fondo orizzontale.

 

Conseguita questa prima vittoria, cominciavano ora ben altre difficoltà. Mentre la “SO.RI.MA.” continuava a studiare mezzi sempre più idonei per raggiungere il tesoro e ripescarlo, l’”Artiglio” riceveva l’incarico di demolire  presso la Belle Ile, nello specchio di mare fra le isole Houat e Hoedic, lo scafo del piroscafo francese “Florence”, affondato con un carico di munizioni dai tedeschi in acque molto basse (tanto che l’albero maestro era per buona parte visibile) e perciò pericolosissimo per la navigazione.

 

L’operazione era quasi giunta al termine, quando, il 7 dicembre 1930, l’intero carico di munizioni del “Florence” esplodeva, e l’”Artiglio” sebbene si fosse portato a rispettosa distanza, saltava in aria. Nel disastro perirono dodici marinai e sette rimasero feriti.

 

Tra gli scomparsi erano il comandante, cap. Giacomo Bertolotto di Camogli, e i famosi palombari viareggini Alberto Gianni, Aristide Franceschi, Alberto Bargellini.

 

Il colpo morale e materiale subito dalla “SO.RI.MA.” era tremendo, ma non riuscì ad abbatterne il ferreo volere. Fu acquistata subito un’altra nave (originariamente iscritta con il nome Maurétanie), già adibita alla pesca oceanica, e sulla sua prora fu scritto  ancora il nome indomito di “Artiglio II”( ma tutti continuarono a chiamarla Artiglio): la sfida al destino era lanciata.

 

Il nuovo “Artiglio” aveva le seguenti principali caratteristiche: lunghezza m. 50,70, larghezza m.  7,64, altezza m. 4,19, stazza lorda tonn. 385.

 

 

Il suo scafo non era bello, ma teneva stupendamente il mare.

 

Vi fu imbarcato un equipaggio sceltissimo, agli ordini del cap. Giovanni Battista Carli e di cui facevano parte, tra gli altri, il capo macchinista Cesare Albavera e tre intrepidi palombari viareggini: Mario Raffaelli, Giovanni Lenci, Raffaello Mancini.

 

Il 29 maggio 1931 cominciò a operare sul relitto dell’“Egypt”. Si trattava di demolire quattro ponti d’acciaio per giungere alla cella blindata e scoperchiarla. Per fare ciò occorreva portarsi sul fondo della nave aprendo il passaggio dall’alto, per far scendere i palombari, le torrette di osservazione, gli esplosivi, le benne. Nuove attrezzature furono studiate e realizzate allo scopo. Cinquemila chilogrammi di tritolo fecero per settimane ribollire le acque e squarciarono l’“Egypt”.

 

La fatica fu inaudita, poiché il lavoro non si poteva svolgere come immaginavano i disegnatori delle copertine a colori dei settimanali illustrati: palombari che passeggiavano in fondo al mare, che entravano e uscivano dagli squarci dell’“Egypt”, che afferravano lingotti e sterline, che spingevano le benne con le mani per sistemarle sui carichi. I fatti erano ben diversi. Raramente i palombari, rinchiusi in pesantissimi scafandri metallici, potevano agire direttamente. Di solito gli uomini scendevano in speciali torrette di osservazione e di lì ordinavano per telefono alla nave i movimenti delle benne e di uno speciale ricuperatore, che diede risultati eccezionali.

 

I palombari vedevano ma non potevano agire; sull’“Artiglio” potevano agire ma non vedevano. In questo modo si lavorava.

 

 

 

 

Apparati per lavori subacquei

 

Migliaia di volte le benne mancarono il punto giusto, migliaia di volte i palombari dovettero ordinare spostamenti anche minimi. Spesso rimasero incagliati anche loro tra i rottami, qualche volta disperarono di poter tornare in superficie. Non si stancarono mai e vinsero.

 

Il 22 giugno 1931 giungevano in coperta, tra fango e rottami, le prime due sterline d’oro. Ma doveva passare ancora un anno esatto, un anno in cui spesso le operazioni furono interrotte per il maltempo, perché si cominciasse a vedere qualcosa di sostanzioso.

 

Finalmente, il 22 giugno 1932, ecco i primi lingotti d’oro, e da quel momento la campagna di recupero comincia a marciare a ritmo più spedito per terminare, spesso avversata dalle tempeste, nel 1934. Alla fine l’inventario del tesoro recuperato dava le seguenti cifre: 83.300 sterline d’oro, 865 barre d’oro puro, 54 quintali d’argento.

 

Conclusa questa favolosa avventura che fu seguita, da tutto il mondo con ansia e ammirazione (il “Times” tenne a bordo quattro anni il suo inviato speciale David Scott, che scrisse due libri andati a ruba in Inghilterra e in America), l’“Artiglio” intraprese altre numerose campagne di recupero, isolato o in collaborazione con le altre unità della “SO.RI.MA.” che per anni ebbero le loro basi a Saint Nazaire, Brest, Morlaix  in Francia e a Freetown nella Sierra Leone, East London nel Sud Africa. I suoi palombari compirono altre migliaia di immersioni, le sue benne affondarono altre migliaia di volte nei fondi melmosi e tra le lamiere contorte.

 

 

Gian Paolo Olivari

Rapallo, 2 Gennaio 2014

 

 

 


CARLO FECIA DI COSSATO

Carlo FECIA di COSSATO

Carlo Fecia di Cossato nacque a Roma il 25 settembre 1908 da una famiglia di tradizioni militari: il bisnonno, aiutante di campo di Re Carlo Alberto, e il nonno furono decorati durante le guerre d'indipendenza; il padre invece capitano di vascello fu costretto a lasciare la marina in seguito ad un incidente in Cina in cui perse un occhio. Dopo aver ultimato gli studi al Collegio Militare di Moncalieri entrò in Accademia Navale a soli quindici anni nel 1923. Uscì nel 1928 con il grado di guardiamarina e l'anno successivo fu promosso Sottotenente di Vascello; nel 1931 fu destinato al Distaccamento Marina di Pechino. Rientrato in patria il Corso Superiore e fu promosso Tenente di Vascello; durante la guerra Etiopica fu incaricato della sistemazione difensiva del fronte a mare della zona di Massaua. Nel 1939 seguì la Scuola Comando Sommergibili, partecipando tra l'altro a due "missioni speciali" durante la guerra spagnola.

Il 10 giugno 1940 Carlo Fecia di Cossato era comandante del sommergibile Ciro Menotti, una delle unità più vecchie della nostra flotta subacquea, alle dipendenze della 34° Sq Sommergibili di base a Messina. Con questo vecchio sommergibile effettuò varie missioni infruttuose di agguato nel Mediterraneo Centrale poi viene trasferito in Atlantico come comandante in seconda del sommergibile Tazzoli, e con questo incarico partecipa ad un missione in Atlantico che termina il 13 gennaio 1941.

Le sue caratteristiche tecniche erano:

 costruzione a doppio scafo completo 
- dislocamento: 1.530 t (in superficie) - 2.032 t (in immersione)
 - dimensioni: 84,3 m (lungh.) - 7,71 m (largh.) – (5,14 m (pescaggio medio)
- profondità di collaudo: 100 m (con coefficiente di sicurezza 3)
 - potenza app. motore: 4.400 HP (in sup.) - 1.800 HP (in imm.)
- velocità max.: 17,1 nd (in sup.) - 7,9 nd (in imm.)
 - autonomia: 11.400 mg a 8 nd - 5.600 mg a 14 nd (in sup.); 7 mg a 7,9 nd - 120 mg a 3 nd (in imm.)
 - armamento: 8 TT.LL.SS. da 533 mm (4 a prora e 4 a poppa); 12 siluri in dotazione; 2 cannoni da 120/45 (uno a proravia e uno a poppavia della falsa torre); 4 mitragliere binate da 13.2 mm (in plancia, a poppavia); 2 lanciamine nell’intercapedine a poppa, con 14 mine (solo il TAZZOLI)
- equipaggio: 7 Ufficiali, 14 S/Ufficiali, 46 Sottocapi e Comuni

 

La mattina del 5 aprile 1941, appena promosso Capitano di Corvetta e al comando del sommergibile Tazzoli, di Cossato parlò così al suo equipaggio: "Se qualcuno vuole sbarcare lo dica subito, io intendo partire con gente decisa a tutto. Se qualcuno non si sente venga avanti, non ha nulla da vergognarsi", nessuno si mosse e allora Fecia di Cossato li ringrazio uno ad uno. Il 7 Aprile il sommergibile salpo da Bordeaux per la prima missione in Atlantico di Cossato. Era l'inizio di una leggenda: nella prima missione vennero affondati il piroscafo inglese Aurillac (4.733 tonnellate), il mercantile norvegese Fernlane (4.310 tonnellate) e la petroliera norvegese Alfred Olsen (8.817 tonnellate). Per affondare la grossa petroliera fu necessario un inseguimento durato un intero giorno in mezzo ad una fitta banchina di nebbia e ingaggiando con essa un lungo duello di artiglieria, molto rischioso per lo stesso sommergibile. Durante il viaggio di ritorno fu infine abbattuto un aereo antisommergibile. Per questa missione Fecia di Cossato fu decorato con la Medaglia d'Argento al V.M. In una successiva missione del luglio 1941 riuscì ad affondare solamente la motocisterna Sildra (7.313 tonnellate) per poi dover rientrare, con un'elica spezzata dalle bombe di profondità, senza poter cogliere altri successi, ricevendo comunque la Medaglia di Bronzo al V.M. E qui emerge il carattere mai domo di Carletto (così era chiamato affettuosamente a bordo del sommergibile) che si rammarica di ogni occasione perduta e se la prende con il sommergibile ogni volta che non riesce a raggiungere una nave avvistata: "dopo ogni mancata occasione era intrattabile, si metteva a passeggiare nervosamente lungo tutta la coperta soffermandosi a prua con la speranza di riavvistare la nave che gli era sfuggita". In una successiva missione partecipò al recupero di 414 naufraghi dei raiders tedeschi Atlantis e Python ricevendo al termine della missione, con gli altri comandanti italiani che avevano partecipato alla missione, la croce di ferro tedesca per mano dell'Amm Dönitz. Con l'entrata in guerra dell'america i sommergibili italiani, per le loro ottime caratteristiche di autonomia furono destinati ad operare in quei mari lontani.

Cossato, salpato l'11 febbraio 1942, dopo non essere riuscito ad affondare una grossa petroliera manda a picco il piccolo piroscafo olandese Astrea (1.406 tonnellate) il 6 marzo e nella stessa notte anche la motonave norvegese Tonsbergfjord (3.156 tonnellate). L'8 è il turno del piroscafo uruguayano Montevideo (5.785 tonnellate ) dopo un inseguimento durato tutto il pomeriggio e concluso solo a notte fonda. L' 11 marzo a sole cinque miglia dall'isola di San Salvador due siluri affondano il cargo panamense Cygnet (3.628 tonnellate); in questo situazione di pericolo Carlo Fecia di Cossato emerse per controllare che tutti i naufraghi stessero bene, e poiché aveva udito il giorno prima che da una trasmissione radio americana che "nessun sommergibile italiano osava venire ad operare sulle coste statunitensi" agitò più volte il tricolore gridando in inglese ai naufraghi: "dite agli americani che siete stati affondati da un sommergibile italiano!". Il 13 marzo dopo essersi avvicinato in immersione Cossato centrò con due siluri il piroscafo inglese Daytoniam (6.434 tonnellate), che fini poi con un terzo siluro. Il 15 dopo aver immobilizzato con due siluri la petroliera inglese Athelqueen ( 8.780 tonnellate ) emerse per finirla, ma fu accolto a cannonate e fu costretto a rimmergersi: tentando di riportarsi a quota periscopica il sommergibile fu speronato dalla petroliera, nell'urto la prua si piegò rendendo inservibili i tubi di prua; allora Fecia di Cossato emerse e con un rabbioso duello di artiglieria mandò a picco la nave nemica. Nel viaggio di ritorno incontrò numerose navi, ma suo malgrado non poteva attaccarle per i danni riportati. Rientrò a Bordeaux il 31 marzo, dove lo aspettava la sua seconda Medaglia d'Argento al V.M.

Galleria Fotografica

Dopo che il suo secondo Gianfranco Gazzana Priaroggia, lo aveva lasciato per comandate il sommergibile Da Vinci, iniziò una gara incessante su chi tornava a casa con più navi nemiche affondate; nelle successive missioni Carlo Fecia di Cossato continuò ad affondare navi nemiche a ritmi incredibili, tanto da meritarsi l'appellativo di "Corsaro dell'Atlantico", sempre però comportandosi in maniera encomiabile tanto che in due successive missioni accolse tre naufraghi poiché il mare grosso li avrebbe messo in pericolo. In una missione dato che un suo marinaio si era gravemente ferito, lo fece sistemare nella sua cuccetta e lui fino alla fine della missione non toccò più il letto, alla domanda di un suo ufficiale: "comandante perché non dorme un pò - rispose - altrimenti non mi sveglierei più!".

In effetti le lunghe e faticose missioni avevano deperito di molto il fisico di Fecia di Cossato e quindi per motivi di salute nel febbraio del 1943 fu trasferito a comandare la 3° Sq Torpediniere a bordo della Tp Aliseo. A conferma delle qualità straordinarie di Carlo, il suo sommergibile andò perduto alla prima missione senza di lui. Fino a quel momento aveva affondato 16 navi nemiche per complessive 86.535 tsl: la sfida con il suo amico Cazzana Priaroggia, scomparso in mare con il suo sommergibile, finì in parità poiché quest'ultimo affondò solo 11 navi ma per complessive 90.601 tsl!

 

Promosso Capitano di Fregata, Fecia di Cossato, si meritò la Croce di Cavaliere il 19 marzo 1943 ed una Croce di Guerra nel luglio dello stesso anno. Sorpreso dall'armistizio nel porto di Bastia, e volendo ubbidire all'ordine del re di consegnare la flotta al vecchio nemico, uscì in mare la mattina successiva ma constatando l'aggressione che 2 cacciasommergibili e 7 ms. tedesche stavano portando al porto ed altre navi impossibilitate a difendersi, attacco con incredibile decisione e dopo un durissimo combattimento durato più di un'ora affondò tutte le navi tedesche, poi diresse per Malta.

Gli avvenimenti politico-militari dei mesi successivi scossero la profonda integrità militare di Fecia di Cossato, che si sentì tradito; amareggiato per le sorti dell'Italia e per la resa della Marina, che riteneva ignobile e priva di risultati, il 21 agosto scrisse una lettera di addio alla madre e il 27 agosto 1944 si suicidò. La Medaglia d'Oro al Valore Militare gli fu conferita postuma nel 1949, tutt'oggi un sommergibile della Marina Militare porta il nome di Fecia di Cossato.

 

Sotto il comando di FECIA di COSSATO (apr.‘41- feb.’43) il TAZZOLI compie ben sei lunghe missioni in Atlantico, spingendosi fin sotto le coste americane e affondando altre 16 navi mercantili:

 - P.fo AURILLAC di 4.733 t. inglese (15.4.41)
 - M/n FERNLANE di 4.310 t. norvegese (7.5.41)
 - Petr. ALFRED OLSEN di 8.817 t. norvegese (9.5.41)
 - Petr. SILDRA di 7.313 t. norvegese (19.8.41)
 - P.fo ASTREA di 1.406 t. olandese (6.3.42)
 - M/n TÖNSBERGFJORD di 3.156 t. norvegese (7.3.42)
 - P.fo MONTEVIDEO di 5.785 t. uruguaiano (9.3.42)
 - P.fo CYGNET di 3.628 t. panamense (11.3.42)
 - P.fo DAYTONIAN di 6.434 t. inglese (13.3.42)
 - Petr. ATHELQUEEN di 8.780 t. inglese (15.3.42)
 - P.fo CASTOR di 1.830 t. olandese (1.8.42) 
- Petr. HAVSTEN di 6.161 t. norvegese (6.8.42)
 - P.fo EMPIRE HAWK di 5.032 t. inglese (12.12.42)
 - P.fo OMBILIN di 5.658 t. olandese (12.12.42) 
- P.fo QUEEN CITY di 4.814 t. inglese (21.12.42)
 - P.fo DONA AURORA di 5.011 t. statunitense (25.12.42)

 

per un totale di quasi 83.000 t., un primato personale superato più tardi (per tonnellaggio, ma non per numero di navi) soltanto da quello di GAZZANA PRIAROGGIA (11 navi per oltre 90.000 t).

 Dal 7 al 29 dicembre ’41 partecipa, partendo da Bordeaux con altri tre battelli italiani, al salvataggio dei naufraghi (oltre 400) delle navi tedesche ATLANTIS e PYTHON, affondate sotto le Isole del Capo Verde

 

 

 

 

 

Un’impresa eccezionale, caso unico nella storia della marineria, di salvataggio a circa 1500 miglia di distanza; impresa che fece guadagnare a FECIA di COSSATO (e agli altri Comandanti) un’importante decorazione tedesca da parte dell’Amm. Dönitz.

 

 

Mamma carissima,

 

quando riceverai questa mia lettera, saranno successi dei fatti gravissimi che ti addoloreranno molto e di cui sarò il diretto responsabile. Non pensare che io abbai commesso quello che ho commesso in un momento di pazzia, senza pensare al dolore che ti procuravo. Da nove mesi ho molto pensato alla tristissima posizione morale in cui mi trovo, in seguito alla resa ignominiosa della Marina, a cui mi sono rassegnato solo perché ci è stata presentata come un ordine del Re, che ci chiedeva di fare l'enorme sacrificio del nostro onore militare per poter rimanere il baluardo della Monarchia al momento della pace. Tu conosci che cosa succede ora in Italia e capisci come siamo stati indegnamente traditi e ci troviamo ad aver commesso un gesto ignobile senza alcun risultato. Da questa triste constatazione me ne è venuta una profonda amarezza, un disgusto per chi ci circonda e, quello che più conta, un profondo disprezzo per me stesso. Da mesi, Mamma, rimugino su questi fatti e non riesco a trovare una via d'uscita, uno scopo alla mia vita.

 

Da mesi penso ai miei marinai del Tazzoli che sono onorevolmente in fondo al mare e penso che il mio posto sia con loro.

 

Spero, Mamma, che mi capirai e che anche nell'immenso dolore che ti darà la mia notizia della mia fine ingloriosa, saprai capire la nobiltà dei motivi che mi hanno guidato. Tu credi in Dio, ma se c'è un Dio non è possibile che non apprezzi i miei sentimenti che sono sempre stati puri e la mia rivolta contro la bassezza dell'ora. Per questo, Mamma, credo che ci rivedremo un giorno.

 

Abbraccia papà e le sorelle e a te, Mamma, tutto il mio affetto profondo e immutato. In questo momento mi sento molto vicino a tutti voi e sono sicuro che non mi condannerete.

 

 

A cura di Carlo GATTI

 

Bibliografia: sito della REGIA MARINA

 

RICORDO DI GIULIANO GOTUZZO

CARLO FECIA DI COSSATO - Medaglia d'Oro al Valor Militare

 

Questo foglio lo aggiungo in un secondo tempo per spiegare il perché di questa foto e di questa lettera successiva. Ho vissuto un tempo che per di più fu esaltante, ma che a me non esaltò affatto; parlo del dopo l'8 settembre. Io allora avevo 12 anni e non finirò di ringraziare il Padre Nostro per questo fatto. A chi era più grande di me e fu costretto ad una scelta tra la montagna o le rive di un lago dice oggi ed avrei voluto dire allora: "Pace fratelli, nella truce era dei lupi".

Senza un preciso motivo, ma solo per la passione che mi ha sempre animato, io avrei avuto un dilemma diverso: andare a Malta o autoaffondarmi. Ecco il perché di questa foto! Premesso che l'ordine di andare a Malta arrivò per ordine del Re.

 

Detto anche che allora la Marina era la Regia Marina e che quasi tutti gli ufficiali per affetto e per simpatia, per radicate tradizioni della famiglia da cui provenivano erano tutti legati o quasi alla persona del Re. Così  l'8 Settembre arrivò l'ordine di cessare le attività  e di rispondere agli attacchi da qualunque altra parte venissero. Carlo Fecia di Cossato era al comando dell'Aliseo nel porto di Bastia. Mosse subito la sua nave per uscire dal porto. Fu attaccato da 7 imbarcazioni che da alleate si trasformarono in nemiche. Una dopo l'altra le affondò tutte  e  durante il combattimento trovò il tempo di strapparsi le  onorificenze tedesche che aveva sul petto e che aveva guadagnate nel periodo precedente al comando del sommergibile Tazzoli di base a Betasom. Era infatti uno degli assi della guerra in Atlantico. Nel Giugno del 44' a Taranto fu protagonista di un episodio che lo esalta ancor di più.

 

Lui e i suoi colleghi ufficiali che avevano per obbedienza al Re fatto un enorme sacrificio appresero con grave disappunto che alcuni ministri giunti da altre nazioni si erano rifiutati di prestare giuramento al Re. Scoppiò una quasi rivolta ed i marinai si rifiutarono di far uscire le navi e manifestarono in massa in favore di Carlo Fecia di Cossato. Il quale sbarcato, due mesi dopo, a Napoli, pose fine alla sua vita raggiungendo idealmente i suoi marinai del Tazzoli che nel frattempo era affondato in Oceano.

 

di Giuliano Gotuzzo

 

(Per gentile concessione di Nuccia Gotuzzo)

Rapallo, 2 Gennaio 2014

 


HMS INFLEXIBLE - Malta, 1913

 

HMS Inflexible

Malta, 1913

LE FOTO RACCONTANO

 

 

Le fotografie d'epoca, soprattutto quando realizzate "da lastra", beneficiano di una nitidezza, di un'incisione" e di qualità generali di livello superiore, consentendo ad un attento osservatore – nel contempo - di osservare tutta una serie di dettagli realmente interessanti se non addirittura, in non pochi casi, curiosi o inusuali.

 

Il Notiziario del CSTN riprende una tematica già sviluppata in passato, riprendendo a presentare in ogni fascicolo - a partire da questo numero - una fotografia ormai facente parte della storia fotografico-navale più generalmente intesa con caratteristiche di particolare livello tecnico, importanza storica e valenza documentale.

Foto n.1

 

HMS Inflexible, Malta, estate 1913  (Foto Studio Ellis, Malta – Coll.M.Brescia)

Iniziamo con un'immagine scattata a Malta, nell'estate estate del 1913, opera del noto studio fotografico "Ellis", attivo a La Valletta dalla fine dell'800 sino ai primi anni Trenta del secolo XX: vi è raffigurato l'incrociatore da battaglia Inflexible, nave di bandiera del 2nd Battlecruiser Squadron della Mediterranean Fleet, del quale fanno parte anche l'Invincible e l'Indomitable. Si notino l'assenza delle reti parasiluri e la banda bianca sul fumaiolo anteriore che contraddistingue l'unità nell'ambito del reparto di appartenenza; il rimorchiatore a ruote in primo piano é l'HMSCracker, mentre la "pre-dreadnought" ormeggiata di poppa all'Inflexible é, con ogni probabilità, la King Edward VII.

 

La fotografia è stata scattata da una posizione abbastanza inconsueta per i fotografi navali maltesi: difatti, all'epoca (e sino agli anni del secondo dopoguerra) la maggioranza delle navi militari veniva fotografata dai bastioni orientali della città della Valletta con - sullo sfondo - i sobborghi di Senglea e Vittoriosa, il "Dockyard Creek" e Fort St. Angelo.

 

Foto n.2

Il Grand Harbour di Malta, La Valletta e il circondario con - evidenziate - la posizione dell'HMS

 

Inflexible (in rosso) e quella di fort. St. Angelo (in blu), da dove venne scattata la fotografia.

Al contrario questa immagine raffigura l'Invincible e le altre unità con la prora verso l'imboccatura del Grand Harbour, con i contrafforti degli "Upper Barrakka Gardens" sullo sfondo: di conseguenza, in considerazione delle posizioni relative dei vari elementi raffigurati, è stata scattata invece guardando verso ponente da una posizione sopraelevata, verosimilmente ubicata alla sommità di Fort. St. Angelo (si veda la cartina n. 2) –

Foto n.3

Il dettaglio del rimorchiatore HMS Cracker

 

Come evidenziavamo in precedenza, la stampa è eccezionalmente nitida per un documento fotografico risalente ad un secolo fa: ne è la prova il dettaglio del rimorchiatore HMS Cracker (foto n. 3) - utilizzato a dalla Royal Navy nel "Dockyard" (Arsenale) di Malta tra gli ultimi due decenni del secolo XIX e gli anni Trenta: in particolare evidenzia il metodo di propulsione "a pale" di questo mezzo d'uso portuale.

Foto n.4

 

Il dettaglio dell'equipaggio dell'HMS Inflexible schierato per la foto "ufficiale", con il fotografo indicato dalla freccia rossa.

 

Ma l'elemento più interessante è quello della foto n. 4, raffigurante il castello di prora dell'HMS Infvicible come si può notare, l'equipaggio è "in posa" sul ponte di castello, sulla torre binata prodiera da 305 mm e sui vari livelli della plancia comando mentre - indicato dalla freccia rossa - un fotografo munito di una grossa fotocamera "a treppiede" sta scattando una foto alla "ship's company" dell'unità. Come era uso all'epoca, per realizzare una foto "di gruppo" di questo genere gli ufficiali (con il comandate al centro) sono seduti nelle prime file, mentre il resto dell'equipaggio è in piedi o in altre posizioni, con alcuni marinai collocati anche a cavalcioni delle volate dei cannoni della torre di grosso calibro prodiera.

Un'immagine "del tempo che fu", dunque ma che - come tutte le fotografie navali del passato - ha il pregio di far rivivere l'atmosfera ormai trascorsa delle grandi unità corazzate armate con cannoni di grosso calibro: un aspetto della guerra sul mare definitivamente consegnato al passato ma il cui ricordo - grazie a immagini come questa che presentiamo oggi, può essere mantenuto vivo ancora ai nostri giorni.

 

 

Maurizio BRESCIA

Rapallo, 2 Gennaio 2014

 



GLI EROI DI ALESSANDRIA

GLI EROI DELL'IMPRESA DI ALESSANDRIA

L'attacco ad Alessandria (18 - 19 dicembre 1941)

« ...sei Italiani equipaggiati con materiali di costo irrisorio hanno fatto vacillare l'equilibrio militare in Mediterraneo a vantaggio dell'Asse. » (Wiston Churchill)

 

 

 

Luigi Durand de la Penne ed altri cinque eroi hanno affondato le navi inglesi Valiant e Queen Elizabeth. La loro impresa é passata alla storia per audacia, coraggio e grande sangue freddo. Si servirono di tre S.L.C. (siluri a lenta corsa) trasportati dal sommergibile-appoggio Scirè comandato dal Capitano di Fregata J.V. BORGHESE che fu anche l’ideatore dell’Operazione G.A.3.

CHI ERANO?

Luigi Durand de la Penne - Tenente di Vascello

Medaglia d'oro al Valor Militare

“Ufficiale coraggioso e tenace, temprato nello spirito e nel fisico da un duro e pericoloso addestramento, dopo aver mostrato, in due generosi tentativi, alto senso del dovere e di iniziativa, forzava, al comando di una spedizione di mezzi d'assalto subacquei, una delle più potenti e difese basi navali avversarie, con una azione in cui concezione operativa ed esecuzione pratica si armonizzavano splendidamente col freddo coraggio e con l'abnegazione degli uomini.
Dopo aver avanzato per più miglia sott'acqua e superando difficoltà ed ostacoli di ogni genere fino all'esaurimento di tutte le sue forze, disponeva la carica sotto una nave da battaglia nemica a bordo della quale veniva poi tratto esausto. Conscio di dover condividere l'immancabile sorte di coloro che lo tenevano prigioniero, si rifiutava di dare ogni indicazione sul pericolo imminente e serenamente attendeva la fine, deciso a non compromettere l'esito della dura missione.
Rimasto miracolosamente illeso, vedeva, dalla nave ferita a morte, compiersi il destino delle altre unità attaccate dai suoi compagni. Col diritto alla riconoscenza della Patria conquistava il rispetto e la cavalleresca ammirazione degli avversari; ma non pago di ciò, una volta restituito alla Marina dopo l'armistizio, offriva nuovamente se stesso per la preparazione e l'esecuzione di altre operazioni, sublime esempio di spirito di sacrificio, di strenuo coraggio e di illuminato amor di Patria.
Alessandria d'Egitto, 18 - 19 dicembre 1941.”

Nacque a Genova l'11 febbraio 1914. Dopo aver conseguito il diploma di Capitano Marittimo presso l'Istituto Nautico San Giorgio di Genova, nell'ottobre 1934 frequentò, presso l'Accademia Navale di Livorno, il Corso Ufficiali di complemento, al termine del quale, nel grado di Guardiamarina, imbarcò sul cacciatorpediniere Fulmine.Nel 1935 passò ad operare nell'ambito della 6a Squadriglia MAS di La Spezia e, trattenuto in servizio per esigenze eccezionali, connesse al conflitto italo-etiopico, nel 1938 conseguì la promozione a Sottotenente di Vascello. Nel secondo conflitto mondiale partecipò a numerose missioni con i MAS nel Mediterraneo e nell'ottobre 1940 conseguì la promozione a Tenente di Vascello. 
Passato ad operare con il Gruppo mezzi d'assalto, partecipò alla missione di Gibilterra (30 ottobre 1940) e all'impresa di forzamento della base inglese di Alessandria - Capogruppo dei "maiali" 221, 222 e 223 condotti rispettivamente dallo stesso Luigi Durand de la Penne, da Vincenzo Martellotta, e Antonio Marceglia, coadiuvati dai capi palombari Emilio Bianchi e Mario Marino e dal sottocapo Spartaco Schergat - che portò, all'alba del 19 dicembre 1941 all'affondamento delle navi da battaglia inglesi Valiant e Queen Elizabeth, della petroliera Sagona e al danneggiamento del cacciatorpediniere Jervis. De la Penne, dopo aver superato con notevoli difficoltà le ostruzioni del porto, da solo collocò la carica esplosiva sotto le torri di prora della Valiant e, risalito in superficie, venne scoperto e fatto prigioniero.
Portato a bordo con il 2° capo Emilio Bianchi, secondo operatore del suo mezzo, fu rinchiuso in un locale adiacente al deposito munizioni e vi fu tenuto anche dopo che ebbe informato il comandante dell'unità inglese, Capitano di Vascello Morgan, dell'imminenza dello scoppio della carica, al fine di far porre in salvo l'equipaggio.Uscito indenne dall'esplosione che affondò la nave, tradotto prigioniero in India, nel febbraio 1944 rimpatriò a partecipò alla guerra di liberazione nel Gruppo Mezzi d'Assalto.Tutti gli operatori vennero poi decorati di Medaglia d'Oro al Valore Militare e promossi per merito di guerra. La consegna della decorazione a Luigi Durand de la Penne avvenne a Taranto nel marzo 1945 e fu l'occasione di uno storico episodio: fu infatti lo stesso comandante della Valiant nel 1941, Capitano di Vascello Sir Charles Morgan, divenuto ammiraglio, che decorò Luigi Durand de la Penne, su invito del luogotenente del Regno Umberto di Savoia che presiedeva la cerimonia. 
Promosso Capitano di Corvetta in data 31 dicembre 1941, Capitano di Fregata nel 1950 e Capitano di Vascello a scelta eccezionale nel 1954, nell'ottobre 1956 fu Addetto Navale in Brasile quindi, per mandato politico a seguito della sua elezione a Deputato al Parlamento (2a, 3a , 4a, 5a e 6a legislatura), fu collocato in aspettativa ed iscritto nel Ruolo d'Onore, dove raggiunse il grado di Ammiraglio di Squadra. 
L'Ammiraglio di Squadra (R.O.) Luigi Durand de la Penne morì a Genova il 17 gennaio 1992.

 

Altre decorazioni e riconoscimenti per merito di guerra:

 

•              Medaglia d'Argento al Valore Militare sul Campo (Gibilterra, 1940);

 

•              Trasferimento in s.p.e. nel grado di Tenente di Vascello (1941);

 

•              Promozione al grado di Capitano di Corvetta (1941).

 

Antonio MARCEGLIA Capitano del Genio Navale

Medaglia d'oro al Valor Militare

“Ufficiale di altissimo valore, dopo aver dedicato tutte le sue forze ad un pericoloso e logorante periodo di addestramento, prendeva parte ad una spedizione di mezzi d'assalto subacquei che forzava una delle più potenti e difese basi navali avversarie, con un'azione in cui concezione operativa ed esecuzione pratica si armonizzavano splendidamente col freddo coraggio e con l'abnegazione degli uomini.
Dopo aver avanzato per più miglia sott'acqua e superando difficoltà ed ostacoli di ogni genere, disponeva la carica sotto una nave da battaglia avversaria e, dopo aver distrutto l'apparecchio, prendeva terra sul suolo nemico dove veniva fatto prigioniero, non prima, però, di aver visto il pieno successo della sua azione.
Luminoso esempio di cosciente eroismo e di alto spirito di sacrificio, si palesava degno in tutto delle gloriose tradizioni della Marina Italiana. Non pago di ciò, una volta restituito alla Marina dopo l'armistizio, offriva nuovamente se stesso per la preparazione e l'esecuzione di altre operazioni.
 Alessandria, 18 - 19 dicembre 1941”

 

Nacque a Pirano (Pola) il 28 luglio 1915. Allievo dell'Accademia Navale nel Corpo del Genio Navale dal 1933, nel dicembre 1938 conseguì la nomina a Sottotenente del Genio Navale e, dopo la laurea ottenuta con il massimo dei voti nello stesso anno all'Università di Genova, conseguì la promozione a Tenente.
 Destinato prima presso il Comando Militare Marittimo Autonomo dell'Alto Adriatico, imbarcò poi su sommergibili e, alla dichiarazione di guerra dell'Italia del 10 giugno 1940, si trovava imbarcato sul sommergibile Ruggiero Settimo, con il quale partecipò a tre missioni in Mediterraneo. Nell'ottobre 1940, a domanda, passo nel Gruppo Mezzi d'Assalto e dopo un duro addestramento partecipò a due missioni contro la base navale inglese di Gibilterra (maggio e settembre 1941).
 Promosso Capitano G.N. nel gennaio 1941, nel dicembre dello stesso anno partecipò all'audace missione di forzamento del porto di Alessandria - condotta nella notte dal 18 al 19 dicembre, nell'incarico di 1° operatore del mezzo speciale 223 (2° operatore Palombaro Spartaco Schergat - che culminò con l'affondamento di due navi da battaglia inglesi (Valiant e Queen Elizabeth) e della petroliera Sagona e col danneggiamento del cacciatorpediniere britannico Jervis. Dopo l'azione condotta con successo contro la corazzata Queen Elizabeth, fu fatto prigioniero a condotto al campo per prigionieri di guerra n. 321, in Palestina, quindi fu trasferito in India.
 Rimpatriato nel febbraio 1944, partecipò alla guerra di liberazione con i Mezzi d'Assalto, compiendo una missione di guerra nell'Italia occupata dai tedeschi. Posto in congedo, a domanda, nel dicembre 1945 ed iscritto nel Ruolo del complemento con il grado di Tenente Colonnello G.N., assunse a Venezia la direzione di un cantiere navale.
 Il Tenente Colonnello G.N. Antonio Marceglia è morto a Venezia il 13 luglio 1992.
 Altre decorazioni e riconoscimenti per merito di guerra:

•              Medaglia d'Argento al Valore Militare sul Campo (Gibilterra, maggio 1941);

 

•              Croce di Guerra al Valore Militare sul Campo (Gibilterra, settembre 1941);

 

•              Promozione a Maggiore Genio Navale (1941).

 

Vincenzo MARTELLOTTA Capitano delle Armi Navali

Medaglia d'oro al Valor Militare

“Ufficiale di altissimo valore, dopo aver dedicato tutte le sue forze ad un pericoloso e logorante periodo di addestramento, prendeva parte ad una spedizione di mezzi d'assalto subacquei che forzava una delle più potenti e difese basi navali avversarie, con un'azione in cui concezione operativa ed esecuzione pratica si armonizzavano splendidamente col freddo coraggio e con l'abnegazione degli uomini.
 Dopo aver avanzato per più miglia sott'acqua e superato difficoltà ed ostacoli di ogni genere, disponeva la carica sotto una nave avversaria e, dopo aver distrutto l'apparecchio, prendeva terra sul suolo nemico dove veniva fatto prigioniero, non prima, però, di aver visto il pieno successo della sua azione.
 Luminoso esempio di cosciente eroismo e di alto spirito di sacrificio, si palesava degno in tutto delle gloriose tradizioni della Marina Italiana. Non pago di ciò, una volta restituito alla Marina dopo l'armistizio, offriva nuovamente se stesso per la preparazione e l'esecuzione di altre operazioni.
 Alessandria, 18 - 19 dicembre 1941”.

 

Nacque a Taranto il 1° gennaio 1913. Dopo aver conseguito la maturità classica presso il Liceo Morea di Conversano (Bari) ed iscritto al 1° anno nella Facoltà di Ingegneria dell'Università di Napoli, attratto dal mare, inoltrò domanda all'Accademia Navale di Livorno e nell'ottobre 1931 fu ammesso Allievo nel Corpo delle Armi Navali.
 Nel 1934 venne destinato all'Istituto Superiore di Guerra a Torino e, presso il Politecnico di questa città, conseguì la laurea in Ingegneria Industriale. Promosso Sottotenente A.N. nel 1935 e Tenente A.N. nel 1936, nell'ottobre 1937 e dopo aver terminato il Corso integrativo presso l'Accademia Navale, fu destinato a Massaua quale Ufficiale Dirigente delle Officine Siluri e Artiglieria e dell'Autoreparto. 
Rimpatriato nel 1939, svolse incarichi prima presso la Direzione Armi Subacquee a La Spezia e poi presso il Reparto Siluri, Lanciasiluri, Torpedini e Collaudo Sommergibili a Taranto. Nell'ottobre 1940, a domanda, passo negli operatori dei mezzi d'assalto ed al termine del duro corso addestrativo partecipò all'azione su Malta il 26 luglio 1941 ed a quella su Alessandria sulla notte dal 18 al 19 dicembre 1941, che culminò con l'affondamento di due corazzate e di una petroliera inglese. Coadiuvato dal 2° operatore Capo palombaro di 3a classe Mario Marino, attaccò la petroliera Sagona affondandola e danneggiando il cacciatorpediniere britannico Jervis.
Tratto prigioniero dopo la vittoriosa azione, rimpatriò nel febbraio 1944 e partecipo alla guerra di liberazione nei Mezzi d'Assalto. Terminato il conflitto partecipò volontariamente alto sminamento ed alla bonifica dei porti di Genova, San Remo, Oneglia e Porto Maurizio, e, assieme al fratello Diego, Maggiore dei Bersaglieri ed esperto in chimica di guerra, alla bonifica dei porti di Brindisi, Bari, Barletta, Molfetta e Manfredonia.
 Nel 1947, con gli uomini del Nucleo di cui era al comando, domò un incendio sviluppatosi in un deposito di esplosivi a Bari e neutralizzo un potente aggressivo chimico fuoriuscito da un ordigno, scongiurando cosi gravissimi danni alla cittadinanza. Per questa azione, nella quale riporto ustioni da iprite tali da rendere necessario il suo ricovero in ospedale, venne decorato di Medaglia d'Argento al Valore Civile. 
Promosso Tenente Colonnello A.N. nel gennaio 1953, nel 1960, a domanda, venne collocato in ausiliaria nel grado di Colonnello A.N. Mori a Castelfranco Emilia (Modena) il 27 agosto 1973.
Altre decorazioni e riconoscimenti per merito di guerra:

•              Medaglia d'Argento al Valore Militare (Malta, luglio 1941);

 

•              Medaglia d'Argento al Valore Civile (Porto di Bari, 1947);

 

•              Promozione a Maggiore A.N. (1941).

 

Emilio BIANCHI Capo Palombaro di 3a Classe

Medaglia d'oro al Valor Militare

“Eroico combattente, fedele collaboratore del suo ufficiale, dopo averne condivisi i rischi di un tenace, pericoloso addestramento, lo seguiva nelle più ardite imprese e, animato dalla stessa ardente volontà di successo, partecipava con lui ad una spedizione di mezzi d'assalto subacquei che forzava una delle più potenti e difese basi navali avversarie, con un'azione in cui concezione operativa ed esecuzione pratica si armonizzavano splendidamente col freddo coraggio e con l'abnegazione degli uomini.
 Dopo aver avanzato per più miglia sott'acqua e superato difficoltà ed ostacoli di ogni genere, valido e fedele aiuto dell'ufficiale le cui forze erano esauste, veniva catturato e tratto sulla nave già inesorabilmente condannata per l'audace operazione compiuta. 
Noncurante della propria salvezza si rifiutava di dare ogni indicazione sul pericolo imminente, deciso a non compromettere l'esito della dura missione. Col suo eroico comportamento acquistava diritto all'ammirata riconoscenza della Patria e al rispetto dell'avversario. 
Alessandria, 18 - 19 dicembre 1941”.

 

Nacque a Sondalo (Sondrio) il 22 ottobre 1912. Volontario nella Regia Marina dal marzo 1932 ed assegnato alla categoria Palombari, frequentò il Corso di specializzazione presso la Scuola C.R.E.M. del Varignano (La Spezia) ed al termine imbarcò sulla nave idrografica Ammiraglio Magnaghi, con la quale compi poi due crociere idrografiche nell'Egeo e nel Mar Rosso.
Nel 1934 imbarcò sull'incrociatore Fiume, dove conseguì la promozione a Sottocapo, e nel 1936 venne destinato al 1° Gruppo Sommergibili di La Spezia. Conseguita la promozione a Sergente nel 1937, passò ad operare nella 1a Flottiglia MAS, dando inizio all'addestramento che lo doveva poi far diventare Operatore dei mezzi d'assalto subacquei. 
Durante il conflitto partecipò, nel grado di 2° Capo, ai due tentativi di forzamento della base inglese di Gibilterra (ottobre e novembre 1940), quindi all'audace forzamento della base di Alessandria come 2° operatore dell'LSC (maiale) n. 221 condotto dal Tenente di Vascello Luigi Durand de La Penne. Partito da bordo del sommergibile Sciré nella notte del 18 dicembre, dopo aver superato gli sbarramenti penetrò con il suo capo operatore all'interno del porto e portò il suo mezzo esplosivo sotto la chiglia della nave da battaglia inglese Valiant, che per lo scoppio, affondò all'alba del 19 dicembre. Colpito durante il tragitto da intossicazione di ossigeno, a causa del durissimo sforzo che ebbe a compiere durante le cinque ore di immersione, costretto a risalire a galla, dopo qualche tempo fu scoperto dalle sentinelle di bordo e, assieme al suo comandante, rinchiuso in un locale di bordo posto nelle immediate vicinanze della santabarbara. Salvatosi fortuitamente dopo lo scoppio della carica, che provocò l'affondamento della nave, venne condotto in un campo di concentramento e rimpatriato al termine del conflitto. Promosso per meriti di guerra Capo di 3a Classe e di 2a Classe, nel 1954, a scelta, conseguì la promozione a Capo di 1a Classe Palombaro.
Nel grado di Ufficiale del C.E.M.M. prestò successivamente servizio al Centro Subacqueo del Varignano, al Nucleo Sminamento di Genova ed infine all'Accademia Navale di Livorno, terminando la carriera nel grado di Capitano di Corvetta (CS).
Altri riconoscimenti per merito di guerra:

 

•              Promozione a Capo 3a Classe (1941);

 

•              Promozione a Capo 2a Classe (1941).

 

Mario MARINO Capo palombaro di 3^ classe

Medaglia d'oro al Valor Militare

“Eroico combattente, fedele collaboratore del suo Ufficiale, dopo averne condivisi i rischi di un tenace, pericoloso addestramento, lo seguiva nelle più ardite imprese e, animato dalla stessa ardente volontà di successo, partecipava con lui ad una spedizione di mezzi d'assalto subacquei che forzava una delle più potenti e difese basi navali avversarie, con un'azione in cui concezione operativa ed esecuzione pratica si armonizzavano splendidamente col freddo coraggio e con l'abnegazione degli uomini.
 Dopo aver avanzato per più miglia sott'acqua e superato difficoltà ed ostacoli di ogni genere, valido e fedele aiuto dell'Ufficiale; offesa a morte con ferma bravura, la nave attaccata, seguiva in prigionia la sorte del suo Capo, rifiutandosi costantemente di fornire al nemico qualsiasi indicazione.
 Superbo esempio di ardimento nell'azione e di eccezionali qualità morali.
Alessandria, 18 - 19 dicembre 1941”.

 

Nacque a Salerno il 27 marzo 1914. Volontario nella Regia Marina dal gennaio 1934 ed assegnato alla categoria Palombari, frequentò il corso presso la Scuola C.R.E.M. del Varignano (La Spezia) ed al termine fu destinato presso il Comando Marina di Gaeta.
Imbarcò poi sul cacciatorpediniere Freccia e nel 1936 sul sommergibile H.6 sul quale frequento il 1° Corso Sommozzatori ed effettuò le prime sperimentali uscite da sommergibile immerso. A corso ultimato s'imbarcò sull'esploratore da Recco, col quale partecipò a missioni di guerra durante il conflitto italo-etiopico e nella guerra di Spagna. Nel 1938 prese successivamente imbarco sulle navi appoggio Teseo e Titano e su quest'ultima frequentò il Corso per Alti Fondali. Il 4 giugno 1940 sbarcò dal Titano a passò in forza alla 1a Flottiglia MAS quale operatore subacqueo dei mezzi d'assalto ideati dal Maggiore del Genio Navale Teseo Tesei, e partecipò a missioni di guerra con i MAS. 
Promosso 2° Capo Palombaro Sommozzatore, nel maggio 1941, partecipò, nella notte tra il 26 ed il 27 luglio 1941, all'impresa di forzamento della base navale inglese di Malta nell'incarico di 2° operatore del mezzo di riserva a disposizione del Capitano delle Armi Navali Vincenzo Martellotta.
 Sempre con Vincenzo Martellotta partecipò, col semovente 222, al forzamento della base navale inglese di Alessandria del 18 e 19 dicembre 1941, coronato dal successo con l'affondamento di due navi da battaglia e di una grossa petroliera ed il danneggiamento di un cacciatorpediniere. Tratto in prigionia dopo la riuscita missione, rimpatriò nell'ottobre 1944, partecipando poi alla guerra di liberazione nel Gruppo Mezzi d'Assalto. Promosso Capo di 1a Classe nel 1949, Sottotenente del C.E.M.M. nel 1962, ebbe il comando del Gruppo S.D.A.I. di La Spezia che mantenne fino al suo collocamento in ausiliaria, avvenuto nel grado di Capitano di Corvetta (CS) nel marzo 1977.
Il Capitano di Corvetta (CS) Mario Marino è morto a Salerno l'11 maggio 1982.

Altre decorazioni a riconoscimenti per merito di guerra:

 

•              Medaglia di Bronzo al Valore Militare (Canale di Sicilia, 1941);

 

Promozione a Capo Palombaro di 3a Classe.

 

 

Spartaco SCHERGAT Palombaro

Medaglia d'oro al Valor Militare

Eroico combattente, fedele collaboratore del suo Ufficiale dopo averne condiviso i rischi di un tenace, pericoloso addestramento, lo seguiva nelle più ardite imprese e, animato dalla stessa ardente volontà di successo, partecipava con lui ad una spedizione di mezzi d'assalto subacquei che forzava una delle più potenti e difese basi navali avversarie, con un'azione in cui concezione operativa ed esecuzione pratica armonizzavano splendidamente col freddo coraggio e con l'abnegazione degli uomini.
 Dopo aver avanzato per più miglia sott'acqua e superato difficoltà ed ostacoli di ogni genere, valido e fedele aiuto dell'Ufficiale; offesa a morte con ferma bravura, la nave attaccata, seguiva in prigionia la sorte del suo Capo, rifiutandosi costantemente di fornire al nemico qualsiasi indicazione; superbo esempio di ardimento nell'azione e di eccezionali qualità morali.
Alessandria, 18 - 19 dicembre 1941”.

 

Nacque a Capodistria (Pola) il 12 luglio 1920. Volontario nella Regia Marina dal marzo 1940, ed assegnato alla categoria Palombari, al termine del corso sostenuto presso la Scuola C.R.E.M. di San Bartolomeo (La Spezia) e brevettato palombaro, a domanda, passo nella X Flottiglia MAS quale Operatore dei mezzi speciali d'assalto. 
Partecipò alle missioni di forzamento di Gibilterra del maggio e del settembre 1941 e all'impresa di Alessandria dell'alba del 19 dicembre dello stesso anno quando, 2° operatore del "maiale" condotto dal Capitano G.N. Antonio Marceglia, portò il carico di esplosivo sotto la corazzata inglese Queen Elizabeth che, per lo scoppio della carica, affondò all'alba del 19 dicembre 1941.
 Fatto prigioniero e condotto nel campo inglese n. 321 in Palestina, nell'ottobre 1944 rientrò in Patria partecipando alla guerra di liberazione nel Gruppo Mezzi d'Assalto. Congedato nel novembre 1945, fu iscritto nel Ruolo d'Onore nel grado di 2° Capo.
 Altre decorazioni e riconoscimenti per merito di guerra:

•              Medaglia di Bronzo al Valore Militare (Gibilterra, 1941);

 

•              Croce di Guerra al Valore Militare (Gibilterra, 1941);

 

•              Croce di Guerra al Valore Militare (Mediterraneo occidentale, settembre-novembre 1941); Promozione a Sergente (1941).

L'affondamento della Valiant e della Queen Elizabeth

La più celebre delle azioni della Xª Flottiglia MAS (operazione G.A.3), l'affondamento delle corazzate inglesi Valiant e Queen Elizabeth e della petroliera Sagona ormeggiate nel porto di Alessandria d'Egitto, venne effettuata il 19 dicembre 1941. Si trattò di una sorta di rivincita delle forze armate italiane per le gravi perdite navali subite nella "notte di Taranto" (ottobre 1940). È rimasta famosa come: Impresa di Alessandria.

Foto di Autore ignoto, scattata nel 1942 e ripresa dal sito regiamarina.net; la foto ritrae lo Scirè con sul ponte di coperta i contenitori per due mezzi d'assalto.

 

La notte del 3 dicembre il sommergibile Sciré, al comando dal Tenente di vascello Junio valerio Borghese lasciò La Spezia per la missione G.A.3. Fece scalo a Lero per imbarcare gli operatori dei mezzi d'assalto giunti in aereo dall’Italia. Il 14 dicembre il sommergibile si diresse verso la costa egiziana per l'attacco previsto nella notte del 17. A causa di una violenta mareggiata l'azione ritardò di un giorno.  “Tutto il male non vien per nuocere”, recita un vecchio adagio. Infatti, la notte del 18, il mare spianò completamente, non solo, ma proprio quella notte i nostri eroi approfittarono dell'arrivo di tre cacciatorpediniere per entrare nel varco aperto nelle difese del porto. I treSCL (Siluro a lunga corsa), pilotati ciascuno da due uomini, penetrarono nella base per dirigersi verso i loro obiettivi. Capogruppo dei "maiali" 221, 222 e 223 condotti rispettivamente dallo stesso Durand de la Penne, Vincenzo Martellotta, e Antonio Marceglia, coadiuvati dai capi palombari Emilio Bianchi e Mario Marino e dal sottocapo Spartaco Schergat.

 

Gli incursori dovevano giungere sotto la chiglia del proprio bersaglio, piazzare la carica d'esplosivo e successivamente abbandonare la zona dirigendosi a terra e autonomamente cercare di raggiungere il sommergibile che li avrebbe attesi qualche giorno dopo al largo di Rosetta.

Siluro a lenta corsa detto comunemente “MAIALE” – (Museo Sacrario delle Bandiere delle Forze Armate, Vittoriano - Roma.

 

Il sommergibile Scirè, dopo una navigazione in zona minata, si portò davanti al porto di Alessandria d'Egitto «a 1,3 miglia nautiche, per 356° dal Fanale del molo di ponente del porto commerciale di Alessandria, in fondale di m.15» e da lì lasciò partire la flottiglia di maiali che attaccarono le navi inglesi ancorate nel porto. Antonio Marceglia e Spartaco Schergat affondarono la corazzata Queen Elizabeth, Vincenzo Martellotta e Mario Marino la petroliera Sagona e danneggiarono il cacciatorpediniere Jervis.

Nave da Battaglia HMS Valiant

L'equipaggio Durand de la Penne  - Bianchi  sul maiale nº 221 puntò verso la nave da battaglia Valiant. Perso il secondo a causa di un malore, Durand de la Penne trascinò sul fondo il proprio mezzo fino a posizionarlo sotto la carena della nave da battaglia prima di affiorare, essere catturato e portato proprio sulla corazzata. Dopo poco, gli inglesi catturarono anche Bianchi, che era risalito alla superficie e si era aggrappato ad una boa di ormeggio della corazzata, e lo rinchiusero nello stesso compartimento sotto la linea di galleggiamento nel quale avevano portato Durand de la Penne, nella speranza di convincerli a rivelare il posizionamento delle cariche.

Alle 05,30, a mezz'ora dallo scoppio, de la Penne chiamò il personale di sorveglianza per farsi condurre dall'ammiraglio Cunningham,  comandante della Mediterranean Fleet, ed informarlo del rischio corso dall'equipaggio; ciò nonostante Cunningham fece riportare l'ufficiale italiano dov'era. All'ora prevista, l'esplosione squarciò la carena della corazzata provocando l'allagamento di diversi compartimenti mentre molti altri venivano invasi dal fumo, ma il compartimento che ospitava gli italiani rimase intatto e i due vennero evacuati insieme al resto dell'equipaggio. La Valiant e la Queen Elizabeth, grazie alle acque basse del porto non affondarono completamente e dopo lunghi lavori di riparazione furono recuperate e rimesse in servizio.

Martellotta e Marino, sul maiale nº 222, costretti a navigare in superficie a causa di un malore del primo, condussero il loro attacco alla petroliera Sagona. Dopo aver preso terra vennero anch'essi catturati dagli egiziani. Intorno alle sei del mattino successivo ebbero luogo le esplosioni. Quattro navi furono gravemente danneggiate nell'impresa: oltre alle tre citate anche il cacciatorpediniere HMS Jervis, ormeggiato a fianco della Sagona, fu infatti vittima delle cariche posate dagli assaltatori italiani.

Nave da battaglia QUEEN ELIZABETH

Marceglia e Schergat sul maiale nº 223, in una «missione perfetta», «da manuale» rispetto a quelle degli altri operatori, attaccarono invece la Queen Elizabeth, alla quale agganciarono la testata esplosiva del loro maiale, quindi raggiunsero terra e riuscirono ad allontanarsi da Alessandria, per essere catturati il giorno successivo, a causa dell'approssimazione con la quale il nostro servizio segreto militare, il SIM, aveva preparato la fuga: vennero date agli incursori banconote che non avevano più corso legale in Egitto e per cercare di cambiare le quali l'equipaggio perse tempo. Nonostante il tentativo degli italiani di spacciarsi per marinai francesi appartenenti all'equipaggio di una delle navi in rada, vennero riconosciuti e catturati.

 

Sebbene l'azione fosse stata un successo, le navi si adagiarono sul fondo, e non fu immediatamente possibile avere la certezza che non fossero in grado di riprendere il mare. Nonostante tutto, le perdite di vite umane furono molto contenute: solo 8 marinai persero la vita.

 

L'azione italiana costò agli inglesi, in termini di naviglio pesante messo fuori uso, come una battaglia navale perduta e fu tenuta per lungo tempo nascosta anche a causa della cattura degli equipaggi italiani che effettuarono la missione. La Valiant subì danni alla carena in un'area di 20 x 10 m a sinistra della torre A, con allagamento del magazzino munizioni A e di vari compartimenti contigui. Anche gli ingranaggi della stessa torre vennero danneggiati e il movimento meccanico impossibilitato, oltre a danni all'impianto elettrico. La nave dovette trasferirsi a Durban  per le riparazioni più importanti che vennero effettuate tra il 15 aprile ed il 7 luglio 1942. Le caldaie e le turbine rimasero però intatte. La Queen Elizabeth invece fu squarciata sotto la sala caldaie B con una falla di 65 x 30 m che passava da dritta a sinistra, danneggiando l'impianto elettrico ed allagando anche i magazzini munizioni da 4,5", ma lasciando intatte le torri principali e secondarie. La nave riprese il mare solo per essere trasferita a Norfolk, in Virginia, dove rimase in riparazione per 17 mesi.

 

Per la prima volta dall'inizio del conflitto, la flotta italiana si trovava in netta superiorità rispetto a quella britannica, a cui non era rimasta operativa alcuna corazzata la HMS Barham era stata a sua volta affondata da un sommergibile tedesco il 25 novembre 1941). La Mediterranean Fleet alla fine del 1941 disponeva solo di quattro incrociatori leggeri e alcuni cacciatorpediniere.

 

L'ammiraglio Cunningham per ingannare i ricognitori italiani decise di rimanere con tutto l'equipaggio a bordo dell'ammiraglia che, fortunatamente per lui, si appoggiò sul fondale poco profondo. Per mantenere credibile l'inganno nei confronti della ricognizione aerea, sulle navi si svolgevano regolarmente le cerimonie quotidiane, come l'alzabandiera. Poiché l'affondamento avvenne in acque basse le due navi da battaglia furono recuperate negli anni successivi, ma la sconfitta rappresentò un colpo durissimo per la flotta britannica, che condizionò la strategia operativa anche ben lontano dal teatro operativo del Mediterraneo. A questo proposito, Churchill scrisse:

« Tutte le nostre speranze di riuscire a inviare in Estremo Oriente delle forze navali dipendevano dalla possibilità d’impegnare sin dall’inizio con successo le forze navali avversarie nel Mediterraneo »

 

Tuttavia, contrasti tra gli Stati Maggiori dell'ASSE non permisero di sfruttare questa grande occasione di conquistare il predominio aeronavale nel Mediterraneo e occupare Malta.

 

Durante il periodo dell'armistizio de la Penne venne decorato con la medaglia d'oro al valor militare che gli venne appuntata dalcommodoro sir Charles Morgan, ex comandante della Valiant. Stessa decorazione venne concessa agli altri cinque operatori della Xª.

 

Dal sito di PPORTOFINO riportiamo:

 

DURAND DE LA PENNE, AMMIRAGLIO SIMBOLO DI PORTOFINO Subito dopo l’ingresso dei piccolo cimitero di Portofino, posto in uno dei luoghi più belli dei mondo, si vede a sinistra un busto dell’eroe di Alessandria d’Egitto, l’ammiraglio Durand De la Penne, Medaglia d’oro al Valor Militare. E’ stato donato dai portofinesi in onore e memoria e scolpito da Lorenzo Cascio – artista presente con il suo studio in Piazzetta  sulla destra, prima di salire verso la Chiesa di San Giorgio.

 

 

Visto di profilo, il busto ci dà l’esatta impressione del temperamento volitivo dell’uomo con quello sguardo deciso che ci fa ricordare la fredda risoluzione con la quale egli seppe realizzare l’affondamento, ad Alessandria d’Egitto, della corazzata inglese “Valiant”.

 

 

I suoi stessi avversari ne riconobbero appieno l’eroismo. Simbolicamente posto in un luogo dal quale si domina il mare, quel busto sta a significare l’affetto di un’intera popolazione per un uomo che ha rischiato la vita nel mare che è sempre stato l’elemento essenziale della vita portofinese. Luigi Durand De la Penne 1914 – 1992

Carlo GATTI

Rapallo, 1 Gennaio 2014

 

 

 


L'ODISSEA DEL M/n PIETRO ORSEOLO

 

L’ODISSEA del mercantile

PIETRO ORSEOLO

 

Violatore di blocco navale

 

 

NAVI BLOCCATE all’estero .....

L’episodio che tenteremo di raccontare supera in fantasia la trama di romanzi famosi. Tutto inizia il 10 giugno 1940 con la Dichiarazione di guerra da parte dell’Italia: 214 navi mercantili italiane rimasero bloccate in porti stranieri, di queste, 38 si autoaffondarono, 20 riuscirono a violare il blocco, 16 furono catturate o autoaffondate nel tentativo di violare il “blocco navale”, 47 furono impiegate in guerra dagli alleati di cui cinque affondarono nel corso dello sbarco in Normandia, e ben 8 affondate per cause imputabili ad eventi bellici, ancor prima dell’entrata in guerra dell’Italia.

L’epopea vissuta da quegli eroici equipaggi, il loro internamento e spesso l’incarcerazione alla stregua di delinquenti comuni, avvenuta ancor prima che gli Stati Uniti scendessero in guerra dopo Pearl Harbour, le intrepide e pericolose traversate nel violare il blocco navale avversario, costituiscono una delle pagine di storia più valorose che siano state scritte dagli EQUIPAGGI CIVILI italiani e che pochi conoscono perché mai propagandate a tempo debito.

 

 

La Pietro Orseolo in allestimento a Monfalcone dopo il varo, il 15 luglio 1939

 

L’odissea della Pietro Orseolo fa parte di quel capitolo della storia navale che riguarda una delle prime grandi motonavi da carico previste dalla Legge Benni. L’unità aveva le seguenti caratteristiche:

 

 

Stazza netta= 3715 t / Stazza lorda= 6344,37 t / Portata lorda= 10.307 t.  Lunghezza f.t.= 143,60 mt / Pescaggio= 7,20 m / Propulsione: 1 motore diesel FIAT 646, potenza 5000 Cv/asse / 1 Elica. Velocità = 15 nodi-16,29 (max.) Artiglieria dal 1942: 1 cannone da 105 mm - 2 mitragliere da 20 mm , 2 mitragliere da 9 mm.

 

La Pietro Orseolo, in virtù della sua elevata velocità (oltre 15 nodi), venne noleggiata dal Lloyd Triestino, che la utilizzò sulle linee per il Giappone e l'Estremo Oriente.

 

All'entrata dell'Italia nel Secondo conflitto mondiale, il 10 giugno 1940, la Pietro Orseolo si trovava a Kobe, in Giappone. Dopo un anno e mezzo d’inattività, solo tre unità che stazionavano in Estremo Oriente furono giudicate adatte all’esportazione e trasporto della gomma naturale verso la Francia dai tedeschi. Tra queste vi era la Pietro Orseolo, il suo compito era difficilissimo: violare il blocco alleato attraversando due oceani sorvegliati dai sottomarini alleati in agguato.

 

Supermarina dispose la sua partenza in modo che l'arrivo dei “violatori di blocco” nell'Atlantico settentrionale, ed in particolare nel golfo di Biscaglia, avvenisse in inverno, possibilmente con le tempeste più forti e le notti più lunghe, tali da eludere la sorveglianza alleata.

 

Dopo i necessari lavori per rimetterla in condizione di affrontare una lunga traversata senza scalo, l'Orseolo imbarcò un carico di 6.646 tonnellate di gomma grezza ed altri materiali d'interesse bellico, tra cui la vernice speciale per aerei detta agar-agar.

 

 

Camuffata da piroscafo norvegese iscritto presso il Compartimento Marittimo di Oslo, la nave lasciò Kobe la sera del 24 dicembre 1941, al comando del capitano Zustovich, un equipaggio di 48 uomini, tra cui otto ufficiali. Nelle stive erano state collocate cariche di termite da usarsi in caso di autoaffondamento.

 

Con l’entrata in guerra degli Stati Uniti, il Comandante scelse la via del- l'Oceano Pacifico e, una volta giunti a Capo Horn, la nave avrebbe risalito l’Atlantico. L’ETA (estimated time arrival) ad Irun, presso il confine franco-spagnolo, era stato calcolato per il 21 febbraio 1942.

 

FUOCO AMICO. Due giorni dopo la partenza, due biplani giapponesi, provenienti dalla direzione del sole, bombardarono e mitragliarono ripetutamente la nave italiana scambiandola per un'unità nemica e danneggiando l'albero maestro ed il fumaiolo con il tiro delle mitragliere.

 

Dopo i festeggiamenti del nuovo anno, le prime due settimane del 1942 trascorsero tranquille, ma il 6 gennaio, incrociando il meridiano 160° Ovest, il Comandante si rese conto di essere in ritardo di ventiquatt'ore rispetto al previsto, a causa delle correnti contrarie;  decise allora di modificare la rotta e rischiare incontri pericolosi.

 

Il 15 gennaio la Pietro Orseolo, infatti, avvistò tre navi da guerra sulla dritta che navigavano in formazione ad elevata velocità. La nave italiana virò rapidamente allontanandosi senza essere avvistata. Pochi giorni dopo la nave, procedendo decisamente verso Capo Horn passò dal caldo tropicale al freddo intenso.

 

Il 25 gennaio 1942 la Pietro Orseolo doppiò Capo Horn ed entrò nell'Oceano Atlantico navigando tra i numerosi iceberg alla deriva e la nebbia fitta. La nave fece rotta verso nord, risalendo l’Atlantico tra il Brasile e la Sierra Leone. Causa il maltempo, le correnti contrarie e le deviazioni dalla rotta, la Pietro Orseolo registrò un ritardo di due giorni sull’ETA previsto.

 

La motonave, forzando i motori e tracciando rotte sempre più rischiose, giunse la sera del 22 febbraio 1942 ad Irun, presso il confine franco-spagnolo, dopo una traversata di 72 giorni e dopo aver ricuperato un giorno di navigazione sulla tabella di marcia. La nave fu scortata da tre vedette tedesche giungendo a Bordeaux il 23 aprile: aveva percorso 19.372 miglia.

 

L’equipaggio ricevette i complimenti di Supermarina, di Raeder e di Hitler, (quasi l’intero carico era infatti destinato alla Germania). Oltre a numerose decorazioni al valore, il comandante Zustovich ed il direttore di macchina ricevettero la Medaglia d'argento al valor militare, mentre gli ufficiali e l'equipaggio furono decorati rispettivamente con la Medaglia di bronzo e la Croce di guerra al valor militare.

 

DA NAVE MERCANTILE A NAVE MILITARE

 

Dopo il trionfale arrivo a Bordeaux, la veloce e moderna M/n Pietro Orseolo fu confermata per un successivo utilizzo come “violatore di blocco” con destinazione l'Estremo Oriente. Nei porti cinesi e giapponesi avrebbe imbarcato materiale bellico di primaria importanza come la gomma naturale, non reperibile in Europa. La nave italiana era quindi attesa con una certa inquietudine dalle fabbriche di armi del Terzo Reich in Francia e Germania.

 

 

La M/N Pietro Orseolo é giunta indenne a Bordeaux

 

ll 18 maggio 1942 l’unità italiana fu requisita dalla Regia Marina che la consegnò al Comando tedesco di Bordeaux per essere militarizzata.

 

L'Orseolo venne sottoposta a lavori particolari con l’installazione di un cannone da 105 mm antinave e antiaereo, quattro mitragliere: due contraeree da 20 mm, di produzione tedesca, e due da 9 mm, di fabbricazione francese.

 

Il 1º ottobre 1942 la motonave lasciò Bordeaux alla volta del Giappone, al comando del capitano Tarchioni, con 67 uomini di equipaggio di cui 21 uomini della Regia Marina e quattro della Kriegsmarine con un carico di 3.000 tonn. di merce varia. La rotta da seguire era quella dell'Oceano Indiano.

 

AVVISTAMENTI PERICOLOSI

 

Mentre si trovava al largo di Gibilterra, l'Orseolo incontrò un convoglio alleato composto da una novantina di navi, che riuscì ad evitare allontanandosi alla massima velocità per poi rientrare in rotta dopo qualche tempo. Puntò per passare al largo di Sant'Elena e  quando si trovò al traverso dell'isola dell'Ascensione, l'unità cambiò nuovamente rotta, in modo da passare ad una distanza di 550 miglia a sud del Capo di Buona Speranza. Evitati numerosi avvistamenti sospetti, il 25 ottobre la Pietro Orseolo doppiò il Capo ed entrò nell'Oceano Indiano sfruttando i venti da ovest (Quaranta ruggenti). Con una buona spinta in poppa fece rotta per lo stretto della Sonda.

 

Durante la navigazione in queste acque, furono più volte avvistate unità sospette e la nave italiana fu costretta più volte a  modificare la rotta per non trovarsi in quel fascio di rotte commerciali controllate a vista da mezzi aeronavali nemiche. Il 10 novembre la Pietro Orseolo arrivò presso lo Stretto della Sonda che separa Giava e Sumatra.  Il passaggio obbligato era perennemente  “infestato” da sommergibili alleati, e spesso i loro periscopi erano confusi con le pinne degli squali che affioravano in continuazione.

 

Ben presto l’unità italiana fu raggiunta da una corvetta giapponese che la scortò lungo una rotta di sicurezza che evitava i campi minati. Durante l'attraversamento dello stretto, lo stesso 10 novembre, la nave passò nei pressi dell'isola di Krakatoa. Entrata nei mari della Sonda, l'Orseolo virò a dritta ed il 12 novembre raggiunse Giakarta, ove si ormeggiò con l'assistenza di un pilota, dopo 43 giorni di navigazione.

 

Dopo alcuni giorni di sosta l’Orseolo ripartì e raggiunse Singapore il 15 novembre, imbarcò rottami di ferro, nafta e balle di lana destinate in Giappone. Il 22 novembre l’unità salpò da Singapore e il 26 novembre s'imbatté nottetempo in un sommergibile, probabilmente nemico, che navigava controbordo in superficie. La sorpresa reciproca fu tale che le due unità si defilarono a poche centinaia di metri di distanza senza aprire il fuoco.

 

Passando a Nord di Formosa la motonave uscì dal Mar Cinese Meridionale e il 2 dicembre 1942 raggiunse indenne Kobe, dopo 62 giorni di navigazione, per oltre  17.000 miglia nautiche percorse.

 

Nel porto giapponese l’Orseolo imbarcò 6.800 tonn. di gomma ed altre materie prime. Durante la sosta l'unità subì anche lavori di modifica che le consentirono di imbarcare una novantina di passeggeri, per lo più militari tedeschi da rimpatriare.

 

Ripartita da Kobe nella serata del 25 gennaio 1943, il Comandante dell’Orseolo confermò sulle carte nautiche le stesse rotte del viaggio d’andata. Porto di destinazione: Bordeaux, via Oceano Indiano.

 

Il 28 gennaio dalla Pietro Orseolo scorsero un piroscafo ‘sospetto’, il Comandante cambiò immediatamente rotta evitando l'incontro. Il giorno seguente avvistarono un sommergibile in superficie, nella stessa zona di quel fortunoso incontro del 26 dicembre. Ancora una volta la nave italiana si salvò allontanandosi alla massima velocità per evitare il probabile attacco.

 

Il 3 febbraio l'unità toccò nuovamente Singapore, ove caricò ancora balle di gomma e ripartì il 9 febbraio diretta a Giacarta. Dopo essersi rifornita di acqua e nafta nell’ultimo scalo, il 16 febbraio la nave imboccò lo stretto della Sonda ed entrò nell'Oceano Indiano.

 

Tra il 24 ed il 25 febbraio l'Orseolo modificò la rotta per allontanarsi da un convoglio alleato diretto verso l'Australia. La nave proseguì senza ulteriori problemi transitando al largo delle isole Nuova Amsterdam e Principe Edoardo. Il 5 marzo entrò ancora una volta indenne nell'Oceano Atlantico passando, per ragioni di sicurezza, molto a Sud del Capo di Buona Speranza (latitudine 46° S)

 

 

 

L’U-161 in navigazione

 

 

 

L'unità iniziò quindi la risalita dell'Atlantico verso nord, senza incontrare ostacoli pericolosi. Il 26 marzo si trovò puntuale all’appuntamento con il sommergibile tedesco U 161 in un punto a sudovest delle Azzorre.

 

Nel frattempo le forze aeronavali anglo-americane, venute a conoscenza della partenza di numerosi violatori di blocco dal Giappone, dislocarono numerose unità sulle rotte più frequentate dalle navi dirette in Nord Atlantico e nel golfo di Biscaglia, per intercettarle, depredarle e affondarle.

 

Dentro questa trappola infernale, finirono irrimediabilmente i “violatori di blocco” tedeschi Hohenfriedberg, Doggerbank (affondato accidentalmente da un U-Boot), Rossbach, Weserland, Regensburg, Rio Grande, Burgenland, Karin ed Irene, che furono  vittime di numerosi attacchi aeronavali.

 

 

Tre cacciatorpediniere Classe Narvik

 

Dietro l’ordine dell'ammiraglio tedesco Karl Donitz alcuni moderni cacciatorpediniere tedeschi Classe Narvik (Z-23, Z-24, Z-25, Z-32 e Z-37), al comando del capitano di vascello Edmerger, si trasferirono presso l'estuario della Gironda per scortare la Pietro Orseolo a Bordeaux alla fine di marzo 1943. L’unità italiana era l’unica superstite della flotta dell’Asse che collegava l’Europa e il Giappone.

 

Il 30 marzo 1943 la motonave italiana, mentre si trovava al largo di Capo Finisterre (Portogallo), avvistò quattro navi da guerra in una zona che non era di pertinenza germanica. Il comandante Tarchioni, temendo che fossero unità britanniche, accostò rapidamente e si mise in fuga a tutta velocità.

 

PRIMO SCONTRO

 

Le navi sconosciute la raggiunsero in breve tempo facendo ripetute segnalazioni per farsi riconoscere. Erano quattro cacciatorpediniere tedeschi (Z-23, lo Z-24, lo Z-32 e lo Z-37) inviati nella Gironda per la scorta all'Orseolo. La foschia contrastava la visibilità e la nave italiana, circondata dalle navi tedesche, diresse verso Bordeaux oltrepassando uno schermo protettivo formato da sommergibili italiani ed U-Boote tedeschi.

 

Aerei inglesi Bristol Beaufort

 

 

Aerei inglesi Beaufighters

 

Poco più tardi, tuttavia, le navi vennero individuate dalla ricognizione inglese che allertò un gruppo di aerosiluranti Bristol Beaufort e Bristol Beaufighter del Coastal Command della Royal Air Force. Il convoglio fu attaccato a ondate successive: l’obiettivo era l'Orseolo ed il suo carico prezioso. Ma l’unità italiana si dimostrò all’altezza del combattimento: aprì il fuoco con il cannone e le mitragliere, ed altrettanto fecero i cacciatorpediniere, disorientando gli aerei britannici e abbattendone cinque. Il convoglio navale dovette zigzagare per evitare i numerosi siluri  sganciati dagli aerei, ma ancora una volta, per fortuna e per abilità, l’Orseolo rientrò indenne alla base.

L’AGGUATO

 

Sopraggiunto il buio in una notte illune, l'attacco terminò e la formazione riprese la navigazione senza danni. Alle prime ore del 1º aprile il convoglio giunse a 60-70 miglia da Bordeaux ignaro di un pericoloso agguato.

 

Improvvisamente il sommergibile statunitense Shad, con un'azione eseguita in superficie alla velocità di 19,5 nodi, attaccò il convoglio lanciando otto siluri ad una distanza compresa tra i 1550 ed i 2750 metri. La motonave italiana riuscì ad evitarne due, ma il terzo siluro, avente un’angolazione insidiosa, andò a segno colpendo la Pietro Orseolo in corrispondenza della stiva n. 2.

 

La caccia dello Shad alla formazione italo-tedesca era iniziata il 31 marzo subito dopo la segnalazione avuta dalla ricognizione aerea, ma soltanto alle 00.30 del 1º aprile riuscì ad intercettare il convoglio sul radar a una distanza di 10.000 metri. Dalle 00.30 all'1.50 il sommergibile s’avvicinò modificando più volte la rotta  ad una velocità di 18-19,5 nodi, mentre la velocità del convoglio era di 15 nodi. L’inseguimento si prolungò a causa di un cambiamento di rotta delle navi italo-germaniche e della loro non trascurabile velocità. Alle 3.42, non potendo più posticipare l'attacco a causa dell'elevato rischio di avvistamento e della rotta di collisione assunta da uno dei cacciatorpediniere, lo Shad lanciò sei siluri con i tubi prodieri.

 

Tra le 3.43 e le 3.45 il sommergibile statunitense avvertì cinque esplosioni di siluri e ritenne d’aver affondato almeno due navi. Alle 3.46 lanciò altri due siluri contro la Pietro Orseolo e si allontanò per eludere il contrattacco. Secondo il rapporto dell'unità subacquea americana furono avvertite altre quattro esplosioni, rispettivamente alle 3.50, 3.51, 3.54 e 3.57. In realtà l'unica arma andata a segno era il siluro che aveva colpito la Pietro Orseolo all’altezza della stiva n. 2. La motonave italiana, moderna e ben costruita, rimase a galla grazie alla tenuta delle doppie paratie stagne trasversali e poté proseguire nella navigazione, a velocità di poco ridotta. (Altre fonti sostengono che dovette progressivamente ridurre la velocità e successivamente fu presa a rimorchio). Dallo squarcio nello scafo finirono in mare 11.000 balle di gomma naturale, materiale di particolare importanza per le nazioni dell'Asse in quel momento del conflitto. I cacciatorpedinieri tedeschi, nonostante il rischio di un nuovo attacco, si fermarono e raccolsero numerose balle finché il caposquadriglia decise di riprendere la navigazione alla massima velocità consentita dal danneggiamento dell'Orseolo. Le navi raggiunsero Le Verdon alle 11.45. Per il recupero di almeno parte delle rimanenti balle le autorità tedesche, il 6 marzo, pubblicarono sui giornali della costa occidentale francese un annuncio in cui si promettevano forti ricompense a chi avesse consegnato alle forze germaniche delle balle trovate alla deriva o portate a riva dalla corrente. Il 3 aprile 1943 la Pietro Orseolo ormeggiò a Bordeaux, concludendo con successo il terzo ed ultimo forzamento del blocco.

 

Benito Mussolini, ricevuta una particolareggiata relazione circa il viaggio della Pietro Orseolo, elogiò la condotta del Comandante, Stato Maggiore ed Equipaggio, cui furono conferite altre decorazioni al valor militare; il comandante Tarchioni venne decorato da Adolf Hitler con la Croce di Ferro di prima classe, unico caso di conferimento di tale decorazione ad un comandante della Marina Mercantile.

 

Nel corso delle tre traversate oceaniche di violazione del blocco la Pietro Orseolo aveva trascorso 164 giorni in mare, percorrendo quasi 54.000 miglia marine (nella seconda e terza traversata la nave percorse 34.400 miglia alla velocità media di 14 nodi, passando 103 giorni in navigazione).

 

Nel settembre 1943, in seguito alla proclamazione dell'armistizio, la Pietro Orseolo venne catturata dalle truppe tedesche, venendo affidata, il 15 ottobre 1943, alla ditta tedesca A.G. für Seeschiffahrt di Amburgo, con il nuovo nome di Arno. Anche dopo la cattura si pensò di utilizzare la motonave come “violatrice di blocco”.

 

Il 10 dicembre 1943 l'unità ricevette i segnali di riconoscimento per aerei, ed una settimana dopo si rifornì per un nuovo viaggio. Il 18 dicembre 1943, tuttavia, l'Arno venne colpita da un siluro e danneggiata durante un attacco aereo effettuato da dodici aerosiluranti Bristol Beaufighter del Coastal Command, caccia Spitfire (131st e 165th Squadron) e Thypoon (24 aerei degli Squadrons 183rd, 193rd e 266th) nella baia di Concarneau.

 

Nel pomeriggio (secondo altre fonti tre giorni più tardi, il 20 o il 21 dicembre) affondò al largo delle isole Glénan (non lontano da Brest) mentre si cercava di rimorchiarla verso tale arcipelago per portarla all'incaglio. Nel 1944 palombari tedeschi si immersero sul relitto per recuperare almeno parte del carico.

 

Il relitto della Pietro Orseolo giace a tra i 25 ed i 30 metri di profondità, in posizione 47°41’77” N e 3°56’77” O, a mezzo miglio dall'isola di Penfret.

 

Carlo Gatti

 

Rapallo, 1 Gennaio 2014

 


RIVISTA H - VISITA DI HITLER

 

"Cartoncino commemorativo"

 

Visita in Italia di Adolf Hitler

 

"Rivista H" - Golfo di Napoli il 5 maggio 1938

 

 

Nella foto, da destra, gli incrociatori pesanti Fiume, Zara, Pola e Gorizia all'ormeggio alla testata del Molo della Stazione Marittima di Napoli.

Questa foto è stata scattata tra le 10.00 e le 10.30 a bordo della nave da battaglia Cavour, sul ponte a poppa, poco dopo l'imbarco di Hitler e di Mussolini e prima che iniziassero le manovre della "Rivista H" (le unità partecipanti uscirono dal porto tra le 10.45 e le 11.15). Al centro della fotografia si identificano, ovviamente, Hitler, Vittorio Emanuele III, Mussolini e il Principe Ereditario Umberto di Savoia.

E' più interessante l'identificazione degli altri due personaggi in uniforme, a sinistra e a destra della foto.

Il capitano di vascello a sinistra è il c.v. Antonio Bobbiese, comandante del Cavour. Si noti che sulla spalla destra dell'uniforme si intravedono le cordelline dorate da "Comandante di Bandiera", che contraddistinguevano il comandante di un'unità su cui era imbarcato un Comando navale superiore (il Cavour, difatti, all'epoca era nave ammiraglia della Vª Divisione Navi da battaglia). Questo particolare elemento uniformologico faceva sì che - nelle occasioni in cui era previsto indossare la sciarpa azzurra - questa scendesse dalla spalla sinistra verso destra (e non dalla spalla destra verso sinistra come avveniva - e avviene - per le uniformi degli ufficiali della Marina Italiana).

Il militare a destra è il generale di corpo d'armata Giuseppe Mario Asinari di Bernezzo, primo aiutante di campo generale del Re, il cui incarico è evidenziato dalla presenza di una corona al di sopra della stelletta sul bavero della giacca (nell'immagine i due elementi sono due puntini chiari difficilmente distinguibili).

A poppavia del Cavour c'è il Cesare, ed entrambe le unità stanno per procedere a lento moto verso l'imboccatura del porto (sullo sfondo si intravede il Molo S. Vincenzo, perpendicolare alla Calata Beverello, non visibile nella foto perché di poppa al Cesare).

L’immagine sopra raffigura gli stessi personaggi, ripresa da un’altra angolazione.

Bibliografia:

- T. Marcon, Riviste navali a Napoli negli anni Trenta, in "Bollettino d'Archivio dell'Uff. Storico della M.M." (giugno 1995)

- E. Bagnasco, E. Cernuschi, Rivista H, in "STORIA militare" n. 200 (maggio 2010)

Spero che queste note possano risultare gradite! Un cordiale saluto a tutti,

Maurizio Brescia

Rapallo, 1 Gennaio 2014

 


LA STORIA DEL CATTARO

LA STORIA DEL CATTARO

IL CATTARO AUTOAFFONDATO L’8 SETTEMBRE A SANTA MARGHERITA NON ERA L’ EX DALMACIJA, MA L’INCROCIATORE AUSILIARIO EX JUGOSLAVIJA


L’Incrociatore ausiliario Cattaro - D36 é ormeggiato di punta a Santa Margherita Ligure. La nave appare staccata dalla banchina a causa del basso fondale.

(foto di Giuliano Gotuzzo, per gentile concessione della signora Nuccia Gotuzzo)

Una ricostruzione storica finalmente “attendibile” dell’autoaffondamento dell’Incrociatore Ausiliario CATTARO D-36, caduta nell’oblio per molti decenni, é stata possibile grazie al materiale fotografico e alle testimonianze messe a disposizione da Nuccia Gottuzzo, vedova di Giuliano Gotuzzo, appassionato di storia locale ed esperto fotografo, mancato nel 2007, e per la consulenza del Comitato scientifico di “STORIA MILITARE”. Tuttavia, per capire a fondo lo “strano” dilemma, diamo subito la parola a Giuliano Gotuzzo:

“Nel primo dopo guerra la marina cominciò la stampa di libri, sempre più precisi. In uno di questi fu fatto un elenco delle navi perdute, con cause e luogo della perdita. Nel 1943 un'altra nave Cattaro italiana, ma completamente diversa, era l'ex jugoslava Dalmacjia, ex incrociatore leggero tedesco Niobe, catturata dai tedeschi ed affondò nel 1943 in Adriatico. Ed io mi sentii in dovere di comunicare che a S. Margherita era affondata un'altra Cattaro.

La lettera che segue é dello Stato Maggiore della Marina, é datata 6 Agosto 1951, ed é la risposta all’istanza di chiarezza posta da Giuliano Gotuzzo. Purtroppo, da quanto si legge al punto n. 4 della stessa, si evince la totale disinformazione e conoscenza dei fatti.

“Su dei fogli trovati in mare c'e timbrato in modo chiaro R. Cannoniera Cattaro. Fui un po' ingenuo: credevo che avrebbero capito che si trattava di un'altra nave. Mi risposero che loro conoscevano una sola Cattaro affondata in Adriatico e che più o meno dovevo aver preso un abbaglio. Sono passati tanti anni e, prima su una pubblicazione dell'Ufficio Storico risultarono le due Cattaro, elencate come giusto in due categorie diverse. In un numero recente della Rivista Marittima, organo dell'ufficio Storico, c'e un articolo che parla delle due Cattaro e mi rende giustizia. Ciò non vuol dire niente, mi basta sapere che anche il Cattaro che ho visto affondare è esistito e che non ho sognato. Non fu affatto un sogno, se mai un incubo. La nave inclinata in porto coperta dal mare, una grande nuvola nera la sovrastava e un certo momento si mescolò ad altra nuvola bianca. Stavano facendo scaricare il vapore dalle caldaie e fu un bene perchè a contatto del mare avrebbero potuto esplodere”.

 

(Documentazione di Giuliano Gotuzzo. Per gentile concessione della Signora  Nuccia Gotuzzo)

 

L’incrociatore ausiliario CATTARO si é autoaffondato nel porto di Santa Margherita Ligure per non cadere nelle mani dei tedeschi. In questa importante istantanea che certifica l’avvenimento, l’unità appare già abbandonata dall’equipaggio.

(Foto di Giuliano Gotuzzo. Per gentile concessione della signora Nuccia Gotuzzo)

 

Storia della Nave

 

Ordinata come piroscafo passeggeri con il nome di Hunyad dalla Società per Azioni Ungaro-Croata di Navigazione Marittima a Vapore (Magyar Horvát Tengeri Gőzhajózási RT, con sede a Fiume), la nave venne impostata nei cantieri fiumani Ganz &Comp. Danubius Maschinen, Waggon un Schiffbau A.G. (Fiume faceva all’epoca parte dell’Impero Austro-Ungarico) nel 1916, con numero di scafo 68, ma la costruzione venne sospesa a causa della Prima guerra mondiale.

Nel 1920 la nave, ancora incompleta, venne varata al solo scopo di liberare lo scalo. Nello stesso anno l’incompleto Hunyad (identificato solo come scafo numero 68, non avendo mai ricevuto il proprio nome) passò sotto bandiera jugoslava , ma rimase incompiuto ed inutilizzato per oltre un decennio, in quanto la compagnia proprietaria – divenuta frattanto, a seguito della dissoluzione dell'Impero Austro-Ungarico, Società per Azioni Croata di Navigazione Marittima a Vapore (Hrvatsko Dioničko Pomorsko Parobrodarsko Društvo) – non necessitava di piroscafi postali per il servizio costiero della Dalmazia.

All’inizio deglianni trenta, tuttavia, la situazione cambiò: stante la crescente popolarità deiviaggi di vacanza lungo le coste.adriatiche, la società di navigazione jugoslava Jadranska Plovidba Dioničko Parobrodarsko Društvo di Sussak (ovvero l'ex Società per Azioni Croata, che aveva nuovamente cambiato nome a seguito della nascita del Regno di Jugoslavia), attiva sulle rotte costiere dalmate, stipulò con i Cantieri del Quarnaro (Cantieri Danubius erano infatti divenuti Cantieri del Quarnaro a seguito dell’ annessione di Fiume all'Italia) un contratto per la ricostruzione e completamento dello scafo incompiuto dell'Hunyad.

 

Rinumerato come scafo numero 139, lo scafo incompleto venne quindi riportato in cantiere e tra il 1932 ed il 1933 i lavori ripresero: nel febbraio 1933 il piroscafo, ribattezzato Jugoslavija ed iscritto con matricola 9 presso il Compartimento marittimo di Spalato. Entrò in servizio sulle linee della Dalmazia.

Lo Jugoslavija, una volta completato, risultò essere un piccolo piroscafo per trasporto di merci e passeggeri da 1275 tonnellate di stazza lorda e 628 tonnellate di stazza netta. Grazie a due macchine a vapore  a quadruplice espansione ed a quattro cilindri prodotte dalla Harland & Wolff  di Belfast,  la nave poteva raggiungere la buona velocità  di 15,5 nodi.

Caratteristiche:

 

Incrociatore Ausiliario CATTARO D-36 ex Jugoslavia - ex Hunyad

 

Dislocamento: 1280 t. - Stazza lorda: 1275 tsl – Lunghezza: 78,50 (76,50) m. Larghezza: 10,45 (10,50) m. – Pescaggio: 4,11 m. – Propulsione: 2 macchine a vapore a quattro cilindri a quadruplice espansione Harland & Wolf – 2 eliche – Velocità: 15,5 nodi Tipo: Piroscafo passeggeri dal 1933 al 1942 – Incrociatore Ausiliario 1942 – 1943– Armatore: Jadranska Plovidba D.D. 1932 – 1934 – Requisito dalla Regia Marina 1942 – 1943 - Identificazione: D 36 (come unità militare) – Costruttori: Cantiere Danubius, Fiume del Quarnaro, Fiume (completamento). Impostata: 1916 - Varata: 1920 - Entrata in Servizio: Febbraio 1933 come nave civile, 13 marzo 1942 come unità militare. Destino finale: autoaffondato, poi catturato da truppe tedesche il 9 settembre 1943, affondato nel 1944, recuperato e demolito nel 1947. Armamento: 2 pezzi da 100/47 mm (??), 2 pezzi da 76/40, 4 mitragliere da 20/65, 2 scaricabombe di profondità (??)

 

RICERCHE-TESTIMONIANZE

 

Il Comitato scientifico della rivista “Storia Militare”, di cui fa parte lo storico Maurizio Brescia, ha dedicato insieme al suo Direttore, il comandante Erminio Bagnasco, un’approfondita ricerca sull’autoaffondamento del CATTARO nel porto di Santa Margherita Ligure. Come vedremo, la questione era  tutt’altro che chiara, dal momento che navi con quel nome ce ne furono due o forse altre, ognuna delle quali ebbe un epilogo non sempre chiaro a causa delle vicissitudini patite dalla nostra nazione a partire da quella fatidica data che fu l’8 settembre 1943.

 

Dal sito ufficiale della Marina Militare. Catturata, passata sotto bandiera italiana e ribattezzata Cattaro in seguito all'invasione italo-tedesca della Jugoslavia, l’8 gennaio 1942 la nave venne requisita a Fiume dalla Regia Marina ed iscritta nel ruolo del Naviglio ausiliario dello Stato come Incrociatore Ausiliario, con caratteristica D 36. Armata con due cannoni da 100/47 mm, uno da 76/40 mm, quattro mitragliere da 20/65 mm e due scaricabombe antisommergibile per bombe di profondità, l’unità venne destinata a compiti di scorta convogli. Le fonti sono piuttosto contraddittorie circa la sorte del Cattaro dopo l'Armistizio dell'8 settembre 1943. Secondo alcune fonti, il 9 settembre 1943, all’indomani dell’annuncio, l’incrociatore ausiliario si autoaffondò a Santa Margherita Ligure; recuperato dalle truppe tedesche,  venne da queste nuovamente autoaffondato il 22 marzo 1944, per ostruire l’ingresso delporto di Livorno. Il 14 giugno 1944 (ma più probabilmente il 13, quando la città venne effettivamente bombardata da aerei della 12th USAAF con obiettivo il porto.

 

Bombardamenti aerei sulle città italiane nel 1944. Durante un bombardamento aereo su Livorno, il relitto venne colpito ed ulteriormente danneggiato per altra fonte i tedeschi recuperarono la nave e si prepararono ad autoaffondarla il 29 marzo 1944, ma l’unità venne in realtà affondata da un bombardamento aereo il 14 giugno 1944.. Riportato a galla nel 1945, il relitto venne nuovamente ribattezzato Jugoslavija e formalmente restituito alla Jugoslavia: giudicato tuttavia troppo danneggiato per una sua riparazione, venne rimorchiato  a Spalato nel 1947 e quindi demolito. Per altre fonti, il 9 settembre 1943

 

Navypedia, in seguito alla proclamazione dell’armistizio, il Cattaro venne catturato dalle truppe tedesche, e nel febbraio 1944 si trovava in efficienza ed impiegato nei collegamenti con la Dalmazia, ma nel corso dello stesso anno venne gravemente danneggiato da aerei Alleati. Sempre secondo tali fonti, il Cattaro affondò nelle acque della città da cui aveva preso il proprio nome, CATTARO , successivamente al febbraio 1944, per cause non precisate.

 

Il dott. Maurizio Brescia così sintetizza la vicenda del CATTARO:

 

“Il mistero dei due Cattaro è stato risolto, le risultanze delle nostre ricerche sono le seguenti: partiamo dal fatto che, durante la Seconda guerra mondiale, la Regia Marina ha avuto in servizio due unità con il nome di Cattaro. La prima era la grossa cannoniera ex-jugoslava Dalmacija (già incrociatore tedesco Niobe della prima guerra mondiale), incorporata nella Regia Marina ad aprile del 1941 con il nome di Cattaro, dopo la caduta della Jugoslavia. Caduta in mano tedesca a Pola dopo l'8 settembre, andò perduta in Adriatico il 22 dicembre 1943, nel corso di un combattimento con motosiluranti inglesi. Questa unità NON è quella presente a Santa M.L. La seconda era il piccolo piroscafo passeggeri jugoslavo Jugoslavija (1.275 tsl, costruito nel 1933) anch'esso di preda bellica, immesso in servizio nell'estate del 1941 come incrociatore ausiliario D.36 Cattaro.

Ed eccoci allo "scoop"

 

L'Ufficio Storico della Marina (USMM), nel suo volume “Navi mercantili perdute” (gli incrociatori ausiliari erano considerati navi mercantili, ancorché requisite dalla Marina, ecco il perché di un nome già assegnato ad un'unità effettivamente militare [la cannoniera Cattaro]) riporta testualmente che "... Dopo l'8 settembre [l'incrociatore ausiliario Cattaro] rimase in territorio controllato dai tedeschi. Notizie non documentate lo davano, nel febbraio 1944, efficiente e adibito al traffico con la Dalmazia; altre, invece, lo davano per affondato nelle acque di Cattaro in epoca imprecisata, ma probabilmente dopo il febbraio 1944".

 

Come si può notare, si tratta di notizie vaghe e imprecise, riprese peraltro anche in un articolo dello storico Tullio Marcon sugli incrociatori ausiliari italiani, pubblicato qualche anno fa su "Storia militare".

 

Le due fotografie appartenenti all’archivio di Giuliano Gotuzzo raffigurano invece proprio l'incrociatore ausiliario Cattaro prima in galleggiamento e poi parzialmente affondato a Santa Margherita e NON in Adriatico. Tra l'altro, il Cattaro (incrociatore ausiliario) avrebbe potuto trasferirsi in Adriatico solo entro il giugno 1943, poi - una volta effettuati gli sbarchi alleati in Sicilia - le navi del Tirreno restavano nel Tirreno, e quelle dell'Adriatico in Adriatico...

 

Quindi, la fotografia - confermandosene la datazione attorno all'8 settembre 1943 (poco prima la foto con la nave in galleggiamento, poco dopo quella con la nave parzialmente affondata), dimostra che il Cattaro non fu perduto in Adriatico come riportato dal volume dell'USMM, ma venne autoaffondato nel Tigullio poco dopo l'8 settembre. Poiché, comunque, del relitto si persero le tracce nel dopoguerra, è più che verosimile che la nave sia stata demolita in Liguria prima della fine del conflitto o - più facilmente ancora - subito dopo. L'identificazione del Cattaro è certa, sulla base della corrispondenza tra le foto del G. Gotuzzo e alcune immagini facenti parte della collezione del com.te Bagnasco. Confermo - quindi - che la nave della foto è l'incrociatore ausiliario Cattaro (ex piroscafo Jugoslavija) e non la cannoniera Cattaro (ex-Dalmacija, ex-Niobe).

 

Ho esaminato attentamente la foto ad alta definizione del Cattaro e confermo che il pezzo di artiglieria visibile a poppa è un cannone da 76/23 mod. Armstrong 1914; la mitragliera sul cielo della tuga più verso proravia, installata nella piazzola circolare, è una Breda 8 mm mod. 1937. La colorazione mimetica della nave è quella "standard" su due toni di grigio chiaro e scuro, adottata già nel 1942; lo schema del lato dritto è il cosiddetto "2B" per navi mercantili.

 

Relativamente all'armamento, il sito ufficiale della MM riporta il seguente:

 

2 cannoni da 100/47 mm

 

1 cannone da 76/40 mm

 

4 mtg da 20/65 mm

 

2 scaricabombe

 

Tuttavia, i dati sono sbagliati: il pezzo poppiero è un 76/23 (esisteva il 76/30, ma il 76/40 per impiego navale non esiste...) e due cannoni da 100 mm (per forza di cose installati a prora) mi sembrano troppi per una nave così piccola... Ritorneremo sull’argomento “Armamento” in un secondo tempo, dopo aver consultato presso l'Ufficio Storico della MM a Roma il faldone relativo alla trasformazione del Cattaro in incrociatore ausiliario. I dati soprariportati vanno verificati.

 

Una doverosa precisazione:

 

IL CATTARO presente a Santa Margherita Ligure non era una “nave civetta”. Nessuna nave italiana fu impiegata durante la Seconda guerra mondiale come "nave civetta": in questa categoria vanno ricomprese soprattutto piccole unità britanniche definite "Q-ships" che - particolarmente tra il 1914 e il 1918 - erano attrezzate per apparire innocui pescherecci ma che, dotate di cannoni celati da paratie abbattibili, conseguirono alcuni successi affondando alcuni sommergibili tedeschi che le attaccavano in superficie per affondarle a cannonate (le piccole dimensioni di queste unità non giustificavano l'uso di costosi siluri). Durante la seconda guerra mondiale non furono utilizzate "navi civetta" da pressoché nessuna marina belligerante. Un discorso a parte merita l'impiego degli incrociatori corsari della Kriegsmarine, ma qui si trattava di grosse unità adattate per il contrasto alla navigazione mercantile d'altura avversaria, ed è tutta un'altra storia. Tra il 1941 e il 1943, l'incrociatore ausiliario Cattaro - in ragione delle ridotte dimensioni - fu utilizzato soprattutto per la vigilanza foranea e la scorta a piccoli convogli in acque nazionali.”

Una testimonianza significativa

Un giovane testimone di allora, all’epoca diciassettenne, così ricorda il Cattaro:

 

L'imbarcazione Cattaro era apparentemente civile, ma era armata. Ricordo un pezzo unico a poppa, neanche tanto mascherato. Un cannone navale (non pareva prolungato 90), poco più di 40 mm, come erano a terra le mitragliere. Non ricordo se avesse una base circolare da brandeggio. L’unità era un ibrido, tanto che l'avevamo definito “nave civetta”, ma  era palesemente difensiva, per quello che poteva. Pareva non antiarea. Credo che l'equipaggio fosse militarizzato, non marinai effettivi della Regia Marina. O forse sì. Non lo so. Chiederò ai pochi vecchissimi. Amnesici come me. Un giorno un aereo vagante ‘esploratore inglese’ passava a media altezza, e  dal molo le bettoline lo bersagliarono. Si allontanò verso il largo, poi tornò silenzioso dal monte, provò la mitragliera contro di me  e un mio compagno di classe, e mitragliò il molo ben bene e se ne andò.


 

Il Cattaro, come mostra questa immagine, ha raggiunto il massimo sbandamento e si é adagiato sul fondo. E’ sparito lo scafo mimetizzato ed emergono solo le soprastrutture e le armi rese ormai inoffensive.

 

(Foto di Giuliano Gotuzzo. Per gentile concessione della signora Nuccia Gotuzzo)

 

Il Cattaro era fuori gioco, inclinato, per me di più di quanto non sia nella fotografia. Da lei non venne reazione.

 

Però, vedersi arrivare i colpi vicini, uno a destra e due a sinistra sul muretto, e udire il rumore della mitraglia é un fatto che si ricorda.... Ma avevo diciassette anni e tutto era esperienza.

 

Penso che il ‘fondo fotografico’ Gotuzzo non abbia perso l'occasione di documentare quell'argomento. Il mite, silenzioso Gotuzzo da ragazzo usciva in barca a fotografare TUTTE le navi che capitavano in rada, insieme al suo coetaneo Pettinati. Sopratutto navi militari.

 

Il Cattaro era, come si può vedere, una carretta o anche meno. Nel 1943 il Cattaro era lì, attraccato al molo sotto la casa grande, tranquilla.

Tra ragazzi si diceva: “é una nave civetta”. Era lì, marrone e nera, tranquilla. Sembrava una vecchia carretta a vapore.

 

L'8 settembre, alle sette di sera ricordo due marinai, di corsa, in via Favale, con una macchina da scrivere da dare a chi la volesse, a nostra meraviglia, perchè? Forse in cambio di vestiti civili, avevano premura, erano pressati. Il Cattaro si era autoaffondato, loro si disperdevano.

 

Si diceva che uno, Ciro Roggero, si fermasse dalla stiratrice, la Lea, che poi sposò. Alle otto di sera, dal poggiolo alto di casa, ho visto in fondo di via Favale, sulla strada del porto, passare due tedeschi accucciati col fucile imbracciato, erano diretti a Portofino. L'indomani sul muro c’era il manifesto della “Kommandantur” che imponeva il coprifuoco, il divieto di assembramento e la consegna delle armi tenute in casa. Mettemmo di notte la pistola di ordinanza di papà in un  muro della strada e la ricuperammo a guerra finita.

 

Poco dopo, in inverno, per prendere l'acqua di mare pulitissima per fare il sale in casa, uscivo con un fiasco spagliato sotto il cappotto pesante e andavo nel porto, davanti  al Cattaro inclinato, vuoto come il molo e le strade, con le alghe sulla chiglia. Restò lì fino a fine guerra.

 

Nel porto riparavano le bettoline dei tedeschi che  nottetempo, con i ponti stradali e ferroviari bombardati e distrutti, trasportavano materiale via mare. Nel silenzio del buio della notte si sentiva pot pot pot ... e s’immaginava la processione di bettoline in fila. Per questo passava l'aereo isolato, l'ubiquitario Pippeto, che lanciava nel cielo un bengala. Quando poi il porto fu pieno di corvette inglesi (tra cui la H.M.S. Circe , sfidata e  battuta dalla Waterpolo Paraggi 5 a 2 il 26 luglio 1945) il Cattaro sembrava una cosa melanconica, ingombrante ed inutile.

 

Un giorno non fu più lì. Scomparve. I giorni di guerra andavano via.

 

Per me la nave si autoaffondò la sera dell'8 settembre, verso le sei-sette di sera.

 

Di effetto personale le barche a vela lì vicine, perchè fino a quel giorno avevamo fatto l'estate balneare normale e  noi ragazzi  vivevamo una vita di paese usuale, nei limiti degli episodi bellici, localmente rari. I passaggi di aerei alti prendevano come punto di riferimento il Monte di Portofino per poi divergere per andare a bombardare Torino, Milano  o Verona. Da Genova si sentivano le esplosioni. San Benigno fece un rumore enorme. Tutto passa.”

Altri CETI provenienti dalla calata di Santa: “Tutti sapevano che la CATTARO era stata una nave passeggeri, ma la gente non cercava le porcellane, i servizi di posate, bicchieri e piatti, ma piuttosto ciò che era rimasto in cambusa.  E tra gli anziani pescatori qualcuno ricorda ancora che nottetempo la nave veniva ‘visitata’ dai pescatori che cercavano di recuperare le attrezzature che gli servivano per lavorare: cavi, catene, maniglioni, grilli, redance, cime di ogni calibro...”

 

COME E’ NATO IL MIO SOGNO

di Giuliano Gotuzzo

 

Era estate del 1943. Tutto sembrava procedere come al solito. Giornate piene di sole, il mare tranquillo, i primi bagni, qualche giro con una piccola barca a remi.

 

L’incrociatore ausiliario CATTARO si trova alla fonda nel porto di  Santa Margherita Ligure. L’unità é sullo sfondo a sinistra. La sua posizione vista in sezione longitudinale,  ci consente di notare chiaramente sia la mimetizzazione che i due pezzi da 76 mm dislocati a prua e a poppa. Sulla destra, in primo piano, si vedono due Torpediniere (o avvisi scorta) ormeggiate di punta, entrambe appartenenti alla classe “Ciclone”. La nave a sinistra é della classe “Ciclone”. L’unità più a destra é l’Impavido. (la cui presenza nel Mar Ligure / Alto Tirreno per l'estate 1943 è ben documentata. La foto è molto scura e non ci consente di vedere lo schema mimetico, in base al quale sarebbe possibile identificare con maggior precisione la nave “di sinistra” e darle un nome. Si potrebbe datare la foto intorno al giugno/luglio 1943, anche perché da agosto in poi l'unità operò prima nella zona di Livorno e poi in quella di Salerno.

(Foto di Giuliano Gotuzzo. Per gentile concessione della signora Nuccia Gotuzzo)

 

Arrivarono alcune torpediniere e si ormeggiarono nel porto. Erano mimetizzate e quando entravano o uscivano i marinai, che erano su quelle barche, avevano sempre indosso dei salvagente rossi. Non erano i soliti salvagente che eravamo abituati a vedere, ma quasi casacche senza maniche. Noi ragazzi correvamo a vedere le navi quando uscivano o entravano e si ormeggiavano scostate dalla banchina, ma in posizione parallela ad essa. lo quasi per caso incominciai un piccolo traffico. Andavo con la barchetta nel punto dove la catena dell'ancora, che scendeva da prua, spariva nell'acqua. Abbarbicati alla catena scendevano un paio di marinai, che si stendevano dentro la barca per farsi notare il meno possibile. Io remando li portavo a prendere terra dall'altra parte del porto. Ricevevo in cambio tanti ringraziamenti e spesso una o due sigarette. A volte cercavo di rifiutarle, ma spesso finivo per accettarle, vista l'insistenza con cui mi venivano offerte. Ripensandoci ora provo quasi rimorso per averlo fatto, perchè capisco che si privavano di qualcosa allora molto preziosa. Non era ancora partita la campagna antifumo e quegli uomini correvano rischi ben maggiori di quelli che potevano venire dal fumo. Poi arrivò una certa data, l'8 settembre 1943, e a chi era sulle navi, ed anche a terra, parve una giornata di gran festa. Dicevano che era finita la guerra; si sentiva anche il suono di una fisarmonica. Ma la guerra purtroppo non era finita. Anzi stava iniziando il periodo peggiore, che coinvolgeva tutti, anche chi fino allora era rimasto a leggere i giornali o ad ascoltare i bollettini.

 

Nel suggestivo sfondo di Santa Margherita Ligure s’intravedono dei Leudi Rivani. In primo piano, due sommergibili tipo "H" (costruzione 1916-1918, su piani costr.ne inglesi). La terza unità non è facilmente identificabile, ma potrebbe essere un "X" (del 1918) oppure un "Micca" (“classe” costruita tra il 1919 e il 1921).

 

(Foto di Giuliano Gotuzzo. Per gentile concessione della signora Nuccia Gotuzzo)

 

La mattina del 9 le navi partirono e con esse anche la nave Cattaro, piccolo incrociatore ausiliario. La festa era già finita. Combinazione volle che l'incrociatore si mettesse in moto prima di aver recuperato del tutto l'ancora, che rimase impigliata negli ormeggi dei due panfili più grandi e più belli che di solito sostavano nel porto: il Quadrifoglio” e Annabella”. I due panfili ebbero gli ormeggi di poppa rovinati con danni anche a bordo. Erano ormeggiati alla banchina davanti alla pescheria. Poi tutte le navi presero il largo. Inaspettatamente dopo un po' di tempo il Cattaro tornò indietro, si ormeggiò dove di solito si ormeggiavano le torpediniere. L'equipaggio cominciò ad abbandonare la nave, che si autoaffondò. Prima che, appoggiata sul fondo ed inclinata, si fermasse, fu presa d'assalto dagli abitanti del luogo. Ci fu qualcuno che, più fortunato, trovò del caffé i più si accontentarono di un materasso.

 

C’é da dire che la popolazione fornì a quei marinai dei vestiti civili e molti furono accolti nelle case e ospitati. Col tempo non pochi finirono per sposarsi con ragazze del luogo: alcuni vivono ancora tra noi e sono tutte persone che hanno saputo farsi una posizione: sono stimati e benvoluti.

 

Poi arrivarono i tedeschi che spararono dei colpi contro la nave, ma tutto si concluse in modo incruento. Poi la nave, dopo lunghe fatiche, fu recuperata e rimorchiata verso Genova. Non l'ho mai saputo con certezza, ma si sparse la voce che durante il rimorchio sia di nuovo affondata.

 

Io non partecipai all'assalto alla nave, perché i miei non mi lasciavano uscire, e giustamente. Rimasi in casa e da dietro i vetri, emozionato, vidi morire quella povera nave. Sarò troppo sensibile ma quello spettacolo mi rattristò molto. Mentre affondava dal suo interno uscivano sibili e rumori che almeno alle mie orecchie sono parsi lamenti e grida di aiuto. Nessuno era a bordo, ma le grida e i lamenti venivano dalla nave che improvvisamente mi parve essere un cosa viva che moriva e che cercava di respingere da se quel destino che ormai l'attendeva.

 

Era tornata indietro perchè le sue caldaie andavano a carbone e avrebbe dovuto fare rifornimento a La Spezia, che era gia stata occupata”.

 

NOTE STORICHE

 

Dallo storico Maurizio Brescia riceviamo la segnalazione del sito olandese che riportiamo integralmente per gli appassionati di storia,  nonché  la breve nota qui di seguito:

 

”Ci sono notizie sulla fine del Cattaro che quadrano con la sua presenza nel Tigullio all'atto dell'armistizio. Tra l'altro, tra le fonti è citato l'autorevole sito "Miramar", un'autentica fonte primaria per le navi mercantili e i mercantili militarizzati”.

 

Riportiamo integralmente quanto riportato nel seguente sito olandese:

 

http://fleetfilerotterdam.nl/jugo33_txt_eng.htm

 

ss Jugoslavija (1933)

 

Jadranska Plovidba d.d. Sušak, Yugoslavia

 

The Jugoslavija was one of the three ships in Jadranska’s fleet of which construction was suspended because of World War I. She was ordered in 1913 by Ungaro-Croata to become a sister to the Visegrád. In 1920 the shipyard launched the unfinished hull to free-up the slipway. Pursuant to the 1920 peace treaty the ship belonged to Yugoslavia, but Jadranska Plovidba didn’t need any express steamers at the time. This changed in the early thirties, when the company ordered a new flagship, the Prestolonaslednik Petar, and also remembered the rusting hull. As Jugoslavija she entered service in 1933. She was damaged beyond repair during an air raid on Livorno, Italy in 1944. Returned to post-war Yugoslavia, the wreck was sold for scrap in 1947.

 

Yard Number 68 (Hunyad) (1916)

 

In 1913 Società in Azione Ungaro-Croata di Navigazione Marittima a Vapore at Fiume, Austro-Hungarian Empire orders a copy of the express liner Visegrád (1913) from Ganz & Comp. Danubius Maschinen-, Waggon- und Schiffbau-A.G., Fiume, to be called Hunyad. Hunyad is the name of a Hungarian comitat. 

1914 construction is suspended because of the war, 1916 resumed at a slow pace to free-up the slipway.

In 1920 the unfinished Yard Number 68 is launched without namegiving ceremony, while Ungaro-Croata is in liquidation at that time. The hull falls to the Kingdom Yugoslavia, pursuant to the Treaty of Trianon (1920). In this peace treaty Hungary ceded its merchant fleet, including ships under construction, to the Allied powers. The hull remains unused for over a decade, as no Yugoslavian company is in need of a large new passenger ship. 

In 1924 the shipyard, which is still Hungarian-owned, is re-established as Cantieri Navale del Quarnero.

 

Jugoslavija (1933)

 

In the early thirties Jadranska Plovidba d.d., Sušak, Kingdom Yugoslavia, in view of the growing popularity of leisure trips along the Adriatic coast, orders a new flagship from Swan, Hunter & Wigham Richardson in England, while Cantieri Navale del Quarnero is contracted to finish-off the hull of the Hunyad. Yard number 139 was assigned for this project, of which the design is revised on many points. 

February 1933 delivered, named Jugoslavija. Port of registry is Split. Put into service on the international and coastal express lines, where her running mates are the Prestolonaslednik Petar (1931), Karadjordje (1913), Ljubljana (1904) and Zagreb (1902).

 

Cattaro/D 36 (1941)

 

1941, after Germany and Italy invaded the Kingdom Yugoslavia, seized by the Italian armed forces. Renamed Cattaro.

18 January 1942 put under command of the Regia Marina. At Fiume rebuilt and armed as an auxiliary cruiser (name pennant D 36).

9 September 1943, the day after Italy’s surrender was announced, scuttled at Santa Margharita, Italy. Raised by the German armed forces.

22 March 1944 scuttled by the Germans to blockade the harbour entrance of Livorno, Italy (also known as Leghorn to English speakers).

14 June 1944 the wreck is heavily damaged during an air raid on Livorno.

 

After the war work begins on clearing the harbour entrance of Livorno. Ownership of the wreck of the Jugoslavija is formally returned to Yugoslavia.

 

1947 towed to Split, Yugoslavija, and broken up.

 

Giuliano Gotuzzo e sua moglie Nuccia

 

RINGRAZIAMENTO AL SIGNORE

di Giuliano Gotuzzo

 

Grazie Signore per tutte le cose belle che ho visto, per tutte le persone buone e cortesi che hai permesso di conoscere, per tutti i dolci ricordi che mi allieteranno la vita fine a che durerà.

 

Grazie per i sogni meravigliosi, rimasti tali, ma non importa. Grazie per avermi dato coraggio nei momenti tristi, e sono purtroppo molti. Ma la fede in te me li ha sempre resi sopportabili anche quando non lo sarebbero stati per niente. Grazie, o mio Signore, per la fede che mi hai donato e conservato.

 

Grazie per avermi fatto nascere in una meravigliosa famiglia che ho tentato di riprodurre a mia volta, ma con risultati decisamente scarsi. Grazie lo stesso, io ho sempre fatto come meglio ho potuto. Grazie per i meravigliosi suoni ai quali mi sono estasiato. Grazie per i superbi esempi di  dirittura morale e di amor di patria, di cui ho potuto venire a conoscenza.

 

Grazie per tutti i maestri e professori che insegnavano bene la loro materia, ma insegnavano anche a vivere. Grazie per avermi fatto nascere in questa Italia meravigliosa, ora un po’  in crisi, ma che, spero tanto, risorgerà più bella di prima.

 

Fatti coraggio Patria mia, il brutto passerà, ritornerai a risplendere come non mai. Signore accoratamente ti prego: mantieni sempre unita l'Italia e fa che gli Italiani si sentano un sol popolo e vivano in pace almeno tra loro. Quando morì mio padre molta gente che mi fermava per dirmi il suo dispiacere mi diceva: coraggio, cerca d'essere come era tuo padre e sarai sulla strada giusta. Cosi ho sempre cercato di fare ma eguagliare mio padre era impossibile. Ho fermamente tentato. Chissà se ci sono riuscito? Poi ci sono anche state tante cose negative. Ti ringrazio Signore di avermi sempre dato la pazienza ed il coraggio di sopportarle.

 

Spero un giomo di vederti per ringraziarti di tutto ciò. Per dirti tutto il mio amore, per ottenere il tuo perdono. Per godere finalmente della pace eterna.

 

 

Biografia di Giuliano Gotuzzo

Giuliano Gotuzzo nacque a Genova il 31.7.1931, suo padre era genovese e sua madre triestina. I suoi nonni erano espatriati in Perù e suo padre nacque a Lima. I genitori di Giuliano ritornarono in Italia per la sua nascita, poi si trasferirono di nuovo a Lima e vi rimasero per altri cinque anni, dopo di che ritornarono definitivamente in Italia.

Giuliano frequentò la scuola dell’obbligo e le medie al collegio Larco di Santa Margherita Ligure. All’età di dodici anni vide affondare una nave militare in porto, si trattava del Cattaro. Complice quel tragico avvenimento dell’8 settembre 1943, cominciò a desiderare la carriera militare. Informati i genitori del suo intento, ebbe una risposta negativa e, a malincuore, finite le scuole medie frequentò la quarta e quinta ginnasio.

 

Era tempo di guerra e fu bombardata la loro casa e il negozio dove suo padre lavorava. Furono costretti a sfollare a S.Lorenzo della Costa, dove una famiglia di contadini del posto, i signori Dapelo gli affittarono una stanza vicino ad un mulino che lui amò e ricordò per tutta la sua esistenza. Da sfollato non poteva frequentare regolarmente la scuola ma, fortuna volle, che a San Lorenzo si trovasse per lo stesso motivo anche la professoressa Bima la quale, con un certo coraggio e senso civico, impartiva lezioni scolastiche ai ragazzi all’aperto, sotto un grande albero.

Arrivò la fine della guerra e finalmente, con immensi sacrifici finanziari e difficoltà per raggiungere Camogli, riuscì a frequentare l’Istituto Nautico. Il suo sogno sembrava finalmente avverarsi, ma ancora una volta il destino gli fu avverso: giunto ormai all’ultimo anno, suo padre si ammalò di tumore al cervello e mancò alcuni mesi dopo, proprio il giorno di Natale. Giuliano riuscì a terminare il regolare corso di studio ma, proprio alla vigilia degli esami di diploma, sua madre fu colpita da infarto e dovette rinunciare agli esami, al suo sogno esistenziale, al suo futuro di Capitano di mare.

 

Era figlio unico e da quel giorno pensò soltanto ad accudire la madre e a lavorare. Il destino gli sorrise quando, riversando tutto il suo amore per le navi, cominciò a collezionare fotografie di navi di ogni tipo privilegiando quelle militari. Le sue possibilità non erano floride, tuttavia decise di acquistare un manuale di Aldo Fraccaroli dal titolo: “Saper fotografare”.

 

Acquistò anche una modestissima macchina fotografica e cominciò a dare la caccia a tutte le navi militari che ormeggiavano nel porto di Santa Margherita. All’epoca approdavano rimorchiatori, cacciatorpediniere, dragamine e persino qualche portaerei in rada. Giuliano imparò a sviluppare i negativi, stampare le foto, per poi tagliarle con grande maestria. Frequentò altri collezionisti e diventò molto amico di uno tra i più noti fotografi navali a livello mondiale: il già citato: Aldo Fraccaroli. In questo settore ebbe molti contatti con altri personaggi famosi: Giorgio Ghiglione, Giorgio Giorgerini, Molinari, Martinelli, Avv. Barilli, Dott. Pradignac ecc....

 

Aldo Fraccaroli si complimentò più volte con mio marito per la qualità delle foto scattate. Giuliano riuscì inoltre a farsi accettare nel più grande circolo di “shipslovers” del mondo, ma nonostante i successi ottenuti nel mondo della fotografia navale, nel suo cuore rimase sempre la tristezza per la ‘mancata’ carriera militare. Ha sempre ricordato con affetto e gratitudine le persone che lo avevano aiutato. Ogni tanto saliva a S.Lorenzo della Costa per salutare la famiglia Dapelo e aveva  sempre parole di affetto per la prof. Bima di Santa Margherita. Ogni tanto sognava di essere Comandante di una nave e spesso ripeteva che non l’avrebbe mai abbandonata, neppure se il destino l’avesse trascinata verso gli abissi più profondi del mare.

 

RINGRAZIAMENTI

 

Si ringrazia la Signora Nuccia Gotuzzo per averci concesso il materiale fotografico e le note autobiografiche del marito Giuliano.

 

Si ringrazia il Com.te Ernani Andreatta, Fondatore e Curatore del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta per le ricerche di materiale storico e fotografico effettuate in relazione all’argomento trattato.

 

Si ringrazia lo storico dott. Maurizio Brescia, Vicepresidente di Mare Nostrum, per la consulenza scientifica, l’identificazione di tutte le unità presenti nel porto di Santa Margherita e le ricerche effettuate in ambienti esclusivi della Marina Militare.

 

Si ringrazia infine “il giovane testimone di allora” ... che ci ha deliziato con i suoi freschissimi ricordi che ci ha deliziato con i suoi freschissimi ricordi di fatti, amici e situazioni di quel tempo quando il “SILENZIO” era il segreto per sopravvivere...

Carlo GATTI

Rapallo, 29 ottobre 2013