GLI EROI DI ALESSANDRIA
GLI EROI DELL'IMPRESA DI ALESSANDRIA
L'attacco ad Alessandria (18 - 19 dicembre 1941)
« ...sei Italiani equipaggiati con materiali di costo irrisorio hanno fatto vacillare l'equilibrio militare in Mediterraneo a vantaggio dell'Asse. » (Wiston Churchill) |
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Luigi Durand de la Penne ed altri cinque eroi hanno affondato le navi inglesi Valiant e Queen Elizabeth. La loro impresa é passata alla storia per audacia, coraggio e grande sangue freddo. Si servirono di tre S.L.C. (siluri a lenta corsa) trasportati dal sommergibile-appoggio Scirè comandato dal Capitano di Fregata J.V. BORGHESE che fu anche l’ideatore dell’Operazione G.A.3.
CHI ERANO?
Luigi Durand de la Penne - Tenente di Vascello
Medaglia d'oro al Valor Militare
“Ufficiale coraggioso e tenace, temprato nello spirito e nel fisico da un duro e pericoloso addestramento, dopo aver mostrato, in due generosi tentativi, alto senso del dovere e di iniziativa, forzava, al comando di una spedizione di mezzi d'assalto subacquei, una delle più potenti e difese basi navali avversarie, con una azione in cui concezione operativa ed esecuzione pratica si armonizzavano splendidamente col freddo coraggio e con l'abnegazione degli uomini. Dopo aver avanzato per più miglia sott'acqua e superando difficoltà ed ostacoli di ogni genere fino all'esaurimento di tutte le sue forze, disponeva la carica sotto una nave da battaglia nemica a bordo della quale veniva poi tratto esausto. Conscio di dover condividere l'immancabile sorte di coloro che lo tenevano prigioniero, si rifiutava di dare ogni indicazione sul pericolo imminente e serenamente attendeva la fine, deciso a non compromettere l'esito della dura missione. Rimasto miracolosamente illeso, vedeva, dalla nave ferita a morte, compiersi il destino delle altre unità attaccate dai suoi compagni. Col diritto alla riconoscenza della Patria conquistava il rispetto e la cavalleresca ammirazione degli avversari; ma non pago di ciò, una volta restituito alla Marina dopo l'armistizio, offriva nuovamente se stesso per la preparazione e l'esecuzione di altre operazioni, sublime esempio di spirito di sacrificio, di strenuo coraggio e di illuminato amor di Patria. Alessandria d'Egitto, 18 - 19 dicembre 1941.”
Nacque a Genova l'11 febbraio 1914. Dopo aver conseguito il diploma di Capitano Marittimo presso l'Istituto Nautico San Giorgio di Genova, nell'ottobre 1934 frequentò, presso l'Accademia Navale di Livorno, il Corso Ufficiali di complemento, al termine del quale, nel grado di Guardiamarina, imbarcò sul cacciatorpediniere Fulmine.Nel 1935 passò ad operare nell'ambito della 6a Squadriglia MAS di La Spezia e, trattenuto in servizio per esigenze eccezionali, connesse al conflitto italo-etiopico, nel 1938 conseguì la promozione a Sottotenente di Vascello. Nel secondo conflitto mondiale partecipò a numerose missioni con i MAS nel Mediterraneo e nell'ottobre 1940 conseguì la promozione a Tenente di Vascello. Passato ad operare con il Gruppo mezzi d'assalto, partecipò alla missione di Gibilterra (30 ottobre 1940) e all'impresa di forzamento della base inglese di Alessandria - Capogruppo dei "maiali" 221, 222 e 223 condotti rispettivamente dallo stesso Luigi Durand de la Penne, da Vincenzo Martellotta, e Antonio Marceglia, coadiuvati dai capi palombari Emilio Bianchi e Mario Marino e dal sottocapo Spartaco Schergat - che portò, all'alba del 19 dicembre 1941 all'affondamento delle navi da battaglia inglesi Valiant e Queen Elizabeth, della petroliera Sagona e al danneggiamento del cacciatorpediniere Jervis. De la Penne, dopo aver superato con notevoli difficoltà le ostruzioni del porto, da solo collocò la carica esplosiva sotto le torri di prora della Valiant e, risalito in superficie, venne scoperto e fatto prigioniero. Portato a bordo con il 2° capo Emilio Bianchi, secondo operatore del suo mezzo, fu rinchiuso in un locale adiacente al deposito munizioni e vi fu tenuto anche dopo che ebbe informato il comandante dell'unità inglese, Capitano di Vascello Morgan, dell'imminenza dello scoppio della carica, al fine di far porre in salvo l'equipaggio.Uscito indenne dall'esplosione che affondò la nave, tradotto prigioniero in India, nel febbraio 1944 rimpatriò a partecipò alla guerra di liberazione nel Gruppo Mezzi d'Assalto.Tutti gli operatori vennero poi decorati di Medaglia d'Oro al Valore Militare e promossi per merito di guerra. La consegna della decorazione a Luigi Durand de la Penne avvenne a Taranto nel marzo 1945 e fu l'occasione di uno storico episodio: fu infatti lo stesso comandante della Valiant nel 1941, Capitano di Vascello Sir Charles Morgan, divenuto ammiraglio, che decorò Luigi Durand de la Penne, su invito del luogotenente del Regno Umberto di Savoia che presiedeva la cerimonia. Promosso Capitano di Corvetta in data 31 dicembre 1941, Capitano di Fregata nel 1950 e Capitano di Vascello a scelta eccezionale nel 1954, nell'ottobre 1956 fu Addetto Navale in Brasile quindi, per mandato politico a seguito della sua elezione a Deputato al Parlamento (2a, 3a , 4a, 5a e 6a legislatura), fu collocato in aspettativa ed iscritto nel Ruolo d'Onore, dove raggiunse il grado di Ammiraglio di Squadra. L'Ammiraglio di Squadra (R.O.) Luigi Durand de la Penne morì a Genova il 17 gennaio 1992.
Altre decorazioni e riconoscimenti per merito di guerra:
• Medaglia d'Argento al Valore Militare sul Campo (Gibilterra, 1940);
• Trasferimento in s.p.e. nel grado di Tenente di Vascello (1941);
• Promozione al grado di Capitano di Corvetta (1941).
Antonio MARCEGLIA Capitano del Genio Navale
Medaglia d'oro al Valor Militare
“Ufficiale di altissimo valore, dopo aver dedicato tutte le sue forze ad un pericoloso e logorante periodo di addestramento, prendeva parte ad una spedizione di mezzi d'assalto subacquei che forzava una delle più potenti e difese basi navali avversarie, con un'azione in cui concezione operativa ed esecuzione pratica si armonizzavano splendidamente col freddo coraggio e con l'abnegazione degli uomini. Dopo aver avanzato per più miglia sott'acqua e superando difficoltà ed ostacoli di ogni genere, disponeva la carica sotto una nave da battaglia avversaria e, dopo aver distrutto l'apparecchio, prendeva terra sul suolo nemico dove veniva fatto prigioniero, non prima, però, di aver visto il pieno successo della sua azione. Luminoso esempio di cosciente eroismo e di alto spirito di sacrificio, si palesava degno in tutto delle gloriose tradizioni della Marina Italiana. Non pago di ciò, una volta restituito alla Marina dopo l'armistizio, offriva nuovamente se stesso per la preparazione e l'esecuzione di altre operazioni. Alessandria, 18 - 19 dicembre 1941”
Nacque a Pirano (Pola) il 28 luglio 1915. Allievo dell'Accademia Navale nel Corpo del Genio Navale dal 1933, nel dicembre 1938 conseguì la nomina a Sottotenente del Genio Navale e, dopo la laurea ottenuta con il massimo dei voti nello stesso anno all'Università di Genova, conseguì la promozione a Tenente. Destinato prima presso il Comando Militare Marittimo Autonomo dell'Alto Adriatico, imbarcò poi su sommergibili e, alla dichiarazione di guerra dell'Italia del 10 giugno 1940, si trovava imbarcato sul sommergibile Ruggiero Settimo, con il quale partecipò a tre missioni in Mediterraneo. Nell'ottobre 1940, a domanda, passo nel Gruppo Mezzi d'Assalto e dopo un duro addestramento partecipò a due missioni contro la base navale inglese di Gibilterra (maggio e settembre 1941). Promosso Capitano G.N. nel gennaio 1941, nel dicembre dello stesso anno partecipò all'audace missione di forzamento del porto di Alessandria - condotta nella notte dal 18 al 19 dicembre, nell'incarico di 1° operatore del mezzo speciale 223 (2° operatore Palombaro Spartaco Schergat - che culminò con l'affondamento di due navi da battaglia inglesi (Valiant e Queen Elizabeth) e della petroliera Sagona e col danneggiamento del cacciatorpediniere britannico Jervis. Dopo l'azione condotta con successo contro la corazzata Queen Elizabeth, fu fatto prigioniero a condotto al campo per prigionieri di guerra n. 321, in Palestina, quindi fu trasferito in India. Rimpatriato nel febbraio 1944, partecipò alla guerra di liberazione con i Mezzi d'Assalto, compiendo una missione di guerra nell'Italia occupata dai tedeschi. Posto in congedo, a domanda, nel dicembre 1945 ed iscritto nel Ruolo del complemento con il grado di Tenente Colonnello G.N., assunse a Venezia la direzione di un cantiere navale. Il Tenente Colonnello G.N. Antonio Marceglia è morto a Venezia il 13 luglio 1992. Altre decorazioni e riconoscimenti per merito di guerra:
• Medaglia d'Argento al Valore Militare sul Campo (Gibilterra, maggio 1941);
• Croce di Guerra al Valore Militare sul Campo (Gibilterra, settembre 1941);
• Promozione a Maggiore Genio Navale (1941).
Vincenzo MARTELLOTTA Capitano delle Armi Navali
Medaglia d'oro al Valor Militare
“Ufficiale di altissimo valore, dopo aver dedicato tutte le sue forze ad un pericoloso e logorante periodo di addestramento, prendeva parte ad una spedizione di mezzi d'assalto subacquei che forzava una delle più potenti e difese basi navali avversarie, con un'azione in cui concezione operativa ed esecuzione pratica si armonizzavano splendidamente col freddo coraggio e con l'abnegazione degli uomini. Dopo aver avanzato per più miglia sott'acqua e superato difficoltà ed ostacoli di ogni genere, disponeva la carica sotto una nave avversaria e, dopo aver distrutto l'apparecchio, prendeva terra sul suolo nemico dove veniva fatto prigioniero, non prima, però, di aver visto il pieno successo della sua azione. Luminoso esempio di cosciente eroismo e di alto spirito di sacrificio, si palesava degno in tutto delle gloriose tradizioni della Marina Italiana. Non pago di ciò, una volta restituito alla Marina dopo l'armistizio, offriva nuovamente se stesso per la preparazione e l'esecuzione di altre operazioni. Alessandria, 18 - 19 dicembre 1941”.
Nacque a Taranto il 1° gennaio 1913. Dopo aver conseguito la maturità classica presso il Liceo Morea di Conversano (Bari) ed iscritto al 1° anno nella Facoltà di Ingegneria dell'Università di Napoli, attratto dal mare, inoltrò domanda all'Accademia Navale di Livorno e nell'ottobre 1931 fu ammesso Allievo nel Corpo delle Armi Navali. Nel 1934 venne destinato all'Istituto Superiore di Guerra a Torino e, presso il Politecnico di questa città, conseguì la laurea in Ingegneria Industriale. Promosso Sottotenente A.N. nel 1935 e Tenente A.N. nel 1936, nell'ottobre 1937 e dopo aver terminato il Corso integrativo presso l'Accademia Navale, fu destinato a Massaua quale Ufficiale Dirigente delle Officine Siluri e Artiglieria e dell'Autoreparto. Rimpatriato nel 1939, svolse incarichi prima presso la Direzione Armi Subacquee a La Spezia e poi presso il Reparto Siluri, Lanciasiluri, Torpedini e Collaudo Sommergibili a Taranto. Nell'ottobre 1940, a domanda, passo negli operatori dei mezzi d'assalto ed al termine del duro corso addestrativo partecipò all'azione su Malta il 26 luglio 1941 ed a quella su Alessandria sulla notte dal 18 al 19 dicembre 1941, che culminò con l'affondamento di due corazzate e di una petroliera inglese. Coadiuvato dal 2° operatore Capo palombaro di 3a classe Mario Marino, attaccò la petroliera Sagona affondandola e danneggiando il cacciatorpediniere britannico Jervis. Tratto prigioniero dopo la vittoriosa azione, rimpatriò nel febbraio 1944 e partecipo alla guerra di liberazione nei Mezzi d'Assalto. Terminato il conflitto partecipò volontariamente alto sminamento ed alla bonifica dei porti di Genova, San Remo, Oneglia e Porto Maurizio, e, assieme al fratello Diego, Maggiore dei Bersaglieri ed esperto in chimica di guerra, alla bonifica dei porti di Brindisi, Bari, Barletta, Molfetta e Manfredonia. Nel 1947, con gli uomini del Nucleo di cui era al comando, domò un incendio sviluppatosi in un deposito di esplosivi a Bari e neutralizzo un potente aggressivo chimico fuoriuscito da un ordigno, scongiurando cosi gravissimi danni alla cittadinanza. Per questa azione, nella quale riporto ustioni da iprite tali da rendere necessario il suo ricovero in ospedale, venne decorato di Medaglia d'Argento al Valore Civile. Promosso Tenente Colonnello A.N. nel gennaio 1953, nel 1960, a domanda, venne collocato in ausiliaria nel grado di Colonnello A.N. Mori a Castelfranco Emilia (Modena) il 27 agosto 1973. Altre decorazioni e riconoscimenti per merito di guerra:
• Medaglia d'Argento al Valore Militare (Malta, luglio 1941);
• Medaglia d'Argento al Valore Civile (Porto di Bari, 1947);
• Promozione a Maggiore A.N. (1941).
Emilio BIANCHI Capo Palombaro di 3a Classe
Medaglia d'oro al Valor Militare
“Eroico combattente, fedele collaboratore del suo ufficiale, dopo averne condivisi i rischi di un tenace, pericoloso addestramento, lo seguiva nelle più ardite imprese e, animato dalla stessa ardente volontà di successo, partecipava con lui ad una spedizione di mezzi d'assalto subacquei che forzava una delle più potenti e difese basi navali avversarie, con un'azione in cui concezione operativa ed esecuzione pratica si armonizzavano splendidamente col freddo coraggio e con l'abnegazione degli uomini. Dopo aver avanzato per più miglia sott'acqua e superato difficoltà ed ostacoli di ogni genere, valido e fedele aiuto dell'ufficiale le cui forze erano esauste, veniva catturato e tratto sulla nave già inesorabilmente condannata per l'audace operazione compiuta. Noncurante della propria salvezza si rifiutava di dare ogni indicazione sul pericolo imminente, deciso a non compromettere l'esito della dura missione. Col suo eroico comportamento acquistava diritto all'ammirata riconoscenza della Patria e al rispetto dell'avversario. Alessandria, 18 - 19 dicembre 1941”.
Nacque a Sondalo (Sondrio) il 22 ottobre 1912. Volontario nella Regia Marina dal marzo 1932 ed assegnato alla categoria Palombari, frequentò il Corso di specializzazione presso la Scuola C.R.E.M. del Varignano (La Spezia) ed al termine imbarcò sulla nave idrografica Ammiraglio Magnaghi, con la quale compi poi due crociere idrografiche nell'Egeo e nel Mar Rosso. Nel 1934 imbarcò sull'incrociatore Fiume, dove conseguì la promozione a Sottocapo, e nel 1936 venne destinato al 1° Gruppo Sommergibili di La Spezia. Conseguita la promozione a Sergente nel 1937, passò ad operare nella 1a Flottiglia MAS, dando inizio all'addestramento che lo doveva poi far diventare Operatore dei mezzi d'assalto subacquei. Durante il conflitto partecipò, nel grado di 2° Capo, ai due tentativi di forzamento della base inglese di Gibilterra (ottobre e novembre 1940), quindi all'audace forzamento della base di Alessandria come 2° operatore dell'LSC (maiale) n. 221 condotto dal Tenente di Vascello Luigi Durand de La Penne. Partito da bordo del sommergibile Sciré nella notte del 18 dicembre, dopo aver superato gli sbarramenti penetrò con il suo capo operatore all'interno del porto e portò il suo mezzo esplosivo sotto la chiglia della nave da battaglia inglese Valiant, che per lo scoppio, affondò all'alba del 19 dicembre. Colpito durante il tragitto da intossicazione di ossigeno, a causa del durissimo sforzo che ebbe a compiere durante le cinque ore di immersione, costretto a risalire a galla, dopo qualche tempo fu scoperto dalle sentinelle di bordo e, assieme al suo comandante, rinchiuso in un locale di bordo posto nelle immediate vicinanze della santabarbara. Salvatosi fortuitamente dopo lo scoppio della carica, che provocò l'affondamento della nave, venne condotto in un campo di concentramento e rimpatriato al termine del conflitto. Promosso per meriti di guerra Capo di 3a Classe e di 2a Classe, nel 1954, a scelta, conseguì la promozione a Capo di 1a Classe Palombaro. Nel grado di Ufficiale del C.E.M.M. prestò successivamente servizio al Centro Subacqueo del Varignano, al Nucleo Sminamento di Genova ed infine all'Accademia Navale di Livorno, terminando la carriera nel grado di Capitano di Corvetta (CS). Altri riconoscimenti per merito di guerra:
• Promozione a Capo 3a Classe (1941);
• Promozione a Capo 2a Classe (1941).
Mario MARINO Capo palombaro di 3^ classe
Medaglia d'oro al Valor Militare
“Eroico combattente, fedele collaboratore del suo Ufficiale, dopo averne condivisi i rischi di un tenace, pericoloso addestramento, lo seguiva nelle più ardite imprese e, animato dalla stessa ardente volontà di successo, partecipava con lui ad una spedizione di mezzi d'assalto subacquei che forzava una delle più potenti e difese basi navali avversarie, con un'azione in cui concezione operativa ed esecuzione pratica si armonizzavano splendidamente col freddo coraggio e con l'abnegazione degli uomini. Dopo aver avanzato per più miglia sott'acqua e superato difficoltà ed ostacoli di ogni genere, valido e fedele aiuto dell'Ufficiale; offesa a morte con ferma bravura, la nave attaccata, seguiva in prigionia la sorte del suo Capo, rifiutandosi costantemente di fornire al nemico qualsiasi indicazione. Superbo esempio di ardimento nell'azione e di eccezionali qualità morali. Alessandria, 18 - 19 dicembre 1941”.
Nacque a Salerno il 27 marzo 1914. Volontario nella Regia Marina dal gennaio 1934 ed assegnato alla categoria Palombari, frequentò il corso presso la Scuola C.R.E.M. del Varignano (La Spezia) ed al termine fu destinato presso il Comando Marina di Gaeta. Imbarcò poi sul cacciatorpediniere Freccia e nel 1936 sul sommergibile H.6 sul quale frequento il 1° Corso Sommozzatori ed effettuò le prime sperimentali uscite da sommergibile immerso. A corso ultimato s'imbarcò sull'esploratore da Recco, col quale partecipò a missioni di guerra durante il conflitto italo-etiopico e nella guerra di Spagna. Nel 1938 prese successivamente imbarco sulle navi appoggio Teseo e Titano e su quest'ultima frequentò il Corso per Alti Fondali. Il 4 giugno 1940 sbarcò dal Titano a passò in forza alla 1a Flottiglia MAS quale operatore subacqueo dei mezzi d'assalto ideati dal Maggiore del Genio Navale Teseo Tesei, e partecipò a missioni di guerra con i MAS. Promosso 2° Capo Palombaro Sommozzatore, nel maggio 1941, partecipò, nella notte tra il 26 ed il 27 luglio 1941, all'impresa di forzamento della base navale inglese di Malta nell'incarico di 2° operatore del mezzo di riserva a disposizione del Capitano delle Armi Navali Vincenzo Martellotta. Sempre con Vincenzo Martellotta partecipò, col semovente 222, al forzamento della base navale inglese di Alessandria del 18 e 19 dicembre 1941, coronato dal successo con l'affondamento di due navi da battaglia e di una grossa petroliera ed il danneggiamento di un cacciatorpediniere. Tratto in prigionia dopo la riuscita missione, rimpatriò nell'ottobre 1944, partecipando poi alla guerra di liberazione nel Gruppo Mezzi d'Assalto. Promosso Capo di 1a Classe nel 1949, Sottotenente del C.E.M.M. nel 1962, ebbe il comando del Gruppo S.D.A.I. di La Spezia che mantenne fino al suo collocamento in ausiliaria, avvenuto nel grado di Capitano di Corvetta (CS) nel marzo 1977. Il Capitano di Corvetta (CS) Mario Marino è morto a Salerno l'11 maggio 1982.
Altre decorazioni a riconoscimenti per merito di guerra:
• Medaglia di Bronzo al Valore Militare (Canale di Sicilia, 1941);
Promozione a Capo Palombaro di 3a Classe.
Spartaco SCHERGAT Palombaro
Medaglia d'oro al Valor Militare
“Eroico combattente, fedele collaboratore del suo Ufficiale dopo averne condiviso i rischi di un tenace, pericoloso addestramento, lo seguiva nelle più ardite imprese e, animato dalla stessa ardente volontà di successo, partecipava con lui ad una spedizione di mezzi d'assalto subacquei che forzava una delle più potenti e difese basi navali avversarie, con un'azione in cui concezione operativa ed esecuzione pratica armonizzavano splendidamente col freddo coraggio e con l'abnegazione degli uomini. Dopo aver avanzato per più miglia sott'acqua e superato difficoltà ed ostacoli di ogni genere, valido e fedele aiuto dell'Ufficiale; offesa a morte con ferma bravura, la nave attaccata, seguiva in prigionia la sorte del suo Capo, rifiutandosi costantemente di fornire al nemico qualsiasi indicazione; superbo esempio di ardimento nell'azione e di eccezionali qualità morali. Alessandria, 18 - 19 dicembre 1941”.
Nacque a Capodistria (Pola) il 12 luglio 1920. Volontario nella Regia Marina dal marzo 1940, ed assegnato alla categoria Palombari, al termine del corso sostenuto presso la Scuola C.R.E.M. di San Bartolomeo (La Spezia) e brevettato palombaro, a domanda, passo nella X Flottiglia MAS quale Operatore dei mezzi speciali d'assalto. Partecipò alle missioni di forzamento di Gibilterra del maggio e del settembre 1941 e all'impresa di Alessandria dell'alba del 19 dicembre dello stesso anno quando, 2° operatore del "maiale" condotto dal Capitano G.N. Antonio Marceglia, portò il carico di esplosivo sotto la corazzata inglese Queen Elizabeth che, per lo scoppio della carica, affondò all'alba del 19 dicembre 1941. Fatto prigioniero e condotto nel campo inglese n. 321 in Palestina, nell'ottobre 1944 rientrò in Patria partecipando alla guerra di liberazione nel Gruppo Mezzi d'Assalto. Congedato nel novembre 1945, fu iscritto nel Ruolo d'Onore nel grado di 2° Capo. Altre decorazioni e riconoscimenti per merito di guerra:
• Medaglia di Bronzo al Valore Militare (Gibilterra, 1941);
• Croce di Guerra al Valore Militare (Gibilterra, 1941);
• Croce di Guerra al Valore Militare (Mediterraneo occidentale, settembre-novembre 1941); Promozione a Sergente (1941).
L'affondamento della Valiant e della Queen Elizabeth
La più celebre delle azioni della Xª Flottiglia MAS (operazione G.A.3), l'affondamento delle corazzate inglesi Valiant e Queen Elizabeth e della petroliera Sagona ormeggiate nel porto di Alessandria d'Egitto, venne effettuata il 19 dicembre 1941. Si trattò di una sorta di rivincita delle forze armate italiane per le gravi perdite navali subite nella "notte di Taranto" (ottobre 1940). È rimasta famosa come: Impresa di Alessandria.
Foto di Autore ignoto, scattata nel 1942 e ripresa dal sito regiamarina.net; la foto ritrae lo Scirè con sul ponte di coperta i contenitori per due mezzi d'assalto.
La notte del 3 dicembre il sommergibile Sciré, al comando dal Tenente di vascello Junio valerio Borghese lasciò La Spezia per la missione G.A.3. Fece scalo a Lero per imbarcare gli operatori dei mezzi d'assalto giunti in aereo dall’Italia. Il 14 dicembre il sommergibile si diresse verso la costa egiziana per l'attacco previsto nella notte del 17. A causa di una violenta mareggiata l'azione ritardò di un giorno. “Tutto il male non vien per nuocere”, recita un vecchio adagio. Infatti, la notte del 18, il mare spianò completamente, non solo, ma proprio quella notte i nostri eroi approfittarono dell'arrivo di tre cacciatorpediniere per entrare nel varco aperto nelle difese del porto. I treSCL (Siluro a lunga corsa), pilotati ciascuno da due uomini, penetrarono nella base per dirigersi verso i loro obiettivi. Capogruppo dei "maiali" 221, 222 e 223 condotti rispettivamente dallo stesso Durand de la Penne, Vincenzo Martellotta, e Antonio Marceglia, coadiuvati dai capi palombari Emilio Bianchi e Mario Marino e dal sottocapo Spartaco Schergat.
Gli incursori dovevano giungere sotto la chiglia del proprio bersaglio, piazzare la carica d'esplosivo e successivamente abbandonare la zona dirigendosi a terra e autonomamente cercare di raggiungere il sommergibile che li avrebbe attesi qualche giorno dopo al largo di Rosetta.
Siluro a lenta corsa detto comunemente “MAIALE” – (Museo Sacrario delle Bandiere delle Forze Armate, Vittoriano - Roma.
Il sommergibile Scirè, dopo una navigazione in zona minata, si portò davanti al porto di Alessandria d'Egitto «a 1,3 miglia nautiche, per 356° dal Fanale del molo di ponente del porto commerciale di Alessandria, in fondale di m.15» e da lì lasciò partire la flottiglia di maiali che attaccarono le navi inglesi ancorate nel porto. Antonio Marceglia e Spartaco Schergat affondarono la corazzata Queen Elizabeth, Vincenzo Martellotta e Mario Marino la petroliera Sagona e danneggiarono il cacciatorpediniere Jervis.
Nave da Battaglia HMS Valiant
L'equipaggio Durand de la Penne - Bianchi sul maiale nº 221 puntò verso la nave da battaglia Valiant. Perso il secondo a causa di un malore, Durand de la Penne trascinò sul fondo il proprio mezzo fino a posizionarlo sotto la carena della nave da battaglia prima di affiorare, essere catturato e portato proprio sulla corazzata. Dopo poco, gli inglesi catturarono anche Bianchi, che era risalito alla superficie e si era aggrappato ad una boa di ormeggio della corazzata, e lo rinchiusero nello stesso compartimento sotto la linea di galleggiamento nel quale avevano portato Durand de la Penne, nella speranza di convincerli a rivelare il posizionamento delle cariche.
Alle 05,30, a mezz'ora dallo scoppio, de la Penne chiamò il personale di sorveglianza per farsi condurre dall'ammiraglio Cunningham, comandante della Mediterranean Fleet, ed informarlo del rischio corso dall'equipaggio; ciò nonostante Cunningham fece riportare l'ufficiale italiano dov'era. All'ora prevista, l'esplosione squarciò la carena della corazzata provocando l'allagamento di diversi compartimenti mentre molti altri venivano invasi dal fumo, ma il compartimento che ospitava gli italiani rimase intatto e i due vennero evacuati insieme al resto dell'equipaggio. La Valiant e la Queen Elizabeth, grazie alle acque basse del porto non affondarono completamente e dopo lunghi lavori di riparazione furono recuperate e rimesse in servizio.
Martellotta e Marino, sul maiale nº 222, costretti a navigare in superficie a causa di un malore del primo, condussero il loro attacco alla petroliera Sagona. Dopo aver preso terra vennero anch'essi catturati dagli egiziani. Intorno alle sei del mattino successivo ebbero luogo le esplosioni. Quattro navi furono gravemente danneggiate nell'impresa: oltre alle tre citate anche il cacciatorpediniere HMS Jervis, ormeggiato a fianco della Sagona, fu infatti vittima delle cariche posate dagli assaltatori italiani.
Nave da battaglia QUEEN ELIZABETH
Marceglia e Schergat sul maiale nº 223, in una «missione perfetta», «da manuale» rispetto a quelle degli altri operatori, attaccarono invece la Queen Elizabeth, alla quale agganciarono la testata esplosiva del loro maiale, quindi raggiunsero terra e riuscirono ad allontanarsi da Alessandria, per essere catturati il giorno successivo, a causa dell'approssimazione con la quale il nostro servizio segreto militare, il SIM, aveva preparato la fuga: vennero date agli incursori banconote che non avevano più corso legale in Egitto e per cercare di cambiare le quali l'equipaggio perse tempo. Nonostante il tentativo degli italiani di spacciarsi per marinai francesi appartenenti all'equipaggio di una delle navi in rada, vennero riconosciuti e catturati.
Sebbene l'azione fosse stata un successo, le navi si adagiarono sul fondo, e non fu immediatamente possibile avere la certezza che non fossero in grado di riprendere il mare. Nonostante tutto, le perdite di vite umane furono molto contenute: solo 8 marinai persero la vita.
L'azione italiana costò agli inglesi, in termini di naviglio pesante messo fuori uso, come una battaglia navale perduta e fu tenuta per lungo tempo nascosta anche a causa della cattura degli equipaggi italiani che effettuarono la missione. La Valiant subì danni alla carena in un'area di 20 x 10 m a sinistra della torre A, con allagamento del magazzino munizioni A e di vari compartimenti contigui. Anche gli ingranaggi della stessa torre vennero danneggiati e il movimento meccanico impossibilitato, oltre a danni all'impianto elettrico. La nave dovette trasferirsi a Durban per le riparazioni più importanti che vennero effettuate tra il 15 aprile ed il 7 luglio 1942. Le caldaie e le turbine rimasero però intatte. La Queen Elizabeth invece fu squarciata sotto la sala caldaie B con una falla di 65 x 30 m che passava da dritta a sinistra, danneggiando l'impianto elettrico ed allagando anche i magazzini munizioni da 4,5", ma lasciando intatte le torri principali e secondarie. La nave riprese il mare solo per essere trasferita a Norfolk, in Virginia, dove rimase in riparazione per 17 mesi.
Per la prima volta dall'inizio del conflitto, la flotta italiana si trovava in netta superiorità rispetto a quella britannica, a cui non era rimasta operativa alcuna corazzata la HMS Barham era stata a sua volta affondata da un sommergibile tedesco il 25 novembre 1941). La Mediterranean Fleet alla fine del 1941 disponeva solo di quattro incrociatori leggeri e alcuni cacciatorpediniere.
L'ammiraglio Cunningham per ingannare i ricognitori italiani decise di rimanere con tutto l'equipaggio a bordo dell'ammiraglia che, fortunatamente per lui, si appoggiò sul fondale poco profondo. Per mantenere credibile l'inganno nei confronti della ricognizione aerea, sulle navi si svolgevano regolarmente le cerimonie quotidiane, come l'alzabandiera. Poiché l'affondamento avvenne in acque basse le due navi da battaglia furono recuperate negli anni successivi, ma la sconfitta rappresentò un colpo durissimo per la flotta britannica, che condizionò la strategia operativa anche ben lontano dal teatro operativo del Mediterraneo. A questo proposito, Churchill scrisse:
« Tutte le nostre speranze di riuscire a inviare in Estremo Oriente delle forze navali dipendevano dalla possibilità d’impegnare sin dall’inizio con successo le forze navali avversarie nel Mediterraneo »
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Tuttavia, contrasti tra gli Stati Maggiori dell'ASSE non permisero di sfruttare questa grande occasione di conquistare il predominio aeronavale nel Mediterraneo e occupare Malta.
Durante il periodo dell'armistizio de la Penne venne decorato con la medaglia d'oro al valor militare che gli venne appuntata dalcommodoro sir Charles Morgan, ex comandante della Valiant. Stessa decorazione venne concessa agli altri cinque operatori della Xª.
Dal sito di PPORTOFINO riportiamo:
DURAND DE LA PENNE, AMMIRAGLIO SIMBOLO DI PORTOFINO Subito dopo l’ingresso dei piccolo cimitero di Portofino, posto in uno dei luoghi più belli dei mondo, si vede a sinistra un busto dell’eroe di Alessandria d’Egitto, l’ammiraglio Durand De la Penne, Medaglia d’oro al Valor Militare. E’ stato donato dai portofinesi in onore e memoria e scolpito da Lorenzo Cascio – artista presente con il suo studio in Piazzetta sulla destra, prima di salire verso la Chiesa di San Giorgio.
Visto di profilo, il busto ci dà l’esatta impressione del temperamento volitivo dell’uomo con quello sguardo deciso che ci fa ricordare la fredda risoluzione con la quale egli seppe realizzare l’affondamento, ad Alessandria d’Egitto, della corazzata inglese “Valiant”.
I suoi stessi avversari ne riconobbero appieno l’eroismo. Simbolicamente posto in un luogo dal quale si domina il mare, quel busto sta a significare l’affetto di un’intera popolazione per un uomo che ha rischiato la vita nel mare che è sempre stato l’elemento essenziale della vita portofinese. Luigi Durand De la Penne 1914 – 1992
Carlo GATTI
Rapallo, 1 Gennaio 2014
L'ODISSEA DEL M/n PIETRO ORSEOLO
L’ODISSEA del mercantile
PIETRO ORSEOLO
Violatore di blocco navale
NAVI BLOCCATE all’estero .....
L’episodio che tenteremo di raccontare supera in fantasia la trama di romanzi famosi. Tutto inizia il 10 giugno 1940 con la Dichiarazione di guerra da parte dell’Italia: 214 navi mercantili italiane rimasero bloccate in porti stranieri, di queste, 38 si autoaffondarono, 20 riuscirono a violare il blocco, 16 furono catturate o autoaffondate nel tentativo di violare il “blocco navale”, 47 furono impiegate in guerra dagli alleati di cui cinque affondarono nel corso dello sbarco in Normandia, e ben 8 affondate per cause imputabili ad eventi bellici, ancor prima dell’entrata in guerra dell’Italia.
L’epopea vissuta da quegli eroici equipaggi, il loro internamento e spesso l’incarcerazione alla stregua di delinquenti comuni, avvenuta ancor prima che gli Stati Uniti scendessero in guerra dopo Pearl Harbour, le intrepide e pericolose traversate nel violare il blocco navale avversario, costituiscono una delle pagine di storia più valorose che siano state scritte dagli EQUIPAGGI CIVILI italiani e che pochi conoscono perché mai propagandate a tempo debito.
La Pietro Orseolo in allestimento a Monfalcone dopo il varo, il 15 luglio 1939
L’odissea della Pietro Orseolo fa parte di quel capitolo della storia navale che riguarda una delle prime grandi motonavi da carico previste dalla Legge Benni. L’unità aveva le seguenti caratteristiche:
Stazza netta= 3715 t / Stazza lorda= 6344,37 t / Portata lorda= 10.307 t. Lunghezza f.t.= 143,60 mt / Pescaggio= 7,20 m / Propulsione: 1 motore diesel FIAT 646, potenza 5000 Cv/asse / 1 Elica. Velocità = 15 nodi-16,29 (max.) Artiglieria dal 1942: 1 cannone da 105 mm - 2 mitragliere da 20 mm , 2 mitragliere da 9 mm.
La Pietro Orseolo, in virtù della sua elevata velocità (oltre 15 nodi), venne noleggiata dal Lloyd Triestino, che la utilizzò sulle linee per il Giappone e l'Estremo Oriente.
All'entrata dell'Italia nel Secondo conflitto mondiale, il 10 giugno 1940, la Pietro Orseolo si trovava a Kobe, in Giappone. Dopo un anno e mezzo d’inattività, solo tre unità che stazionavano in Estremo Oriente furono giudicate adatte all’esportazione e trasporto della gomma naturale verso la Francia dai tedeschi. Tra queste vi era la Pietro Orseolo, il suo compito era difficilissimo: violare il blocco alleato attraversando due oceani sorvegliati dai sottomarini alleati in agguato.
Supermarina dispose la sua partenza in modo che l'arrivo dei “violatori di blocco” nell'Atlantico settentrionale, ed in particolare nel golfo di Biscaglia, avvenisse in inverno, possibilmente con le tempeste più forti e le notti più lunghe, tali da eludere la sorveglianza alleata.
Dopo i necessari lavori per rimetterla in condizione di affrontare una lunga traversata senza scalo, l'Orseolo imbarcò un carico di 6.646 tonnellate di gomma grezza ed altri materiali d'interesse bellico, tra cui la vernice speciale per aerei detta agar-agar.
Camuffata da piroscafo norvegese iscritto presso il Compartimento Marittimo di Oslo, la nave lasciò Kobe la sera del 24 dicembre 1941, al comando del capitano Zustovich, un equipaggio di 48 uomini, tra cui otto ufficiali. Nelle stive erano state collocate cariche di termite da usarsi in caso di autoaffondamento.
Con l’entrata in guerra degli Stati Uniti, il Comandante scelse la via del- l'Oceano Pacifico e, una volta giunti a Capo Horn, la nave avrebbe risalito l’Atlantico. L’ETA (estimated time arrival) ad Irun, presso il confine franco-spagnolo, era stato calcolato per il 21 febbraio 1942.
FUOCO AMICO. Due giorni dopo la partenza, due biplani giapponesi, provenienti dalla direzione del sole, bombardarono e mitragliarono ripetutamente la nave italiana scambiandola per un'unità nemica e danneggiando l'albero maestro ed il fumaiolo con il tiro delle mitragliere.
Dopo i festeggiamenti del nuovo anno, le prime due settimane del 1942 trascorsero tranquille, ma il 6 gennaio, incrociando il meridiano 160° Ovest, il Comandante si rese conto di essere in ritardo di ventiquatt'ore rispetto al previsto, a causa delle correnti contrarie; decise allora di modificare la rotta e rischiare incontri pericolosi.
Il 15 gennaio la Pietro Orseolo, infatti, avvistò tre navi da guerra sulla dritta che navigavano in formazione ad elevata velocità. La nave italiana virò rapidamente allontanandosi senza essere avvistata. Pochi giorni dopo la nave, procedendo decisamente verso Capo Horn passò dal caldo tropicale al freddo intenso.
Il 25 gennaio 1942 la Pietro Orseolo doppiò Capo Horn ed entrò nell'Oceano Atlantico navigando tra i numerosi iceberg alla deriva e la nebbia fitta. La nave fece rotta verso nord, risalendo l’Atlantico tra il Brasile e la Sierra Leone. Causa il maltempo, le correnti contrarie e le deviazioni dalla rotta, la Pietro Orseolo registrò un ritardo di due giorni sull’ETA previsto.
La motonave, forzando i motori e tracciando rotte sempre più rischiose, giunse la sera del 22 febbraio 1942 ad Irun, presso il confine franco-spagnolo, dopo una traversata di 72 giorni e dopo aver ricuperato un giorno di navigazione sulla tabella di marcia. La nave fu scortata da tre vedette tedesche giungendo a Bordeaux il 23 aprile: aveva percorso 19.372 miglia.
L’equipaggio ricevette i complimenti di Supermarina, di Raeder e di Hitler, (quasi l’intero carico era infatti destinato alla Germania). Oltre a numerose decorazioni al valore, il comandante Zustovich ed il direttore di macchina ricevettero la Medaglia d'argento al valor militare, mentre gli ufficiali e l'equipaggio furono decorati rispettivamente con la Medaglia di bronzo e la Croce di guerra al valor militare.
DA NAVE MERCANTILE A NAVE MILITARE
Dopo il trionfale arrivo a Bordeaux, la veloce e moderna M/n Pietro Orseolo fu confermata per un successivo utilizzo come “violatore di blocco” con destinazione l'Estremo Oriente. Nei porti cinesi e giapponesi avrebbe imbarcato materiale bellico di primaria importanza come la gomma naturale, non reperibile in Europa. La nave italiana era quindi attesa con una certa inquietudine dalle fabbriche di armi del Terzo Reich in Francia e Germania.
La M/N Pietro Orseolo é giunta indenne a Bordeaux
ll 18 maggio 1942 l’unità italiana fu requisita dalla Regia Marina che la consegnò al Comando tedesco di Bordeaux per essere militarizzata.
L'Orseolo venne sottoposta a lavori particolari con l’installazione di un cannone da 105 mm antinave e antiaereo, quattro mitragliere: due contraeree da 20 mm, di produzione tedesca, e due da 9 mm, di fabbricazione francese.
Il 1º ottobre 1942 la motonave lasciò Bordeaux alla volta del Giappone, al comando del capitano Tarchioni, con 67 uomini di equipaggio di cui 21 uomini della Regia Marina e quattro della Kriegsmarine con un carico di 3.000 tonn. di merce varia. La rotta da seguire era quella dell'Oceano Indiano.
AVVISTAMENTI PERICOLOSI
Mentre si trovava al largo di Gibilterra, l'Orseolo incontrò un convoglio alleato composto da una novantina di navi, che riuscì ad evitare allontanandosi alla massima velocità per poi rientrare in rotta dopo qualche tempo. Puntò per passare al largo di Sant'Elena e quando si trovò al traverso dell'isola dell'Ascensione, l'unità cambiò nuovamente rotta, in modo da passare ad una distanza di 550 miglia a sud del Capo di Buona Speranza. Evitati numerosi avvistamenti sospetti, il 25 ottobre la Pietro Orseolo doppiò il Capo ed entrò nell'Oceano Indiano sfruttando i venti da ovest (Quaranta ruggenti). Con una buona spinta in poppa fece rotta per lo stretto della Sonda.
Durante la navigazione in queste acque, furono più volte avvistate unità sospette e la nave italiana fu costretta più volte a modificare la rotta per non trovarsi in quel fascio di rotte commerciali controllate a vista da mezzi aeronavali nemiche. Il 10 novembre la Pietro Orseolo arrivò presso lo Stretto della Sonda che separa Giava e Sumatra. Il passaggio obbligato era perennemente “infestato” da sommergibili alleati, e spesso i loro periscopi erano confusi con le pinne degli squali che affioravano in continuazione.
Ben presto l’unità italiana fu raggiunta da una corvetta giapponese che la scortò lungo una rotta di sicurezza che evitava i campi minati. Durante l'attraversamento dello stretto, lo stesso 10 novembre, la nave passò nei pressi dell'isola di Krakatoa. Entrata nei mari della Sonda, l'Orseolo virò a dritta ed il 12 novembre raggiunse Giakarta, ove si ormeggiò con l'assistenza di un pilota, dopo 43 giorni di navigazione.
Dopo alcuni giorni di sosta l’Orseolo ripartì e raggiunse Singapore il 15 novembre, imbarcò rottami di ferro, nafta e balle di lana destinate in Giappone. Il 22 novembre l’unità salpò da Singapore e il 26 novembre s'imbatté nottetempo in un sommergibile, probabilmente nemico, che navigava controbordo in superficie. La sorpresa reciproca fu tale che le due unità si defilarono a poche centinaia di metri di distanza senza aprire il fuoco.
Passando a Nord di Formosa la motonave uscì dal Mar Cinese Meridionale e il 2 dicembre 1942 raggiunse indenne Kobe, dopo 62 giorni di navigazione, per oltre 17.000 miglia nautiche percorse.
Nel porto giapponese l’Orseolo imbarcò 6.800 tonn. di gomma ed altre materie prime. Durante la sosta l'unità subì anche lavori di modifica che le consentirono di imbarcare una novantina di passeggeri, per lo più militari tedeschi da rimpatriare.
Ripartita da Kobe nella serata del 25 gennaio 1943, il Comandante dell’Orseolo confermò sulle carte nautiche le stesse rotte del viaggio d’andata. Porto di destinazione: Bordeaux, via Oceano Indiano.
Il 28 gennaio dalla Pietro Orseolo scorsero un piroscafo ‘sospetto’, il Comandante cambiò immediatamente rotta evitando l'incontro. Il giorno seguente avvistarono un sommergibile in superficie, nella stessa zona di quel fortunoso incontro del 26 dicembre. Ancora una volta la nave italiana si salvò allontanandosi alla massima velocità per evitare il probabile attacco.
Il 3 febbraio l'unità toccò nuovamente Singapore, ove caricò ancora balle di gomma e ripartì il 9 febbraio diretta a Giacarta. Dopo essersi rifornita di acqua e nafta nell’ultimo scalo, il 16 febbraio la nave imboccò lo stretto della Sonda ed entrò nell'Oceano Indiano.
Tra il 24 ed il 25 febbraio l'Orseolo modificò la rotta per allontanarsi da un convoglio alleato diretto verso l'Australia. La nave proseguì senza ulteriori problemi transitando al largo delle isole Nuova Amsterdam e Principe Edoardo. Il 5 marzo entrò ancora una volta indenne nell'Oceano Atlantico passando, per ragioni di sicurezza, molto a Sud del Capo di Buona Speranza (latitudine 46° S)
L’U-161 in navigazione
L'unità iniziò quindi la risalita dell'Atlantico verso nord, senza incontrare ostacoli pericolosi. Il 26 marzo si trovò puntuale all’appuntamento con il sommergibile tedesco U 161 in un punto a sudovest delle Azzorre.
Nel frattempo le forze aeronavali anglo-americane, venute a conoscenza della partenza di numerosi violatori di blocco dal Giappone, dislocarono numerose unità sulle rotte più frequentate dalle navi dirette in Nord Atlantico e nel golfo di Biscaglia, per intercettarle, depredarle e affondarle.
Dentro questa trappola infernale, finirono irrimediabilmente i “violatori di blocco” tedeschi Hohenfriedberg, Doggerbank (affondato accidentalmente da un U-Boot), Rossbach, Weserland, Regensburg, Rio Grande, Burgenland, Karin ed Irene, che furono vittime di numerosi attacchi aeronavali.
Tre cacciatorpediniere Classe Narvik
Dietro l’ordine dell'ammiraglio tedesco Karl Donitz alcuni moderni cacciatorpediniere tedeschi Classe Narvik (Z-23, Z-24, Z-25, Z-32 e Z-37), al comando del capitano di vascello Edmerger, si trasferirono presso l'estuario della Gironda per scortare la Pietro Orseolo a Bordeaux alla fine di marzo 1943. L’unità italiana era l’unica superstite della flotta dell’Asse che collegava l’Europa e il Giappone.
Il 30 marzo 1943 la motonave italiana, mentre si trovava al largo di Capo Finisterre (Portogallo), avvistò quattro navi da guerra in una zona che non era di pertinenza germanica. Il comandante Tarchioni, temendo che fossero unità britanniche, accostò rapidamente e si mise in fuga a tutta velocità.
PRIMO SCONTRO
Le navi sconosciute la raggiunsero in breve tempo facendo ripetute segnalazioni per farsi riconoscere. Erano quattro cacciatorpediniere tedeschi (Z-23, lo Z-24, lo Z-32 e lo Z-37) inviati nella Gironda per la scorta all'Orseolo. La foschia contrastava la visibilità e la nave italiana, circondata dalle navi tedesche, diresse verso Bordeaux oltrepassando uno schermo protettivo formato da sommergibili italiani ed U-Boote tedeschi.
Aerei inglesi Bristol Beaufort
Aerei inglesi Beaufighters
Poco più tardi, tuttavia, le navi vennero individuate dalla ricognizione inglese che allertò un gruppo di aerosiluranti Bristol Beaufort e Bristol Beaufighter del Coastal Command della Royal Air Force. Il convoglio fu attaccato a ondate successive: l’obiettivo era l'Orseolo ed il suo carico prezioso. Ma l’unità italiana si dimostrò all’altezza del combattimento: aprì il fuoco con il cannone e le mitragliere, ed altrettanto fecero i cacciatorpediniere, disorientando gli aerei britannici e abbattendone cinque. Il convoglio navale dovette zigzagare per evitare i numerosi siluri sganciati dagli aerei, ma ancora una volta, per fortuna e per abilità, l’Orseolo rientrò indenne alla base.
L’AGGUATO
Sopraggiunto il buio in una notte illune, l'attacco terminò e la formazione riprese la navigazione senza danni. Alle prime ore del 1º aprile il convoglio giunse a 60-70 miglia da Bordeaux ignaro di un pericoloso agguato.
Improvvisamente il sommergibile statunitense Shad, con un'azione eseguita in superficie alla velocità di 19,5 nodi, attaccò il convoglio lanciando otto siluri ad una distanza compresa tra i 1550 ed i 2750 metri. La motonave italiana riuscì ad evitarne due, ma il terzo siluro, avente un’angolazione insidiosa, andò a segno colpendo la Pietro Orseolo in corrispondenza della stiva n. 2.
La caccia dello Shad alla formazione italo-tedesca era iniziata il 31 marzo subito dopo la segnalazione avuta dalla ricognizione aerea, ma soltanto alle 00.30 del 1º aprile riuscì ad intercettare il convoglio sul radar a una distanza di 10.000 metri. Dalle 00.30 all'1.50 il sommergibile s’avvicinò modificando più volte la rotta ad una velocità di 18-19,5 nodi, mentre la velocità del convoglio era di 15 nodi. L’inseguimento si prolungò a causa di un cambiamento di rotta delle navi italo-germaniche e della loro non trascurabile velocità. Alle 3.42, non potendo più posticipare l'attacco a causa dell'elevato rischio di avvistamento e della rotta di collisione assunta da uno dei cacciatorpediniere, lo Shad lanciò sei siluri con i tubi prodieri.
Tra le 3.43 e le 3.45 il sommergibile statunitense avvertì cinque esplosioni di siluri e ritenne d’aver affondato almeno due navi. Alle 3.46 lanciò altri due siluri contro la Pietro Orseolo e si allontanò per eludere il contrattacco. Secondo il rapporto dell'unità subacquea americana furono avvertite altre quattro esplosioni, rispettivamente alle 3.50, 3.51, 3.54 e 3.57. In realtà l'unica arma andata a segno era il siluro che aveva colpito la Pietro Orseolo all’altezza della stiva n. 2. La motonave italiana, moderna e ben costruita, rimase a galla grazie alla tenuta delle doppie paratie stagne trasversali e poté proseguire nella navigazione, a velocità di poco ridotta. (Altre fonti sostengono che dovette progressivamente ridurre la velocità e successivamente fu presa a rimorchio). Dallo squarcio nello scafo finirono in mare 11.000 balle di gomma naturale, materiale di particolare importanza per le nazioni dell'Asse in quel momento del conflitto. I cacciatorpedinieri tedeschi, nonostante il rischio di un nuovo attacco, si fermarono e raccolsero numerose balle finché il caposquadriglia decise di riprendere la navigazione alla massima velocità consentita dal danneggiamento dell'Orseolo. Le navi raggiunsero Le Verdon alle 11.45. Per il recupero di almeno parte delle rimanenti balle le autorità tedesche, il 6 marzo, pubblicarono sui giornali della costa occidentale francese un annuncio in cui si promettevano forti ricompense a chi avesse consegnato alle forze germaniche delle balle trovate alla deriva o portate a riva dalla corrente. Il 3 aprile 1943 la Pietro Orseolo ormeggiò a Bordeaux, concludendo con successo il terzo ed ultimo forzamento del blocco.
Benito Mussolini, ricevuta una particolareggiata relazione circa il viaggio della Pietro Orseolo, elogiò la condotta del Comandante, Stato Maggiore ed Equipaggio, cui furono conferite altre decorazioni al valor militare; il comandante Tarchioni venne decorato da Adolf Hitler con la Croce di Ferro di prima classe, unico caso di conferimento di tale decorazione ad un comandante della Marina Mercantile.
Nel corso delle tre traversate oceaniche di violazione del blocco la Pietro Orseolo aveva trascorso 164 giorni in mare, percorrendo quasi 54.000 miglia marine (nella seconda e terza traversata la nave percorse 34.400 miglia alla velocità media di 14 nodi, passando 103 giorni in navigazione).
Nel settembre 1943, in seguito alla proclamazione dell'armistizio, la Pietro Orseolo venne catturata dalle truppe tedesche, venendo affidata, il 15 ottobre 1943, alla ditta tedesca A.G. für Seeschiffahrt di Amburgo, con il nuovo nome di Arno. Anche dopo la cattura si pensò di utilizzare la motonave come “violatrice di blocco”.
Il 10 dicembre 1943 l'unità ricevette i segnali di riconoscimento per aerei, ed una settimana dopo si rifornì per un nuovo viaggio. Il 18 dicembre 1943, tuttavia, l'Arno venne colpita da un siluro e danneggiata durante un attacco aereo effettuato da dodici aerosiluranti Bristol Beaufighter del Coastal Command, caccia Spitfire (131st e 165th Squadron) e Thypoon (24 aerei degli Squadrons 183rd, 193rd e 266th) nella baia di Concarneau.
Nel pomeriggio (secondo altre fonti tre giorni più tardi, il 20 o il 21 dicembre) affondò al largo delle isole Glénan (non lontano da Brest) mentre si cercava di rimorchiarla verso tale arcipelago per portarla all'incaglio. Nel 1944 palombari tedeschi si immersero sul relitto per recuperare almeno parte del carico.
Il relitto della Pietro Orseolo giace a tra i 25 ed i 30 metri di profondità, in posizione 47°41’77” N e 3°56’77” O, a mezzo miglio dall'isola di Penfret.
Carlo Gatti
Rapallo, 1 Gennaio 2014
RIVISTA H - VISITA DI HITLER
"Cartoncino commemorativo"
Visita in Italia di Adolf Hitler
"Rivista H" - Golfo di Napoli il 5 maggio 1938
Nella foto, da destra, gli incrociatori pesanti Fiume, Zara, Pola e Gorizia all'ormeggio alla testata del Molo della Stazione Marittima di Napoli.
Questa foto è stata scattata tra le 10.00 e le 10.30 a bordo della nave da battaglia Cavour, sul ponte a poppa, poco dopo l'imbarco di Hitler e di Mussolini e prima che iniziassero le manovre della "Rivista H" (le unità partecipanti uscirono dal porto tra le 10.45 e le 11.15). Al centro della fotografia si identificano, ovviamente, Hitler, Vittorio Emanuele III, Mussolini e il Principe Ereditario Umberto di Savoia.
E' più interessante l'identificazione degli altri due personaggi in uniforme, a sinistra e a destra della foto.
Il capitano di vascello a sinistra è il c.v. Antonio Bobbiese, comandante del Cavour. Si noti che sulla spalla destra dell'uniforme si intravedono le cordelline dorate da "Comandante di Bandiera", che contraddistinguevano il comandante di un'unità su cui era imbarcato un Comando navale superiore (il Cavour, difatti, all'epoca era nave ammiraglia della Vª Divisione Navi da battaglia). Questo particolare elemento uniformologico faceva sì che - nelle occasioni in cui era previsto indossare la sciarpa azzurra - questa scendesse dalla spalla sinistra verso destra (e non dalla spalla destra verso sinistra come avveniva - e avviene - per le uniformi degli ufficiali della Marina Italiana).
Il militare a destra è il generale di corpo d'armata Giuseppe Mario Asinari di Bernezzo, primo aiutante di campo generale del Re, il cui incarico è evidenziato dalla presenza di una corona al di sopra della stelletta sul bavero della giacca (nell'immagine i due elementi sono due puntini chiari difficilmente distinguibili).
A poppavia del Cavour c'è il Cesare, ed entrambe le unità stanno per procedere a lento moto verso l'imboccatura del porto (sullo sfondo si intravede il Molo S. Vincenzo, perpendicolare alla Calata Beverello, non visibile nella foto perché di poppa al Cesare).
L’immagine sopra raffigura gli stessi personaggi, ripresa da un’altra angolazione.
Bibliografia:
- T. Marcon, Riviste navali a Napoli negli anni Trenta, in "Bollettino d'Archivio dell'Uff. Storico della M.M." (giugno 1995)
- E. Bagnasco, E. Cernuschi, Rivista H, in "STORIA militare" n. 200 (maggio 2010)
Spero che queste note possano risultare gradite! Un cordiale saluto a tutti,
Maurizio Brescia
Rapallo, 1 Gennaio 2014
LA STORIA DEL CATTARO
LA STORIA DEL CATTARO
IL CATTARO AUTOAFFONDATO L’8 SETTEMBRE A SANTA MARGHERITA NON ERA L’ EX DALMACIJA, MA L’INCROCIATORE AUSILIARIO EX JUGOSLAVIJA
L’Incrociatore ausiliario Cattaro - D36 é ormeggiato di punta a Santa Margherita Ligure. La nave appare staccata dalla banchina a causa del basso fondale.
(foto di Giuliano Gotuzzo, per gentile concessione della signora Nuccia Gotuzzo)
Una ricostruzione storica finalmente “attendibile” dell’autoaffondamento dell’Incrociatore Ausiliario CATTARO D-36, caduta nell’oblio per molti decenni, é stata possibile grazie al materiale fotografico e alle testimonianze messe a disposizione da Nuccia Gottuzzo, vedova di Giuliano Gotuzzo, appassionato di storia locale ed esperto fotografo, mancato nel 2007, e per la consulenza del Comitato scientifico di “STORIA MILITARE”. Tuttavia, per capire a fondo lo “strano” dilemma, diamo subito la parola a Giuliano Gotuzzo:
“Nel primo dopo guerra la marina cominciò la stampa di libri, sempre più precisi. In uno di questi fu fatto un elenco delle navi perdute, con cause e luogo della perdita. Nel 1943 un'altra nave Cattaro italiana, ma completamente diversa, era l'ex jugoslava Dalmacjia, ex incrociatore leggero tedesco Niobe, catturata dai tedeschi ed affondò nel 1943 in Adriatico. Ed io mi sentii in dovere di comunicare che a S. Margherita era affondata un'altra Cattaro.
La lettera che segue é dello Stato Maggiore della Marina, é datata 6 Agosto 1951, ed é la risposta all’istanza di chiarezza posta da Giuliano Gotuzzo. Purtroppo, da quanto si legge al punto n. 4 della stessa, si evince la totale disinformazione e conoscenza dei fatti.
“Su dei fogli trovati in mare c'e timbrato in modo chiaro R. Cannoniera Cattaro. Fui un po' ingenuo: credevo che avrebbero capito che si trattava di un'altra nave. Mi risposero che loro conoscevano una sola Cattaro affondata in Adriatico e che più o meno dovevo aver preso un abbaglio. Sono passati tanti anni e, prima su una pubblicazione dell'Ufficio Storico risultarono le due Cattaro, elencate come giusto in due categorie diverse. In un numero recente della Rivista Marittima, organo dell'ufficio Storico, c'e un articolo che parla delle due Cattaro e mi rende giustizia. Ciò non vuol dire niente, mi basta sapere che anche il Cattaro che ho visto affondare è esistito e che non ho sognato. Non fu affatto un sogno, se mai un incubo. La nave inclinata in porto coperta dal mare, una grande nuvola nera la sovrastava e un certo momento si mescolò ad altra nuvola bianca. Stavano facendo scaricare il vapore dalle caldaie e fu un bene perchè a contatto del mare avrebbero potuto esplodere”.
(Documentazione di Giuliano Gotuzzo. Per gentile concessione della Signora Nuccia Gotuzzo)
L’incrociatore ausiliario CATTARO si é autoaffondato nel porto di Santa Margherita Ligure per non cadere nelle mani dei tedeschi. In questa importante istantanea che certifica l’avvenimento, l’unità appare già abbandonata dall’equipaggio.
(Foto di Giuliano Gotuzzo. Per gentile concessione della signora Nuccia Gotuzzo)
Storia della Nave
Ordinata come piroscafo passeggeri con il nome di Hunyad dalla Società per Azioni Ungaro-Croata di Navigazione Marittima a Vapore (Magyar Horvát Tengeri Gőzhajózási RT, con sede a Fiume), la nave venne impostata nei cantieri fiumani Ganz &Comp. Danubius Maschinen, Waggon un Schiffbau A.G. (Fiume faceva all’epoca parte dell’Impero Austro-Ungarico) nel 1916, con numero di scafo 68, ma la costruzione venne sospesa a causa della Prima guerra mondiale.
Nel 1920 la nave, ancora incompleta, venne varata al solo scopo di liberare lo scalo. Nello stesso anno l’incompleto Hunyad (identificato solo come scafo numero 68, non avendo mai ricevuto il proprio nome) passò sotto bandiera jugoslava , ma rimase incompiuto ed inutilizzato per oltre un decennio, in quanto la compagnia proprietaria – divenuta frattanto, a seguito della dissoluzione dell'Impero Austro-Ungarico, Società per Azioni Croata di Navigazione Marittima a Vapore (Hrvatsko Dioničko Pomorsko Parobrodarsko Društvo) – non necessitava di piroscafi postali per il servizio costiero della Dalmazia.
All’inizio deglianni trenta, tuttavia, la situazione cambiò: stante la crescente popolarità deiviaggi di vacanza lungo le coste.adriatiche, la società di navigazione jugoslava Jadranska Plovidba Dioničko Parobrodarsko Društvo di Sussak (ovvero l'ex Società per Azioni Croata, che aveva nuovamente cambiato nome a seguito della nascita del Regno di Jugoslavia), attiva sulle rotte costiere dalmate, stipulò con i Cantieri del Quarnaro (Cantieri Danubius erano infatti divenuti Cantieri del Quarnaro a seguito dell’ annessione di Fiume all'Italia) un contratto per la ricostruzione e completamento dello scafo incompiuto dell'Hunyad.
Rinumerato come scafo numero 139, lo scafo incompleto venne quindi riportato in cantiere e tra il 1932 ed il 1933 i lavori ripresero: nel febbraio 1933 il piroscafo, ribattezzato Jugoslavija ed iscritto con matricola 9 presso il Compartimento marittimo di Spalato. Entrò in servizio sulle linee della Dalmazia.
Lo Jugoslavija, una volta completato, risultò essere un piccolo piroscafo per trasporto di merci e passeggeri da 1275 tonnellate di stazza lorda e 628 tonnellate di stazza netta. Grazie a due macchine a vapore a quadruplice espansione ed a quattro cilindri prodotte dalla Harland & Wolff di Belfast, la nave poteva raggiungere la buona velocità di 15,5 nodi.
Caratteristiche:
Incrociatore Ausiliario CATTARO D-36 ex Jugoslavia - ex Hunyad
Dislocamento: 1280 t. - Stazza lorda: 1275 tsl – Lunghezza: 78,50 (76,50) m. Larghezza: 10,45 (10,50) m. – Pescaggio: 4,11 m. – Propulsione: 2 macchine a vapore a quattro cilindri a quadruplice espansione Harland & Wolf – 2 eliche – Velocità: 15,5 nodi Tipo: Piroscafo passeggeri dal 1933 al 1942 – Incrociatore Ausiliario 1942 – 1943– Armatore: Jadranska Plovidba D.D. 1932 – 1934 – Requisito dalla Regia Marina 1942 – 1943 - Identificazione: D 36 (come unità militare) – Costruttori: Cantiere Danubius, Fiume del Quarnaro, Fiume (completamento). Impostata: 1916 - Varata: 1920 - Entrata in Servizio: Febbraio 1933 come nave civile, 13 marzo 1942 come unità militare. Destino finale: autoaffondato, poi catturato da truppe tedesche il 9 settembre 1943, affondato nel 1944, recuperato e demolito nel 1947. Armamento: 2 pezzi da 100/47 mm (??), 2 pezzi da 76/40, 4 mitragliere da 20/65, 2 scaricabombe di profondità (??)
RICERCHE-TESTIMONIANZE
Il Comitato scientifico della rivista “Storia Militare”, di cui fa parte lo storico Maurizio Brescia, ha dedicato insieme al suo Direttore, il comandante Erminio Bagnasco, un’approfondita ricerca sull’autoaffondamento del CATTARO nel porto di Santa Margherita Ligure. Come vedremo, la questione era tutt’altro che chiara, dal momento che navi con quel nome ce ne furono due o forse altre, ognuna delle quali ebbe un epilogo non sempre chiaro a causa delle vicissitudini patite dalla nostra nazione a partire da quella fatidica data che fu l’8 settembre 1943.
Dal sito ufficiale della Marina Militare. Catturata, passata sotto bandiera italiana e ribattezzata Cattaro in seguito all'invasione italo-tedesca della Jugoslavia, l’8 gennaio 1942 la nave venne requisita a Fiume dalla Regia Marina ed iscritta nel ruolo del Naviglio ausiliario dello Stato come Incrociatore Ausiliario, con caratteristica D 36. Armata con due cannoni da 100/47 mm, uno da 76/40 mm, quattro mitragliere da 20/65 mm e due scaricabombe antisommergibile per bombe di profondità, l’unità venne destinata a compiti di scorta convogli. Le fonti sono piuttosto contraddittorie circa la sorte del Cattaro dopo l'Armistizio dell'8 settembre 1943. Secondo alcune fonti, il 9 settembre 1943, all’indomani dell’annuncio, l’incrociatore ausiliario si autoaffondò a Santa Margherita Ligure; recuperato dalle truppe tedesche, venne da queste nuovamente autoaffondato il 22 marzo 1944, per ostruire l’ingresso delporto di Livorno. Il 14 giugno 1944 (ma più probabilmente il 13, quando la città venne effettivamente bombardata da aerei della 12th USAAF con obiettivo il porto.
Bombardamenti aerei sulle città italiane nel 1944. Durante un bombardamento aereo su Livorno, il relitto venne colpito ed ulteriormente danneggiato per altra fonte i tedeschi recuperarono la nave e si prepararono ad autoaffondarla il 29 marzo 1944, ma l’unità venne in realtà affondata da un bombardamento aereo il 14 giugno 1944.. Riportato a galla nel 1945, il relitto venne nuovamente ribattezzato Jugoslavija e formalmente restituito alla Jugoslavia: giudicato tuttavia troppo danneggiato per una sua riparazione, venne rimorchiato a Spalato nel 1947 e quindi demolito. Per altre fonti, il 9 settembre 1943
Navypedia, in seguito alla proclamazione dell’armistizio, il Cattaro venne catturato dalle truppe tedesche, e nel febbraio 1944 si trovava in efficienza ed impiegato nei collegamenti con la Dalmazia, ma nel corso dello stesso anno venne gravemente danneggiato da aerei Alleati. Sempre secondo tali fonti, il Cattaro affondò nelle acque della città da cui aveva preso il proprio nome, CATTARO , successivamente al febbraio 1944, per cause non precisate.
Il dott. Maurizio Brescia così sintetizza la vicenda del CATTARO:
“Il mistero dei due Cattaro è stato risolto, le risultanze delle nostre ricerche sono le seguenti: partiamo dal fatto che, durante la Seconda guerra mondiale, la Regia Marina ha avuto in servizio due unità con il nome di Cattaro. La prima era la grossa cannoniera ex-jugoslava Dalmacija (già incrociatore tedesco Niobe della prima guerra mondiale), incorporata nella Regia Marina ad aprile del 1941 con il nome di Cattaro, dopo la caduta della Jugoslavia. Caduta in mano tedesca a Pola dopo l'8 settembre, andò perduta in Adriatico il 22 dicembre 1943, nel corso di un combattimento con motosiluranti inglesi. Questa unità NON è quella presente a Santa M.L. La seconda era il piccolo piroscafo passeggeri jugoslavo Jugoslavija (1.275 tsl, costruito nel 1933) anch'esso di preda bellica, immesso in servizio nell'estate del 1941 come incrociatore ausiliario D.36 Cattaro.
Ed eccoci allo "scoop"
L'Ufficio Storico della Marina (USMM), nel suo volume “Navi mercantili perdute” (gli incrociatori ausiliari erano considerati navi mercantili, ancorché requisite dalla Marina, ecco il perché di un nome già assegnato ad un'unità effettivamente militare [la cannoniera Cattaro]) riporta testualmente che "... Dopo l'8 settembre [l'incrociatore ausiliario Cattaro] rimase in territorio controllato dai tedeschi. Notizie non documentate lo davano, nel febbraio 1944, efficiente e adibito al traffico con la Dalmazia; altre, invece, lo davano per affondato nelle acque di Cattaro in epoca imprecisata, ma probabilmente dopo il febbraio 1944".
Come si può notare, si tratta di notizie vaghe e imprecise, riprese peraltro anche in un articolo dello storico Tullio Marcon sugli incrociatori ausiliari italiani, pubblicato qualche anno fa su "Storia militare".
Le due fotografie appartenenti all’archivio di Giuliano Gotuzzo raffigurano invece proprio l'incrociatore ausiliario Cattaro prima in galleggiamento e poi parzialmente affondato a Santa Margherita e NON in Adriatico. Tra l'altro, il Cattaro (incrociatore ausiliario) avrebbe potuto trasferirsi in Adriatico solo entro il giugno 1943, poi - una volta effettuati gli sbarchi alleati in Sicilia - le navi del Tirreno restavano nel Tirreno, e quelle dell'Adriatico in Adriatico...
Quindi, la fotografia - confermandosene la datazione attorno all'8 settembre 1943 (poco prima la foto con la nave in galleggiamento, poco dopo quella con la nave parzialmente affondata), dimostra che il Cattaro non fu perduto in Adriatico come riportato dal volume dell'USMM, ma venne autoaffondato nel Tigullio poco dopo l'8 settembre. Poiché, comunque, del relitto si persero le tracce nel dopoguerra, è più che verosimile che la nave sia stata demolita in Liguria prima della fine del conflitto o - più facilmente ancora - subito dopo. L'identificazione del Cattaro è certa, sulla base della corrispondenza tra le foto del G. Gotuzzo e alcune immagini facenti parte della collezione del com.te Bagnasco. Confermo - quindi - che la nave della foto è l'incrociatore ausiliario Cattaro (ex piroscafo Jugoslavija) e non la cannoniera Cattaro (ex-Dalmacija, ex-Niobe).
Ho esaminato attentamente la foto ad alta definizione del Cattaro e confermo che il pezzo di artiglieria visibile a poppa è un cannone da 76/23 mod. Armstrong 1914; la mitragliera sul cielo della tuga più verso proravia, installata nella piazzola circolare, è una Breda 8 mm mod. 1937. La colorazione mimetica della nave è quella "standard" su due toni di grigio chiaro e scuro, adottata già nel 1942; lo schema del lato dritto è il cosiddetto "2B" per navi mercantili.
Relativamente all'armamento, il sito ufficiale della MM riporta il seguente:
2 cannoni da 100/47 mm
1 cannone da 76/40 mm
4 mtg da 20/65 mm
2 scaricabombe
Tuttavia, i dati sono sbagliati: il pezzo poppiero è un 76/23 (esisteva il 76/30, ma il 76/40 per impiego navale non esiste...) e due cannoni da 100 mm (per forza di cose installati a prora) mi sembrano troppi per una nave così piccola... Ritorneremo sull’argomento “Armamento” in un secondo tempo, dopo aver consultato presso l'Ufficio Storico della MM a Roma il faldone relativo alla trasformazione del Cattaro in incrociatore ausiliario. I dati soprariportati vanno verificati.
Una doverosa precisazione:
IL CATTARO presente a Santa Margherita Ligure non era una “nave civetta”. Nessuna nave italiana fu impiegata durante la Seconda guerra mondiale come "nave civetta": in questa categoria vanno ricomprese soprattutto piccole unità britanniche definite "Q-ships" che - particolarmente tra il 1914 e il 1918 - erano attrezzate per apparire innocui pescherecci ma che, dotate di cannoni celati da paratie abbattibili, conseguirono alcuni successi affondando alcuni sommergibili tedeschi che le attaccavano in superficie per affondarle a cannonate (le piccole dimensioni di queste unità non giustificavano l'uso di costosi siluri). Durante la seconda guerra mondiale non furono utilizzate "navi civetta" da pressoché nessuna marina belligerante. Un discorso a parte merita l'impiego degli incrociatori corsari della Kriegsmarine, ma qui si trattava di grosse unità adattate per il contrasto alla navigazione mercantile d'altura avversaria, ed è tutta un'altra storia. Tra il 1941 e il 1943, l'incrociatore ausiliario Cattaro - in ragione delle ridotte dimensioni - fu utilizzato soprattutto per la vigilanza foranea e la scorta a piccoli convogli in acque nazionali.”
Una testimonianza significativa
Un giovane testimone di allora, all’epoca diciassettenne, così ricorda il Cattaro:
“L'imbarcazione Cattaro era apparentemente civile, ma era armata. Ricordo un pezzo unico a poppa, neanche tanto mascherato. Un cannone navale (non pareva prolungato 90), poco più di 40 mm, come erano a terra le mitragliere. Non ricordo se avesse una base circolare da brandeggio. L’unità era un ibrido, tanto che l'avevamo definito “nave civetta”, ma era palesemente difensiva, per quello che poteva. Pareva non antiarea. Credo che l'equipaggio fosse militarizzato, non marinai effettivi della Regia Marina. O forse sì. Non lo so. Chiederò ai pochi vecchissimi. Amnesici come me. Un giorno un aereo vagante ‘esploratore inglese’ passava a media altezza, e dal molo le bettoline lo bersagliarono. Si allontanò verso il largo, poi tornò silenzioso dal monte, provò la mitragliera contro di me e un mio compagno di classe, e mitragliò il molo ben bene e se ne andò.
Il Cattaro, come mostra questa immagine, ha raggiunto il massimo sbandamento e si é adagiato sul fondo. E’ sparito lo scafo mimetizzato ed emergono solo le soprastrutture e le armi rese ormai inoffensive.
(Foto di Giuliano Gotuzzo. Per gentile concessione della signora Nuccia Gotuzzo)
Il Cattaro era fuori gioco, inclinato, per me di più di quanto non sia nella fotografia. Da lei non venne reazione.
Però, vedersi arrivare i colpi vicini, uno a destra e due a sinistra sul muretto, e udire il rumore della mitraglia é un fatto che si ricorda.... Ma avevo diciassette anni e tutto era esperienza.
Penso che il ‘fondo fotografico’ Gotuzzo non abbia perso l'occasione di documentare quell'argomento. Il mite, silenzioso Gotuzzo da ragazzo usciva in barca a fotografare TUTTE le navi che capitavano in rada, insieme al suo coetaneo Pettinati. Sopratutto navi militari.
Il Cattaro era, come si può vedere, una carretta o anche meno. Nel 1943 il Cattaro era lì, attraccato al molo sotto la casa grande, tranquilla.
Tra ragazzi si diceva: “é una nave civetta”. Era lì, marrone e nera, tranquilla. Sembrava una vecchia carretta a vapore.
L'8 settembre, alle sette di sera ricordo due marinai, di corsa, in via Favale, con una macchina da scrivere da dare a chi la volesse, a nostra meraviglia, perchè? Forse in cambio di vestiti civili, avevano premura, erano pressati. Il Cattaro si era autoaffondato, loro si disperdevano.
Si diceva che uno, Ciro Roggero, si fermasse dalla stiratrice, la Lea, che poi sposò. Alle otto di sera, dal poggiolo alto di casa, ho visto in fondo di via Favale, sulla strada del porto, passare due tedeschi accucciati col fucile imbracciato, erano diretti a Portofino. L'indomani sul muro c’era il manifesto della “Kommandantur” che imponeva il coprifuoco, il divieto di assembramento e la consegna delle armi tenute in casa. Mettemmo di notte la pistola di ordinanza di papà in un muro della strada e la ricuperammo a guerra finita.
Poco dopo, in inverno, per prendere l'acqua di mare pulitissima per fare il sale in casa, uscivo con un fiasco spagliato sotto il cappotto pesante e andavo nel porto, davanti al Cattaro inclinato, vuoto come il molo e le strade, con le alghe sulla chiglia. Restò lì fino a fine guerra.
Nel porto riparavano le bettoline dei tedeschi che nottetempo, con i ponti stradali e ferroviari bombardati e distrutti, trasportavano materiale via mare. Nel silenzio del buio della notte si sentiva pot pot pot ... e s’immaginava la processione di bettoline in fila. Per questo passava l'aereo isolato, l'ubiquitario Pippeto, che lanciava nel cielo un bengala. Quando poi il porto fu pieno di corvette inglesi (tra cui la H.M.S. Circe , sfidata e battuta dalla Waterpolo Paraggi 5 a 2 il 26 luglio 1945) il Cattaro sembrava una cosa melanconica, ingombrante ed inutile.
Un giorno non fu più lì. Scomparve. I giorni di guerra andavano via.
Per me la nave si autoaffondò la sera dell'8 settembre, verso le sei-sette di sera.
Di effetto personale le barche a vela lì vicine, perchè fino a quel giorno avevamo fatto l'estate balneare normale e noi ragazzi vivevamo una vita di paese usuale, nei limiti degli episodi bellici, localmente rari. I passaggi di aerei alti prendevano come punto di riferimento il Monte di Portofino per poi divergere per andare a bombardare Torino, Milano o Verona. Da Genova si sentivano le esplosioni. San Benigno fece un rumore enorme. Tutto passa.”
Altri CETI provenienti dalla calata di Santa: “Tutti sapevano che la CATTARO era stata una nave passeggeri, ma la gente non cercava le porcellane, i servizi di posate, bicchieri e piatti, ma piuttosto ciò che era rimasto in cambusa. E tra gli anziani pescatori qualcuno ricorda ancora che nottetempo la nave veniva ‘visitata’ dai pescatori che cercavano di recuperare le attrezzature che gli servivano per lavorare: cavi, catene, maniglioni, grilli, redance, cime di ogni calibro...”
COME E’ NATO IL MIO SOGNO
di Giuliano Gotuzzo
Era estate del 1943. Tutto sembrava procedere come al solito. Giornate piene di sole, il mare tranquillo, i primi bagni, qualche giro con una piccola barca a remi.
L’incrociatore ausiliario CATTARO si trova alla fonda nel porto di Santa Margherita Ligure. L’unità é sullo sfondo a sinistra. La sua posizione vista in sezione longitudinale, ci consente di notare chiaramente sia la mimetizzazione che i due pezzi da 76 mm dislocati a prua e a poppa. Sulla destra, in primo piano, si vedono due Torpediniere (o avvisi scorta) ormeggiate di punta, entrambe appartenenti alla classe “Ciclone”. La nave a sinistra é della classe “Ciclone”. L’unità più a destra é l’Impavido. (la cui presenza nel Mar Ligure / Alto Tirreno per l'estate 1943 è ben documentata. La foto è molto scura e non ci consente di vedere lo schema mimetico, in base al quale sarebbe possibile identificare con maggior precisione la nave “di sinistra” e darle un nome. Si potrebbe datare la foto intorno al giugno/luglio 1943, anche perché da agosto in poi l'unità operò prima nella zona di Livorno e poi in quella di Salerno.
(Foto di Giuliano Gotuzzo. Per gentile concessione della signora Nuccia Gotuzzo)
Arrivarono alcune torpediniere e si ormeggiarono nel porto. Erano mimetizzate e quando entravano o uscivano i marinai, che erano su quelle barche, avevano sempre indosso dei salvagente rossi. Non erano i soliti salvagente che eravamo abituati a vedere, ma quasi casacche senza maniche. Noi ragazzi correvamo a vedere le navi quando uscivano o entravano e si ormeggiavano scostate dalla banchina, ma in posizione parallela ad essa. lo quasi per caso incominciai un piccolo traffico. Andavo con la barchetta nel punto dove la catena dell'ancora, che scendeva da prua, spariva nell'acqua. Abbarbicati alla catena scendevano un paio di marinai, che si stendevano dentro la barca per farsi notare il meno possibile. Io remando li portavo a prendere terra dall'altra parte del porto. Ricevevo in cambio tanti ringraziamenti e spesso una o due sigarette. A volte cercavo di rifiutarle, ma spesso finivo per accettarle, vista l'insistenza con cui mi venivano offerte. Ripensandoci ora provo quasi rimorso per averlo fatto, perchè capisco che si privavano di qualcosa allora molto preziosa. Non era ancora partita la campagna antifumo e quegli uomini correvano rischi ben maggiori di quelli che potevano venire dal fumo. Poi arrivò una certa data, l'8 settembre 1943, e a chi era sulle navi, ed anche a terra, parve una giornata di gran festa. Dicevano che era finita la guerra; si sentiva anche il suono di una fisarmonica. Ma la guerra purtroppo non era finita. Anzi stava iniziando il periodo peggiore, che coinvolgeva tutti, anche chi fino allora era rimasto a leggere i giornali o ad ascoltare i bollettini.
Nel suggestivo sfondo di Santa Margherita Ligure s’intravedono dei Leudi Rivani. In primo piano, due sommergibili tipo "H" (costruzione 1916-1918, su piani costr.ne inglesi). La terza unità non è facilmente identificabile, ma potrebbe essere un "X" (del 1918) oppure un "Micca" (“classe” costruita tra il 1919 e il 1921).
(Foto di Giuliano Gotuzzo. Per gentile concessione della signora Nuccia Gotuzzo)
La mattina del 9 le navi partirono e con esse anche la nave Cattaro, piccolo incrociatore ausiliario. La festa era già finita. Combinazione volle che l'incrociatore si mettesse in moto prima di aver recuperato del tutto l'ancora, che rimase impigliata negli ormeggi dei due panfili più grandi e più belli che di solito sostavano nel porto: il “Quadrifoglio” e ”Annabella”. I due panfili ebbero gli ormeggi di poppa rovinati con danni anche a bordo. Erano ormeggiati alla banchina davanti alla pescheria. Poi tutte le navi presero il largo. Inaspettatamente dopo un po' di tempo il Cattaro tornò indietro, si ormeggiò dove di solito si ormeggiavano le torpediniere. L'equipaggio cominciò ad abbandonare la nave, che si autoaffondò. Prima che, appoggiata sul fondo ed inclinata, si fermasse, fu presa d'assalto dagli abitanti del luogo. Ci fu qualcuno che, più fortunato, trovò del caffé i più si accontentarono di un materasso.
C’é da dire che la popolazione fornì a quei marinai dei vestiti civili e molti furono accolti nelle case e ospitati. Col tempo non pochi finirono per sposarsi con ragazze del luogo: alcuni vivono ancora tra noi e sono tutte persone che hanno saputo farsi una posizione: sono stimati e benvoluti.
Poi arrivarono i tedeschi che spararono dei colpi contro la nave, ma tutto si concluse in modo incruento. Poi la nave, dopo lunghe fatiche, fu recuperata e rimorchiata verso Genova. Non l'ho mai saputo con certezza, ma si sparse la voce che durante il rimorchio sia di nuovo affondata.
Io non partecipai all'assalto alla nave, perché i miei non mi lasciavano uscire, e giustamente. Rimasi in casa e da dietro i vetri, emozionato, vidi morire quella povera nave. Sarò troppo sensibile ma quello spettacolo mi rattristò molto. Mentre affondava dal suo interno uscivano sibili e rumori che almeno alle mie orecchie sono parsi lamenti e grida di aiuto. Nessuno era a bordo, ma le grida e i lamenti venivano dalla nave che improvvisamente mi parve essere un cosa viva che moriva e che cercava di respingere da se quel destino che ormai l'attendeva.
Era tornata indietro perchè le sue caldaie andavano a carbone e avrebbe dovuto fare rifornimento a La Spezia, che era gia stata occupata”.
NOTE STORICHE
Dallo storico Maurizio Brescia riceviamo la segnalazione del sito olandese che riportiamo integralmente per gli appassionati di storia, nonché la breve nota qui di seguito:
”Ci sono notizie sulla fine del Cattaro che quadrano con la sua presenza nel Tigullio all'atto dell'armistizio. Tra l'altro, tra le fonti è citato l'autorevole sito "Miramar", un'autentica fonte primaria per le navi mercantili e i mercantili militarizzati”.
Riportiamo integralmente quanto riportato nel seguente sito olandese:
http://fleetfilerotterdam.nl/jugo33_txt_eng.htm
ss Jugoslavija (1933)
Jadranska Plovidba d.d. Sušak, Yugoslavia
The Jugoslavija was one of the three ships in Jadranska’s fleet of which construction was suspended because of World War I. She was ordered in 1913 by Ungaro-Croata to become a sister to the Visegrád. In 1920 the shipyard launched the unfinished hull to free-up the slipway. Pursuant to the 1920 peace treaty the ship belonged to Yugoslavia, but Jadranska Plovidba didn’t need any express steamers at the time. This changed in the early thirties, when the company ordered a new flagship, the Prestolonaslednik Petar, and also remembered the rusting hull. As Jugoslavija she entered service in 1933. She was damaged beyond repair during an air raid on Livorno, Italy in 1944. Returned to post-war Yugoslavia, the wreck was sold for scrap in 1947.
Yard Number 68 (Hunyad) (1916)
In 1913 Società in Azione Ungaro-Croata di Navigazione Marittima a Vapore at Fiume, Austro-Hungarian Empire orders a copy of the express liner Visegrád (1913) from Ganz & Comp. Danubius Maschinen-, Waggon- und Schiffbau-A.G., Fiume, to be called Hunyad. Hunyad is the name of a Hungarian comitat. 1914 construction is suspended because of the war, 1916 resumed at a slow pace to free-up the slipway. In 1920 the unfinished Yard Number 68 is launched without namegiving ceremony, while Ungaro-Croata is in liquidation at that time. The hull falls to the Kingdom Yugoslavia, pursuant to the Treaty of Trianon (1920). In this peace treaty Hungary ceded its merchant fleet, including ships under construction, to the Allied powers. The hull remains unused for over a decade, as no Yugoslavian company is in need of a large new passenger ship. In 1924 the shipyard, which is still Hungarian-owned, is re-established as Cantieri Navale del Quarnero.
Jugoslavija (1933)
In the early thirties Jadranska Plovidba d.d., Sušak, Kingdom Yugoslavia, in view of the growing popularity of leisure trips along the Adriatic coast, orders a new flagship from Swan, Hunter & Wigham Richardson in England, while Cantieri Navale del Quarnero is contracted to finish-off the hull of the Hunyad. Yard number 139 was assigned for this project, of which the design is revised on many points. February 1933 delivered, named Jugoslavija. Port of registry is Split. Put into service on the international and coastal express lines, where her running mates are the Prestolonaslednik Petar (1931), Karadjordje (1913), Ljubljana (1904) and Zagreb (1902).
Cattaro/D 36 (1941)
1941, after Germany and Italy invaded the Kingdom Yugoslavia, seized by the Italian armed forces. Renamed Cattaro. 18 January 1942 put under command of the Regia Marina. At Fiume rebuilt and armed as an auxiliary cruiser (name pennant D 36). 9 September 1943, the day after Italy’s surrender was announced, scuttled at Santa Margharita, Italy. Raised by the German armed forces. 22 March 1944 scuttled by the Germans to blockade the harbour entrance of Livorno, Italy (also known as Leghorn to English speakers). 14 June 1944 the wreck is heavily damaged during an air raid on Livorno.
After the war work begins on clearing the harbour entrance of Livorno. Ownership of the wreck of the Jugoslavija is formally returned to Yugoslavia.
1947 towed to Split, Yugoslavija, and broken up.
Giuliano Gotuzzo e sua moglie Nuccia
RINGRAZIAMENTO AL SIGNORE
di Giuliano Gotuzzo
Grazie Signore per tutte le cose belle che ho visto, per tutte le persone buone e cortesi che hai permesso di conoscere, per tutti i dolci ricordi che mi allieteranno la vita fine a che durerà.
Grazie per i sogni meravigliosi, rimasti tali, ma non importa. Grazie per avermi dato coraggio nei momenti tristi, e sono purtroppo molti. Ma la fede in te me li ha sempre resi sopportabili anche quando non lo sarebbero stati per niente. Grazie, o mio Signore, per la fede che mi hai donato e conservato.
Grazie per avermi fatto nascere in una meravigliosa famiglia che ho tentato di riprodurre a mia volta, ma con risultati decisamente scarsi. Grazie lo stesso, io ho sempre fatto come meglio ho potuto. Grazie per i meravigliosi suoni ai quali mi sono estasiato. Grazie per i superbi esempi di dirittura morale e di amor di patria, di cui ho potuto venire a conoscenza.
Grazie per tutti i maestri e professori che insegnavano bene la loro materia, ma insegnavano anche a vivere. Grazie per avermi fatto nascere in questa Italia meravigliosa, ora un po’ in crisi, ma che, spero tanto, risorgerà più bella di prima.
Fatti coraggio Patria mia, il brutto passerà, ritornerai a risplendere come non mai. Signore accoratamente ti prego: mantieni sempre unita l'Italia e fa che gli Italiani si sentano un sol popolo e vivano in pace almeno tra loro. Quando morì mio padre molta gente che mi fermava per dirmi il suo dispiacere mi diceva: coraggio, cerca d'essere come era tuo padre e sarai sulla strada giusta. Cosi ho sempre cercato di fare ma eguagliare mio padre era impossibile. Ho fermamente tentato. Chissà se ci sono riuscito? Poi ci sono anche state tante cose negative. Ti ringrazio Signore di avermi sempre dato la pazienza ed il coraggio di sopportarle.
Spero un giomo di vederti per ringraziarti di tutto ciò. Per dirti tutto il mio amore, per ottenere il tuo perdono. Per godere finalmente della pace eterna.
Biografia di Giuliano Gotuzzo
Giuliano Gotuzzo nacque a Genova il 31.7.1931, suo padre era genovese e sua madre triestina. I suoi nonni erano espatriati in Perù e suo padre nacque a Lima. I genitori di Giuliano ritornarono in Italia per la sua nascita, poi si trasferirono di nuovo a Lima e vi rimasero per altri cinque anni, dopo di che ritornarono definitivamente in Italia.
Giuliano frequentò la scuola dell’obbligo e le medie al collegio Larco di Santa Margherita Ligure. All’età di dodici anni vide affondare una nave militare in porto, si trattava del Cattaro. Complice quel tragico avvenimento dell’8 settembre 1943, cominciò a desiderare la carriera militare. Informati i genitori del suo intento, ebbe una risposta negativa e, a malincuore, finite le scuole medie frequentò la quarta e quinta ginnasio.
Era tempo di guerra e fu bombardata la loro casa e il negozio dove suo padre lavorava. Furono costretti a sfollare a S.Lorenzo della Costa, dove una famiglia di contadini del posto, i signori Dapelo gli affittarono una stanza vicino ad un mulino che lui amò e ricordò per tutta la sua esistenza. Da sfollato non poteva frequentare regolarmente la scuola ma, fortuna volle, che a San Lorenzo si trovasse per lo stesso motivo anche la professoressa Bima la quale, con un certo coraggio e senso civico, impartiva lezioni scolastiche ai ragazzi all’aperto, sotto un grande albero.
Arrivò la fine della guerra e finalmente, con immensi sacrifici finanziari e difficoltà per raggiungere Camogli, riuscì a frequentare l’Istituto Nautico. Il suo sogno sembrava finalmente avverarsi, ma ancora una volta il destino gli fu avverso: giunto ormai all’ultimo anno, suo padre si ammalò di tumore al cervello e mancò alcuni mesi dopo, proprio il giorno di Natale. Giuliano riuscì a terminare il regolare corso di studio ma, proprio alla vigilia degli esami di diploma, sua madre fu colpita da infarto e dovette rinunciare agli esami, al suo sogno esistenziale, al suo futuro di Capitano di mare.
Era figlio unico e da quel giorno pensò soltanto ad accudire la madre e a lavorare. Il destino gli sorrise quando, riversando tutto il suo amore per le navi, cominciò a collezionare fotografie di navi di ogni tipo privilegiando quelle militari. Le sue possibilità non erano floride, tuttavia decise di acquistare un manuale di Aldo Fraccaroli dal titolo: “Saper fotografare”.
Acquistò anche una modestissima macchina fotografica e cominciò a dare la caccia a tutte le navi militari che ormeggiavano nel porto di Santa Margherita. All’epoca approdavano rimorchiatori, cacciatorpediniere, dragamine e persino qualche portaerei in rada. Giuliano imparò a sviluppare i negativi, stampare le foto, per poi tagliarle con grande maestria. Frequentò altri collezionisti e diventò molto amico di uno tra i più noti fotografi navali a livello mondiale: il già citato: Aldo Fraccaroli. In questo settore ebbe molti contatti con altri personaggi famosi: Giorgio Ghiglione, Giorgio Giorgerini, Molinari, Martinelli, Avv. Barilli, Dott. Pradignac ecc....
Aldo Fraccaroli si complimentò più volte con mio marito per la qualità delle foto scattate. Giuliano riuscì inoltre a farsi accettare nel più grande circolo di “shipslovers” del mondo, ma nonostante i successi ottenuti nel mondo della fotografia navale, nel suo cuore rimase sempre la tristezza per la ‘mancata’ carriera militare. Ha sempre ricordato con affetto e gratitudine le persone che lo avevano aiutato. Ogni tanto saliva a S.Lorenzo della Costa per salutare la famiglia Dapelo e aveva sempre parole di affetto per la prof. Bima di Santa Margherita. Ogni tanto sognava di essere Comandante di una nave e spesso ripeteva che non l’avrebbe mai abbandonata, neppure se il destino l’avesse trascinata verso gli abissi più profondi del mare.
RINGRAZIAMENTI
Si ringrazia la Signora Nuccia Gotuzzo per averci concesso il materiale fotografico e le note autobiografiche del marito Giuliano.
Si ringrazia il Com.te Ernani Andreatta, Fondatore e Curatore del Museo Marinaro Tommasino-Andreatta per le ricerche di materiale storico e fotografico effettuate in relazione all’argomento trattato.
Si ringrazia lo storico dott. Maurizio Brescia, Vicepresidente di Mare Nostrum, per la consulenza scientifica, l’identificazione di tutte le unità presenti nel porto di Santa Margherita e le ricerche effettuate in ambienti esclusivi della Marina Militare.
Si ringrazia infine “il giovane testimone di allora” ... che ci ha deliziato con i suoi freschissimi ricordi che ci ha deliziato con i suoi freschissimi ricordi di fatti, amici e situazioni di quel tempo quando il “SILENZIO” era il segreto per sopravvivere...
Carlo GATTI
Rapallo, 29 ottobre 2013
COLIN ARCHER, le Barche della Tradizione
Colin Archer
Le Barche della Tradizione
Colin Archer nacque a Narvik (Norvegia) nel 1832 e vi morì nel 1921. Il padre, arrivato in Norvegia spinto dalla crisi economica inglese, intraprese un redditizio commercio di aragoste esportandole in Gran Bretagna. Si fece un nome, e in seguito fu nominato Console Britannico a Narvik. Suo figlio, lo studente Colin Archer dimostrò, fin da ragazzo, una notevole predisposizione alle discipline matematiche, base di lancio per il suo futuro di architetto navale. Fu dipendente in una ship chandlery (forniture navali) a Jordfalden e da qui iniziò anche la sua passione per la nautica. Nel 1850 emigrò in Australia per raggiungere suo fratello, poi alle Haway da un altro fratello e di nuovo in Australia fino al 1861. Quando a causa delle cattive condizioni di salute di suo padre, fu costretto a tornare in Norvegia. Nel 1862, morto suo padre, divenne capo famiglia e pensò di dare sfogo alla sua autentica passione: disegnare e costruire piccole imbarcazioni a vela. Nel 1867 iniziò la sua attività e dopo circa dieci anni era già famoso in tutta la nazione ed anche all’estero. Nel 1879 gli fu conferita dal Re la “Croce all’Ordine di st.Olaf”.
Colin Archer sinonimo di sicurezza
Condusse il resto della sua vita navigando e viaggiando, con grande passione e rispetto per il mare. Fu proprio il rispetto per il mare che lo spinse a progettare un prototipo di “pilotina” e altre imbarcazioni di salvataggio. Verso il 1870 molte pilotine erano affondate in mare. Per questo motivo Colin Archer pensò di apportare modifiche tali da rendere queste imbarcazioni più sicure. Colin Archer non era completamente soddisfatto della manovrabilità e dello stare in mare della sua prima creazione “Minnie”. Costruì quindi il “Thor”, che divenne il vero prototipo di tutte le imbarcazioni in seguito realizzate. A partire dal 1876 ogni imbarcazione fu costruita secondo il principio “Wave line”, teoria sviluppata dall’ing. Inglese John Scott Russel. Secondo tale principio quando una barca è in navigazione genera due tipi diversi di onde, una a poppa ed una a prua, per ridurre la resistenza dell’acqua ogni imbarcazione sarebbe dovuta essere costruita tenendo fede a tale principio. Tuttavia gran parte del tempo impiegato da Colin Archer fu destinato alla sicurezza e alla solidità dell’imbarcazione. I suoi compratori potevano anche negoziare sul prezzo, ma mai sulla sicurezza. Il fatto che ancora oggi alcune imbarcazioni originali possano veleggiare nei mari di tutto il mondo dimostra che l’attenzione alla sicurezza e alla solidità, non erano promesse da “marinaio”... alcune di queste barche hanno ormai più di cento anni....
Quando l’8 febbraio del 1921 morì, aveva costruito oltre 200 imbarcazioni, 70 yachts, 60 pilotine, 14 cutter di salvataggio ed altre 72 imbarcazioni varie. Una delle più famose fu la nave “Fram” che fu utilizzata dagli esploratori norvegesi Nansen e poi Amundsen nei loro viaggi nei mari dell’Artico e dell’Antartico.
Colin Archer è spesso associato alle “pilotine”, ma occorre ricordare che C.A. iniziò la sua attività costruendo proprio magnifici yacth. Nel 1867 costruì "Maggie" il primo yacht che rimase per anni nella famiglia Colin Archer. Altri furono il "Venus" e il "Storegun", costruito per Wilhelm Wolf, il quale vinse alcuni premi proprio con quello yacht. In totale Colin Archer costruì 70 yachts.
RS1 COLIN ARCHER - CUTTER DI SALVATAGGIO
Nel 1891 fu fondato il NSSR (La società norvegese per il recupero in mare). L'anno successivo Colin Archer costruì il primo cutter "restaurato". Il risultato fu un cutter di 13 metri e 95, largo 4.65 con un pescaggio di 2.25 metri. Randa, mezzana, fiocco per un totale di 110 metri quadri di superficie velica. Al suo varo nel Luglio 1893 l'imbarcazione fu chiamata "RS1 Colin Archer". Nel corso del primo anno di navigazione l'imbarcazione si dimostrò valida e divenne lo standard costruttivo in Norvegia per i successivi 30 anni.
Dopo 40 anni di glorioso servizio, il prototipo fu venduto, portando con sé un record impressionante: 67 imbarcazioni salvate (per un totale di 236 persone), 1522 velieri assistiti in mare (per un totale di 4500 persone di equipaggio)..
Nel 1961 l' "RS-1" fu ritrovato in America in condizioni terribili, dopo molti anni di utilizzo privato. Fu ricondotto in Norvegia e divenne oggetto di culto per alcuni anni, fino a che non fu comprato definitivamente nel 1972 dal Museo Marittimo Norvegese. Nel 1973 il Museo si accordò con la SSCA (Club velico Colin Archer). e nel 1993 fu completamente restaurato e riportato allo splendore originale con un contributo privato.
Il Colin Archer R.S. N°1
L' "RS-1" vinse nel 1983 il Cutty Sark Tall Ships, superando 74 imbarcazioni.
L' "RS-10 Christiana" arrivò secondo, mentre l' "RS-5 Liv" si classificò al terzo posto. Tutte e tre le imbarcazioni furono disegnate da Colin Archer. Questo evento non fu una coincidenza, dal momento che anche nel 1987 ci fu lo stesso ordine d'arrivo (all'appello mancò solo "Liv"), nel 1993 l' "RS-1" vinse per la terza volta.
Conservare in acqua l' "RS-1" è non solo un dovere Storico", ma anche uno stimolo alla conoscenza marinara per le nuove generazioni.
Ancora oggi la tradizione e il fascino delle imbarcazioni firmate Colin Archer sono impulsi che stimolano la voglia di recuperare il significato della tradizione storica della vela, ed il cantiere finlandese Lydman ne è il più fulgido esempio.
Il Colin Archer in navigazione tra i ghiacci
COLIN ARCHER 30 - (PILOT HOUSE VERSION)
Il Colin Archer 30 piedi è una comoda ed affascinante imbarcazione.
Non fatevi ingannare dalle sue dimensioni. 30 piedi di lunghezza sono proprio quelli che hanno permesso a Vito Dumas di navigare in solitario intorno al mondo!!!Cura nelle rifiniture e sobrietà degli interni fanno di questa barca il mezzo ideale per ogni mare ed ogni condizione atmosferica, dai marosi del Mare del nord, al calore avvolgente del mare Mediterraneo, facendo del colin Archer 30 piedi la barca ideale per navigare.
Carlo GATTI
Rapallo, 17 Luglio 2013
I I NAUFRAGI CHE NON PASSARONO ALLA STORIA 8.9.43
8 SETTEMBRE 1943
QUELLE STRAGI DI ITALIANI CHE NON PASSARANO MAI ALLA STORIA
Migliaia di militari italiani internati naufragarono su fatiscenti carrette del mare durante lo sgombero dalle isole Greche
La massa dei prigionieri (10.000 solo a Rodi) e l’impossibilità di effettuare una costante sorveglianza su così tante isole e a rifornirle regolarmente, (non c’era vitto per gli indigeni essendo gli uomini lontani e ferma la pesca d’altura) spinse i tedeschi, fin da subito, a trasferire sul continente i prigionieri per avviarli ad attività di difesa, sia qui che in Germania (dove gli si offriva dall’agosto del 1944 la possibilità di lavorare fuori dai campi in regime di semilibertà). Molti di questi trasporti, come vedremo, affondarono sia per siluramenti, per bombe d’aerei, ma anche a causa di violente burrasche di mare trattandosi di vecchie navi super affollate. Si riepilogano qui sotto soltanto i più grossi disastri con le relative perdite, riservandoci un più ampio approfondimento per il più disastroso di tutti i naufragi, quello della Oria.
Gli affondamenti si concentrarono fra settembre 1943 e la primavera del 1944. Si cominciò il 23 Settembre quando si verificò il primo. I piroscafi ‘Donizetti’ - ‘Dithmarschen’ e la Torpediniera ‘TA 10’ vennero affondate. Si ebbero 1.584 morti fra gli internati in massima parte dovute alle inosservanze alle norme di sicurezza. Miglior sorte ebbero i trasporti aerei. Nel Gennaio 44 la situazione peggiora. Viene ordinato il trasferimento anche su mezzi di trasporto non idonei al trasferimento di truppe come chiatte, pontoni o altri mezzi civili non in grado di reggere il mare forte.
23/9/43 | Rodi | ‘Donizetti’ | 1584 |
1835 |
28/9/43 | Cefalonia | ‘Ardena’ | 720 | 840 |
11/10/43 | Corfù | ‘Roselli’ | 1300 | 5500 |
13/10/43 | Cefalonia | ‘Marguerita’ | 544 | 900 |
18/10/43 | Creta | ‘Sinfra’ | 1850 | 2390 |
8/2/44 | Creta | ‘Petrella’ | 2646 | 3173 |
12/2/44 | Rodi | ‘Oria’ | 4163 | 4200 |
22/11/44 | ? | ‘Alma’ | 150 | 300 |
Totali: 12.907 morti su 19.038 imbarcati
QUADRO STORICO:
L’8 settembre 1943 si trovavano in Grecia circa 80.000 tedeschi del gruppo Armate Sudest, in nuclei di massicci distaccamenti motorizzati e gli italiani inquadrati nella XI armata italiana al comando del gen. Vecchiarelli così composta:
- III CdA - Tebe div. Forli, Pinerolo, truppe Eubea (Bersaglieri)
- VIII CdA - Cefalonia div. Acqui, Corfù Div. Casale
- Sett.Corinto, Argolide Pelopponeso Div. Piemonte, Cagliari distaccate a unità tedesche.
- XXVI CdA a Giannina div. Modena, Brigata Lecce
- Comando Egeo div. Cuneo (a Samo), Regina (Rodi e Castelrosso), Siena (a Creta)
La XI Armata era formata da circa 7.000 ufficiali e 175.000 militari di truppa disseminati in numerosi e statici presidi, sia nel continente che nelle centinaia di isole. Se in Italia, dopo l'annuncio dell'armistizio la sera dell'8, la situazione era confusa, senza ordini precisi se non quello di sparare se attaccati; nelle isole esistevano solo due situazioni: con i tedeschi o contro di loro.
Con gli Angloamericani a Salerno e il resto dell'Italia ancora agibile, si poteva raggiungere casa o nascondersi da qualche parte, naturalmente con le dovute precauzioni a causa delle continue retate, rastrellamenti, bombardamenti ecc...
Nelle isole greche questo barlume di speranza era tramontato da molto tempo, poiché il controllo del mare e del cielo ellenico era nelle mani dell’Inghilterra. Gli unici collegamenti con la madrepatria erano affidati ai sottomarini, ma il carico utile era ridotto alla corrispondenza, ai medicinali e poco altro.
Ovunque vi era scarsità di risorse, mezzi e carenze alimentari che erano già insufficienti per la popolazione civile, a cui si aggiungevano 50.000 italiani e 25.000 tedeschi.
Creta non era stata totalmente occupata dagli italiani, ma dal maggio 41 (dai giorni dell’operazione Merkur, vedi cartina)) avevamo un presidio stabile estratto dalla divisione Siena, dal 312° btg misto motocorazzato e il CXLI btg ccnn. (che molti autori qualificano come M). Dopo il breve periodo di grande confusione per effetto dell’Armistizio, la formazione italiana consegnava le armi. Non si ebbero notizie di scontri rilevanti e il T.Col. Carlo Gianoli procedette alla raccolta di tutto il personale dell’isola per costituire una Legione italiana volontari “Kreta” che inquadrava tre battaglioni più il CXLI btg ccnn. dislocato a Retymno. Il 25 aprile 1945 i reparti italiani vennero lasciati liberi, mentre i tedeschi idealmente o virtualmente continuarono la guerra, inquadrati con loro vi erano molti Italiani che non potevano scegliere. Il 6 maggio la Legione italiana Kreta depose le armi nelle mani degli Americani. Il 20 maggio con la nave francese “Ville d’Oran”, approdarono a Brindisi, erano 1400 e furono sistemati nel campo sportivo. In seguito furono trasferiti in parte Taranto, in parte ad Algeri al Campo 211. Quelli di Taranto una notte scapparono cantando “Giovinezza”.
RODI
A Rodi come a Creta, era presente una formazione tedesca, la divisione meccanizzata “Rhodos” al comando del gen. Kleemann che controllava soprattutto gli aeroporti nell’interno. Falliti i tentativi di resistenza e di negoziazione, ai più non resta che aderire al nuovo ordine. Il vice governatore Faralli accettò con diversi personaggi del regime di aderire alla neonata R.S.I. Vennero costituiti diversi reparti, compreso uomini della GNR, Genio e volontari dalla disciolta div. Regina. I volontari si erano divisi in 2 grandi famiglie: quelli che erano entrati direttamente nei reparti tedeschi (e non obbedivano più agli italiani) i Kawi (Kampfwillige soldati alleati volontari) o gli Hiwi (Hilfswillge operai volontari di varie nazionalità, molti russi). Dei circa 32.000 italiani che stazionavano a Rodi, in alcuni mesi aderirono circa 4.000 divisi fra costruttori e combattenti riuniti sotto un reggimento agli ordini del Col. Cerullo.
Entrambe le categorie dovevano prestare la formula di giuramento ad Hitler che diceva "In nome di Dio presto sacro giuramento di obbedire senza riserve ad Adolf Hitler, comandante supremo delle Forze armate tedesche, nella lotta per la mia patria ..."
Il 17 ottobre a Campochiaro i primi reparti prestano il giuramento di fedeltà e furono riarmati dai tedeschi. Si formano così vari reparti di cui il maggiore era quello degli zappatori del genio con 2 battaglioni. Il resto era diviso in sussistenza (servizio sanitario), guardia, comunicazioni, ma anche GNR e combattenti. A Nauplia e a Zante l’artiglieria della Div. Piemonte passò senza discontinuità alla R.S.I. Lo stesso per le altre isole di Samo (24ª Legione GNR "Carroccio'') e Syra (Fucilieri della Cuneo). Altri: Compagnia compl. fascisti n.1, 201ª Legione CC.NN-GNR Egea "Conte Verde", ANR - LXVII° Btg. CC.NN. (a Salonicco)
Le posizioni a Cefalonia all’8 settembre 1943
A Cefalonia e Corfù la resistenza italiana ad opera della div. ACQUI è aspra. Si combatte dal 13 al 25 settembre con oltre 2000 morti. A Corfù dove staziona l'altra parte della divisione, si riesce a ricevere rinforzi dall'Albania (a sinistra). Qui aiutati dai Partigiani greci le sorti sembrano volgere a favore degli italiani, ma solo per poco. Il giorno 15 giungono a Corfù due cacciatorpediniere italiane, lo Stocco e il Sirtori, ma non serve a niente. Gli Stukas (aerei bombardieri da picchiata) affondano il primo e danneggiano il secondo. Il 24 i tedeschi sbarcano in forze e il giorno dopo è battaglia piena con l’attacco ai passi di Stavros, Coriza, e Garuna. L’appoggio aereo scompagina le difese e il colonnello Lusignani dà l’ordine di resa. Alle 14,30 il Col. Lusignani ed i suoi vengono fucilati. Tutti gli italiani prigionieri vengono imbarcati su piroscafi che rischiano prima le mine poi gli attacchi inglesi. Si calcola che almeno 13.000 italiani moriranno nell'affondamento del naviglio, che gli Inglesi ignari o coscienti continuano a colpire da sopra e da sotto il mare.
Ufficio Storico della Marina.
Ai numerosi visitatori che richiedono informazioni sui naufraghi della Seconda guerra mondiale, consiglio la seguente prassi da seguire.
Di norma, i dati relativi a specifiche navigazioni e campagne di unità della Regia Marina, della Marina Militare e navi da carico militarizzati sono conservati all'UFFICIO STORICO DELLA MARINA MILITARE (USMM);
Per i contatti, vedi il link che segue:
http://www.marina.difesa.it/storiacultura/ufficiostorico/Pagine/default.aspx
L'Ufficio Storico non effettua ricerche "per conto terzi", ed è quindi necessario recarsi a Roma nella sua sede, su appuntamento. Tuttavia il servizio è efficiente perché, segnalando in anticipo qual è l'ambito della ricerca, gli addetti fanno trovare al ricercatore i faldoni già pronti nella sala consultazione, avendoli reperiti nell'archivio sotterraneo in precedenza.
Converrà, in sede di contatto con l'USMM, specificare in modo approfondito di cosa si necessita, onde verificare se hanno ciò che occorre, vale a dire una valutazione preventiva del materiale disponibile, soprattutto per evitare un viaggio a vuoto a Roma.
Carlo GATTI
Rapallo, 29 aprile 2013
P.fo G.DONIZETTI affonda il 23 settembre 1943-1584 morti
P.fo G.DONIZETTI
affonda il 23 settembre 1943
1584 le Vittime
Dal Comando Grupsom – X°fit riportiamo:
LE GRANDI TRAGEDIE DELL’EGEO
(Dodecaneso) Sito italiano....
Il P.fo DONIZETTI in navigazione
Il piroscafo Gaetano Donizetti di 3.428 tonnellate di stazza, apparteneva alla Società di Navig. Tirrenia quando fu sequestrata dalla Kriegsmarine dopo la dichiarazione dell’Armistizio (8 settembre 1943).
L’unità giunse a Rodi il 19 settembre 1943 con le stive piene di cannoni, munizioni e truppe di rincalzo per il Generale Kleeman. Nell’isola, la Divisione corazzata ‘Rhodos’ aveva già vinto la sua battaglia. Crollati i vertici italiani, avvenuta la resa, i marinai e gli artiglieri erano scesi dalle batterie, i fanti erano stati costretti ad uscire da postazioni spesso duramente difese, gli avieri - presi di mira nei loro campi dai panzer e dai bombardieri - dovettero abbassare le loro armi davanti al nuovo nemico. Nel momento più drammatico della disarticolata resistenza, mancò del tutto l’appoggio inglese. La preziosa Rodi per la quale gli Stati Maggiori dell’Esercito di Sua Maestà Britannica avevano architettato almeno tre piani d’invasione nel corso del conflitto, stava diventando una fortezza tedesca che doveva, in tempi stretti, alleggerirsi della inutile presenza di trentacinquemila prigionieri in buona parte decisi alla resistenza passiva. Questa imponente presenza di braccia avrebbero, viceversa, trovato collocazione sul continente nel lavoro coatto.
La Donizetti in manovra
Di qui la necessità di un rapido anche se rischioso sgombero, con qualunque mezzo, non escluso l’aereo, con qualsiasi natante, piccolo o grande che fosse. Eccoci quindi alla ‘Donizetti’, resa disponibile in tutta fretta mediante un frenetico lavoro di scarico. Prima di una serie di navi ‘negriere’, la ‘Donizetti’ cominciò ad imbarcare internati la mattina del 22 settembre 1943. I Tedeschi intendevano ‘stivare’ almeno 2100 prigionieri - come bestie - negli spazi già difficili per 700. Il Col. Arcangioli, incaricato di coordinare l’operazione, s’accorse che superato il numero di 1600 uomini, la stiva sarebbe diventata un infernale carnaio. Di sua iniziativa sospese il tristissimo afflusso su per gli scalandroni, ma i tedeschi reagirono riprendendo immediatamente gli imbarchi, e solo quando si resero conto che Arcangioli aveva ragione, si fermarono a quota 1835. 256 uomini in meno che furono salvati da un ripensamento formulato controvoglia all’ultimo istante.
Era già buio quando la ‘Donizetti’ salpò da Rodi il 22 settembre. Tenendosi sotto la costa orientale di Rodi, la nave diresse per sud-ovest, passò davanti a Lindos e venne a trovarsi alle 01,10 poco al largo di Capo Prasso, estrema punta meridionale dell’isola. La scortava una silurante con equipaggio tedesco al comando dell’Oberleutnant Jobst Hahndorff. La piccola unità - 610 tonnellate, armata con due cannoni da 100 - era al terzo cambio di mano e dopo essere nata francese col nome ‘La Pomone’, era diventata FR 42 per la Marina italiana ed infine TA 10 per la Kriegsmarine.
Nelle stesse acque non troppo profonde, ma prossime alla “fossa di Scàrpanto”, il cacciatorpediniere britannico ‘Eclipse’ colse sul proprio radar i bersagli delle due unità che procedevano di conserva. La Royal Navy si era impegnata sin dai primi giorni dopo l’armistizio, in una vera e propria caccia ai convogli tra le isole. Partendo dalle basi lontane di Alessandria e di Cipro, unità veloci battevano i canali di Caso e di Scàrpanto e risalivano verso nord – ovest calcolando la giusta autonomia per operare al buio. L’obiettivo era quello di far piazza pulita di qualsiasi natante senza attardarsi mai; l’ordine era di disimpegnarsi a tutto vapore per trovarsi, all’alba, fuori dall’Egeo e il più lontano possibile dai ricognitori e bombardieri della Luftwaffe.
Quella notte l’Eclipse’ stava operando una ricerca tra Rodi e Scàrpanto assieme all’unità gemella ‘Fury’. Più a nord, tra Stampalia ed Amorgos, altri due caccia, il ‘Faulknor’ e il ‘Vassilissa Olga’ - (destinato quest’ultimo, tre giorni più tardi, a colare a picco in coppia con l’Intrepid’ nella baia di Portolago) - stavano conducendo un’analoga operazione. La messa a punto dell’’Eclipse’ prima di aprire il fuoco fu rapidissima. Fulmineo il tiro. La Donizetti affondò in pochi istanti trascinando nel gorgo 600 avieri, 1110 marinai, 114 sottufficiali e 11 ufficiali dei quali, in assenza di sopravvissuti e di liste nominative redatte all’imbarco, non si sono conosciuti i nomi. Con altrettanta rapidità la TA 10 finì la sua randagia carriera sotto le salve implacabili dell”Eclipse. Trascinatasi alla meglio sino ad un centinaio di metri dalla terraferma, posò lo scafo lacerato sugli scogli di Prassonisi lasciando emergere la plancia e il fumaiolo. I superstiti dell’equipaggio trovarono temporaneo rifugio nell’area abbandonata della batteria ‘Mocenigo’. Il Col. Arcangioli venuto da Rodi col permesso del Comando tedesco per conoscere i dettagli del disastro e raccogliere gli scampati all’ecatombe, non trovò naufraghi, né ebbe notizie di essi dai matrosen della TA 10. L’Eclipse, dopo i lanci e le salve andate a segno, si era eclissato dando il massimo dei giri alle eliche. Solo più tardi seppe di aver firmato la prima grande tragedia dell’Egeo, fino a quel momento. Una tragedia che si sarebbe potuto evitare con una segnalazione tempestiva. La Defence Security Office del Dodecanneso, ad una richiesta della Commissione per la tutela degli interessi italiani in Egeo, rispondeva con tono glaciale e burocratico che la ‘Donizetti’… ”was sunk in a naval action south west of Rhodes on 23th september 1943”. Null’altro.
Dal sito GRUPSOM riportiamo: La Motonave DONIZETTI, classe “musicisti”, era stata varata nel 1928 per conto della ADRIA SA di navig. con sede a Fiume; era di tipo misto, cioè attrezzata al trasporto di passeggeri di merce varia, aveva una stazza lorda di 2428 t. lungh. di 97 mt. Nel successivo riordino delle linee cosiddette ‘sovvenzionate’, la Donizetti entrò a far parte della TIRRENIA SA di Navig. La nuova Società “entrò” in guerra con ben 56 navi uscendone con 7 soltanto in grado di poter prendere ancora il mare, essendo state per la maggior parte requisite dalla Regia Marina o comunque impiegate nel trasporto dei rifornimenti verso la sponda nordafricana, e sacrificate nell’immane bagno di sangue che fu la Battaglia dei convogli. La Donizetti venne requisita il 16 Ottobre 1940 e impiegata massivamente per il trasporto di truppe e materiali bellici nelle acque dell’Egeo. Fu proprio in quelle acque, Iraklion (Creta), che venne sorpresa dall’armistizio proclamato l’8 Settembre 1943. Subito catturata dai tedeschi, si rivelò l’asso nella manica per costoro che dovevano affrontare e risolvere il problema dell’evacuazione di migliaia di militari italiani, specialmente dalle isole Egee e quelle del Dodecanneso, dove la maggior parte delle nostre guarnigioni, non disposte a continuare la guerra al fianco dell’ex alleato, avevano ottemperato al proclama di Badoglio. Per questa enorme massa di militari d’ogni arma e specialità, l’unico destino era l’internamento in Germania. La Donizetti venne inviata a Rodi da dove partì la sera del 22 settembre: come consuetudine teutonica, e senza eccessivi formalismi, furono letteralmente “stivati” a bordo 1584 militari italiani, mentre altri avevano preso posto sul mercantile DITMARSCHEN, ex Dimitrios del 1903 e di 1171 tsl catturata dai tedeschi in Egeo il 25 Aprile 1941. Per maggior tranquillità, il comando tedesco aveva fornito al piccolo convoglio la scorta della Torpediniera TA-10, ex LA POMONE francese. Non fecero molta strada, dacché quella stessa notte, a Levante di Rodi, la formazione venne attaccata sia da aerei inglesi che da forze di superficie costituite dai caccia HMS Eclipse e HMS Fury. Ripetutamente bersagliate dalle salve, dalle bombe e dai mitragliamenti a bassa quota, nessuna delle navi riuscì a salvarsi, affondando in pochissimo tempo. Sulla Donizetti non vi furono superstiti, ma è lecito intuire quali soprusi dovettero subire quei poveri soldati chiusi nelle stive e senza scampo, da parte dei loro aguzzini tedeschi, così come accadde analogamente su altre navi nei giorni a seguire. Ricordiamo brevemente, che dalla stessa isola di Rodi, quel fatale 22 settembre, l’Ammiraglio Campioni, in veste di Governatore di quelle isole, fu catturato e prelevato insieme a due suoi ufficiali ed inviato in aereo in un campo di concentramento in Germania che lasciò nel Gennaio del 44 per andare incontro al suo destino. Fu solo grazie alle pressioni del Colonnello Angiolini, che alcune centinaia di militari non persero la vita sulla Donizetti giacchè i tedeschi avevano deciso di imbarcarne più di 2000: l’ufficiale riuscì a convincere i tedeschi che non era assolutamente possibile riuscire ad imbarcarne così tanti in uno spazio tanto esiguo. Dopo l’affondamento della Donizetti, il TA-10 andò ad incagliarsi presso Prassonisi dove fu trovata dal Comandante Arcangioli partito alla vana ricerca di naufraghi. Qualche giorno dopo, un ulteriore incursione aerea inglese, ne provocò irrimediabilmente la perdita. In quest’ennesimo quanto inutile sacrificio, perirono: il 2° Capo Cannoniere V. Restagno, nativo di Canosa ma residente a Savigliano, classe 1911 – il Marinaio C.Cosso, nativo di Sommariva Bosco, classe 1921 – il Marinaio R.Dalmasso, nativo di Revello e residente ad Airasca, classe 1918.
Ufficio Storico della Marina.
Ai numerosi visitatori che richiedono informazioni sui naufraghi della Seconda guerra mondiale, consiglio la seguente prassi da seguire.
Di norma, i dati relativi a specifiche navigazioni e campagne di unità della Regia Marina, della Marina Militare e navi da carico militarizzati sono conservati all'UFFICIO STORICO DELLA MARINA MILITARE (USMM);
Per i contatti, vedi il link che segue:
http://www.marina.difesa.it/storiacultura/ufficiostorico/Pagine/default.aspx
L'Ufficio Storico non effettua ricerche "per conto terzi", ed è quindi necessario recarsi a Roma nella sua sede, su appuntamento. Tuttavia il servizio è efficiente perché, segnalando in anticipo qual è l'ambito della ricerca, gli addetti fanno trovare al ricercatore i faldoni già pronti nella sala consultazione, avendoli reperiti nell'archivio sotterraneo in precedenza.
Converrà, in sede di contatto con l'USMM, specificare in modo approfondito di cosa si necessita, onde verificare se hanno ciò che occorre, vale a dire una valutazione preventiva del materiale disponibile, soprattutto per evitare un viaggio a vuoto a Roma.
Carlo GATTI
Rapallo, 27 aprile 2013
P.fo ARDENA affonda il 28 settembre 1943-720 morti
P.fo ARDENA
affonda 28 settembre 1943
720 morti
Una bella immagine del P.Fo ARDENA in manovra
L’Ardena fu costruita dal cantiere: McMillan di Dumbarton nel 1915 come fregata per la Royal Navy. Originariamente si chiamava Peony. Varata il 25 agosto 1915, aveva una stazza di 1.210 ton. Faceva una velocità di sedici nodi
e mezzo. Nel 1919 fu venduta dall’Ammiragliato, prese il nuovo nome di Ardena e fece servizio dal 1924 al 1930 nella Manica per i collegamenti tra la Gran Bretagna e la Francia. Nel1934 fu rivenduta alla Togias Line (Grecia, Pireo) e fece servizio con le isole di Chios e Metilene. Aveva una lunghezza di duecentocinquanta piedi, una larghezza di trentatré piedi e un’immersione di diciassette piedi. I motori erano a triplice espansione con tre cilindri da 350 n.h.p. La nave fu bombardata ed affondata da aerei tedeschi nel giugno del 1941, durante l’invasione della Grecia. Fu riportata a galla e riparata per conto dei tedeschi, che la adibirono a trasporto prigionieri.
Immagini del relitto dell'Ardena
MAR IONIO 28 settembre 1943
Nome della nave: piroscafo ARDENA
In navigazione da Argostoli (720 morti) la nave affonda per la collisione con una mina sganciata da un aereo britannico.
Il piroscafo tedesco ARDENA aveva a bordo 840 soldati italiani. I morti furono 720, più 59 dei 120 soldati tedeschi.
Storia relitto
Domenica 9 agosto 2009
Cefalonia - I 720 morti della nave Ardena forse vittime di sabotaggio tedesco.
Il Messaggero ROMA - Dei 1.500 soldati della ‘Acqui’, morti nell'affondamento delle tre navi che li trasportavano verso i lager tedeschi, le 720 vittime della nave Ardena, il 28 settembre, potrebbero non essere deceduti per l'urto della nave contro una mina - come dice la storiografia - ma perché gli stessi tedeschi piazzarono delle bombe a bordo della nave. Sull'Ardena, al termine della mattanza di Cefalonia, furono imbarcati 840 militari italiani: nell'affondamento perirono i 720 che si trovavano nelle stive. Sull'ipotesi della volontarietà del massacro sta lavorando l'Associazione nazionale Divisione Acqui, presieduta dall'aretina Graziella Bettini, dopo alcune immersioni sul relitto compiute dai tecnici del Centro studi attività subacquee, che avrebbero trovato indizi in questo senso. La Bettini, figlia del colonnello Elia Bettini, fucilato a Corfù dai tedeschi, ha deciso di rendere nota questa ipotesi alla vigilia di una cerimonia che si svolgerà il 14 agosto nel mare di Cefalonia, con la partecipazione di una nave della Marina militare italiana. Nei giorni precedenti un gruppo di subacquei compirà altre immersioni sul relitto dell' Ardena alla ricerca della verità. Il giorno della commemorazione, sul fondale verrà deposta una lapide.
Ancora un reperto del relitto
“UNA ACIES”
Nave Ardena La cerimonia del 14 agosto nel mare di Argostoli
Nel precedente Notiziario era stata data notizia della cerimonia che si sarebbe svolta il 14 a- gosto 2009 a Cefalonia, nel mare antistante la baia di Argostoli, con la deposizione di una targa in ricordo dei 720 soldati della Divisione Acqui che, chiusi nelle stive, morirono nell’affondamento della nave Ardena, la quale li avrebbe dovuti portare prigionieri a Patrasso, per poi essere inviati nei campi di internamento nazisti. Nei giorni 12 e 13 agosto erano previ- ste immersioni sul sito della nave per riprese e documentazioni.
“Oggi, con voi autorità, con voi amici, con voi reduci dell’Acqui, è presente anche il ricordo della cerimonia del 14 agosto scorso a Cefalonia, nelle acque antistanti Argostoli, durante la quale lo Stato Italiano, con autorità greche ed italiane, e con tanti nostri connazionali, per la prima volta dopo 66 anni, ricordava, con noi dell’Acqui, i 720 giovani che affondarono con la nave Ardena nelle acque cefaliote.
Questo è il messaggio che mi onoro di portarvi oggi e che idealmente pongo ai piedi del nostro monumento. Nel 1943, il 28 settembre, 840 giovani dell’Acqui, che erano sfuggiti ai massacri tedeschi, avvenuti dopo la resa a Cefalonia (e Corfù), stanchi ed annientati dal dolore dei compagni morti nelle battaglie e nelle stragi naziste, sicuramente in quel giorno, quando furono imbarcati sulla nave Ardena, nutrivano la speranza, in quel 28 settembre ’43, che la prigionia cui erano destinati sarebbe finita presto e che presto avrebbero potuto tornare a casa.
Ma dopo pochi minuti dalla partenza la nave colò a picco...e con lei 720 acquini...Solo 120 si salvarono.
Le loro ossa giacciono ancora in fondo al mare: ma la loro voce, se si fa silenzio in noi ed intorno a noi, si può oggi sentire in questo parco dell’Acqui, in questo luogo nobile, ove si può riscoprire se stessi, la propria identità.
Perché non basta che abbiano dato la vita, che abbiano consegnato alla storia le loro scelte. Qui siamo obbligati a domandarci il senso del gesto di tanti migliaia di giovani; ed il dono della loro vita ci interroga.”
Ufficio Storico della Marina.
Ai numerosi visitatori che richiedono informazioni sui naufraghi della Seconda guerra mondiale, consiglio la seguente prassi da seguire.
Di norma, i dati relativi a specifiche navigazioni e campagne di unità della Regia Marina, della Marina Militare e navi da carico militarizzati sono conservati all'UFFICIO STORICO DELLA MARINA MILITARE (USMM);
Per i contatti, vedi il link che segue:
http://www.marina.difesa.it/storiacultura/ufficiostorico/Pagine/default.aspx
L'Ufficio Storico non effettua ricerche "per conto terzi", ed è quindi necessario recarsi a Roma nella sua sede, su appuntamento. Tuttavia il servizio è efficiente perché, segnalando in anticipo qual è l'ambito della ricerca, gli addetti fanno trovare al ricercatore i faldoni già pronti nella sala consultazione, avendoli reperiti nell'archivio sotterraneo in precedenza.
Converrà, in sede di contatto con l'USMM, specificare in modo approfondito di cosa si necessita, onde verificare se hanno ciò che occorre, vale a dire una valutazione preventiva del materiale disponibile, soprattutto per evitare un viaggio a vuoto a Roma.
Carlo GATTI
Rapallo, 27 aprile 2013
M/n Mario ROSELLI - Naufragio 10 ottobre 1943 - 1302 morti
MARIO ROSELLI
Naufragio 10 ottobre 1943
1302 le vittime
La motonave Mario Roselli fu protagonista di una tra le più gravi tragedie della Seconda guerra mondiale dopo l’8 settembre del 1943. 1.300 furono le vittime su 5.500 militari italiani imbarcati.
Descrizione generale |
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Tipo |
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Classe |
Fabio Filzi |
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Proprietà |
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Costrutt. |
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Cantiere |
Monfalcone (GO) |
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Impostata |
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Varata |
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Completa |
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In serv. |
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Destino finale |
Affondata l'11 ottobre 1943 |
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Caratteristiche generali |
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6835,00 tsl |
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Lunga |
138,61 m |
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Larga |
18,92 m |
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Altezza |
12,10 m |
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Motore |
Un motore Diesel con potenza di 7500 CV, una elica |
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Velocità |
15,8 nodi |
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Capacità di carico |
9100,00 t.p.l. |
La Mario Roselli venne costruita dai Cantieri Riuniti dell'Adriatico di Monfalcone su ordinazione della Società Italia di Navigazione di Genova nel 1940 . Nello stesso cantiere vennero contestualmente costruite le navi gemelle Reginaldo Giuliani, Gino Allegri, Fabio Filzi e Carlo Del Greco, tutte su ordinazione del Lloyd Triestino.
Varata il 25 aprile 1941 , la nave venne consegnata al committente il 22 aprile 1942 requisita il giorno dopo a Trieste dalla Marina Milirae Italiana che la incorporò nel suo naviglio ausiliario di guerra .
La sua prima missione fu il rifornimento delle truppe italiane di stanza in Libia, sulla tratta Brindisi-Bengasi-Brindisi, con prima partenza da Brindisi il 16 maggio 1942. Il 24 maggio , in porto a Bengasi, venne colpita durante un attacco aereo degli alleati. Circa un mese dopo, il 23 giugno , in navigazione per Bengasi, la nave divenne bersaglio degli aerei alleati al largo di Capo Rizzuto, riportando danni rilevanti a causa dei siluri ricevuti. Assistito inizialmente dai rimorchiatori Gagliardo, proveniente da Taranto , Fauna, proveniente da Crotone. Il mercantile venne poi rimorchiato a Taranto dalla torpediniera Orsa con la scorta prima del cacciatorpedinier e Turbine e della torpediniera Partenope , e poi delle torpediniere Antares ed Aretusa . Rimorchiata da Taranto a Monfalcone nel settembre 1942 per le riparazioni, l'unità rimase in cantiere fino al 19 dicembre , quando rientrò in servizio sulla rotta Napoli-Palermo-Biserta , con cinque missioni totalizzate fino al marzo 1943. L'11 aprile dello stesso anno la nave venne nuovamente bombardata, questa volta nel porto di Napoli .
Il 9 settembre 1943 , il giorno dopo la comunicazione dell'avvenuto Armistizio di Cassibile, la Mario Roselli divenne preda bellica della Marina militare germanica , che la incorporò nel suo naviglio ausiliario di guerra. Il 20 settembre venne utilizzata per un trasporto di prigionieri italiani a Venezia , con successiva partenza per Trieste il 27 settembre.
La Mario Roselli adagiata sul bassofondale dell’isola di Corfù
M/n Alpe ex Mario Roselli
La strage di Corfù
Il 9 ottobre 1943 la motonave Mario Roselli giunse in rada a Corfù per imbarcare numerosi prigionieri italiani, circa 5.500 militari, che nei giorni prima erano stati catturati negli scontri tra i tedeschi e la resistenza , organizzata dagli stessi militari italiani. Le operazioni d’imbarco iniziarono all'arrivo della nave e si protrassero per tutta la notte tra il 9 ed il 10 ottobre; i prigionieri venivano trasbordati da riva alla nave tramite piccoli motoscafi . Ad imbarco quasi completato, alle ore 7,15 del 10 ottobre, venne avvistato un aereo alleato, che immediatamente attaccò la nave ed i motoscafi. Una bomba centrò con tragica precisione un motoscafo, stipato di prigionieri, ed un'altra, passando da un boccaporto aperto, cadde direttamente nella stiva della nave, gremita di italiani, ed esplose, causando una terribile strage e lo sbandamento della nave sulla dritta a causa dell'imbarco di acqua. Molti prigionieri sulla Roselli, non coinvolti nell'esplosione, tentarono di salvarsi gettandosi in mare, per poi affogare poco dopo. Il mare intorno alla nave si riempì quindi di cadaveri, rendendo l'idea di quanta sofferenza ed orrore si verificarono in questo tragico bombardamento su prigionieri inermi; sono state calcolate 1.302 vittime. I prigionieri a terra, capendo la gravità ed il pericolo della situazione, fecero un tentativo di fuga nelle campagne circostanti, inseguiti dai tedeschi che avevano aperto un fitto fuoco sugli inseguiti; alcuni di questi ultimi, nonostante l'odio dei greci per l'occupazione italiana, vennero aiutati e nascosti dalla popolazione, scampando a morte certa. I superstiti a bordo della nave vennero sbarcati, e la nave, gravemente sbandata, venne abbandonata in rada dove si trovava al momento del bombardamento. Il giorno dopo vi fu un nuovo attacco aereo, che causò il definitivo affondamento della Mario Roselli.
Il recupero e la ricostruzione
Nel 1952 il relitto della Mario Roselli, rimasto appoggiato sul fondale in assetto di navigazione con il fumaiolo affiorante, venne recuperato. Il recupero venne effettuato svuotando alcune cisterne di acqua dolce rimaste intatte durante l'affondamento. Reso il relitto galleggiante, fu rimorchiato ai Cantieri Navali Riuniti di Monfalcone (lo stesso cantiere dove era stata costruita la nave). La Mario Roselli, caso più unico che raro, venne ricoverata sullo stesso scalo dove era stata varata, e da dove poi ebbe luogo il secondo varo della sua vita. Terminati i lavori, l'11 giugno 1952 la motonave venne immatricolata come Alpe. La nave ricostruita aveva una stazza lorda di 6893,00 tonnellate.
Ufficio Storico della Marina.
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Carlo GATTI
Rapallo, 27 aprile 2013
M/n SINFRA affonda il 19 ottobre 1943-1850 morti
LE TOMBE INVISIBILI:
M/n SINFRA
18.10.1943
1850 Vittime
Due foto della FERNGLEN (Primo nome del SINFRA). scattate il giorno del varo (Nasjonalbiblioteket photo archive).
Una bella foto della SANDAHAMN, Secondo nome della futura SINFRA.
DATI NAVE:
Primo Nome: "Fernglen"
Tipo: Ocean liner/Cargo ship
Anno: 1929
Nazionalità: Norway
Primo Armatore: Fearnley & Eger, Oslo (old Christiania), Norway
Successivi Armatori / OWNERS:
1934: "Sandahamn"/Sven Salen (Rederi A/B Jamaica), Stochholm, Sweden
1939: "Sinfra" / Companie di Navigation A Vapeur Cyprien Fabre & Cie, La Ciotat, France
Dicembre 1942: "Sinfra" / German Government
Costruttore: Akers Mekaniske Verksted A/S
Cantiere: Oslo (old Christiania), Norway
YARD No: 434
Data del Varo: 15-05-1929
Data completamento: July 1929
Stazza Lorda: 4444 GRT
Lunghezza: 122.5 m
Larghezza: 16.7 m
Altezza: 7.32 m
Eliche: 2
Motore: Diesel
Velocità: 12.5 knots
Destino: AFFONDATO dalle bombe degli Alleati il 19 ottobre 1943.
La storia:
La motonave SINFRA arrivò nel porto di Heraklion (Creta) nei primi giorni di ottobre 1943. Da parecchi giorni i convogli ferroviari tedeschi ammassavano, presso questa base, materiale bellico (bombe d’aerei, in particolare) provenienti dagli aeroporti limitrofi. Queste bombe erano destinate ad essere sganciate dalla Luftwaffe in Nord Africa, ma dopo la vittoria Anglo-Americana, questo arsenale costituiva un surplus, così come gli stessi aeroporti dell’isola di Creta di grande valore strategico. Il 19 ottobre il carico di bombe fu completato e la nave era quasi pronta a partire per il Pireo. L’ultima operazione era soltanto quella di trasferire il carico “UMANO” di migliaia di militari internati dai campio di concentramento al porto. Molti greci si erano assemblati sui lati della strada per assistere alla partenza dei soldati italiani. Verso sera il trasferimento fu completato. La Schmeisser SINFRA era una nave da carico senza cabine ed i soldati furono ammassati nelle stive. I tedeschi permisero soltanto agli ufficiali di rimanere sui ponti aperti usando le poche cabine esistenti sui lati dei corridoi che correvano da poppa a prua. Prima del tramonto, i tedeschi consegnarono agli ufficiali italiani i giubbotti di salvataggio che non erano sufficienti per tutti gli ufficiali presenti a bordo. Nessun giubbotto fu consegnato agli uomini nelle stive. Sulla nave c’erano molti tedeschi di passaggio ed anche un piccolo gruppo di partigiani greci, tutti cretesi, destinati ai lager tedeschi. I boccaporti delle stive erano presidiati da sentinelle tedesche armate di maschinenpistole Schmeisser. La nave aveva due mitragliatrici, una a prua ed una a poppa, in funzione antiaerea.
Il mare era liscio come uno specchio e c’era anche la luna piena quando il SIFRA lasciò il porto di Heraklion, scortato da almeno una nave. Nessuna luce era permessa a bordo per evitare il pericolo d’essere individuati da aerei e da sottomarini nemici. Chi voleva fumare poteva farlo solo nei locali interni. Alcuni ufficiali italiani combattevano lo stress passeggiando da prua a poppa e discutendo delle situazioni ed erano divisi in piccoli gruppi. La maggior parte di loro si poneva la stessa domanda: “Cosa sarebbe successo una volta giunti al Pireo?”
Alle 23.30 una sentinella tedesca cominciò ad urlare: “Aerei nemici, allarme!”
Immediatamente l’antiaerea del SINFRA cominciò a crepitare. L’ufficiale Donato, uno dei tanti italiani presenti in coperta, dopo pochi secondi vide delle luci a gruppi sull’orizzonte, erano molto basse.
Fonti tedesche concordano che si trattasse di squadroni di bombardieri B-25 Mitchell della U.S.A.F e aerosiluranti Bristol Beaufighter della R.A.F provenienti dal Nord Africa e operativi sul Mediterraneo.
Appena gli aerei sorvolarono sopra il SINFRA, avvenne una forte esplosione. Lo shock dovuto all’esplosione fu così forte che Donato Dutto fu scagliato parecchi metri lontano dalla sua posizione originale. Mentre cercava di capire cosa fosse accaduto, vide le sentinelle aprire il fuoco all’interno delle stive. Il suono dei mitragliatori era alto, ma non tanto da coprire le urla di terrore che salivano dalle stive. Enzo Della Rovere, un altro italiano sopravvissuto, affermò che la bomba era entrata dalla ciminiera ed era esplosa all’interno della nave e che molti soldati italiani erano stati intrappolati all’interno nelle stive vicine all’esplosione di cui le scale di accesso erano collassate e crollate.
Anche un rapporto trovato negli Archivi della Marina Italiana conferma che la bomba attraversò la ciminiera e l’esplosione procurò confusione, panico e terrore nelle stive. Corrisponde anche l’azione compiuta dalle sentinelle tedesche che gettarono, inizialmente, alcune granate dai boccaporti e poco dopo fecero fuoco con le Schmeisser, quando i prigionieri tentarono di risalire in coperta.
Il motore della SINFRA si fermò e poco dopo la nave cominciò ad inclinarsi sul lato dritto. Quelli che erano già in coperta cominciarono a saltare in mare.
Nel contempo i bombardieri alleati compirono un largo giro intorno al SINFRA e ritornarono indietro per terminare il loro lavoro. La nave fu colpita nuovamente e l’incendio si propagò in breve da poppa a prua. Pochi attimi dopo il secondo attacco, un gruppo di ufficiali tedeschi con due civili (un diplomatico e sua moglie, secondo quanto testimonia Dutto) arrivarono sul ponte di coperta spingendo e sparando. Presero una scialuppa di salvataggio sul lato dritto e lasciarono velocemente la nave sotto incendio. Sul lato sinistro alcuni ufficiali italiani erano più fortunati e riuscirono a calare in mare una scialuppa di nascosto dei tedeschi. La nave di scorta fece molti e continui segnali luminosi al SINFRA ma non venne mai vicina alla nave bombardata per salvare i naufraghi finiti in mare, se non molte ore più tardi.
La nave non affondò subito, e dopo aver messo le due lance in mare, le sentinelle lasciarono le loro postazioni presso le stive aperte. Quello fu il momento atteso dai prigionieri sopravvissuti al massacro e si riversarono con tutti mezzi possibili sulla coperta della nave e si gettarono in mare. Molti di loro cercarono pezzi di legno o altro materiale galleggiante per sostenersi e vincere la stanchezza. Le acque intorno alla nave erano piene di naufraghi che lottavano per rimanere vivi. Donato Dutto cercò di rimanere a bordo della nave che bruciava il più a lungo possibile, poi trovò il coraggio di tuffarsi in mare. La soluzione si trovò quando un gruppo di naufraghi notò la biscaglina appesa fuoribordo che era stata usata dagli ufficiali tedeschi per salire sulla lancia. Dutto usò quello strumento per fuggire dalla nave sotto incendio. La nave scarrocciava lentamente mentre veniva consumata totalmente dal fuoco.
A fronte dell’estremo calore, molti militari correvano sul ponte della coperta e i loro urli d’aiuto si udivano chiaramente anche a distanza. Alle 02.30, quando il fuoco raggiunse le bombe d’aereo sistemate nelle stive, si compì il destino del piroscafo SINFRA. La nave fu sventrata da una colossale esplosione che deflagrò a molti chilometri di distanza. La mattina successiva, una flotta di pescherecci greci requisiti dai tedeschi, affluirono sulla scena del disastro alla ricerca di naufraghi sotto le direttive di un paio d’idrovolanti del 7° Squadrone Salvataggio Marittimo germanico e della nave di scorta.
Donato Dutto fu uno dei pochi militari italiani tratti in salvo dai pescherecci locali, nonostante l’ordine fosse molto chiaro: “prima salvate i militari tedeschi!”. Durante le operazioni di recupero e salvataggio dei naufraghi, uno stormo di caccia alleati attaccò e distrusse un idrovolante tedesco. Subito dopo l’attacco, i pescherecci fecero rotta per il porto di Cania. Ad attenderli in banchina c’erano i tedeschi che prelevarono i naufraghi italiani e li trasferirono con mezzi pesanti nelle carceri vicine alla città. Gli ufficiali italiani furono invece portati nella prigione di Panaghia dove rimasero quattro settimane prima di essere imbarcati per il Pireo.
LE CIFRE DEL DISASTRO
a) Nel suo libro (scritto 10 anni dopo gli eventi) Donato Dutto affermò che 523 italiani si salvarono (100 circa furono salvati dai pescherecci e almeno 400 furono tratti in salvo da dalla nave di scorta e dalle lance di salvataggio calate in mare dalla nave prima che affondasse). Inoltre, egli scrisse che soltanto 12 partigiani greci sopravvissero. Comunque, questi combattenti furono più tardi giustiziati perché ritenuti responsabili della morte di molti soldati tedeschi finiti in mare dopo il naufragio. Dutto stimò che a bordo del SINFRA si trovassero 400 militari tedeschi.
Il numero delle vittime: 2465
Superstiti: 535 Internati e prigionieri greci
Su un TOTALE di: 3000 presenti a bordo, incluse i milit. Germ.
b) Secondo il sito web di George Duncan’s le cifre sono diverse e meglio dettagliate:
Il numero delle vittime: 2098
Superstiti: 566 403 internati italiani, 163 tedeschi
Su un TOTALE di: 2664 Di cui 2389 italiani internati, 71 prigionieri greci, 204 militari tedeschi.
c) Il ricercatore greco Manos Mastorakos fornisce gli stessi dati di Duncan ma un diverso numero di superstiti: 757 italiani, 197 tedeschi
Il numero delle vittime 1710
Superstiti: 954
Su un TOTALE di: 2664 presenti a bordo
d) Il libro di Gerard Schreiber fornisce i seguenti dati:
Il numero delle vittime: 1850 Internati e prigionieri greci
Superstiti: 539 Internati e prigionieri greci
Su un TOTALE di: 2389 Internati e prigionieri greci
e) Gli Archivi della Marina Militare (Roma) forniscono un differente quadro:
Esiste un Rapporto del 7.8.1946 che certifica che 5.000 italiani imbarcarono sulla M/n SINFRA il 18 ottobre 1943. Furono poi imbarcate 500 proiettili di contraerea. Lo stesso rapporto riporta che ci furono circa 500 superstiti.
Le note del webmaster:
I dati forniti da Donato Dutto riguardo al totale delle persone imbarcate sulla SINFRA, non sembrano essere particolarmente accurate. Si tratta probabilmente delle cifre discusse dagli ufficiali italiani prima dell’imbarco sulla nave, poiché le cifre sono arrotondate. In ogni caso non vi sono grandi differenze sulla valutazione dei superstiti. Va detto invece che i dati forniti da Gerhard Schreiber che ha esaminato gli Archivi di Stato tedeschi, sono considerati attendibili e affidabili anche da molti storici italiani.
Purtroppo, il numero dei prigionieri italiani e greci uccisi dalle sentinelle tedesche durante il tentativo di fuga dalle stive, rimane sconosciuto.
La Posizione del Relitto
Il relitto della SINFRA si trova 7 miglia fuori della costa nord occidentale di Creta (meno di 25 km a nord del porto di Cania). Si pensa che il relitto sia difficilmente riconoscibile a causa dei danni subiti dall’esplosione.
Ufficio Storico della Marina.
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Carlo GATTI
Rapallo, 27 febbraio 2013