Nascita di COPPA AMERICA
UN PILOTA DEL PORTO DI NEW YORK
FU IL PRIMO EROE DI COPPA AMERICA
Nel mondo della marineria esiste un personaggio ancora avvolto nella sua antica leggenda e dalla quale non è mai completamente uscito per integrarsi con la gente di terra tra la quale opera quotidianamente. Parliamo del pilota portuale che non solo incuriosisce le migliaia di passeggeri delle navi da crociera, quando si affacciano dalle murate per filmare l’acrobatica arrampicata di quell’omino in divisa che viene da terra per condurre la nave in banchina, ma turba anche gli abitanti della costa che spesso e volentieri confondono il suo ruolo con quello del comandante del rimorchiatore oppure con l’ufficiale di guardia sul ponte di comando e qualche volta anche con l’ormeggiatore portuale.
Il suo mestiere, antico come la prima nave, ha subito nell’arco della sua infinita storia pochi mutamenti, se pensate che tuttora per salire a bordo si serve di una semplicissima scala di corda a tarozzi di legno (biscaglina) in uso già da qualche millennio.
Una svolta, tuttavia, c’è stata all’inizio del ‘900, quando i legislatori decisero che era ora di porre fine alle pericolose gare tra singoli piloti a chi riusciva ad abbordare per primo la nave in arrivo ed acquisire quindi il diritto di prestare la propria opera. Erano vere e proprie battaglie navali ingaggiate per lavorare e sopravvivere; erano gare, tutt’altro che sportive, fra velocissimi cutters in Europa e tra shooners in America, condotte da piloti espertissimi e duri che, a similitudine dei corsari si servivono di tattiche, astuzie e cattiverie senza esclusioni di colpi e si raccontano di loro storie incredibili d’incidenti che procurarono feriti ed anche morti.
La dura scuola dei piloti portuali creò una fucina d’eccellenti skippers in tutto il mondo. Oggi salteremo l’Atlantico ed approderemo a New York per un motivo che presto scoprirete.
Si era all’inizio del 1851 e il Club Velico Reale di Londra (E.R.Y.S), saputo che il meno blasonato New York Y.C. stava costruendo una goletta (schooner) da competizione, invitò ufficialmente il sindacato americano del Club a Cowes (I. Wight) per tastare la nuova tecnologia d’oltremare. Occasione del race era la Great Exhibition organizzata dal principe Alberto, marito della regina Vittoria.
La goletta in costruzione, su specifica degli armatori, doveva essere velocissima, ma questa ambizione di primato portava il suo costo a 30.000 dollari. America era il suo nome ed era lunga 31 metri, larga 6,70, aveva gli alberi alti 24 metri e fu consegnata ai suoi armatori il 18 giugno 1851. Perse nel primo collaudo contro un’altra imbarcazione dello stesso Y.C. Forse fu un calcolo strategico che fece calare il prezzo a 20.000 $. Pochi giorni dopo lo schooner mise la prua in Atlantico e la puntò sull’Inghilterra. R. “Dick” Brown era il suo comandante che normalmente si guadagnava da vivere come Pilota portuale di Sandy Hook (N.Y.), ma la sua fama di miglior skipper del Nuovo Mondo se l’era guadagnata durante quelle regate di...lavoro, già descritte e che avevano luogo tra gli schooners dei singoli piloti, al largo del battello fanale di Ambrose, ogni volta che una nave arrivava a New York.
La traversata fu velocissima e Dick fece sapere che “America volava!” Ma gli Inglesi, chiusi nella loro idea di superiorità sui mari, definirono “scandalose e piratesche le linee della goletta…..in aperta violazione delle regole classiche dell’architettura navale”.
America, infatti, aveva gli alberi molto abbattuti verso poppa. La prima delusione per gli inglesi arrivò quando le mandarono incontro Laverock, la loro imbarcazione più veloce, per sondare le capacità dell’avversario. Il vento in prora costrinse i contendenti ad avanzare con bordi di bolina. America, con vele vecchie e appesantita dal carico, arrivò a Cowes con un vantaggio di 45 minuti. La reazione inglese all’umiliazione subita fu tale che America dovette fare bacino per dimostrare che non possedeva un’elica nascosta sotto lo scafo…
La febbre delle scommesse fece salire a 100 ghinee il valore della coppa in palio che diventò così la celebre R.Y.S. £100 Cup. 14 imbarcazioni presero il via su un circuito di 50 miglia intorno all’isola di Wight. America ebbe dei problemi e partì in ritardo, ma dopo circa un paio d’ore Dick sbaragliò il campo di regata. “Chi è in testa?” – chiese la Regina Vittoria – “America, Maestà”. “E chi è secondo?” “Non c’è secondo, Maestà”.
Cominciò così, 156 anni fa, con questo celebre motto, la leggendaria storia della Coppa America, che in questi giorni è in pieno svolgimento a Valencia. La nostra Riviera di Levante, sulla scia della sua millenaria tradizione marinara, è già in finale con due suoi grandi “figli del vento” che fanno parte del Team di Alinghi: il portofinese Francesco “Cico” Rapetti (mastman) ed il camogliese Claudio Celon (trimmer).
Carlo GATTI
Rapallo, 16.02.12
Le T/n MICHELANGELO e RAFFAELLO
LE T/N “MICHELANGELO” - “RAFFAELLO”
LE ULTIME NAVI DI LINEA
Il gigantismo del Rex e del Conte di Savoia aveva già dimostrato quanto il prestigio internazionale avesse un costo notevole superiore ai ricavi d’esercizio. Tuttavia l’errore fu ripetuto con l’impostazione delle turbonavi Michelangelo e Raffaello l’otto novembre 1960.
Ciò avvenne nonostante alcuni segnali negativi avessero già indicato un calo di passeggeri sulla linea del Nord America, pari al 26%.
La T/n Michelangelo in arrivo a Genova
I due transatlantici rappresentarono, in ogni caso, l’espressione più avanzata della tecnologia applicata alle linee architettoniche interne ed esterne, ai modernissimi impianti e macchinari, alle strumentazioni nautiche e dotazioni varie; parametri che accreditarono la loro più alta classificazione in materia di sicurezza della navigazione.
Nave- Ship |
Stazza L.-G.T |
Lungh.-L.o.a. |
Largh.-Bread |
Potenza- H.P. |
Pass. |
Michelangelo |
45.911 |
275,81 mt. |
31,05 mt. |
87.000 CV |
1775 |
Raffaello |
45.933 |
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Le due grandi navi di linea s’incontravano spesso a Genova
I migliori artisti, arredatori, stilisti e decoratori italiani diedero, nel rispetto di una lunga tradizione, un espressivo contributo d’immagine all’arte itinerante del nostro Paese.
La Michelangelo, costruita a Genova, partì per il suo viaggio inaugurale il 12 maggio 1965, precedendo d’alcuni mesi la sua gemella Raffaello, costruita a Monfalcone e che fu pronta a partire il 25 luglio 1965, anch’essa sulla linea di New York.
Le due unità, nonostante il sostegno di un’imponente battage pubblicitario, furono ridimensionate da alcuni insuccessi che ebbero altrettanta enfasi sui media.
La Michelangelo, dopo alcune traversate oceaniche, dovette sostituire le eliche, causa d’intense vibrazioni e scarsa velocità.
Il 12 aprile 1966 fu il giorno della tristemente nota “onda anomala” che sfondò il ponte di comando della T/n Michelangelo, uccise due persone e ne ferì molte altre, tra cui il Comandante in 2a Claudio Cosulich di Trieste.
Il 31 ottobre 1965 la Raffaello subì un incendio in sala macchine e dovette rinunciare al viaggio. Il 17 ottobre 1966 subì una grave avaria ad una caldaia.
La T/n Raffaello in manovra d’ormeggio a Genova aiutata dai rimorchiatori Tripoli e Alghero.
Il 19 maggio 1970 entrò in collisione con una petroliera ad Algesiras (Gibilterra). Il 28 settembre 1973 dovette sospendere il viaggio per un’avaria all’apparato motore.
UNA FINE ANNUNCIATA
“1.600.000 PASSE,GGERI TRASPORTATI IN UN ANNO”
Fu il titolo del manifesto pubblicitario diffuso dalla Compagnia Aerea Americana Pan-Am., per l’esercizio ’70-71.
La Michelangelo e la Raffaello in disarmo alla fonda nella baia di Portovenere alla fine del 1975.
L’annuncio rappresentò l’irriverente necrologio per l’intero settore marittimo mondiale del trasporto di linea passeggeri.
Le costruzioni delle Michelangelo e Raffaello costarono circa 100 miliardi di lire e nel 1973 le perdite di gestione ammontarono a 30 miliardi.
I due transatlantici furono fermati, disarmati, rimorchiati ed ormeggiati nella baia di Portovenere alla fine del 1975, nell’attesa di compratori.
Nel 1977 furono acquistate dal Governo dello Shah di Persia.
La Michelangelo funzionò da caserma militare nel porto di Bandar Abbas e terminò la sua esistenza nel 1991 in un Cantiere di demolizione pachistano.
La Raffaello, adibita anch’essa a struttura militare, affondò nel febbraio 1983 sotto i bombardamenti aerei iracheni.
THE LAST LINERS
THE T/S “MICHELANGELO” - “RAFFAELLO”
The giant liners M/v “REX” and “CONTE di SAVOIA” had already demontrated how international prestige involved considerable higher costs to what they derived from incomes.
However, the same error was repeated with the bringing into service of the turbo vessels Michelangelo and Raffaello on 8 November 1960.
This took place even though there had been negative signals in the reduction of passengers by some 26%, on the North American line.
The two transatlantic liners represented anyway, a more advanced technical expression applied to the architectural lines both inside and out, to the very modern plants and machines, to the nautical instruments and various equipments, and parameters which gave credit to the highest classification regarding navigational security matters.
The best italian artist, interior designers, stylists and decorators, in respect of their long traditions, contributed an expressive and imaginative interpretation artwise, which is part of our country.
The Michelangelo built in Genoa, sailed on her maiden voyage on 12 May1965, to New York followed by the sister vessel Raffaello, built at Monfalcone. Her maiden voyage to New York was on 25th July 1965. Both liners covered the North American Line.
The two units, even starting with the support of an impressive mass of publicity, due to some unsuccessful events, saw their popularity diminished as they were over emphasized by the mass media.
The Michelangelo after a few transatlantic voyages, had to replace the propellers, caused by intense vibration and a scarse speed. On the 12 April 1966 was the day much publicised anomalous wave,
which shattered the command bridge, killing two persons and injuring many others.
The Raffaello on 31 October 1965, had a fire in the Engine Room and had to renounce the voyage. On 17 October 1966 she underwent bad damage to a boiler. On the 19 May 1973 she had a collision with a petrol tanker at Algesiras, Gibraltar. On the 28th September 1973 she had to suspend a voyage due to damages to the engine’s pumps.
THE ANNOUNCED CLIMAX
1.600.000 passengers transported in one year, was the contents of the publicity circulated by the American Airways PAN AM for the year 1970-71. The announcement represented, the irriverent obituary for the entire world maritime transport section of the passenger liners.
The contruction costs of the Michelangelo and Raffaello came to about 100 miliards of lires and in 1973 the management costs amounted to 30 miliards.
At the end of 1975 the two transatlantic liners were withdrawn from service, dismantled and towed to Portovenere Bay (La Spezia) where they were put into lay-up awaiting potential buyers.
In 1977 they were bought by the Government of the Shah of Persia. The Michelangelo was used a military base in the Bandar Abbas port. Her existence terminated in 1991 when a Pakistan shipyard bought her for demolition and broke her up.
In February 1983 the Raffaello which had also been adapted for militarry use, was sunk during an Iraq air bombardment.
Carlo GATTI
Rapallo, 12.02.12
USHUAIA - Italiani alla Fine del Mondo
USHUAIA
(Patagonia del Sud-Argentina)
ITALIANI ALLA FINE DEL MONDO
Una Storia dimenticata
Nell'immediato dopoguerra una nave, un'impresa italiana e tanta mano d'opera specializzata in cerca di lavoro e fortuna partono per la Terra del Fuoco, regione inospitale, difficile e senza strutture.
Ushuaia si trova 140 km a NW di Capo Horn - Cile.
Ushuaia è la città più australe del mondo e si trova sulla costa meridionale della Terra del Fuoco, in un paesaggio circondato da montagne che dominano il Canale Beagle (Ushi = al fondo, Waia=baia). Baia al fondo, alla fine. È così che gli indigeni Yamanas, da oltre seimila anni, chiamano il loro mondo: la "fine del mondo".
Nell’immediato dopoguerra, la decisione del governo argentino di costruire la capitale Ushuaia nella Terra del Fuoco fu presa per riaffermare la sovranità del paese sull'isola Grande, all'epoca oggetto di aspre dispute con il confinante Cile. Siamo nel 1947 e le imprese italiane ricevono l’incarico di costruire opere pubbliche. L’unica struttura presente sull’isola è un vecchio penitenziario ormai fatiscente. Occorre partire da zero: case, strade, ospedale, scuola, centrale idroelettrica. Ad organizzare la spedizione è Carlo Borsari, imprenditore edile bolognese e proprietario di una fabbrica di mobili che convince il governo argentino di saper operare con le sue maestranze anche in climi molto rigidi. Nella primavera del 1948 il presidente Peròn firma il decreto che attribuisce all'imprenditore italiano la commessa di lavoro. Il 26 settembre 1948 salpa dal porto di Genova la prima nave che, guarda caso, si chiama “GENOVA”, con a bordo, 506 uomini e 113 donne, per un totale di 619 lavoratori.
La M/n GENOVA della Co.Ge.Da. è in partenza da Ponte dei Mille per la Terra del Fuoco. Questa rara fotografia è una preziosa testimonianza di quella grande spedizione.
Durante il lungo viaggio della nave, le autorità argentine vietano di scalare i soliti porti intermedi per evitare defezioni. La paga dei lavoratori è di circa 3,5 pesos, superiore rispetto ad altri luoghi in Argentina e permette di mandare soldi alle famiglie in Italia.
Il 28 ottobre 1948, dopo 32 giorni di oceano, la M/n Genova giunge ad Ushuaia con un carico umano colmo di speranze e con le stive stracolme di materiale. Ad accoglierla c’è il ministro della Marina argentina dell'epoca. La stagione è la più favorevole per iniziare i lavori. Per i primi mesi una parte degli operai è sistemata nei locali dell'ex penitenziario, il rimanente alloggia a bordo di una nave militare del governo.
La mano d'opera è soprattutto emiliana, ma non mancano piccole comunità di veneti, friulani e croati. Nelle ampie stive della nave c’è tutto l’occorrente per la costruzione ed il montaggio di un paese moderno. Del carico fanno parte 7.000 tonnellate di materiale per allestire una fornace e la centrale idroelettrica, vi sono mezzi di trasporto leggeri e pesanti, gru, scavatrici, case prefabbricate, generatori, l’attrezzatura per la costruzione di una fabbrica di legno compensato e persino le stoviglie per la mensa dei dipendenti. L’inventario della merce trasportata comprende tutto il necessario alla comunità per essere autosufficiente ed il suo valore attuale corrisponde a venti milioni di euro che il governo argentino, ha pagato all'impresa Borsari che li aveva anticipati.
Agli emigranti provenienti dal nord Italia, le montagne alle spalle di Ushuaia ricordano le Alpi, e per tutti loro la nuova terra significa un futuro migliore per se stessi e per i propri figli. I primi due anni pattuiti con Borsari sono veramente duri per il freddo, la neve, l’oscurità e con le difficoltà di costruire opere murarie e idrauliche. Onorato il contratto, in molti decidono di stabilirsi definitivamente in questa città che hanno creato dal nulla e che sentono ormai propria. Grazie al lavoro di un nucleo di avventurieri italiani, si assiste ad un fenomeno di migrazione di massa unico al mondo. Ushuaia cresce, si popola e si trasforma in una città viva, speciale per varietà di razze e culture.
La M/n Giovanna C. degli armatori Costa di Rapallo
Restano i ricordi. Lo sforzo per l’ambientamento climatico fu sostenuto dagli emigranti grazie anche al promesso ricongiungimento con le famiglie, che fu rispettato e si concretizzò con l’arrivo di una seconda nave italiana, la M/n "Giovanna C." che giunse a Ushuaia il 6 settembre 1949 con mogli e figli. Quel giorno la comunità italiana raggiunse le 1300 unità.
Gino Borsani aveva promesso due anni di lavoro ben pagato, terre e case ai suoi uomini. “Alcuni di noi non sapevano neppure dove erano diretti” - dice Elena Medeot 78 anni, nata a Zara – “In Italia c'era il mito dell' Argentina, ma quando siamo arrivati qui, dopo un mese di navigazione, abbiamo scoperto la verità. Per scaldarsi, in un posto dove in piena estate la temperatura raramente supera i 10 gradi, si doveva risalire la montagna per fare un po’ di legna. Le promesse del bolognese svanirono in pochi mesi, così come il sogno di tutti, mettere da parte un po' di soldi e tornare a casa.
L’emigrante Dante Buiatti
“Però si mangiava carne tutti i giorni e questo già sembrava un miracolo”. Ricorda Dante Buiatti nato a Torreano di Martignacco. “Nel 1923 Avevo un lavoro in Friuli, ma era più importante dimenticare la guerra e a casa non ce la facevo”.
Dante fu uno dei pochi pionieri, arrivati ad Ushuaia con la ditta Borsari, che scelse di restare in quella terra al confine del mondo. La maggioranza, infatti, rincorse orizzonti più caldi, spostandosi in altre province “più ospitali” dell’Argentina. Buiatti s’impegnò nell’attività commerciale del paese, che oggi continua con sua figlia Laura; mentre Leonardo, il figlio minore, gestisce un albergo. Sempre col cuore rivolto alla sua cittadina natale, Dante Buiatti fu uno dei principali animatori dell’associazionismo friulano e italiano nella Terra del Fuoco. Fino al giorno della sua morte è stato il principale punto di riferimento per gli studiosi dei processi migratori, per la collettività italiana, per i giovani della comunità friulana di Argentina ed Uruguay e, fondamentalmente per i suoi cinque nipoti.
Franco Borsari, figlio dell'imprenditore, ricorda ancora lo stacco del padre dalla banchina del porto di Genova. Nel 1948 aveva solo 5 anni e La lontananza terminò nel 1953 quando, insieme alla madre e le due sorelline, raggiunse suo padre a Buenos Aires per rimanervi fino agli anni Sessanta.
Marco David fu il primo figlio di italiani a nascere ad Ushuaia. I genitori erano tra coloro che vissero per qualche tempo su una nave militare del governo argentino, fino alla costruzione delle prime baracche. Il padre era responsabile tecnico del cantiere e ricorda: “C’era solo abbondanza di carne di pecora, tutto il resto doveva arrivare via nave, e d'inverno lo sbarco non era mai assicurato a causa del cattivo tempo”. La famiglia rimase ad Ushuaia fino al 1964.
Anna Maria Floriani, 85 anni, insieme al marito Osvaldo Tartarini, carrozziere, e la figlioletta Claudia di sedici mesi, fece parte del primo gruppo della M/n Genova. Di quell'impresa ricorda soprattutto il freddo dei primi tempi: “Fummo alloggiati nell'ex penitenziario, in una stanza di due metri e mezzo per due, senza cibo fresco, schiacciati dal peso della nostalgia e della solitudine. Ci sentivamo abbandonati dal mondo”. Ricorda infine le parole del marito che, arrivati nello stretto di Magellano e vedendo un cimitero di navi affiorare qua e là disse con le lacrime agli occhi: “Dove sto portando la mia famiglia?”
Mentre l'Italia si rimboccava le maniche nella ricostruzione dopo la tempesta del secondo conflitto mondiale, quella piccola, dimenticata spedizione diventò per molti di loro un’occasione di benessere e tranquillità economica.
La M/n GENOVA
ARRIVA A USHUAIA
Oggi Ushuaia è una meta turistica per crocieristi, un'isola relativamente felice nel disastro economico e sociale in cui vive l'Argentina.
Per molti anni i suoi disagiati abitanti hanno ricevuto stipendi superiori alla media nazionale, grazie anche al suo “porto franco” che diventò una ghiotta occasione per rilanciare piccole industrie e commerci. Oggi il suo centro è costellato di negozi che traboccano merce importata, e non sembra affatto una città posta ai confini del mondo. Gli italiani che hanno resistito alla tentazione di ritornare in patria non si lamentano più e si sono perfettamente ambientati come i loro figli argentini. Qualcuno è diventato persino benestante, come l'imprenditore Luciano Preto, scomparso l'anno scorso.
Certo, Ushuaia resta pur sempre la fin del mundo e i contatti con l'Italia, per mezzo secolo, sono stati davvero pochi. Dante Buiatti e Elena Medeot ci sono tornati solo una volta, con la nave, trent' anni fa. Gli eventi legati alla patria furono pochi ma indimenticabili, come la visita di Maria Beatrice di Savoia, nel 1961, l'arrivo della rivista di fotoromanzi, Grand Hotel, che le donne si passavano di mano in mano per mesi. Poi, negli anni Settanta, le feste a bordo delle navi da crociera Costa (Eugenio C. e, in seguito la Costa Allegra) che si fermavano alla fonda nella baia.La memoria muove molte emozioni e ogni 28 ottobre si consuma un rito. A USHUAIA, nella gelida Terra del Fuoco (Argentina), quindici reduci della M/nave Genova, da cinquantatré anni issano la bandiera italiana nel vento gelido che soffia dall' Antartide. Si contano di nascosto per vedere se manca qualcuno, si abbracciano con qualche lacrima e non dimenticano di rendere omaggio anche alla loro seconda bandiera, quella bianca e azzurra dell' Argentina. Figli e nipoti si stringono tutti gli anni attorno ai loro nonnos, come chiamano indistintamente i quindici vecchietti, e cercano a fatica di conservarne la storia e le tradizioni. Quindici sono i sopravvissuti di una delle più straordinarie storie dell'emigrazione italiana nel mondo.
Fa tenerezza la tenacia della piccola comunità italiana, che vuole ricordare, conservare la storia, non far sparire tutto davanti al tempo che inevitabilmente si porterà via i protagonisti della grande avventura.
ULTIMA ORA
10.12 2010 - CRUISE SHIP HORROR
Per fortuna è solo un pessimo ricordo l’odissea vissuta in alto mare, qualche giorno fa, nelle gelide acque dell’oceano Antartico, per i 166 passeggeri (16.000 $ a persona) della nave da crociera di lusso Clelia II, battente bandiera maltese. La love-boat si è trovata per ore in balia di altissime onde nello Stretto di Drake mentre proveniva dall’Antartide con un motore in avaria, il radar fuori uso e molti danni alle sovrastrutture. La Marina Militare Argentina ha reso noto che la CLELIA II ha potuto raggiungere il porto di USHUAIA scortata dalla nave polare Explorer, inviata in suo soccorso.
Carlo GATTI
Rapallo, 11.02.12
La Storia della ANDREA DORIA
T/N “ANDREA DORIA”
LA BELLA E SFORTUNATA SIGNORA DEI MARI
La Grand Dame of the Sea sfila davanti ai grattacieli di Manhattan
Un po’ di Storia: La Riorganizzazione Postbellica.
Strutture ed infrastrutture portuali distrutte e inagibili. Fondali da bonificare e sgomberare da centinaia di relitti. La flotta italiana ridotta ad un’esigua entità.
Questa era in sintesi la drammatica situazione dell’Italia marinara l’8.5.1945.
L’Italia aveva perso l’88% delle navi passeggeri o miste.
Lo sforzo riorganizzativo compiuto dal Governo italiano dell’epoca per avviare una rapida ripresa fu intrapreso in molte direzioni:
- Costituzione del Comitato Gestione Navi (Co.Ge.Na.)
- Concessioni di contributi sulle spese per il recupero ed il ripristino di circa 2000 navi e per la ripresa della cantieristica.
- Creazione del Ministero della Marina Mercantile che fu suddiviso in quattro Direzioni Generali ed in tre Ispettorati.
- Furono stipulati accordi con il Governo degli Stati Uniti per l’acquisto di:
95 navi del tipo Liberty,
20 petroliere del tipo T/2,
8 navi da carico del tipo N/3.
- Nel 1947 si conclusero le trattative per la restituzione ed il rientro in patria dagli USA di 14 prede belliche tra cui il Conte Biancamano il Conte Grande, il Vulcania ed il Saturnia.
Nel frattempo cresceva vertiginosamente la domanda per il trasporto dei reduci, smobilitati, persone compromesse con il regime, rifugiati politici, apolidi ed in particolare emigranti italiani.
In questa fase delicata della nostra storia recente, si attivarono ancora una volta gli Armamenti Privati Genovesi: Co.Ge.Dar. – Costa – Fassio – Italnavi – Marsano – Messina – Sidarma – Sitmar - Zanchi ed altri che seppero far fronte alle richieste, adattando ed adibendo le loro unità alle linee del Plata, Brasile e successivamente dell’Australia.
Grazie al loro coraggio, la bandiera italiana poté ancora solcare i mari in un frangente in cui molti la davano per spacciata.
Al centro della ripresa dei traffici si trovarono le Società del Gruppo FINMARE che in pochi anni riuscirono a ripristinare i collegamenti con tutte le sponde nazionali ed internazionali del periodo anteguerra.
Verso una Rinascita ricca di prestigio.
Intorno agli anni ’50, un’ulteriore serie cospicua di provvedimenti legislativi favorirono la rinascita della flotta italiana. Dai Cantieri Navali nazionali uscirono, in quel periodo, navi passeggeri e da carico che furono le protagoniste nella Storia dei Trasporti Marittimi per molti decenni.
Per la Società Tirrenia, nei primi anni ’50, furono varate cinque navi motonavi gemelle della classe “Regioni”: Sicilia – Sardegna – Campania Felix – Calabria – Lazio, che s’aggiunsero alle 21 unità esistenti, ma di vecchia concezione tecnologica.
Per la Società Adriatica il 5 gennaio 1952 la M/n Enotria partì per il suo viaggio inaugurale sulla linea Italia-Egitto a fianco della M/n Esperia. Alla fine dello stesso anno la M/n Messapia entrò in servizio sulla linea Italia-Grecia-Cipro-Israele.
Per il Lloyd Triestino scesero in mare: le navi da carico Udine – Vicenza e le navi passeggeri Ausonia –Bernina.
Per la Società Italia, l’8 maggio 1950, scese in mare la Giulio Cesare, mentre l’Augustus il 19 novembre 1950. Le due prestigiose unità furono le prime navi passeggeri ad entrare in linea nel dopoguerra.
La polivalenza della serie Navigatori giocò un ruolo molto importante per i collegamenti commerciali ed il trasporto degli emigranti europei diretti verso il Sud-Pacifico (Cile e Perù).
La seconda fase della rinascita delle attività marittime si ebbe il 19.12.1952 con la consegna della splendida e sfortunata Andrea Doria e della gemella Cristoforo Colombo che avvenne il 2 luglio 1954. Entrambe le navi furono costruite dal Cantiere Ansaldo di Sestri Ponente.
Il Varo. La T/n Andrea Doria fu varata il 16 giugno 1951. Erano le 10.30 e scese in mare senza una scossa, dolcemente, docile ed esatta lungo un binario dello scalo. La bottiglia di spumante si era appena infranta sul fianco destro della prora e il nastro tricolore che fasciava il vetro non era ancora ricaduto a terra, che già lo scafo, sciolto da ogni impaccio, scivolava rapido verso il mare.
Al momento del varo il suo scafo pesava circa 10.000 tonnellate. Il costo finale del transatlantico fu di 14 miliardi di lire.
Le due foto (in alto) si riferiscono a due fasi dell’allestimento del transatlantico che durò circa due anni e si concluse negli ultimi mesi del 1952.
Le Prove di macchina dell’Andrea Doria.
Le qualità nautiche della nave: potenza, velocità, manovrabilità, stabilità, sensibilità ai comandi strumentali ecc…erano emerse molto positivamente nei giorni delle “prove in mare” che precedettero il viaggio inaugurale, nel gennaio del ’53. Nel Golfo Ligure, inanellando giri su giri in un circuito fisso tra Genova e Sestri Levante, con le macchine a tutta forza, l’Andrea Doria doveva raggiungere il limite massimo di velocità fissato dal contratto. La nave spinta gradualmente fino al massimo dei giri delle turbine, tesa in quello sforzo estremo di sollecitazioni e vibrazioni, Superò tutte le prove. I cronometristi, ad ogni passaggio davanti alle basi misurate, segnate sul monte di Portofino, comunicavano i tempi; 20 nodi, 21, 23 e poi l’annuncio, festoso, come lo sciogliersi di un incubo: “25,30 nodi, la velocità massima”.
L’Andrea Doria esce dal porto di Genova per le attese “ prove di macchina” che saranno realizzate tra le “basi misurate” posizionate tra le colline della Riviera di Levante. La foto si riferisce alla seconda uscita della nave avvenuta l’1.12.1952.
Il viaggio inaugurale dell’Andrea Doria.
L’Andrea Doria partì per il Viaggio Inaugurale il 14 gennaio 1953 ed arrivò a New York nove giorni più tardi. Vicino alle coste americane il transatlantico incappò in una forte depressione con onde montagnose che la sottoposero a violente sollecitazioni allo scafo con sbandate che arrivarono a 28°. Il nuovo liner fu quindi sottoposto ad un severo test che procurò anche venti feriti tra i 794 passeggeri imbarcati. L’Andrea Doria coprì la distanza di 4.737 miglia da Genova a New York ad una velocità media di 22.97 nodi, nonostante la forzata riduzione a 18 nodi, causata dallo storm atlantico. L’Andrea Doria era stabilmente adibita alla linea espresso Genova-Cannes-Napoli-Gibilterra-New York e aveva ottenuto un grande successo nel pubblico internazionale, specialmente fra gli americani. La nave viaggiava sempre completa.
Le due foto (sopra), si riferiscono all’entrata in linea dell’Andrea Doria che avvenne nel gennaio del 1953. La partenza da Genova fu accompagnata dai fischi e le sirene di tutti i mezzi portuali e delle navi ormeggiate in porto. La bella nave, ripresa di poppa e di prora, sta lasciando- con il Gran Pavese del Maiden Voyage - la Stazione Marittima di Ponte dei Mille. Poteva trasportare 1241 passeggeri e 575 uomini d’equipaggio. Era lussuosa sin nel minimo dettaglio delle sue strutture ed era considerata l’ammiraglia della Società Italia di Navigazione.
I Passeggeri americani lanciano una nuova moda.
Con l’Andrea Doria viaggiava il jet set dell’epoca che amava l’Italian Style e soprattutto l’atmosfera di bordo. L’oggetto del desiderio, per molti VIP, non era quello di raggiungere l’una o l’altra sponda dell’Oceano Atlantico, ma il vivere “la nave”, per molte traversate, secondo una nuova moda lanciata da loro stessi.
Celebrità dello mondo dello spettacolo, (dall’alto verso il basso), le attrici: Kim Novak, Gracie Fields, Cristine Jorgensen.
Tecnica d’avanguardia installata sull’ammiraglia della flotta italiana.
L’Andrea Doria aveva in dotazione un elevato numero di lance di salvataggio, quattordici, che potevano trasportare oltre duemila persone. Un sistema antincendio sofisticatissimo ed era equipaggiata di un radar Raytheon (USA), di un secondo radar Decca (U.K.) nonché della strumentazione più moderna dell’epoca: solcometro elettrico, radiogoniometro, bussola giroscopica ed giropilota, nonché l’impianto Sprinkler per la segnalazione e lo spegnimento automatico degli incendi. Il condizionamento dell’aria era assicurato in tutta la nave da un sistema composto di ben cinquantotto apparecchi condizionatori a regolazione automatica a mezzo di termostati. Innumerevoli ventilatori ed estrattori d’aria avevano una portata complessiva oraria di ben 1.126.500 metri cubi. Le condotte di ventilazione ed estrazione avevano uno sviluppo complessivo di oltre quindici chilometri. I condizionatori assorbivano, in regime di raffreddamento, circa tre milioni di frigorie l’ora, e in fase di riscaldamento, un massimo di 4.500.000 calorie orarie. La centrale frigorifera era una delle più potenti, installate su navi passeggeri, con un impianto della potenza di 1500 CV. La cambusa per le provviste di bordo aveva un volume di circa 1450 metri cubi, di cui 850 in celle isolate e refrigerate. Le casse per l’acqua di lavanda avevano una portata di circa 3300 tonnellate; altre ne contenevano 370 tonnellate per l’acqua potabile. I depositi di nafta avevano una capacità di 4300 metri cubi, sufficiente per consentire alla nave un viaggio completo d’andata e ritorno.
Il Primo Arrivo dell’ Andrea Doria al Pier-84 di New York.
L’Andrea Doria è stato il primo grande transatlantico italiano che avesse ripreso le rotte oceaniche nel dopoguerra. Le tre foto sotto ricordano il suo primo arrivo a New York.
(Foto in alto) Si vedono due Erie Railroad ferries, l’Empire States Building e a sinistra l’Upper Hudson. (Foto sopra) si vede la famosa New York City skyline con il Woolworth Building a sinistra.
La traversata oceanica s’interrompe bruscamente con la stupenda visione dei grattacieli di New York e con i docks portuali destinati ad accogliere le più grandi navi di linea dell’epoca. Il pilota e i rimorchiatori delle Società McAllister e Moran assistono il comandante dell’Andrea Doria in manovra. Nella foto (sopra) gli uffici della Società Italia sono addobbati con disegni artistici e locandine commemorative del grande evento.
In questa affascinante rappresentazione dei Piers-passeggeri del porto di New York, si notano: la Queen Elizabeth in navigazione sul fiume Hudson e in basso da sinistra: la Costitution, l’Andrea Doria, la United States e l’Olimpia.
Attrazioni, conforts e impianti moderni a disposizione dei passeggeri.
In tre classi, l’Andrea Doria poteva trasportare complessivamente 1241 passeggeri, oltre a 575 uomini d’equipaggio. La nave disponeva di tre piscine, di quindici sale pubbliche, di ampie passeggiate coperte e scoperte, di quattro impianti cinematografici e di tutte le attrezzature e impianti tipici dei grandi liners dell’epoca, fra cui l’aria condizionata in ogni ambiente e in ogni classe. Ma la novità assoluta era forse l’installazione del radiotelefono intercontinentale a disposizione dei passeggeri.
Foto in alto: La piscina di prima classe ed il comandante P.Calamai a destra sul ponte superiore.
Al centro la piscina e il lido-bar della classe cabina. In basso la stessa pool vista dall’alto.
Un museo perduto in fondo al mare.
Con l’Andrea Doria la Marina Mercantile italiana non perdette soltanto una magnifica unità dal punto di vista della tecnica, ma anche un gioiello di architettura, di arredamento, di decorazione navale. In questo campo la flotta italiana raggiunse in quegli anni ciò che presto si chiamò in tutto il mondo “The Italian Style”.
Il salone di prima classe era l’elegantissimo locale d’incontro e di relax informale, ma soprattutto l’ideale passerella per le eleganti signore nelle feste di gala.
Così come nella serie dei “Conti”, lo stile italiano realizzò sontuosamente l’idea dell’albergo galleggiante, nella serie dei “Navigatori” concretizzò l’idea della casa accogliente e, soprattutto, personale, per quanto poté essere “personale” un ambiente destinato alla collettività. Il filo conduttore di questo progetto architettonico navale, imitato invano dalla concorrenza, fu l’arte, l’opera d’arte che raggiunse i livelli più apprezzati con le gemelle Andrea Doria e Cristoforo Colombo. Sopra il livello dell’artigianato, eccellente e caratteristico di ogni cosa di “gusto italiano” e che si rivelava attraverso l’accostamento delle tinte, delle materie, delle linee attraverso l’amore della bella forma evidente nelle poltrone dei saloni come nelle rubinetterie dei bagni, spiccava, sulle navi italiane la presenza dell’arte.
Numerosi famosi architetti: Zoncada, Pulitzer, Ratti ed il più importante Gio Ponti lavorarono agli interni dell’Andrea Doria. In questa foto si vede l’imponente statua dell’ammiraglio Andrea Doria di guardia… al salone principale della prima classe.
Si diceva….“Galleria d’arte, Museo galleggiante”…anche e specialmente dell’Andrea Doria. La Flotta Mercantile italiana nella sua spola continua attraverso gli oceani portava con sé il paesaggio dell’arte italiana. Pittori, scultori, ceramisti, disegnatori mosaicisti, vetrai italiani avevano creato questo “paesaggio” permanente sui mari, primo saluto del tradizionale paese dell’arte al viaggiatore straniero che veniva a conoscerlo. Le loro opere rendevano armoniose le lente giornate del navigare. Campigli, Mirko, Music, Sironi, Felicita Frai, Spilimbergo, Meli, Venini, E. Luzzati e tanti altri che adesso non vengono in mente, sono i nomi più illustri che hanno lasciato sulla “bella nave”, il sigillo della loro arte. Il vestibolo di prima classe, portava la firma degli architetti Cassi, Rossi e Parenti, realizzatori inoltre delle grandi scalee, delle gallerie, dei negozi e degli uffici che si affacciavano sul vestibolo, nonché delle sale da pranzo di prima classe e della classe cabina. Vi erano quattro appartamenti di lusso realizzati nella loro particolari caratteristiche di arredamento e decorative, dagli architetti Ponti, Zoncada, Minoletti e Pouchain. Attraverso grandi portoni di cristallo si accedeva alla sala da pranzo di prima classe, il cui pavimento era in gomma color pervinca. Le pareti, ornate da due grandi tarsie a soggetto allegorico, erano di radica di mirto e noce. La parte centrale della parete poppiera era interamente rivestita di pergamena. I tavoli erano in noce francese e le poltrone imbottite di gomma piuma e rivestite di seta. La saletta dei bambini aveva le pareti di frassino bianco patinato e laccato con decorazioni policrome. Anche la sala da pranzo della classe cabina era assai elegante con i suoi toni sfumati di grigio e pareti di legno “citronnier” con parti massicce in frassino d’Ungheria. La sala da pranzo della classe turistica, realizzata dagli archittetti del gruppo Anua di Genova, aveva rivestimenti di frassino e rovere di Slavonia. Sul ponte superiore erano sistemate numerose cabine di prima e seconda classe, mentre a poppa, progettate dall’architetto Ratti, spiccavano la sala delle feste, il bar, le sale di soggiorno, da gioco, di lettura, le passeggiate coperte e scoperte. La sala delle feste, in rovere di Slavonia chiaro con due grandi vetrate, era particolarmente lussuosa.
I passeggeri di prima classe spesso s’intrattenevano nelle loro lussuose ed ampie suites. Erano anche incoraggiate le nuotate sotto le stelle prima del ritiro notturno.
A prua si trovava il giardino d’inverno, opera degli architetti Ponti e Zoncada. Vi erano inoltre verande belvedere, tre piscine, sale elioterapiche e attrezzate palestre.
Il personale di un moderno salone assiste una giovane coppia nel gioco del “ horse racing”.
Sull’Andrea Doria, la decorazione della sala di soggiorno di prima classe era una delle realizzazioni più felici per estro pittorico e movimento plastico. Salvatore Fiume, che si rivelò come uno dei migliori scenografi italiani, l’aveva immaginata e decorata come una scatola magica a sorpresa. Una scena unica e multipla sulla quale era ininterrottamente interpretata la commedia dell’arte italiana; anticipo, o souvenir, di un bel viaggio nel paese della fantasia. Tra quinte e prospettive, il mondo delle immagini e dei personaggi del Carpaccio e di Tiziano, del Giorgione e di Raffaello, del Boccaccio e di Goldoni appariva e scompariva, allusivo e ridente, carico di ammiccamenti e di proposte. Il fondo del mare ha raccolto quella scena, e avrà stinto un poco alla volta la sua accensione fantastica, la scioglierà poco a poco; e spenderà, con il “grande banchetto di Nettuno”, dipinto con ritmo modernissimo da Pietro Zuffi; anche gli arazzi finissimi di Raclis, la gioiosa decorazione della stanza dei bambini, e i cento particolari preziosi nei quali, dalle stanze da letto alla Cappella di bordo, era impresso un segno della nostra immagine artistica. Ma gli artisti poterono ricominciare, e ogni cosa poté ricominciare all’indomani; anzi il giorno stesso…
La tradizionale scuola italiana di gastronomica internazionale non aveva rivali e quando tramontò l’era delle navi di linea, la diaspora dei nostri cuochi, chefs e maestri di casa andò ad arricchire le marinerie straniere. Nella foto i passeggeri stanno per gustare il buffet di mezzanotte.
Sull’Andrea Doria tutto era vivo e perfetto. Nelle grandi cucine elettriche si affaccendavano cuochi e pasticceri, dai forni usciva pane fresco e fragrante, nelle lavanderie entravano ed uscivano chilometri di biancheria, i tasti delle lynotipe battevano nella tipografia per comporre il giornale di bordo, le bobine dei film si svolgevano nelle macchine da proiezione dei cinematografi, gli impiegati ricevevano i passeggeri agli sportelli degli uffici turistici e bancari, i medici nel piccolo ospedale visitavano gli ammalati, mentre gli ufficiali e i marinai governavano la nave. Era un mondo che riproduceva, in piccola scala, tutti gli aspetti di quello grande e reale: un piccolo mondo che bastava a se stesso, per giorni e giorni, nell’immensità del mare.
Nella foto due belle signore s’intrattengono dinanzi al negozio dei regali (gift shop).
Cinquanta anni fa con un fianco squarciato l’ANDREA DORIA sparì negli abissi
Cinquanta anni fa, il 26 luglio 1956, al largo del faro americano di Nantucket (USA) che dista 180 miglia da New York, affondava la T/n Andrea Doria, speronata dal transatlantico svedese Stockholm, dopo undici interminabili ore d’agonia.
L’agonia di una nave è lunga: non tanto per il tempo contato in ore, quanto per la dolorosa tensione che l’accompagna. L’agonia dell’Andrea Doria è durata undici ore; colpita dallo Stockholm alle 23.11 del 25 luglio, è affondata alle 10.08 del 26 luglio su un fondale di 80 metri.
Il ricordo di quell’immane disastro che costò cinquantun vite umane è ancora vivissimo nella memoria dei liguri e Genova, in quei terribili giorni, fu colpita nel suo orgoglio di grande porto e maestra nella cantieristica navale. Il disastro segnò la fine repentina e luttuosa del mito del liner più bello e moderno del mondo.
In quel secondo dopoguerra, si entrò nella splendida fase della rinascita delle attività marittime proprio con la consegna della Andrea Doria soprannominata la:
La Grand Dame of the Sea
La T/n Andrea Doria varata il 16 giugno 1951, entrò in linea nel 1953. Poteva trasportare 1241 passeggeri e 575 uomini di equipaggio. Era lussuosa sin nel minimo dettaglio delle sue strutture ed era considerata la portabandiera della Società Italia di Navigazione. Con essa viaggiava il jet set dell’epoca che amava l’Italian Style e soprattutto l’atmosfera di bordo. L’oggetto del desiderio, per molti VIP, non era quello di raggiungere l’una o l’altra sponda dell’Oceano Atlantico, ma il vivere “la nave”, viaggiando con essa, per molte traversate, secondo una nuova moda lanciata da loro stessi.
Costruita secondo le prescrizioni e sotto la speciale sorveglianza tecnica del Registro Italiano Navale, del Lloyd Register of Shipping e dell’American Bureau of Shipping, l’Andrea Doria aveva una stazza di 29.700 tonnellate, una lunghezza fuori tutta di 212,50 metri, una larghezza fuori ossatura di 27,40 metri, una altezza dello scafo fino al ponte di coperta di metri 15,20; con un apparato motore a turbine della potenza normale di 35.000 CV, sviluppava una velocità di servizio di 23 nodi.
Lo scafo, oltre ad avere un doppio fondo cellulare completo, era suddiviso nella sua lunghezza da 11 paratie stagne trasversali limitate in alto dal ponte di compartimentazione (corrispondente al Ponte A, al di sotto cioè del Ponte di coperta).
Paurosamente inclinata sul fianco destro. La turbonave Andrea Doria, già abbandonata dai passeggeri e dall’equipaggio, sta per affondare.
Ma nessuna norma poteva – né potrà mai – garantire la salvezza di uno scafo colpito con la violenza con la quale la nave svedese speronò la nostra. La prua della Stockholm penetrò nello scafo dell’Andrea Doria per oltre 12 metri e aprì una falla di circa 20 metri di lunghezza – dal doppio fondo al ponte superiore – di gran lunga maggiore di quella ipotizzata nei calcoli di compartimentazione.
Questa foto scattata dall’autore durante l’ultima sosta dell’Andrea Doria a Genova, mostra il punto esatto in cui la nave sarà colpita dalla prora dello Stockholm.
Inoltre si può pensare che la prua contorta e accartocciata della Stockholm nel liberarsi dall’incastro nello scafo della Doria, abbia agganciato delle lamiere staccando addirittura un corso del fasciame esterno.
Comandava l’Andrea Doria il capitano Pietro Calamai, genovese: 42 anni di navigazione, volontario sul mare a diciannove anni nella Prima Guerra Mondiale, capitano di corvetta e ufficiale di rotta della corazzata Duilio nella Seconda Guerra Mondiale.
“Non appena”, dichiarò il comandante Calamai in un suo rapporto a New York, “incontrammo la nebbia si provvide a chiudere le porte stagne e si cominciò ad emettere regolari segnali di nebbia e vennero prese le altre normali precauzioni.
“Passato il battello-fanale di Nantucket, su scala 20 miglia, il nostro radar rilevava a considerevole distanza l’ubicazione di una nave che risultò essere la Stockholm. Siccome la nave si avvicinava e aumentava anche il rilevamento, ordinai il cambio di rotta a sinistra per garantire all’Andrea Doria il maggior spazio possibile.
“La nave che si avvicinava era costantemente osservata e, non appena uscì dalla nebbia e potemmo vederla a occhio nudo, virò verso di noi e venendoci incontro a grande velocità ci colpì sul nostro fianco destro, malgrado il mio tentativo di evitare la collisione avendo ordinato il timone tutto a sinistra, operazione che feci procedere da due fischi di sirena…”
Lo Stockholm in navigazione, con i propri mezzi, verso New York. Nelle lamiere divelte della prora, in quel momento, si trovavano ancora i corpi di alcune vittime della collisione.
La Commissione d’indagine del Ministero della Marina Mercantile consegnò i suoi rapporti che presto finirono archiviati da qualche parte. Gli atti del procedimento informativo, iniziato davanti alla Federal District Court di New York. Le Società Armatrici delle due navi si misero d’accordo per chiudere la pratica rapidamente, coprendosi con i pagamenti della stessa compagnia assicuratrice: i Lloyds di Londra. Da un preciso e chiarificatore articolo dello storico Silvio Bertoldi, apparso sul “Corriere della sera” il 16.7. 96 riportiamo alcuni stralci:
“Il comandante P. Calamai fu collocato in pensione, sebbene gli mancassero due anni al limite della carriera. Era come dire che la colpa era stata sua. Specie se si tiene conto del diverso comportamento della Swedish Am. Line che promosse il capitano G.Nordenson della Stockholm. Al comando della sua flotta……
Il comandante della Stockholm Nordensson ed il suo giovane ufficiale E.Carstens, che era solo di guardia sul ponte di comando, in navigazione con la nebbia, nel momento della collisione.
Al momento della sciagura Calamai si trovava in plancia, mentre Nordenson dormiva in cabina e la sua nave era affidata al 3° ufficiale E. Carstens di 26 anni. Costui aveva calcolato male sul radar la distanza della nave italiana e quando si era reso conto di andarle addosso aveva ordinato “in extremis” una temeraria accostata di 23° a dritta che aveva costretto Calamai a scappare a sinistra per sfuggire all’ormai inevitabile collisione. Per salvare l’onore di Calamai, morto a 75 anni, dopo una lunga ed ingiusta emarginazione, sarebbe dovuto intervenire, nel 1980, un esperto della Marina USA, John Carrothers, con uno studio finalmente rivelatore della verità. Carrothers indagò sui grafici dei registratori di rotta e li rapportò alle varie scale delle distanze del radar. La sua spiegazione fu la seguente: al momento dell’avvistamento, la Stockholm aveva il radar funzionante sulla portata delle 5 miglia, mentre Carstens credeva di averlo sulla portata di 15 e si comportò di conseguenza. Riteneva così che la Andrea Doria si trovasse a 12 miglia di distanza mentre si trovava a quattro. La credeva a 6 miglia, quando era a 2 ed allora ordinò l’accostata a dritta 23° e portò la Stockholm in rotta di collisione con la nave italiana”.
Concludiamo questa breve rievocazione affermando che, quanto magistralmente riportato da S. Bertoldi è anche la versione ufficiale che viene tuttora insegnata dal Capitano Robert Meurn, docente di Navigazione all’Accademia Americana di New York ai futuri Capitani di lungo corso americani.
Il più grande salvataggio in mare della storia.
Alle 23h 22m l’Andrea Doria lanciò l’S.O.S. che diede il via ad una grande gara di solidarietà tra le navi che giunsero in zona numerose e al massimo della velocità. Le operazioni di salvataggio furono condotte in tempi relativamente brevi e con perizia da manuale.
In risposta alle tante domande cui fu sottoposto, il comandante P.Calamai precisò:
“ho fatto mettere in mare le otto lance del lato destro della nave, cioè la metà di tutte le imbarcazioni di cui disponeva il transatlantico, essendo impossibile far calare in acqua quelle del lato sinistro e che comunque, precisò, erano state sufficienti.”
Navi partecipanti al salvataggio:
- Ile de France che raccolse il maggior numero di naufraghi (10 lance) e proseguì poi per New York alle 05.00, dove venne accolta al Pier n.80 con entusiasmo e tanta tristezza. Quel giorno l’intero settore dei Trasporti Marittimi ne uscì sconfitto.
Il transatlantico francese Ile de France, 43.000 tonn. Fu varato nel 1926 e restò a lungo sugli oceani, come una delle navi più famose e sicure. Fu la nave che portò maggior soccorso all’Andrea Doria.
Celebre divenne la testimonianza del comandante Raoul de Baudéan e riportato da alcuni testi dedicati al tragico avvenimento:
“Ed ecco il minuto straziante dell’addio. Passiamo a trecento metri dal relitto deserto. All’intorno incrociano delle scialuppe di salvataggio contenenti una parte dell’equipaggio rimasta agli ordini del comandante. Delle navi, attirate dall’immensità del disastro, sono ferme nei dintorni. Il commissario dell’Andrea Doria, uno dei rari ufficiali che hanno potuto seguire la sorte dei loro passeggeri, sale sul ponte di comando. Faccio fare il saluto con la bandiera e con tre fischi prolungati di sirena. Più di settecento paia di occhi guardano allontanarsi la loro dimora gloriosa, il quadro moribondo della felicità di una settimana o di un anno, l’oggetto del loro orgoglio o del loro dispiacere. In molti di quegli occhi dovevano esserci lacrime. Ma un silenzio di piombo rende più eloquente il dolore e l’emozione. I miei uomini scrutano il mare dove galleggiano dei rottami, credendo di potervi scoprire un nuotatore ritardatario o un cadavere. Due miglia più lontano, lo Stockholm esce dalla nebbia con la sua atroce ferita. La prua della bianca nave non è più che una massa di ferraglia contorta dove, delle macchie chiare, evocano dei corpi nudi e probabilmente mutilati. Non oso avvicinarmi, temendo una reazione irrazionale della folla dei miei superstiti”.
- La stessa Stockholm che prese a bordo 425 passeggeri dell’Andrea Doria.
- Il cargo Cap Ann recuperò 4 lance.
La nave da carico “Cap Ann”, qui illustrata, contribuì con molta perizia alle operazioni di salvataggio.
- Il cargo militare William Thomas recuperò 3 lance.
- La petroliera R.E.Hopkins recuperò 1 lancia.
-Infine le numerose medie e piccole imbarcazioni che diedero anch’esse un preziosissimo contributo illuminando la zona del sinistro, facendo spola tra le navi ed assistendo le lance nei loro tragitti verso il recupero dei naufraghi.
NAVE |
Tipo |
Scialuppe recuperate |
Persone salvate |
Passeggeri salvati |
Equipaggio salvato |
* Ile de France |
N.Passeggeri |
11 |
753 |
576 |
177 |
* Cape Ann |
Cargo |
4 |
129 |
91 |
38 |
* Pvt.Wm.Thomas |
Cargo |
3 |
158 |
112 |
46 |
** R.E.Hopkins |
n.cisterna |
1 |
1 |
1 |
0 |
# Ed.H.Allen |
n.militare |
0 |
77 |
0 |
77 |
Stockholm |
n.Passeggeri |
7 |
542 |
425 |
234 |
|
|
|
|
|
|
T O T A L E |
|
30 |
1660 |
1088 |
572 |
* =Insignita della Gallant Ship Award |
**=Lettera Encomio |
#= Recupera tre mezzi di salvataggio |
|
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Alcune statistiche interessanti
Categoria |
Passeggeri |
Morti |
Totale |
Andrea Doria (passeggeri) |
1088 |
46 |
1134 |
Andrea Doria (equipaggio) |
572 |
0 |
572 |
Stockholm (passeggeri) |
534 |
0 |
534 |
Stockholm (equipaggio) |
208 |
5 |
213 |
|
|
|
|
T O T A L E |
2402 |
51 |
2453 |
Un resoconto degli eventi del giorno della collisione:
11.31 O.L. La Stockholm lascia il molo di New York Harbor
22.20 La Andrea Doria passa al largo del battello-fanale di Natucket
22.40 La Andrea Doria localizza la Stockholm sul radar- distanza 17 miglia
22.48 La Stockholm localizza l’Andrea Doria sul radar – distanza 12 miglia
22.50 La Stockholm cambia direzione per Rotta Vera 091°
23.05 La Andrea Doria cambia direzione per Rotta Vera 264°
23.07 La Stockholm accosta 20° a dritta
23.08 La Andrea Doria accosta a sinistra nel tentativo di evitare la Stockholm
23.09 O.L. La Stockholm accosta a dritta nel tentativo di evitare la Andrea Doria
23.11 La prua rinforzata della Stockholm penetra nella fiancata dell’Andrea D.
23.22 La Andrea Doria lancia “S.O.S…necessitiamo immediata assistenza”
23.54 L’Ile de France (Cap. Beaudean) risponde all’S.O.S. e dirige sul posto
00.30 Il primo naufrago dell’Andrea Doria arriva sullo Stockholm
00.45 La fregata Cap Ann è la prima nave ad arrivare in soccorso sul posto
01.23 Il cargo William Thomas arriva e getta in mare due lance di salvataggio
02.00 La n.passeggeri Ile de France arriva e getta in mare numerose lance di salvataggio ed altri mezzi necessari al recupero dei naufraghi.
Il secondo ufficiale di macchina G.Cordera raccontò: “Ci prodigammo per rallentare l’affondamento, riuscimmo a non far mancare la corrente elettrica e ciò valse a salvare centinaia di vite. La nave colò a picco con le pompe in funzione e le luci accese. Eppure la centrale elettrica era fuori uso, allagata”.
04.30 O.L. L’ultimo passeggero, R. Hudson viene recuperato dalla R.E.Hopkins
05.30 Il comandante dell’Andrea Doria P.Calamai ed i suoi ufficiali lasciano la nave che sta affondando
06.15 Messi in salvo tutti i passeggeri la Ile de France saluta l’Andrea Doria e ritorna a New York
08.06 La Evergreen arriva sulla scena per dirigere le operaz. di salvataggio
10.08 L’Andrea Doria, piegandosi definitivamente su di un fianco affonda tra i flutti.
Ferita a morte, l’Andrea Doria sta per affondare.Tra poco il mare si rinchiuderà su quella che era la più bella e grande nave italiana della sua epoca.
Epilogo
Alle otto, anche gran parte dell’equipaggio aveva lasciato la nave: a bordo era rimasto soltanto il comandante Pietro Calamai con dieci uomini d’equipaggio.
Alle nove, anche il comandante, con gli ultimi suoi uomini, ha abbandonato la nave dopo averne ricevuto l’ordine direttamente dal Ministro della Marina Mercantile italiano on. Cassiani. Il comandante del guardacoste USA Evergreen sarebbe venuto per l’ultima volta sottobordo. La nave aveva ormai preso una paurosa inclinazione sulla dritta: un altro mezzo grado e il comandante dell’Andrea Doria non ce l’avrebbe più fatta. Calamai ed i suoi uomini hanno dovuto buttarsi in mare e sono stati tratti in salvo da un mezzo costiero e poi da un elicottero. Subito dopo i mezzi di salvataggio della Coast Guard hanno “allargato” di quel tanto che era necessario per evitare gli effetti del risucchio: poi la nave è colata a picco. E’ andata giù di prua ed anche l’ultimo atto è stato più lento di quanto si possa immaginare, è durato soltanto una decina di minuti. E’ un testimone oculare che parla:
“l’acqua lambiva il ponte principale mentre la “passeggiata” di terza classe era già sotto il livello di almeno quattro metri e la nave sbandava sempre più a dritta, il fianco che l’aguzzo e brunito sperone dello Stockholm aveva squarciato nel cuore della notte, erano le 10.08 quando la prua del magnifico transatlantico si immerse, senza un sussulto nell’oceano. Prima la poppa è uscita dall’acqua con le sue due eliche ormai inerti, col suo lungo timone piegato, ha pencolato così, forse ancora un minuto, forse pochi secondi in più. Non guardai l’orologio perché i miei occhi erano fissi su quella parte sempre più piccola della mia nave che affondava. Poi pian piano tutto venne ingoiato dalle acque e in ultimo si alzò a perpendicolo la poppa, sulla quale la luce fece rifulgere un’ultima volta le lettere d’oro del nome:
“Andrea Doria”
Risucchio, schiuma, qualche fumata di vapore, qualche relitto dei ricchi addobbi delle prime classi, qualche relitto dei modesti bagagli della “turistica”, qualche scialuppa che l’ Andrea Doria non era riuscita a mettere in mare e che all’ultimo momento si era staccata dai paranchi e galleggiava. Si chiudeva così, con questo scenario squallido e spettrale uno dei più drammatici disastri del mare.
Alle 10.08 la nave italiana “ANDREA DORIA” affondò in 225 piedi d’acqua (75metri di profondità) in posizione: Latitudine: 40° 29’.4 N - Longitudine: 60° 50’.5 W
Assicurazioni: L’Andrea Doria era totalmente ricoperta da assicurazione. Il cinquanta per cento della perdita ricadde sul mercato inglese, presso cui le Compagnie italiane si erano contro-assicurate. Secondo l’agenzia “Italia” la nave era assicurata presso varie compagnie italiane per 16,5 miliardi di dollari, pari a 10 miliardi e 230 milioni di lire dell’epoca. Le percentuali di assicurazioni erano le seguenti: 20% Mutua Marittima Nazionale; 18,75% Assicurazioni Generali; 11,20% Sicurtà tra Armatori; 11% Assicurazioni Italia; 10% Adriatica Sicurtà; 8,40% Levante; 8% Fiumeter; 3% Unione Mediterranea; il resto da 2,50% a 0,25% a Compagnie minori. Il 50% era assicurato sul mercato inglese. Il costo per la costruzione e l’allestimento della nave era stato di 15 miliardi di lire, di cui due miliardi e mezzo già ammortizzati. Assicurazioni complementari, avevano tuttavia coperto i corredi, il bagaglio e macchinari speciali per oltre due miliardi. Il contributo dello Stato era stato di quattro miliardi. La collisione dell’Andrea Doria ed il suo successivo affondamento fu una delle più importanti notizie dell’anno 1956 e fece dimenticare per un po’ di mesi gli altri grandi avvenimenti del periodo: la crisi del Canale di Suez, la rivolta d’Ungheria, la guerra d’Algeria e la rielezione del presidente Dwight D. Eisenhower.
Carlo GATTI
Rapallo, 09.02.12
Gli EROI di TELEMARK-Norvegia, la vera storia.
GLI EROI DI TELEMARK
POCHI UOMINI RIMASTI NELL’OMBRA DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE IMPEDIRONO A HITLER IL LANCIO DELLA PRIMA BOMBA ATOMICA
Agli inizi del 1939 il tedesco Otto Hahn pubblicò i suoi studi sulla fissione nucleare dell’uranio inaugurando una nuova era nella storia dell’umanità.
A pochi mesi dall’inizio della Seconda guerra mondiale, gli scienziati americani informarono il Presidente Roosevelt della possibilità teorica di costruire una bomba atomica capace di distruggere una grande città e, in quella occasione, resero noto che la Germania era la nazione più vicina a quel famigerato obiettivo. Infatti, nell’aprile del ’39, dal Kaiser Wilhelm Institute di Berlino giunse al Ministero della Guerra del Terzo Reich la conferma che l’arma segreta (la bomba atomica) era a portata di mano e che occorrevano ingenti quantità di uranio. Fu quindi in quel periodo di grandi cambiamenti geopolitici che iniziò quell’infausta corsa al nucleare che portò alla distruzione di Hiroshima e Nagasaki il 6 e 9 Agosto 1945 e che, ancora oggi, persiste nella sua bieca attualità. Nel frattempo, Oppenheimer, l’italiano Fermi* ed altri scienziati americani coinvolti nel progetto Manhattan, introdussero un nuovo elemento “artificiale” nel capitolo nucleare: il Plutonio, (scoperto nel 1941) avente anch’esso le caratteristiche chimiche idonee alla fissione nucleare. I tedeschi, misteriosamente, erano arrivati alle stesse conclusioni. Il Plutonio 239 diventò quindi l’elemento basico per l’arma che poteva anticipare la fine della guerra a favore del belligerante che l’avesse lanciata per primo. Occorreva però un reattore atomico, l’uranio/plutonio ed anche un indispensabile moderatore chimico di neutroni: l’Acqua Pesante (D20)= deuterio e ossigeno.
Vemork Hydroelectric Plant at Rjukan, Norway in 1935. In the front building, the Norsk Hydro hydrogen production plant, a Norwegian Special Operations Executive (SOE) team (Operation Gunnerside) blew up heavy water production cells on 27 February 1943 in order to sabotage the efforts of the World War II German nuclear energy project.
La fabbrica HYDRO di Vemork (Rjukan-Norvegia), oggi Museo visitabile tutto l’anno.
Strano a dirsi, ma l’unica fabbrica produttrice di Acqua Pesante in Europa si trovava a Vemork (Rjukan), nella regione meridionale del Telemark in Norvegia, ed era utilizzata nell’industria farmaceutica e in quella dei fertilizzanti agricoli. Ma fatto ancora più strano, neppure il suo direttore, un noto ricercatore nel campo della chimica, era a conoscenza delle peculiarità di questo elemento chimico che Americani a Los Alamos (Nevada), e Nazisti in Germania cercavano affannosamente di produrre come elemento necessario alla fissione nucleare, in alternativa alla poco affidabile graffite. Quando il 9 aprile 1940 la Norvegia fu invasa dai tedeschi, la fabbrica di Vemork cadde subito nelle mani della Gestapo che ordinò immediatamente d’incrementare la produzione di Acqua Pesante senza dare, ovviamente, alcuna spiegazione. Presto il quantitativo fu portato a 5 kg al giorno, contro i 10 kg mensili precedenti. Quella curiosa richiesta si trasformò subito in sospetto e mise in moto le migliori intelligenze del mondo scientifico. La risposta ai dubbi “norvegesi” non tardò ad arrivare e fu lo stesso padre teorico della bomba atomica Albert Einstein a fornirla a Roosvelet e a Churchill. Da quel momento la fabbrica di Rjukan diventò un incubo per gli Alleati. Il solo pensiero che Hitler potesse disporre della bomba atomica metteva i brividi al mondo intero. L’Acqua Pesante costituiva una terribile minaccia per il mondo libero e andava neutralizzata ad ogni costo e con ogni mezzo.
Ma c’era un grosso problema da risolvere: la fabbrica norvegese era arroccata fra le montagne e appariva come una fortezza medievale inespugnabile. Era stata costruita in quella posizione per canalizzare un’imponente cascata d’acqua verso numerosi generatori di corrente idroelettrica. Uno stretto ponte collegava le ripide pareti alte 900 metri e sul fondo del vallone scorreva il torrente Måna nell’ombra perenne. Una rotaia usciva infine dal ventre dell’edificio e serviva a trasportare i suoi prodotti alla stazione ferroviaria di Rjukan. L’invasione nazista costrinse Re Haakon a rifugiarsi a Tromsø nel Settentrione Artico non ancora occupato, ma per evitare l’arresto riparò molto presto in Inghilterra dove costituì un Governo in esilio. In Norvegia il potere passava di conseguenza al capo dei collaborazionisti locali Vidkun Quisling, mentre a Londra nasceva il SOE (Special Operation Executive), un ramo dei Servizi Segreti incaricato di addestrare giovani “saboteurs” per azioni militari mirate ad indebolire le forze armate tedesche nei Paesi occupati. I giovani patrioti norvegesi raggiungevano l’Inghilterra a bordo di pescherecci collaborativi e, a fine corso, rientravano lanciati con il paracadute sulle zone operative. Vista l’importanza dell’Acqua Pesante, gli Inglesi decisero che la prima operazione di sabotaggio all’impianto si sarebbe tentata il 19 novembre ‘42 con l’impiego di 50 commando inglesi supportati da esperte guide locali. Purtroppo, l’Halifax che rimorchiava l’Aliante (Horsa Mk I) degli incursori fu abbattuto dalla contraerea tedesca proprio quando si trovava alle spalle di Vemork sull’altipiano Hardangervidda. I pochi superstiti furono catturati, interrogati ed uccisi dalla Gestapo.
La foto mostra la parte vitale dell’impianto produttore dell’Acqua Pesante
L'ACQUA PESANTE PRODOTTA DALLA NORSK HYDRO
Ma nella notte tra il 27 ed il 28 febbraio 1943, nove commando norvegesi (alcuni erano di Rjukan e conoscevano bene la fabbrica) decisero di vendicare gli inglesi caduti per la Norvegia mettendo in atto uno spettacolare piano di sabotaggio all’impianto che da tempo essi stessi avevano studiato nei minimi particolari. Erano provetti sciatori, rocciatori e conoscitori del territorio, ma soprattutto si erano scelti a vicenda per il coraggio, la freddezza e l’odio verso gli invasori. Il gruppo di guastatori non ebbe grossi problemi, sia nel calarsi dalla parete del vallone opposto alla fabbrica, sia nell’attraversare il fiume sotto le armi spianate dei tedeschi, ma neppure nel risalire la ripida roccia ghiacciata e nel penetrare infine dal retro dell’edificio poco “spazzolato” dai riflettori. Avevano scelto semplicemente il tragitto che i tedeschi ritenevano impossibile da affrontare nella totale oscurità di quel duro inverno. Uno di loro, Knut Haukelid (leader della copertura) rimase all’esterno per affrontare l’eventuale reazione dei tedeschi, Joachim Rønneberg (leader dell’azione di sabotaggio) salì diversi piani dell’edificio con la scorta di due soli compagni e raggiunse indisturbato il cuore dell’impianto. Collegò velocemente l’esplosivo (timer 2’) alle sue parti vitali sotto lo sguardo incredulo dell’unico guardiano presente. L’operazione fu compiuta senza uno sparo e l’esplosione, stranamente silenziosa, distrusse l’impianto e 18 serbatoi di Acqua Pesante (600 kg).
Questo era l’armamento USA in dotazione ad ogni sabotatore. In evidenza il celebre Tommy Gun
Il commando rientrò indisturbato alla base seguendo lo stesso impervio tracciato dell’andata. Sul posto, i giovani (media 25 anni d’età) lasciarono un mitra inglese Sten per convincere i tedeschi che l’azione militare aveva una matrice alleata evitando in questo modo feroci rappresaglie alla popolazione locale. Il successo ebbe grande risonanza e fu importante sotto il profilo psicologico in quanto la fabbrica si era dimostrata oggettivamente vulnerabile. Tuttavia, la produzione di Acqua Pesante riprese dopo soltanto una settimana. I tedeschi non erano ancora in grado di produrre l’importante moderatore della f.n. in patria, ma avevano previsto l’eventualità di sabotaggi in Norvegia. In breve, i componenti danneggiati arrivarono in volo dopo alcuni giorni dalla Germania e furono montati senza neppure intaccare la tabella di marcia della produzione. La posta in gioco era quindi sempre altissima e la sicurezza del mondo era ancora più in pericolo. Agli Alleati non rimaneva che l’ultima opzione, quella del bombardamento aereo che all’epoca era tutt’altro che chirurgico. Ma nessuno osava assumersi la responsabilità di mettere in gioco la vita dei civili che vivevano a Rjukan e che rischiavano di cadere vittime del fuoco amico. Le opinioni erano talmente contrastanti che fu necessario ricorrere allo stesso Re Haakon. Maturò infine la decisione di bombardare la fabbrica perché il sacrificio di pochi avrebbe salvato la vita di milioni di persone ancora libere nel mondo. La fabbrica era davvero difficile da bombardare e quando i piloti Alleati ci provarono, il 16 novembre del ’43, con 161 Fortezze Volanti (B-17), ne risultò un fallimento totale: 30 furono le vittime tra la popolazione civile di Rjukan che non era riuscita ad evacuare in tempo, e almeno 50 le abitazioni completamente distrutte. Per contro, i danni alla fabbrica furono irrilevanti, e diversi aerei alleati caddero sotto i colpi della Flak, per l’occasione rinforzata da una intera brigata, in quel limitato perimetro, peraltro minato. Nonostante il parziale successo difensivo, i tedeschi, ormai stressati dai continui attacchi portati alla fabbrica da ogni direzione, decisero di trasferire fabbrica e riserve di Acqua Pesante in Germania. Dopo la disfatta di Stalingrado, la guerra sul campo si stava mettendo al peggio per il Terzo Reich e Hitler aveva sempre più bisogno dell’arma atomica per shockare il mondo e capovolgere le sorti della guerra. La Resistenza norvegese scoprì il piano d’evacuazione tedesco e mise in allerta il comando alleato a Londra che diede l’ordine di distruggere il prezioso carico. L’operazione di sabotaggio fu affidata a Knut Haukelid che richiese ancora una volta l’assenso del Re Haakoon per dividere con tutti i norvegesi la responsabilità dell’eventuale morte di passeggeri e membri dell’equipaggio del Ferry HYDRO incaricato dell’operazione.
IL TRAGHETTO HIDRO
Il Terminale di Mael sul lago Tinnsjøn. Del complesso museale oggi visitabile, fa parte il Ferry AMMONIA gemello del Ferry HYDRO affondato da Knut Haukelid
L’Acqua Pesante, stivata in barili d’acciaio, arrivò con il treno della fabbrica al terminale di Mael sul lago Tinnsjøn ed imbarcò sul ferry HYDRO. L’itinerario prevedeva l’arrivo a Notodden alla fine del lago, la partenza via treno per Oslo e l’arrivo presso una destinazione segreta in Germania. Ma la notte del 20 febbraio 1944 Knut Haukelid, con la scorta di un solo compagno, s’introdusse nella sentina del traghetto e piazzò diverse cariche d’esplosivo. Il timer, (due grosse e antiquate sveglie) funzionò alla perfezione. L’esplosione avvenne dopo 40 minuti dallo stacco da terra. Il traghetto s’inabissò di prua facendo scivolare in un attimo vagoni, barili, armi e persone. Un plotone di soldati tedeschi e quattordici civili norvegesi, tra cui alcuni bambini, persero la vita. Grazie al coraggio di pochi uomini, la produzione di Acqua Pesante di un anno andò irrimediabilmente perduta negli abissi di un lago profondo e sconosciuto. Hitler dovette rinunciare per sempre alla BOMBA ATOMICA. Tutti gli EROI DI TELEMARK continuarono la loro attività clandestina in Norvegia e sopravvissero alla guerra.
Kunt Kaukelid è il quinto da destra.
GLI EROI DI TELEMARK
Joachim Rønneberg-Torstein Pettersen Raaby–Knut Augland-Arne Kjelstrup -Jens-Anton Poulsson e Claus Helberg.
Berlino. Kirk Douglas impersonò Joachim Rønneberg nel celebre film di guerra Gli eroi di Telemark con anche Richard Harris, storici ed esperti militari di tutto il mondo lo consultarono per decenni per imparare da lui. Ora è morto, lui Joachim Rønneberg, comandante partigiano norvegese addestrato dai britannici, lui massimo eroe della Resistenza nordica contro l'occupazione nazista. Si è spento sereno a 99 anni, lui che nel 1943 con commando di partigiani riuscì ad attaccare e distruggere a Telemark, appunto nella Norvegia occupata, l'impianto supersegreto in cui il Terzo Reich produceva l'acqua pesante, componente indispensabile alla bomba nucleare.
Protagonisti
Tra i membri partecipanti alle varie operazioni si citano:
Il primo agente che entrò nella fabbrica
Il gruppo Grouse/Swallow
Il gruppo Gunnerside
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Joachim Holmboe Rønneberg
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Knut Haukelid
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Fredrik Kayser
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Kasper Idland
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Hans Storhaug
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Birger Strømsheim
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Leif Tronstad(scienziato e organizzatore del raid)
Il gruppo Lake Tinn
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Knut Haukelid, alias "Bonzo"
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Knut Klonteig
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Knut Lier-Hansen
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Rolf Sørlie(resistenza locale)
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Einar Skinnarland(operatore radio)
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Gunnar Syverstad(assistente alla pianificazione)
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Kjell Nielsen(piano di trasporto)
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("Larsen") (ingegnere)
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(NN) (procuratore della vettura nonché autista)
Haugland, nato nel 1917 a Rjukan, Telemark, Norvegia, ottenne l'examen artium nel 1937 qualificandosi per gli studi universitari. Nel 1938 si iscrisse agli studi radio militari arruolandosi nell'esercito norvegese. Nel febbraio 1940 si trovava a Setermoen e combatté le battaglie nei pressi di Narvik nel corso della Campagna di Norvegia contro la Germania. Dopo la sconfitta subita da norvegesi per mano dei tedeschi e la conseguente occupazione nazista, Haugland si trasferì a lavorare presso la Høvding Radiofabrikk di Oslo mentre veniva segretamente coinvolto nella resistenza norvegese. Dopo aver evitato l'arresto numerose volte, nell'agosto 1941 fu arrestato dallo Statspolitiet, ma riuscì a fuggire nel Regno Unito attraverso la Svezia. Qui si arruolò nella Kompani Linge.
Sabotaggio dell'acqua pesante
Haugland e altri nove partigiani norvegesi organizzarono e portarono a termine il famoso raid alla centrale della Norsk Hydro a Vemork. Si sapeva che la centrale produceva acqua pesante e, nonostante lo scienziato ed organizzatore del raid Leif Tronstad non fosse a conoscenza del legame tra acqua pesante e armi nucleari all'inizio della guerra, divenne poi chiaro che la Germania avrebbe potuto utilizzare l'acqua pesante per un programma di energia nucleare. Haugland fu paracadutato su Hardangervidda il 18 ottobre 1942 assieme a Arne Kjelstrup, Jens-Anton Poulsson e Claus Helberg. Il nome in codice era Operazione Grouse, e la loro prima missione fu l'attesa dell'operazione britannica Freshman. Freshman si rivelò un disastroso fallimento, ma a Grouse fu ordinato di attendere una nuova squadra, l'Operazione Gunnerside. La centrale di Vemork fu sabotata con successo nel febbraio 1943. Il sabotaggio fu raccontato nel film del 1963 diretto da Anthony Mann ed intitolato Gli eroi di Telemark. Nel 2003 girò un documentario per la BBC con Ray Mears, The Real Heroes of Telemark.
Torstein Pettersen Raaby (6 October 1918 – 23 March 1964) was a Norwegian telegrapher, resistance fighter and explorer. He is known as a crew member on the Kon-Tiki expedition.
Biography
Raaby was born in the village of Dverberg on the island of Andøya in Nordland, Norway.[2]
During World War II he became a Secret Intelligence Service officer, having entered training in 1943.[3] He spent ten months in hiding in the village of Alta, sending detailed reports on German warships and their radar installations to England via a hidden radio set surreptitiously connected to the antenna of a German officer. His reports were instrumental helping the RAFto find and permanently disable the battleship Tirpitz. For that and other undercover operations during the war, Raaby was awarded Norway's highest decoration for military gallantry, the War Cross with sword in 1944 and the British DSO. Raaby held the rank of Second Lieutenant (Fenrik).
Haugland incontrò la prima volta Thor Heyerdahl nel 1944 presso un campo di addestramento paramilitare in Inghilterra. Fu qui che Haugland scoprì le teorie di Heyerdahl circa il pattern migratorio polinesiano ed il suo progetto di attraversare il Pacifico a bordo di una zattera in legno di balsa. Nel 1947 Haugland fu invitato da Heyerdahl ad unirsi alla spedizione del Kon-Tiki come operatore radio. Durante la spedizione Haugland e Torstein Raaby (altro membro dell'ex resistenza) furono in continuo contatto radio con radioamatori statunitensi, inviando loro dati meteorologici ed idrografici da passare al Meteorological Institute di Washington. Nonostante la piccola radio con una potenza di trasmissione di soli 6 watt, la stessa potenza di una piccola torcia a pile, riuscirono a contattare gli operatori radio in Norvegia, inviando loro anche un telegramma per congratularsi con re Haakon VII di Norvegia per il suo 75º compleanno. Haugland interpretò sé stesso nel film documentario del 1950 Kon-Tiki.
Numerose decorazioni straniere sono relative al legame tra Haugland e la spedizione del Kon-Tiki e ad una visita di stato nel dopoguerra. Fu nominato Cavaliere di I classe dell'Ordine di Vasa, Cavaliere di I classe dell'Ordine del Dannebrog e Cavaliere dell'Ordine del Falcone. Ricevette la croce di I classe dell'Ordine al merito di Germania, fu nominato Commendatore dell'Ordine di Leopoldo e Compagno dell'Ordine della Corona di Thailandia. Fu ufficiale dell'Ordine del Leone e del sole, ricevette l'Ordine al merito della Repubblica austriaca (1978) e l'Ordine al merito del Perù. Nel 1988 Haugland divenne Cavaliere di I classe dell'Ordine reale norvegese di Sant'Olav per il suo lavoro a capo di un museo. Ricevette anche la Medaglia della Difesa con tre stelle. Haugland morì il 25 dicembre 2009, ultimo membro vivente della spedizione del Kon-Tiki.
Dalle Memorie di Churchill. Il Primo Ministro a Lord Selborne:
"Quali ricompense si dovranno dare a questi valorosi?"
Carlo GATTI
Rapallo, 13.10.11
Le fotografie sono dell’autore.
*Enrico Fermi era giunto negli Stati Uniti da poche settimane quando O. Hahn e F. Strassmann annunciarono la scoperta della fissione dell'uranio. Immediatamente Fermi iniziò lo studio della fissione, in particolare dei neutroni emessi in questo processo. Ebbe così ben presto chiaro che era possibile realizzare una reazione a catena capace di produrre energia su scala macroscopica. La realizzazione di un dispositivo nel quale produrre in modo controllato la reazione a catena divenne lo scopo centrale delle ricerche di Fermi, che si conclusero il 2 dicembre 1942, con l'entrata in funzione a Chicago del primo reattore nucleare a fissione. Poco prima Fermi aveva dato la sua adesione al progetto Manhattan, per l'utilizzazione bellica dell'energia nucleare.
USS NEW YORK costruita con l'acciaio TWIN TOWERS
USS NEW YORK - (LPD-21)
L’acciaio delle Twin Towers rivive su questa nave da guerra
Le date dell’operazione USS New York
Subito dopo l’attentato terroristico dell’11 settembre 2001, il Governatore di New York George E.Pataki inviò una lettera al Segretario della Marina Militare Gordon R.England richiedendo che la Navy conferisse il nome USS New York ad una unità di superficie impegnata nella “Guerra al Terrorismo”, in onore alle vittime del tragico avvenimento che colpì vigliaccamente lo Stato di N.Y. Il contratto della costruzione fu assegnato alla Northrop Grumman Ship System di New Orleans, Luisiana nel 2003. Il 1 marzo 2008, durante una cerimonia tenuta nel Cantiere di Avondale a New Orleans, l’unità fu battezzata con il nome di USS NEW YORK dinnanzi alle massime Autorità e numerosi familiari e parenti delle vittime dell’11 settembre. Per la cronaca ricordiamo che la rottura della bottiglia di champagne avvenne al secondo tentativo... La nave fu consegnata alla Marina M. USA il 21 agosto 2009 a New Orleans. Il suo primo comandante F.Curtis Jones, nativo di New York, partì 13 ottobre 2009 per Norfolk (Virginia). Il 2 novembre 2009 la nave entrò sull’Hudson e quando si trovò davanti a Ground Zero sparò 21 colpi a salve in omaggio alle vittime degli attacchi dell’11 settembre 2001. La USS New York entrò in servizio il 7 novembre 2009 a New York alla presenza del Segretario di Stato Hillary Clinton con un nutrito seguito di ammiragli e generali.
In data 11 gennaio 2010 la Marina Militare comunicò che la nave sarebbe stata fermata in seguito ad anomalie emerse durante le prove in mare ai cuscinetti dei motori principali.
La USS New York (LPD-21) ha un equipaggio di 360 e può trasportare fino a 700 Marines. La sua principale peculiarità è la seguente: una parte della prua è stata costruita con l’acciaio ricavato dalle macerie delle Torri Gemelle del Trade Center di New York, crollate nel famigerato attentato dell’11 settembre 2001. La simbolica fusione rappresenta meno di un millesimo del peso totale della nave, ed il 9 settembre 2003 è stata versata in stampi di circa 7,5 tonnellate. E’ stato riferito che gli operai del Cantiere hanno trattato il materiale con la riverenza solitamente riservata alle reliquie religiose.
Il "crest" della nave con il motto
"Never Forget"
I sette raggi del sole rappresentano i sette mari della celebre corona della Statua della Libertà-N.Y. Nello stemma centrale appaiono le torri gemelle che poggiano sulla prua della nave. Il pettorale del rapace (fenice) porta le insegne del Dipartimento di Polizia, dei Pompieri e delle Autorità di New York e New Jersey che furono i primi soccorritori a giungere sul ground zero.Le gocce di sangue rappresentano i caduti.Le tre stelle ricordano gli onori militari ricevuti dalla nave da battaglia USS New York (BB34) durante la Seconda guerra mondiale a Iwo Jima, Okinawa e Nord Africa.
New York - Emozione forte e grande orgoglio sono i sentimenti che molti americani hanno provato sentendo “Ventuno colpi di fucile” esplosi in aria per salutare l'ingresso della USS New York nel porto di Manhattan. La nave da guerra americana è stata costruita con l'acciaio estratto dai resti delle Torri Gemelle. L’unità, è approdata sul Hudson River per la cerimonia della consegna della “Bandiera di Combattimento” e ad attenderla sul molo c’erano i familiari delle vittime dell'attacco terroristico del 2001. Il nome USS New York è stato assegnato esclusivamente in memoria delle vittime. Per tradizione, i nomi degli Stati dell’Unione vengono assegnati soltanto ai sottomarini della flotta USA.
La nave Uss New York è giunta davanti a Ground Zero sul fiume Hudson. Per gli americani è il momento del silenzio, della commozione, della preghiera che sale dal cuore e raggiunge le anime dei caduti.
A salutare il passaggio della nave c’erano anche membri del corpo di polizia di New York e dei vigili del fuoco. La U.S.S. New York è passata sotto il ponte Da Verrazzano scortata dalla flotta delle imbarcazioni della Guardia Costiera e dello Stato di New York, gli stessi che accorsero a sud di Manhattan l’11 settembre del 2001.
Lunga 197 metri la nave, costruita dal gruppo Northrup Grumman, è rimasta ormeggiata una settimana ancorata al molo 88 di Manhattan, all’altezza della 48sima strada, aperta al pubblico prima della sua partenza ufficiale.
Carlo GATTI
Rapallo, 22.06.11
Nave "Redenzione" GARAVENTA
NAVE REDENZIONE
GARAVENTA
Una scuola sull’acqua
SCUOLA REDENZIONE GARAVENTA
ormeggiata di punta a Molo Giano. Sullo sfondo la Torre Piloti
Commentando le recenti manifestazioni antigovernative avvenute nel centro di Roma e, prima ancora, quelle del G.8 di Napoli e Genova, un autorevole personaggio della politica italiana ha urlato: “E’ una vera ipocrisia meravigliarsi per questi incidenti. L’Italia ha rinunciato ad educare i giovani a partire dal 1968”.
Non c’è che dire! E’ una battuta d’effetto, anche se la colpa è sempre degli altri. Tuttavia, per associazione d’idee, ci è venuto in mente una specie di “avvertimento” che un tempo serviva per spaventare i ragazzi più irrequieti: “Se non cambi t’imbarco sulla Garaventa!” e che oggi appare così lontana nel tempo da sembrare una favola.
C’era una volta una nave un po’ speciale che non portava merce varia e neppure petrolio, era un vecchio residuato bellico, senza cannoni e senza gloria. Il suo nome era: Nave Scuola Garaventa e ospitava i ragazzini “difficili” con l’intento di coniugare la “Vita di mare” e la “Redenzione sociale”, due realtà che sembrano distanti e inconciliabili perchè qualsiasi tipo di nave si regge innanzitutto sulla disciplina. Due temi, quindi, lontani dall’immaginario collettivo che, ancora oggi, non riesce a trovare linee guida per la soluzione dei problemi che assillano i nostri giovani.
Ma questo fu il sogno dei Garaventa che videro in questo “singolare” progetto una concreta e reale possibilità di recupero della gioventù sbandata alla ricerca di una vita diversa, migliore, lontana dal degrado sociale in cui viveva. Le iniziative socio-educative della famiglia Garaventa risalgono alla metà del ‘700, epoca in cui i governanti si disinteressavano completamente delle famiglie bisognose e dei loro problemi quotidiani. Il primo di questa stirpe di filantropi nacque nel 1724 a Calcinara-Uscio da un’umile famiglia di contadini, si chiamava Lorenzo e studiò presso il Collegio dei Padri Gesuiti di via Balbi a Genova, a cura dei quali venne poi ordinato sacerdote. La sua sensibilità fu presto catturata dalla dolorosa situazione di molti bambini che vagavano abbandonati per le strade e spesso finivano nella rete della malavita. Questa fu la molla che lo spinse a dedicare la propria missione a questi ragazzi ed al loro concreto e definitivo recupero sociale. Nel 1757 don Lorenzo appese alla finestra della sua abitazione (piazza Ponticello) un cartello con la scritta: "Qui si fa scuola per carità". L'iniziativa fu accolta favorevolmente dalla popolazione ed ebbe subito molti allievi, tuttavia, per sostenere le spese del cibo e dei vestiti, il don fu costretto a vendere il suo patrimonio, compresa la vendita di un terreno che aveva ereditato dai genitori. Quel sacrificio fu molto apprezzato dalla gerarchia ecclesiastica che iniziò a patrocinare l'opera del giovane sacerdote. Presto altre "scuole di carità" apparvero in più zone della città e furono rette da altri sacerdoti volenterosi. Per venticinque anni don Lorenzo si dedicò instancabilmente alla sua missione, finché si ammalò e morì il 13 gennaio 1783, poverissimo. Le sue scuole continuarono ad esistere fino al 1882 quando furono assorbite da quelle municipali istituite dal "Regolamento degli Studi" valido in tutto il Regno Sabaudo.
Buglioli, manichette, redazze, trombe... Ufficiali, istruttori e marinaretti pronti per le prove antincendio sulla Nave Scuola Redenzione Garaventa. Sullo sfondo svetta l’immancabile cilindro sul capo del prof. Nicolò Garaventa ed il motto della nave UBI CHARITAS IBI DEUS. (Dove c’è la carità, Dio è presente)
Il seme gettato da don Lorenzo, germogliò rigogliosamente nella mente di un altro Garaventa di nome Lorenzo (nella foto) - (Uscio, 1848 – Genova, 1917)- docente di matematica presso il Ginnasio-Liceo "Andrea D'oria" di Genova. L’educatore e filantropo costituì la Scuola Officina di Redenzione sul Mare, un Istituto di recupero per giovani difficili allestito su una nave-scuola, una sorta di collegio galleggiante equipaggiato appunto con i Garaventini. Ai suoi inizi, la scuola fu oggetto di accese polemiche sulla sua validità educativa, per poi essere con il tempo riabilitata e riconosciuta. Luigi Arnaldo Vassallo, noto giornalista dell'epoca che si firmava con lo pseudonimo di Gandolin, scrisse di N. Garaventa: “Prima lo definirono un vanitoso. Poi magari insinuarono che fosse un imbroglione. Indi lo qualificarono un ciarlatano. Adesso lo rispettano e riconoscono i benefici eloquenti della sua istituzione.”
I dodicimila garaventini |
Si calcola che i giovani educati a bordo della nave-scuola istituita da Garaventa siano stati oltre dodicimila in 94 anni di attività. Molti di loro – oggi - aderiscono ad un'associazione di ex allievi patrocinata dall'Amministrazione Provinciale di Genova e della quale fanno parte anche Carlo Peirano, erede di Domingo Garaventa (figlio di Nicolò, morto nel 1943), comandante e padre spirituale della nave, ed Emilia Garaventa, pronipote del filantropo. Una curiosità: cappellano della nave è stato a suo tempo anche un giovane Andrea Gallo, oggi sacerdote contro-corrente impegnato nel settore del volontariato e responsabile della comunità di recupero dalle tossicodipendenze di San Benedetto al Porto. |
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LE NAVI DEI GARAVENTA
Nicolò Garaventa, proprio come suo zio Lorenzo, ebbe a cuore la situazione di tanti giovani di strada fino al punto che, abbandonato l'insegnamento, mise la sua esperienza e il suo impegno al loro servizio. Raccolti i primi reietti con lo scopo di allontanarli dal degrado sociale in cui vivevano, li condusse sulla spianata dell'Acquasola e, parlando in dialetto genovese per farsi meglio comprendere, offrì loro l'opportunità di redimersi iscrivendosi alla scuola marinara che da tempo aveva in mente di costruire.
Il filantropo realizzò il suo progetto dopo essere entrato in possesso di una vecchia nave militare che aveva notato tra le tante messe in disarmo dalla Marina Militare italiana. Nacque così il 1º dicembre 1883 la prima Scuola-officina per discoli, basata sui principi della vita di mare, della moralità e della religiosità cristiana. "Prevenire e redimere" fu il motto che guidò ogni giorno l’impegno di Nicolò Garaventa nella ricerca di giovani sbandati inferiori ai 16 anni, pregiudicati o in procinto di divenirlo.
F.3 I Garaventini vivevano come veri marinai. Dall'alza bandiera, eseguita ogni giorno con musica e picchetto, all’ammaina: giornate di lavoro e di studio sotto una disciplina ferrea. Musica, pittura, pesca e voga erano le attività del tempo libero.
Nel 1892, in occasione dell'Esposizione Colombiana, i giovani marinai trasbordarono su una nave a vela più grande. In quegli anni, i giovani restituiti alla vita sociale furono centosettantotto e in pochi anni salirono a un migliaio. Alla morte di Nicolò Garaventa, la direzione della scuola passò ai figli Domingo e Giovanni, già collaudati collaboratori, che portarono avanti la tradizione fino al 9 febbraio del 1941 quando, in seguito al bombardamento navale di Genova, la nave affondò e gli allievi vennero ospitati presso i collegi della città. Nel dopoguerra, grazie all'opera di un apposito Comitato per la Ricostruzione, la Marina Militare concesse l'ex posamine Crotone. Nel 1951 l'opera di addestramento dei giovani poté riprendere sotto il comando di Carlo Peirano, che dal 1939 ricopriva la carica di vice-comandante. Dopo essere stata dichiarata “Ente Morale” nel 1959, l'Istituzione proseguì l’attività con la sua ultima nave fino al 1975 per essere poi definitivamente chiusa, dopo un breve commissariamento. Una parte del personale impiegato nel recupero dei minori a rischio passò all'Istituto Davide Chiossone e alle nascenti comunità-alloggio e case-famiglia gestite da gruppi di volontariato.
Il modello “nave scuola” ebbe diversi epigoni sia sul territorio nazionale (Anzio, Napoli, Cagliari e Venezia), sia all'estero (Cile, Brasile, Inghilterra, Olanda, Ucraina). Questa è stata, dal 1883 al 1977, la nave-scuola Garaventa: rifugio e luogo di riabilitazione per giovanissimi liberati dal carcere, per figli di detenuti, prostitute e per orfani di pace e di guerra.
F.5 Porto di Genova nel 1969. La nave scuola “Garaventa” ormeggiata a Calata Gadda. E' nel cuore del porto, che monelli traviati o abbandonati tra i 10 ed i 17 anni, a bordo dell'ex posamine "Crotone" (nella foto), trovavano la loro casa, nella quale i loro spiriti ribelli venivano spenti e forgiati in vista della lunga navigazione della vita.
Ritornando al discorso iniziale, non siamo affatto sicuri che i ragazzi violenti, messi in discussione dai recenti disordini, siano più numerosi e pericolosi di altri soggetti più famosi che praticano giornalmente violenze meno visibili ma altrettanto invasive. Comunque sia, nell’attesa di un improbabile ritorno della Garaventa, auguriamo a questa teppaglia sicuramente recuperabile, un lungo imbarco sulle tante petroliere che circolano per i sette mari, dove le “teste gloriose” sono raddrizzate automaticamente dai colpi di mare, dalla solitudine, dalla salsedine, dalla lontananza degli affetti, dalla mancanza di discoteche, di droghe e beni pubblici e privati da rubare e distruggere...
Alla storia della Garaventa è dedicata una sezione del museo multimediale allestito all'interno della Lanterna di Genova.
Carlo GATTI
Rapallo, 20.06.11
Porto di TRAIANO-Echi di MANOVRE di Roma Antica
IL PORTO DI TRAIANO
ROMA
Echi di manovre dal porto di Roma antica...
Testimonianze del servizio di pilotaggio si trovano in documenti del IV millennio avanti Cristo.
Nell'antica Ur, in Caldea, una delle più importanti città-stato della civiltà Sumerica, ai tempi d’Abramo, esistevano i piloti. Ur con i suoi moli e banchine, fu il grande scalo marittimo di quello Stato.
Nella più antica raccolta di leggi marittime, il Codice di Hammurabi, re di Babilonia (2285 a.C.), è stabilito sia il compenso per le prestazioni del pilota: due sicli, sia le sanzioni cui i piloti medesimi andavano soggetti in caso di naufragio o danni colposi. Il testo legislativo è giunto fino a noi inciso in caratteri cuneiformi su una stele scoperta a Susa (Persia) nel 1901 e conservata al Museo del Louvre a Parigi.
Coinvolti dal fascino del mondo antico, ci portiamo ora nel centro del mare nostrum per scoprire qualcosa di più concreto e ci caliamo in un sito archeologico del Lazio per una breve, ma “curiosa” escursione attraverso l’antica marineria di Roma.
Milioni di turisti hanno visitato le imponenti rovine del Porto fluviale di Ostia Antica. Al contrario, molto meno frequentata risulta essere quella zona archeologica attigua a Fiumicino che è visibile alcuni istanti prima d’atterrare all’aeroporto, quando l’occhio è catturato da un lago esagonale, non lontano dal mare.
La vasta area che fu dei Torlonia, appartiene da qualche decennio al Comune di Roma ed è visitabile: si tratta del Porto di Claudio (ancora parzialmente interrato) e del lago artificiale, chiamato Porto di Traiano che fu per cinque secoli l’approdo di favore della capitale dell’Impero.
Ciò che s'identifica oggi del complesso portuale, è soltanto il perimetro formato dalle sue linee banchinate, che tuttavia, è sufficiente a regalarci qualche emozione quando proviamo ad immaginare ciò che poteva essere sia il funzionamento degli impianti che l’organizzazione del lavoro.
Il prezioso monumento di “archeologia commerciale” ante litteram rappresenta, almeno per noi marittimi, il primo esempio di “portualità integrata” della storia.
La sua nascita ebbe luogo per superare il declino dello scalo di Ostia.
Lo straordinario progetto fu concepito e realizzato dall’ingegneria romana (tra cui il celebre architetto Vitruvio) per risolvere un duplice problema: gli approvvigionamenti della sempre più popolosa metropoli e i danni provocati dagli straripamenti del Tevere, dalle sue inevitabili deviazioni e insabbiamenti cagionati ai bacini portuali della regione.
Nel periodo di massimo splendore, Roma doveva sfamare un milione d’abitanti e le navi dell’epoca, provenienti dalle province Imperiali, convergevano verso il modesto ed insicuro porto fluviale di Ostia. Fu l’imperatore Claudio che in seguito ad un’ennesima carestia di grano diede inizio verso il 42 d.C. a quello che sarebbe stato il più grande porto dell’Impero: il Porto di Claudio che in seguito si allargherà nella splendida opera che prenderà il nome di Porto di Traiano.
F.1 - Cartina con la posizione del porto di Claudio e di quello di Traiano rispetto alla città di Ostia, alla Foce del Tevere e all’Isola Sacra.
F.2 - Porto di Roma - Ricostruzione planimetrica (arch. I. Gismondi)
L’opera di Claudio consisteva in un bacino ricavato per la maggior parte su terraferma con grandi scavi e prolungato sul mare con la costruzione di lunghi moli. Il bacino aveva un fondale sabbioso variante tra i 4 o 5 metri, che permetteva l’ancoraggio e l’ormeggio delle grandi navi da carico.
Completava l’opera portuale una grande “fossa”, il braccio destro del Tevere, più tardi chiamata anche Fossa Traiana.
L’apertura dei canali di collegamento col Tevere fu provvidenziale non soltanto per il trasporto fluviale a Roma delle merci, con l’alleggerimento del traffico lungo la Via Portuense, ma anche perché favorì il deflusso del fiume, liberando Roma dal pericolo di periodiche inondazioni, come dice un’iscrizione in onore di Claudio trovata in situ.
Lo spazio d’acqua racchiuso nella grandiosa opera di Claudio, aveva una superficie di circa 900.000 mq. - un’ampiezza di circa 1100 m. - le banchine dovevano sviluppare nel loro assieme 2500 m. - permettendo l’ormeggio di oltre 300 navi.
Per dare un’idea della vastità dell’area riportiamo, per un rapido confronto, l’Area totale del porto di Voltri (Genova) = 1.050.000 metri quadrati.
I moli a tenaglia che chiudevano l’ampio bacino erano costituiti da enormi blocchi di travertino, uniti tra loro da robuste grappe di ferro e da perni. Ciascun blocco aveva un peso medio di 6 o 7 tonnellate. L’imboccatura aveva un’apertura di 200 metri.
I lavori per il porto di Claudio durarono quasi 12 anni.
Plinio il Vecchio racconta che il Faro del porto di Claudio aveva una struttura a tre o più ripiani, poggiava su una specie d’isola artificiale realizzata con l’affondamento della nave di Caligola che era servita per il trasporto dell’obelisco vaticano dall’Egitto.
I rilievi eseguiti dopo il ritrovamento del sito hanno contribuito al riconoscimento della nave e delle sue caratteristiche, coincidenti peraltro con l’antica documentazione storica. La nave aveva una lunghezza di 110 metri, una larghezza di 20,30 e sei ponti. Il suo dislocamento era di 7.400 ed aveva un equipaggio di 700-800 uomini.
Le misure di questa nave, in verità molto speciale per l’epoca, ci richiamano alla mente i celebri “Liberty” che, partendo da quell’incerto dopoguerra, scalarono il nostro porto ancora per due decenni e siamo in tanti a ricordare che quei “brutti anatroccoli” di Roosevelt prendevano il Pilota, due rimorchiatori e due squadre di ormeggiatori, sia all’arrivo che alla partenza.
Chapeau! Ai nostri avi romani per la loro organizzazione portuale, l’abilità nautica e per l’invenzione di quelle tecniche operative che gli permisero di compiere le stesse manovre che noi oggi ripetiamo con tanta sufficienza….!
Entro pochi decenni, purtroppo, le strutture del porto di Claudio non furono più adeguate a sostenere la violenza del mare; il bacino non offriva sufficiente protezione alle navi ed era continuamente soggetto ad insabbiamento per i sedimenti che si accumulavano nella foce del Tevere. Tutto ciò mise in crisi il suo funzionamento, e già nel 62 d.C. Tacito ricordò che “duecento navi andarono distrutte nel porto per una violenta tempesta”.
Tutto ciò non deve meravigliarci più di tanto: anche noi genovesi, esposti al libeccio, siamo stati testimoni di quanto successe nel 1955, allorché una tempesta da SW distrusse 400 metri di diga dello scalo genovese e causò l’affondamento di due navi, l’esplosione di una terza, oltre agli innumerevoli danni alle strutture portuali.
Il porto di Traiano, completamente artificiale, fu realizzato circa cinquant'anni dopo il porto di Claudio, in un primo tempo per completarlo e poi per sostituirlo definitivamente; esso fu il risultato di grandi scavi realizzati nell’entroterra allo scopo di assicurare un assoluto riparo alle navi. Era in comunicazione col mare attraverso il porto di Claudio, che venne così ad assumere la funzione di porto esterno, e fu collegato al fiume per mezzo di un canale navigabile e banchinato.
Il bacino interno ebbe forma esagonale con una profondità di 5 metri ed una superficie di 330.000 mq.
F.3 - Il Porto di Traiano. Ricostruzione plastica di I. Gismondi. (Museo di Porta S.Paolo)
Oggi, una moltitudine di pescatori si aggira lungo le banchine d’ormeggio, ancora corredate di bitte e golfali e forse, nonostante la presenza di ruderi importanti, soltanto qualche studente prossimo alla laurea riesce ad immaginare l’imponenza di quei magazzini alti cinque o sei piani (horrea), che facevano da sfondo ai cantieri per le riparazioni e l’allestimento delle navi ed assistevano alle operazioni di sbarco ed imbarco delle merci sulle grandi navi onerarie dei naviculari.
A diretto contatto con le strutture portuali si sviluppò un centro abitato, che divenne grande quanto la stessa Ostia: la città di Porto.
F.4 - Il Porto di Traiano. Ricostruzione grafica dei magazzini. Disegno di G.Caraffa. (Museo della Civiltà Romana)
Le navi cariche di merci contenute in migliaia di anfore, i containers dell’epoca, ormeggiavano sia nel porto di Claudio che in quello di Traiano. Lo stoccaggio avveniva nei magazzini e la mercanzia era trasportata a Roma, sia risalendo il fiume tramite il piccolo cabotaggio, oppure via terra sulla Portuense, fino ai depositi fluviali del Testaccio, Ripetta ecc…
Se si pensa che il commercio marittimo dell’antichità si svolgeva soltanto nei mesi di “tempo assicurato” possiamo immaginare quanto dovevano essere congestionate le banchine, i moli, le calate e i canali di quell’immenso bacino portuale.
A partire dal 44 d.C., quando furono nominati due procuratores annonae, i quali dipendevano direttamente dal Prefetto dell’Annona di Roma, le imprese private furono gradualmente assorbite dall’organizzazione ufficiale dello Stato.
Una numerosa schiera di dipendenti aveva i compiti di provvedere al controllo delle merci in arrivo, alla verifica delle qualità e della quantità, di sovrintendere alle distribuzioni, al magazzinaggio, alla conservazione, di provvedere ai pagamenti e curare i contratti con le numerose agenzie di trasporto navale e terrestre, di mantenere i rapporti con le provincie produttrici di mercanzie primarie quali il grano, l’olio, il vino ecc.
Ai dipendenti dello Stato faceva riscontro un gran numero di lavoratori autonomi: muratori e carpentieri attendevano alla manutenzione del porto e delle banchine, alla riparazione delle navi e alla costruzione d nuove; altri operai erano addetti al carico e allo scarico delle merci, i barcaioli ai traghetti sul Tevere e al piccolo cabotaggio. I palombari erano presenti ed adibiti al recupero delle merci affondate.
Questi lavoratori, artigiani ed operai, ottennero il permesso di associarsi e di scegliersi un rappresentante tra i cittadini più influenti, a volte anche fra gli stessi senatori; nacquero così le corporazioni, associazioni a carattere sindacale sorte per proteggere i diritti del lavoratore. Questo termine è tuttora in uso, proprio tra i piloti dei porti italiani.
In questo settore, alle notizie degli antichi storici si aggiunge ad Ostia una fonte archeologica, rappresentata da quel monumento unico nel suo genere, che è il cosiddetto Foro delle Corporazioni, il grande piazzale porticato che sorge alle spalle del Teatro.
Il porticato comprendeva in tutto 78 intercolumni ognuno dei quali era sede d’altrettanti uffici di Agenzie Marittime, imprese commerciali ecc..
Davanti a ciascun ufficio, sul pavimento del porticato, un mosaico indicava il genere di commercio ed il paese d’appartenenza dell’impresa.
Per un altro curioso raffronto, aggiungiamo che le Agenzie Marittime presenti oggi nel porto di Genova non superano il centinaio.
Ulpiano (III sec.d.C.) riferisce che “nessuna nave poteva entrare in un fiume senza il gubernator”, e dal contesto si capisce che con tale termine intendeva il pilota portuale, la cui attività ben si differenziava dal “magister navis”, dal “nauta”, dal “proreta”, dallo “stratico”.
Piloti-mare, piloti-canale, piloti-porto, piloti-fiume? Conoscendo la razionalità degli antichi romani, ma soprattutto la loro pragmaticità, è molto probabile che le prestazioni di pilotaggio siano state diversificate per specializzazione ed espletate nei vari flussi di traffico portuale.
F.5 - Ostia – Foro delle Corporazioni: ricostruzione grafica dell’arch. C.A. Carpiteci, vista dal lato verso il Tevere.
Qui termina la nostra escursione e questo battito di ciglia verso le nostre radici mi suggerisce una breve riflessione:
Il comandante ed il pilota vengono da lontano e si tengono per mano sin dall’antichità. La loro lunga esistenza permane nel tempo per due semplici motivi, il loro impiego è legato al buon senso che è tipico della gente di mare; il loro destino è quello di cavalcare insieme, sempre, la tecnologia del tempo.
Carlo GATTI
Rapallo, 30.05.11
... LE NAVI DI ROMA ANTICA
LE NAVI ANTICHE
Studi inediti di Silvano Masini
30.05.11
Il tempo antico...
Le notizie navali del mondo antico occorre cercarle su epigrafi, ritrovamenti archeologici, reperti, saggi ecc. che comunque storicizzavano la notizia rispetto ad eventi spesso non legati al mare: per esempio spedizioni militari e commerciali, narrazioni belliche e commerciali, miti, ecc.
Di quello che accadeva nei porti poco traspare e molto occorre immaginare sulla base del tipo di naviglio e delle sue necessità.
Un lavoro compiuto dal Com.te Gatti per tentare di scoprire il ruolo del Pilota partendo da un importante porto dell’Antica Roma può essere utile anche in questa circostanza per immaginare le esigenze della nave:il Porto di Traiano (Forum16).
Il Porto di Traiano, un porto completamente artificiale per sopperire al progressivo insabbiamento del Porto di Ostia da parte del Tevere e per organizzazione non si discosta dagli altri porti del Mediterraneo simili per importanza.
Uno spazio ricavato in una insenatura protetta, un banchinamento ed una serie di magazzini (horrea) per il ricovero della merce…un pò come adesso se vogliamo ma con dimensioni diverse.
Notizie dell’epoca, forse enfatizzate, parlano di fari di grandi dimensioni posti all’entrata, tipico il mitico colosso Rodi sotto il quale passavano persino le navi.
F.1 - Nave Greca 500ac
Ma come erano le navi di allora ? Oggi diremmo barche, o leudi,
La loro lunghezza non superava i 15 metri, il pescaggio limitato a un metro o poco piu e la propulsione principale esclusivamente a remi.
Uno straccio di vela quadra su un alberetto aiutava con vento favorevole chè la bolina non farà la comparsa prima del 1400 e non nel Mediterraneo: l’introduzione di un fiocco a prora fu una invenzione determinante.
Probabilmente in ogni caso la nave entrava in porto con la forza del remo ed in quel modo si avvicinava alla banchina e qui di sicuro la lunghezza e il numero dei remi ne impedivano un agevole attracco.
Su navi antiche i remi erano lunghi circa cinque metri ma diventavano dieci sulle galere veneziane (lunghe fino a 40 metri), ed il numero da una ventina saliva fino a ottanta per un peso che poteva arrivare a 55 chili.
F.2 - Tipologia di nave usata fino all’antica Roma
La manovra non deve essere stata molto agevole, inoltre era sempre in agguato il pericolo della rottura dei remi, che tranquilli nell’acqua diventavano fragili contro ostacoli massicci..
Una notizia che può interessare i liguri.
Nel’400 a Chiavari c’è una florida industria per la costruzione dei remi venduti specialmente in tutto il Mediterraneo, esclusa Venezia che provvedeva in proprio (e per le zone di influenza) con l’Arsenale.
C’è un documento del 1456 dove si legge una spedizione di 300 remi Chiavaresi diretti alla flotta Catalana.
F.3 - Galera veneziana: Arrivo a Venezia
C’è da credere che molto opportunamente il Capitano (o Patrone, come si chiamava) preferisse mettere a mare una lancetta con una doppia funzione : rimorchio ed ormeggio.
Questa lancetta (di servizio diremmo noi oggi, un po’ il gommone di Barcacciante memoria) la troviamo sulle rappresentazioni d’epoca rizzata in coperta, e non pensiamo fosse per salvataggio: a quel tempo la vita non valeva niente ed in caso di sinistro qualche pezzo di legno galleggiava sempre.
Ne abbiamo conferma nel dipinto che ci mostra una galera in arrivo a Venezia (XIII sec.) dove si puo’ notare una lancetta sulla destra con un cavo che scende da bordo. Certo un aiuto alla nave in arrivo, resta da scoprire se apparteneva alla Nave stessa oppure è fornita dal Porto, in questo caso il Magistrato delle acque ( una specie di Presidente del Consorzio del Porto, ma a Venezia con poteri enormi), oppure libera iniziativa di un barcaiolo assoldato. E’ importate questo particolare non essendo questa una foto (siamo nel ‘300 !) scattata in qualsiasi momento, è’ un dipinto che il pittore non ha creato in un attimo ma ha ragionato sulla situazione e se ha colto questo particolare è segno della usualità di questa funzione. Non una-tantum che puo’ sfuggire all’osservazione, ma un dato costante che accompagna la nave nella manovra portuale tanto da meritare l’onore della cronaca pittorica.
Nella nostra ricerca storica questa è l’unica testimonianza che abbiamo trovato, ma sicuramente testimonia un fatto da tempo in uso e che possiamo applicare anche a tempi piu antichi. Ci sono a Genova documenti notarili del 1300 e avanti (Archivio Storico del Comune di Genova) che attestano la costituzione di associazioni di barcaioli per operare all’interno del Porto con mansioni varie che vanno dall’aiuto generico alle navi al pilotaggio (pratico, lo indicano). C’è quindi da ritenere che, almeno nei porti maggiori, la nave fosse dispensata dall’uso della sua barca. Avrete compreso come ci sia una enorme carenza riguardo al rimorchio nel tempo antico, ed anche a ridosso dei secoli seguenti a le notizie non saranno molte. Molto quindi affidiamo alla verosimiglianza del racconto, che peraltro riteniamo attendibile sulla base delle nostre esperienze quando arrivavamo in località prive di ogni servizio e non erano poche in giro per il mondo. Ci si doveva arrangiare, come mille anni fa. La povertà di informazioni ci lascia spazio per alcune notizie rigorosamente documentate circa la galera e che non sono nell’usuale immaginario collettivo e che può essere curioso apprendere. Le galere, tipica nave mediterranea, erano armate in Primavera e rimessata in Ottobre, partivano in gruppi (“mude” le veneziane,”maone” le genovesi) un po’ per sicurezza ed un po’ perché il tempo favorevole era comune per tutte. A bordo vivevano financo 250 persone, due terzi incatenate ai banchi di rema impossibilitati al movimento e comunque con spazio limitato a tutti per necessità di carico.
Abbiamo una ricostruzione storica della galera in piena operatività che ci va di proporre per rendere l’idea dell’affollamento della gente a bordo fra marinai, rematori e pellegrini.
F.4 - Una galera grande sulla via di Gerusalemme Sec.XII
E’ facilmente intuibile come la situazione igienica a Bordo fosse molto approssimata ad onta delle “bugliolate” di acqua che giornalmente erano distribuite con generosità in coperta.
Il cassero poppiero, dimora degli ottimati (patrone, scrivano, capitano, uffiziali, e gentiluomini) era perennemente incensata nel tentativo di coprire gli effluvi della copertata. anche se il concetto di pulizia dell’epoca era molto diverso dal nostro. E mentre ci è facilmente possibile ricostruire il modo di vestire e le abitudini del tempo tramite i dipinti, ci è impossibile immaginarne l’odore del tempo antico non solo a Bordo. Diversi autorevoli studiosi si sono cimentati a supporre questo aspetto e c’è un bel libro “Parfume” di Patrik Süskind (1985) ed un film di Tom Tykwe (2006) che trattano il tema olfattivo negli aspetti piu diversi, cimentandosi a ricostruirlo. Qualcosa però ci illumina sull’argomento, vediamolo. Dunque la galera.
Per il suo arrivo al, diciamo cosi, Porto di Armamento a missione compiuta, a Bordo ferveva una eccezionale operazione di pulizia che iniziava già giorni prima e si estendeva anche alla stiva con relativa caccia ai topi. (v. Forum/7)
Non molto diversamente a quello che si fa oggi sulle Barcacce (topi esclusi, ovviamente) di ritorno a casa anche per cancellare i segni del viaggio difficile e presentarsi col vestito buono della festa. Un po’ di orgoglio per ben apparire non guasta. La Sanità Marittima Veneziana era inflessibile, troppo vicino (siamo nel 1300) era stata la conseguenza dei topi giunti a Genova (cosi dice la storiografia) con la peste bubbonica, la famosa peste nera, un‘epidemia che in una generazione ridusse ad un terzo la popolazione europea. Il rischio di lunghe quarantene era in agguato. Sul fanale di Bocca di Lido c’era appostata una vedetta che riportava prontamente a S.Marco la notizia dell’approssimarsi della muda. Ma come ne avvertiva l’arrivo? Dagli alberetti spuntare all’orizzonte ? Da una veloce feluca che incrociava nei pressi ? Niente di tutto questo.. Si narra che, specie nelle giornate di scirocco sempre presente in autunno al tempo del ritorno, l’arrivo era annunciato con largo anticipo dall’odore (!) proveniente dalla flotta in arrivo e non era un dolce effluvio.
E questo la dice lunga sulla situazione di Bordo dell’epoca e per lungo tempo ancora.
F.5 - Il grande complesso del Pireo nel V Sec.AC
Capitolo 3
…il tempo di mezzo.
E’ il tempo dello sviluppo della navigazione a vela come si presenta nell’immaginario collettivo e come è giunta fino a noi come “arte navale” per eccellenza. Dalla Caravella ai Galeoni fino ai mitici Clipper una evoluzione costante durata trecento anni: dal XIV al XVII secolo. L’epoca delle grandi scoperte geografiche e dallo sviluppo dei Porti Atlantici: subito Siviglia, Lisbona, Cadice e poco dopo Londra ed i Porti Olandesi. Il commercio cambia rotta ed il Mediterraneo si marginalizza dalla grandi vie marittime, Genova e Venezia lentamente modificano i loro assetti navali per vie diverse ma vanno in progressivo decadimento.
F.6 - Caravella 1400
La nave a remi regge poco in Atlantico. Il canto del cigno della galera sarà a Lepanto nel 1571 e pochi anni dopo sparirà definitivamente con la Invincible Armada Spagnola nella Manica contro l’Inghilterra nel 1588.
Genova mette in conto un particolare poco noto e portato alla giusta luce da uno studioso francese amante della nostra città, Jaques Hees, e che ha suscitato la nostra curiosità. Nel XIV secolo Genova, stretta fra Venezia principale mediatrice con l’Oriente ormai chiuso dagli Arabi e un Occidente Atlantico in prorompente sviluppo seppe per un secolo volgere a proprio vantaggio una difficile situazione. A differenza di Venezia, Genova non utilizzò molto la galera puntando di piu sull’uso della vela e del maggior spazio per il carico. Nel ‘400 si inventa una nave grandissima per l’epoca (fino a 1000 tonn.) e con questa si attrezza con viaggi tuttofare (una specie di rinfusiera) per il trasporto di carichi non pregiati (allume specialmente) fra il Mediterraneo ed il Nord Europa, favorita anche dalla difficoltà nelle vie terrestri. Viaggi non ambiti dai paesi Atlantici impegnati oltremare ed in parte snobbati da Venezia tesa alle merci piu pregiate. Erano navi grandi e di scarsissima manovrabilità, toccavano pochi porti quasi sempre allibando. Il loro utilizzo e la loro costruzione non ebbero duratura fortuna: scarsa era la reperibilità del legname a Genova, le vie di terra andavano migliorando ed inoltre il commercio oceanico richiedeva navi piu manovriere ed adatte al trasporto di merci pregiate (spezie da oriente, oro e argento dall’America).
F.7 - Una bellissima ricostruzione di Cutter Olandese del XVI secolo.
Non c’è traccia di questo barco genovese se non uno scorcio nelle rappresentazioni guerresche nei porti di Terrasanta e dalle scarse cronache del tempo. Possiamo solo registrare lo stupore degli osservatori del tempo che nelle loro cronache mostravano meraviglia per la grande mole di qesto barco genovese inusuale per l’epoca. Una differenza notevole fra Genova e Venezia nella gestione della flotta è un dato da conoscere per capire il diverso evolversi delle due grandi Repubbliche Marinare. Venezia aveva una gestione statalizzata (oggi si direbbe cosi) della flotta mentre quella genovese era completamente lasciata alla libera iniziativa. Questo fece si che Genova, all’aumento delle difficoltà nei commerci e alla carenza di legname, si concentrasse di piu sugli investimenti finanziari…visto che i denari non mancavano. Venezia si concentrò sul residuo commercio con Medio Oriente e si espanse verso terra giungendo fino ai confini della Lombardia. Impensabile per Genova stretta fra monte e mare.
F.8 - Galeone 1500
Liquidare con qualche paginetta secoli importantissimi e decisivi di Storia è sempre una operazione difficile, monca e pericolosa, ma a noi serve unicamente per inquadrare un angolo che ci riguarda da vicino : le navi, i Porti, i servizi portuali. Queste navi hanno un tonnellaggio di circa 250/300 tonn.per una lunghezza intorno ai 40 metri, molto manovriere in mare, procedono anche di bolina stretta, adottano le tecnologie piu recenti (timone centrale,fiocchi, forme di carena in pieno sviluppo idrodinamico).
I Porti si ampliano: Cadice, Siviglia, Lisbona e poi Londra e Olanda. Porti Atlantici influenzati dalle ampie escursioni di marea alle quali si affida la Nave per scegliere l’entrata in porto o la risalita dei fiumi sui quali erano situati gli empori piu importanti
F.9 - Bastimento per le Indie 1600
Non si hanno notizie particolari su servizi di rimorchio, ma sappiamo per certo che quelle navi venivano rimorchiate da lance per uscire dal Porto e presentarsi alla marea od al vento favorevole.
Dato il regime autarchico della gestione-nave non è difficile supporre che il compito fosse affidato ai marinai di Bordo e che anche all’arrivo tale pratica fosse di uso comune. D'altronde il traino a remi era praticato nelle bonacce equatoriali e persino serviva a posizionare i battelli da guerra in battaglia quando il vento non era favorevole. Quel barcone genovese di cui abbiamo parlato faceva documentato largo uso di braccia alla bisogna e sicuramente necessitava di “rimorchiatore” . Nella nota spese del Padrone, fra buglioli e cime, troviamo talvolta “barcaiolo”. A che serviva? Non certo per la franchigia nel caso la nave sostasse alla fonda (chè c’era il gozzetto di bordo, caso mai) piu facile pensare al costo per un servizio indispensabile reso alla nave: per esempio ormeggiatore o una mano ad attraccare, od entrambi allo stesso tempo. Non è un’ipotesi azzardata.
F.10 - la Victory di Nelson a Trafalgar (seconda metà XVII sec)
Nel Capitolo precedente abbiamo citato documenti notarili del ‘300 attestanti la costituzione di Associazioni di Barcaioli (Corporazioni) a Genova..
Le stesse fonti testimoniano uno sviluppo ed una articolazione maggiore in questo servizio citando : Barcaiolo della Compagnia dei Soccorsi Marittimi, Barcaioli avventizi, Barcaioli “tollerati” (si suppone semi-abusivi), Barcaioli al servizio delle Navi (anche con compiti di allibo), Barcaioli Piloti Pratici (una prima menzione di Pilotaggio ante-litteram, e forse derivato da Barcaioli fra piu abili). Da qui si intuisce una regolamentazione Portuale che prende forma, si sviluppa, si specializza e che crediamo si possa estendere per similitudine ai maggior porti Mediterranei ed Atlantici che stavano assumendo importanza ben maggiore di Genova nel panorama commerciale mondiale.
Abbiamo citato il Clipper solo come esempio della massima espressione raggiunta dalla vela, in realtà questo magnifico gabbiano opera in un’epoca in cui il vapore si è già affacciato alla ribalta ed il “Rimorchiatore” è già parte della scena anche fotografica del panorama portuale. Ne parleremo nel prossimo capitolo.
F.11 - I Clippers “Ariel” e “Taeping” si sfidano sulla rotta del te (1850)
Foto a cura di Carlo GATTI
I CLIPPERS, le "Ferrari" dell'800
I CLIPPERS
le “FERRARI” dell’800
La Grande Corsa del Té del 1866
Foto n.1 - La cartina mostra la rotta principale dei Tea-Clippers da Foochow (Cina) a Londra che fu teatro di epiche regate commerciali. Le frecce nere indicano i venti predominanti nel periodo compreso tra maggio e settembre. In condizioni favorevoli i Clippers raggiungevano 20 nodi di velocità, come un traghetto di oggi, ma erano spinti dal vento e manovrati da superbi marinai.
Clipper, (dall’inglese to clip=tagliare, il vento, le onde, i primati ecc...) fu il nome attribuito all’ultimo esemplare, il più perfezionato dell’evoluzione della nave a vela. Nacque in America nel 1820 sull’onda di una profetica intuizione mercantile: “il commercio prenderà le vie del mare”. Ma i Cantieri americani ebbero un’altra intuizione, questa volta d’ingegneria navale: “lo spostamento della sezione maestra dello scafo verso prua conferirà al veliero una maggiore stabilità in navigazione”. Tuttavia, la caratteristica principale del clipper doveva essere la velocità derivante dalle più affinate linee d’acqua dello scafo e dalla maestosa superficie velica ben superiore alle unità equivalenti dell’epoca. Il clipper fu quindi progettato per essere un autentico levriero degli oceani, e per raggiungere tale obiettivo fu persino diminuita la capacità di trasporto del carico. I risultati raggiunti ripagarono questo sacrificio. Il clipper raggiungeva, infatti, una velocità di 15 nodi con punte di 20 nodi quando la velocità massima degli altri velieri e delle stesse navi a vapore era di 5-7 nodi in condizioni ottimali. I clippers furono costruiti da cantieri inglesi, olandesi, francesi e americani, ma i primi a scendere in mare furono i piccoli Clippers di Baltimora (USA) che entrarono in scena durante la guerra (USA-UK) del 1812, proprio per le tensioni commerciali. La storia di questa categoria di velieri si usa suddividerla in cinque periodi dell’800:
1830-1850: I Clippers dell’Oppio. La Compagnia delle Indie manteneva il monopolio sulla vendita della droga. Erano velieri di limitate dimensioni, ma particolarmente ben costruiti e soprattutto veloci. Armati di qualche cannone ed esperti equipaggi, andarono scomparendo intorno al 1860, quando venne abolito il monopolio ed il traffico della droga divenne meno redditizio.
1845-1860: I Tea-Clippers americani. Nel periodo aureo ne furono costruiti ben 137 per fronteggiare l’aumento del consumo del tè negli Stati Uniti. Furono varati a New York e nella Nuova Inghilterra, tuttavia, a causa della forte richiesta, il legname impiegato per la loro costruzione non poteva raggiungere una buona stagionatura, e questa limitazione diminuiva la resistenza alle forti sollecitazioni dell’alta velocità. Per questo motivo, i clippers americani furono meno longevi dei loro rivali inglesi. Dopo il 1849, con la scoperta dell’oro in California, i Tea-Clippers furono adibiti al trasporto dei cercatori d’oro che si trasferivano dalla costa atlantica degli Stati Uniti a San Francisco via Capo Horn. Il viaggio lungo e pericoloso proseguiva nel Pacifico verso la Cina per l’imbarco del tè. Da qui i clippers ripartivano con rotta a ponente e, doppiato il Capo di Buona Speranza, affrontavano l’Atlantico puntando su New York dove si concludeva il giro del mondo. Nel 1850 giunse a Londra il primo clipper americano carico di tè cinese. La cantieristica inglese fu messa in allarme di fronte al “vascello” che aveva impiegato solo 97 giorni da Hong Kong a Londra. Questo periodo si concluse con l’apparire delle prime navi a motore e gli affondamenti provocati dai corsari sudisti durante la guerra di secessione. I clippers superstiti furono venduti ai portoghesi di Macao e agli Armatori Liguri del Callao (Lima) che li adibirono al trasporto di emigranti cinesi in Perù per la raccolta del guano, ottimo fertilizzante naturale molto richiesto in Europa.
1850-1875: I Tea-Clippers Inglesi. Costruiti con solido e stagionato teak birmano, avevano la linea dello scafo più lunga, aggraziata e filante di quelli americani. I maggiori costruttori di Clippers inglesi furono: A.Hall, H.Hood, Connell, R.Steele di Aberdeen-Scozia, Pile di di Sunderland, Chaloner di Liverpool, Laurie di Glasgow e infine Scott & Linton di Dumbarton, i costruttori del celebre Cutty Sark. In coperta avevano un piccolo castello a prua ed una tuga a poppa. Il cassero accoglieva invece gli alloggi del Capitano e degli ufficiali. Nel 1863 i clippers inglesi adottarono una tecnica mista di costruzione che prevedeva l’ossatura in ferro, mentre rimaneva invariato l’impiego del legno per il ponte di coperta ed il fasciame esterno. I migliori Tea-Clippers furono costruiti proprio in quegli anni, e con quella tecnica innovativa segnarono l’apogeo della vela nel trasporto rapido delle merci. Erano tutti sotto le 1.000 ton. di stazza e i loro nomi divennero celebri: Serica (1863), Taeping (1863), Young Lochinvar (1863), Chinaman (1865), Ariel (1865), Sir Lancelot (1865), Titania (1866) e, naturalmente, molti altri.
1820-1865: I Clippers-Passeggeri. Noti come “packets”, (da cui Paquebot in Francia e Pacchetti in Italia), furono pur sempre comodi e veloci clippers adibiti al trasporto passeggeri. Collegavano i porti atlantici USA: New York, Boston, Filadelfia e Baltimora con il Nord Europa. Rimasero in attività un cinquantennio e precedettero di un secolo “i famosi transatlantici di linea” che continuarono quel flusso regolare fino al 1970. Comandati da esperti uomini di mare, e manovrati da equipaggi sceltissimi, questi clippers offrivano comode e lussuose sistemazioni per una cinquantina di passeggeri. Per il viaggio di ritorno trasportavano emigranti in cerca di fortuna negli States. La traversata durava in media 15-20 giorni. Una singolare testimonianza d’efficienza dei “packets” ci fu lasciata da un romantico epitaffio dedicato al ritiro di un clipper della Black Ball Line: “Era uno dei più veloci e lussuosi. In 29 anni effettuò 116 traversate complete. Non aveva mai perduto gente in mare, né subito avarie notevoli. Trasportò 30.000 passeggeri e vide 1200 nascite e 200 matrimoni”.
1865-1890: I Colonial o Wool-Clippers. In ordine di tempo fu l’ultima categoria di quei velieri veloci che furono costruiti in Inghilterra e negli USA per assicurare i collegamenti commerciali con l’Australia, la Nuova Zelanda e la Tasmania. Gli scafi dei colonials furono dapprima in legno, in seguito vennero costruiti con la “tecnica mista” già descritta, che permise di realizzare unità estremamente solide e di notevoli dimensioni facendo così fronte alla grande richiesta di navi per le rotte australiane. Fu proprio il ferro usato per la loro costruzione che permise ai colonials di resistere ancora per un ventennio dominando su tutti i mari fino alla fine del secolo.
Foto n.2 - Il Cutty Sark é conservato ancora intatto nel “CUTTY SARK CLIPPER SHIP MUSEUM” nel bacino del Maritime Greenwich World Museum Heritage di Londra.
Gli Inglesi la definirono: “La grande corsa del tè del 1866”
Nella “Londra Vittoriana”, con il consumo del tè, ci fu un vero cambiamento di costume nazionale, in pratica s’instaurò una moda che ebbe molte ripercussioni persino nei trasporti marittimi. L’annuale arrivo del primo carico di tè primaverile cinese, considerato il migliore (una pianta dava tre raccolti), veniva pagato 10 scellini ogni 50 piedi cubici, e 100 sterline di premio erano destinate al Capitano del clipper che arrivava per primo sui mercati. Questo tangibile riconoscimento diede il via ad una vera e propria “corsa del tè” che coinvolse navi e capitani famosi, in primo luogo il “Cutty Sark” che, ironia della sorte, non riusciva ad imporsi sul diretto concorrente “Thermopylae”, malgrado la sua meritatissima fama. Molte furono le coppie rivali di clippers che divisero l’opinione pubblica mondiale in vere e proprie tifoserie di scommettitori e appassionati che investivano somme ingenti sulle vittorie di questi “levrieri d’altura”. Qui si aprirebbe un capitolo lunghissimo e affascinante, purtroppo, per ragioni di spazio, non possiamo che fare riferimento soltanto a quella che fu la gara più spettacolare che sublimò le grandi corse dei clippers.
Fu sicuramente per ragioni di mercato che, alla fonda nella rada della Pagoda a Foochow-Cina, si trovassero quell’anno ben 16 Tea-Clippers in attesa di caricare i nuovi raccolti: l’Ada, l’Ariel, il Belted Will, il Black Prince, il Chinaman, il Coulnakyle il Falcon, il Fluing Spur, il Fieri-Cross, il Golden Spur, il Pakwan, il Serica, il Taitsing, il Teaping, il White Adder, lo Yahgtze. Fra i protagonisti più attesi c’erano: il Serica di 708 T. varato nel 1863 e comandato dal Capitano Gorge Innes; il Fiery-Cross da 888 T. comandato del Capitano Richard Robinson, già vincitore di regate precedenti; il Taitsing da 815 T. al suo esordio col Capitano Daniel Nutsford; il Teaping 767 T. comandato del Capitano Donald Mckinnon ed in fine l’Ariel da 853 T. al comando del suo famoso Capitano John Keay, il quale, riferendosi al suo clipper diceva: “Posso contare su di lui come su un essere vivente”.
L’Ariel fu il primo a chiudere i boccaporti delle stive, a chiamare il pilota e a discendere il fiume Min al traino di un rimorchiatore. Ma la sua rapida partenza fu rallentata dalle manovre sbagliate del comandante del rimorchiatore. Purtroppo in mare gli errori si pagano subito e il Fiery-Cross n’approfittò per attuare un clamoroso sorpasso che gli diede un notevole vantaggio in mare aperto. Di quella rallentata partenza se n’avvantaggiarono anche il rivale Teaping, il velocissimo Serica ed il Taitsing che ormai lo tallonavano a qualche centinaio di metri. I clippers erano velieri molto sensibili all’assetto del carico e cap. Keay ben presto s’accorse che la sua nave era troppo appruata e perdeva velocità. Fece spostare pani di ghisa di zavorra, ancore, catene e persino delle casse dentro la sua cabina. Finalmente il primo di Giugno, Keay spiegò al vento tutte le vele del clipper e, lasciato lo stretto di Formosa, mise la prua verso il Mar della Cina meridionale, costeggiò la Malesia, Sumatra e infilandosi nello stretto della Sonda entrò nell’oceano Indiano. Erano trascorsi 21 giorni dalla partenza e in quel momento Keay non sapeva che il Fiery-Cross lo precedeva di un giorno. Spinti dagli Alisei di Sud-Est entrambi volarono verso le Isole Mauritius. Pochi giorni dopo anche il Teaping, il Serica e il Taitsing attraversarono lo stretto lanciandosi al loro inseguimento sull’oceano indiano. Qualcuno da terra li vide e la notizia del loro passaggio rimbalzò a Londra suscitando l’entusiasmo di migliaia di scommettitori Inglesi. Il 25 Giugno Capitan Keay annota sul giornale di bordo che l’Ariel deve rallentare per imbarco d’acqua nello scafo e per la rottura di alcuni alberetti a causa dell’eccessivo sforzo. La sua ansia aumentava non avendo la minima idea di chi fosse in testa alla gara. Doppiato il Capo di Buona Speranza, l’Ariel mise la prua a Nord-Ovest con gli Alisei in poppa, lasciò l’Isola di S.Elena sulla sinistra e si trovò il 4 di Agosto nelle calme equatoriali in compagnia del Fiery-Cross e del Teaping.
Lasciato di poppa lo “scoglio delle bonacce”, i Clippers navigarono verso Nord lasciandosi Capo Verde sulla dritta e puntarono sulle Azzorre alla ricerca di vento gagliardo da ponente. Il Golfo di Guascogna fu clemente e l’approaching alla Manica avvenne intorno ai primi di settembre. Quando cap. Keay giunse il giorno 5 in vista della costa meridionale dell’Inghilterra, credette d’aver vinto il race fino a quando, all’improvviso, intravide sottovento la sagoma inconfondibile del Taeping che avanzava sospinto da forti colpi di vento.
La suspence giunse al massimo stadio quando i due Clippers, attraversato lo stretto di Dover, si presentarono appaiati alla foce del Tamigi, agganciarono contemporaneamente il rimorchiatore portuale per risalire il fiume e si diressero verso i rispettivi Docks d’attracco. Ma nel finale di questa “nevrotica quanto appassionante” traversata accade ancora qualcosa d’imprevisto. Il capitano Keay dell’Ariel decise di rallentare il suo clipper per evitare d’incagliarsi durante il riflusso della bassa marea. Il Taeping aveva un pescaggio inferiore ed il suo capitano McKinnon non solo sorpassò il rivale ma lo precedette di circa un’ora, ma fu costretto a dare fondo l’ancora a causa della bassa marea. A questo punto l’Ariel, convinto per l’ennesima volta d’aver vinto, anche perché la sua banchina era più vicina di quella del rivale, sopraggiunse sorpassando l’avversario che stava salpando l’ancora. Purtroppo il calcolo dell’ora di marea fu impreciso: il momento dell’inversione della marea, e quindi l’altezza dell’acqua non era ancora sufficiente per consentirgli l’attracco. L’attesa delle giuste condizioni durò ancora un’ora, giusto il tempo di permettere al Taeping di ormeggiare per primo.
Il Teaping aveva vinto per soli 23 minuti. Ma ciò che rese “storico” quel viaggio fu la coincidenza che vide tre clippers, partiti insieme dalla Cina, entrare quel giorno nel porto di Londra con la stessa marea. Il Serica attraccò un’ora dopo.
N.3 - I Clippers inglesi ARIEL (1865-1872) & TAEPING (1863-1871)
Immortalati in un celebre quadro
L’apertura del Canale di Suez (1869) e quello di Panama (1914) ridussero di mesi i percorsi marittimi e segnarono, insieme al progressivo perfezionamento dei motori marini, la fine di una grande epopea velica.
Carlo GATTI
Rapallo, 26.05.11