STORIA DELLA NAUMACHIA
STORIA DELLA NAUMACHIA
Secondo la definizione della TRECCANI, LA NAUMACHIA - (in latino naumachia, dal greco antico ναυμαχία/naumachía, letteralmente «combattimento navale») - Combattimento simulato a scopo di divertimento, eseguito di solito in edifici costruiti a questo fine o in anfiteatri allagati per la circostanza; l'accenno più antico è in Lucilio che forse allude ai Greci. Si ritiene che le naumachie fossero dapprima divertimento privato di grandi signori romani. Nei combattimenti navali eseguiti per pubblico divertimento, gli equipaggi e i combattimenti sono forniti da condannati o da prigionieri incitati alla lotta dalla minaccia di rappresaglie contro i riottosi; il combattimento così diventava cruento e dava agli spettatori l'acre piacere del sangue, come nei ludi gladiatori.
Abbordaggio sul lago Fucino
Rievocazione della Battaglia di Salamina sul lago Fucino
Battaglia di Azio
Personalmente ritengo che tramite le Naumachie, ROMA intendesse mostrare la sua POTENZA, EFFICIENZA E CORAGGIO al mondo ad essa ostile e alle colonie conquistate.
In altre parole le Naumachie sono stati i primi Film Kolossal risalenti a 2000 anni fa in cui venivano celebrate le grandi vittorie dei Cesari, non solo, ma anche di eroi, semidei, gladiatori, paladini della giustizia e mitici re. Per citarne alcuni: QUO VADIS (1951) - BEN HUR (1959) – IL GLADIATORE (USA 2000) - TROY (2004), celebri per le scenografie realistiche, grandi budget e colonne sonore memorabili. Proprio a causa degli enormi costi di produzione, di NAUMACHIE e FILM KOLOSSAL ne passarono pochi alla storia.
Per il popolo era una forma di spettacolo grandioso perché violento in modo superiore a quello cui erano abituati a vedere negli anfitetari, circhi ecc…
Per gli strateghi erano vere e proprie “simulazioni” di battaglie navali, con impiego di nuove armi sperimentali e l’uso di strategie che in seguito sarebbero state impiegate nelle VERE battaglie navali.
Per gli ingegneri civili e militari erano rare occasioni per mettere a punto opere costruttive: navi, porti adeguati, pontili, opere idrauliche di enorme importanza come bacini lacustri, fluviali, laghi artificiali, deviazioni di fiumi, raccordi e canali, acquedotti, dighe, mura, paratie e molti altri esperimenti in cui diedero prova di grande efficienza e capacità costruttiva, ponti e strade che avevano come scopo la rapida viabilità per le comunicazioni con tutte le province dell’Impero.
Sullo sfondo di questo scenario in gran parte strategico c’era la TALASSOCRAZIA, propagandata e praticata per far comprendere al popolo la rotta da seguire per ottenere il dominio dei mari.
Per talassocrazia (dal greco θαλασσα, mare, e κρατος, potere) si intende il dominio militare e commerciale, esercitato da una determinata entità politica, di uno spazio marittimo e dei territori in esso contenuti o che su di esso si affacciano.
Altre potenze che esercitarono la talassocrazia in epoca classica sono per esempio la polis di Atene, la civiltà cartaginese, Roma e Bisanzio/Costantinopoli.
Ulteriori esempi di talassocrazie tratti dalla storia più moderna possono essere:
· L’Impero Khmer' e quello Sri VIjaya nella penisola indocinese e nelle isole di Sumatra e del Borneo;
· La Lega Anseatica delle città tedesche e baltiche;
· Le Repubbliche Marinare, in particolare la Repubblica di Venezia e di Genova ma anche quelle di Pisa, Amalfi, Ancona, Gaeta e la dalmata Ragusa
· L’impero Britannico, che per tutto il XIX secolo ha mantenuto il predominio sui mari.
L'esempio più vicino ai giorni nostri di una talassocrazia è quello della potenza navale statunitense che, con i suoi (attualmente) dodici gruppi da battaglia di portaerei, può proiettare la propria potenza praticamente in ogni punto del globo terracqueo, attraverso l'uso combinato della potenza aeronavale, secondo la dottrina di Alfred Thayer Mahan. È interessante notare che tutte le talassocrazie sono presto o tardi declinate proprio a causa dell'incapacità di difendere territori così eterogenei e lontani fra loro. Altrettanto notevole é il fatto che molti grandi condottieri come Napoleone persero il loro potere per aver fallito la prova della potenza marittima. In effetti, la talassocrazia è una forma di potere estremamente costosa, in quanto una flotta richiede enormi investimenti in materiali, ma anche in addestramento di uomini altamente specializzati.
Le naumachie erano, come abbiamo appena visto, simulazioni di battaglie navali svolte in bacini naturali o artificiali allagati per la circostanza, dove si rievocavano famose battaglie storiche. I naumacharii, cioè i combattenti, erano un misto di nemici caduti schiavi, marinai pagati per eseguire le manovre indispensabili, o criminali condannati a morte cui veniva risparmiata la vita se dimostravano abilità e coraggio.
Questi spettacoli, ideati e rappresentati a Roma, raramente venivano eseguiti altrove, in quanto erano costosissimi: le navi erano autentiche e subivano attacchi con le prore rostrate danneggiandosi al punto che molte affondavano con ingenti perdite umane.
Le naumachie spesso riproducevano famose battaglie storiche, come quella dei Greci che vinsero i Persiani a Salamina, o quella degli abitanti di Corfù contro la flotta di Corinto.
QUANTE FURONO LE NAUMACHIE?
Le prime tre naumachie si tennero a circa 50 anni di distanza, le sei seguenti, la maggiore parte delle quali ebbero luogo in anfiteatri, si tennero a circa 50 anni di distanza; le sei seguenti, la maggior parte delle quali si svolsero in anfiteatri, si tennero a distanza di 30 anni. Delle circa venti rappresentazioni di naumachia nell’arte romana, quasi tutte sono del IV stile pompeiano, all’epoca di Nerone e dei Flavi.
I naumacharii, nell’accingersi alla battaglia, salutavano l’imperatore con una frase celebre:
“Ave Caesar, morituri te salutant”.
Frase che spesso viene attribuita erroneamente ai gladiatori nel rituale saluto all’Imperatore.
Ed ecco la spiegazione:
“Almeno così salutarono l’imperatore Claudio che non desiderando il massacro di tutti fece un cenno di negazione che fu però interpretato come una grazia dal combattimento. Claudio si infuriò, gli uomini combatterono, parecchi morirono, la folla andò in visibilio e tutti i sopravvissuti vennero graziati. Poiché era andata bene, la frase venne ripetuta.
L'apparizione delle naumachie è strettamente legata a quella, leggermente anteriore, d'un altro spettacolo, il «combattimento fra truppe» che non ingaggiava dei combattenti a coppie, ma due piccole armate. Proprio in queste ultime i combattenti erano più sovente dei condannati senza allenamento specifico rispetto ai veri gladiatori. Cesare, creatore della naumachia, traspose semplicemente in un ambiente navale il principio delle formazioni di battaglia terrestre.
Le naumachie avevano la particolarità di rievocare temi storici o pseudo-storici: ogni flotta che s'affrontava rappresentava un popolo celebre per la sua potenza marittima nella Grecia classica o l'Oriente ellenistico: Egizi e Fenici per la naumachia di Cesare; Persiani e Ateniesi per quella di Ottaviano Augusto, Siculi e Rodii per quella di Claudio.
I mezzi impiegati erano considerevoli! Ciò rendeva la naumachia uno spettacolo riservato ad occasioni eccezionali, strettamente legato a celebrazioni dell'Imperatore, sue vittorie e suoi monumenti.
Acqua negli anfiteatri
L'immissione d'acqua negli anfiteatri solleva, ancora oggi, numerose domande. Innanzi tutto, questi luoghi non servivano esclusivamente per le naumachie e dovevano essere disponibili per caccie e lotte tra gladiatori. L'alternanza rapida tra spettacoli terrestri ed acquatici sembra essere stata la principale attrazione di quest'innovazione. Cassio Dione lo sottolinea quando si riferisce alla naumachia di Nerone; Marziale fa lo stesso parlando di quella di Tito nel Colosseo. Lo studio delle sole fonti scritte non fornisce alcuna informazione sulle modalità pratiche di questa prestazione.
La caduta dell'Impero romano non determina la fine delle naumachie. In effetti, ne ebbero luogo delle altre nel corso dei secoli successivi, particolarmente nel 1550 a Rouen per il re Enrico II di Francia o nel 1807 a Milano per l'imperatore Napoleone Bonaparte. Nel 1690 in occasione delle nozze del figlio Odoardo II Farnese con Dorotea Sofia di Neuburg, il duca Ranuccio II Farnese fece scavare una grande peschiera al termine dell'ampio viale centrale del parco ducale di Parma, al fine di rappresentarvi una spettacolare naumachia.
CARLO GATTI
Rapallo, 17 giugno 2020
LE TRE SORELLE OLYMPIC-TITANIC-BRITANNIC - TRE DESTINI DIFFERENTI
LE TRE SORELLE
OLYMPIC-TITANIC-BRITANNIC
TRE DESTINI DIFFERENTI
La classe Olympic era formata da tre navi passeggeri gemelle, appartenenti alla Compagnia marittima inglese:
WHITE STAR LINE
OLYMPIC – La nave fu varata nel 1910 e demolita nel 1935. Fu di gran lunga la più longeva delle Tre Sorelle. Durante la sua lunga carriera conobbe un incontro ravvicinato con un sommergibile tedesco durante la prima guerra mondiale e una collisione con la motonave inglese Hawke. Senza conseguenze gravi in entrambi i casi. Il 15 maggio 1934 l'Olympic speronò di prua la piccola nave americana Nantucket Lightship LV-117. La piccola nave naufragò e morì tutto il suo equipaggio: alcuni membri perirono sul colpo, mentre altri morirono successivamente in ospedale.
Il 27 marzo 1935 compì il suo ultimo viaggio Southampton-New York. Nel setytembre dello stesso anno fu venduta a Sir John Jarvis per £ 100,000. Rivenduta a Thomas W.Ward Ltd. con l'impegno che la nave venisse demolita nel cantiere di demolizione Jarrow-on-Tyne. Il 13 ottobre la nave giunse al Palmer's-old shipyard, Jarrow. Il prezzo dell'acciaio dell'OLYMPIC superò £2,3s per tonnellata.
TITANIC – La nave fu varata nel 1911, affondò durante il viaggio inaugurale, nel 1912 dopo la collisione con un iceberg.
BRITANNIC – La nave, poi HMS Britannic – varata nel 1914, affondò nel 1916 dopo l'urto con una mina tedesca quando era utilizzata solo come nave ospedale durante la Prima Guerra Mondiale.
Il transatlantico HMS BRITANNIC, prima di essere convertito in Nave Ospedale, era stato designato RMS Gigantic.
Del transatlantico TITANIC e del gemello OLYMPIC ce ne siamo già occupati sul sito di Mare Nostrum Rapallo, ecco i LINKS:
RMS TITANIC - Una breve Storia
LA STORIA DEL RMS OLYMPIC
Del BRITANNIC ce ne occupiamo con il presente servizio.
HMHS BRITANNIC
Ai primi del ‘900, la rivalità tra le due famose Compagnie di Navigazione Passeggeri: CUNARD LINE e WHITE STAR era famosa in tutto il mondo dello Shipping internazionale, proprio in quella fase storica che fu definita “L’ETA’ D’ORO” dei LINERS oceanici.
Ai due giganti di linea: Lusitania e Mauritania della CUNARD, di cui ci siamo già occupati su questo sito, la WHITE STAR rispose il 23 novembre 1911 firmando un contratto con i costruttori navali irlandesi Harland & Wolff, per la costruzione della terza nave del trio di super transatlantici, appunto: il BRITANNIC.
Questa è la storia di quello che sarebbe diventato di lì a poco L’HMHS Britannic, l’acronimo inglese (His Majesty’s Hospital Ship) ne indica la sua ultima destinazione.
Avrebbe dovuto chiamarsi Gigantic, ma l’affondamento della gemella RMS Titanic, rivoluzionò i piani di costruzione ed il suo nome fu cambiato in Britannic.
ALCUNI MIGLIORAMENTI TECNICI REALIZZATI SULLA BRITANNIC
La perdita di vite avvenuta con il Titanic, incise pesantemente sulle scelte progettuali e portò la Compagnia ad equipaggiare nuove e più grandi gru, capaci di portare fino a 48 scialuppe, 2 delle quali dotate di radio a corto raggio e motori.
Per navi superiori alle 10.000 tonnellate, era ancora in vigore la legge che prevedeva l’obbligo di lance di salvataggio per almeno un terzo delle persone imbarcate, quindi non esisteva alcun obbligo per i costruttori a garantire la sicurezza di tutti i passeggeri e dell’equipaggio.
Fu aumentato il numero dei compartimenti per aumentare la galleggiabilità della nave nei casi di estremo pericolo, cercando soprattutto d’isolare, quindi di proteggere la sala macchine. L’altezza di 5 paratie delle 17 paratie, misuravano 23 metri fino ad arrivare al ponte di coperta. Questo permetteva al Britannic di evitare l’affondamento nel caso in cui l’acqua fosse riuscita a passare al di sopra delle paratie.
I compartimenti, furono dotati di 63 porte stagne a chiusura semi-automatica e venne rinforzata la chiglia, principalmente al di sotto della sala macchine, per un totale di 155 mt, con una doppia chiglia di 76 cm di spessore. Con queste modifiche, in teoria, la nave sarebbe potuta restare a galla (ma non in movimento) anche con 6 scompartimenti anteriori allagati.
Il transatlantico fu varato il 26 febbraio 1914. Era lungo 269 metri e largo 28.5, aveva una stazza di 48.158 tonnellate, minore di quanto previsto inizialmente, 9 ponti, 785 passeggeri di 1° classe, 835 di 2° classe, 935 di 3°classe e 950 persone di equipaggio, 29 caldaie di cui 24 di tipo doppio e 5 di tipo singolo.
La propulsione era composta da due macchine alternative a vapore reversibile a doppio effetto e triplice espansione a quattro cilindri, collegate alle eliche esterne, mentre una turbina Parsons a bassa pressione alimentava quella centrale. Questi motori, i più grandi mai costruiti, 13.5 m di altezza, rispetto a quelli del Titanic erano più efficienti e permettevano, in fase di manovra, la mobilità delle 2 eliche esterne ed attraverso il recupero del vapore, veniva garantita l’alimentazione della turbina per la terza elica centrale.
Grazie ai 50.000 cavalli vapore sviluppati, la nave poteva raggiungere i 22 nodi, velocità incredibile per una nave passeggeri dell’epoca.
UNA CURIOSITA':
Sui tre SUPER-TRANSATLANTICI, solamente tre delle quattro ciminiere alte 19 metri erano funzionanti, la quarta aveva la funzione di presa d'aria, e fu aggiunta per rendere lo SHAPE della nave più imponente.
il 28 giugno 1914, L'attentato di Sarajevo fu assunto dal governo di Vienna come il “casus belli” che diede formalmente inizio alla Prima guerra mondiale. Il Britannic non sarebbe mai potuto entrare in servizio passeggeri per il quale era stato designato e destinato. La dichiarazione di guerra della Gran Bretagna causò la completa cessazione dei lavori sulla nave Britannic.
QUADRO STORICO
La campagna di Gallipoli, conosciuta anche come campagna dei Dardanelli fu una campagna militare intrapresa nella penisola di Gallipoli dagli Alleati: Impero Britannico e Francia schierati contro L’Impero Ottomano e Germania nel corso della Prima guerra mondiale per facilitare alla Royal Navy e alla Marine Nationale il forzamento dello stretto dei Dardanelli al fine di occupare Costantinopoli, costringere l’Impero Ottomano a uscire dal conflitto e ristabilire le comunicazioni con L’Impero russo attraverso il Mar Nero.
La campagna, pianificata da Francia e Regno Unito, doveva inizialmente articolarsi su una serie di attacchi navali che, condotti dal 19 febbraio al 18 marzo 1915, non ottennero i risultati previsti; il 25 aprile 1915 tre divisioni alleate furono sbarcate sulla penisola di Gallipoli, mentre altre due furono utilizzate in azioni diversive, in quella che si può considerare la prima operazione anfibia contemporanea su vasta scala e dalla quale scaturirono studi teorici che influenzarono profondamente successive operazioni analoghe. L'azione fu studiata in modo da eliminare le fortificazioni avversarie e rilanciare l'assalto navale, ma lo svolgimento delle operazioni non andò come previsto dai comandi alleati: l'improvvisata organizzazione della catena di comando, la confusione durante gli sbarchi, le carenze logistiche e l'inaspettata resistenza dei reparti ottomani coadiuvati da elementi tedeschi impedirono di ottenere un'importante vittoria strategica, trasformando la campagna in una sanguinosa serie di sterili battaglie a ridosso delle spiagge.
L'evacuazione finale delle teste di ponte tra il novembre 1915 e il gennaio 1916 suggellò uno dei più disastrosi insuccessi della Triplice intesa durante l'intera guerra; il fallimento costò al corpo di spedizione circa 250 000 morti e feriti e fu aggravato dalla perdita di diverse unità navali di grosso tonnellaggio, nonostante gli Alleati avessero goduto di un'assoluta superiorità numerica e tecnica a confronto con le esigue forze navali ottomane.
In questo teatro bellico entra in scena la nave ospedale
BRITANNIC
Il 13 novembre 1915 la White Star ricevette la richiesta dall’Ammiragliato Britannico per impiegare la Britannic come nave ospedaliera. La sigla RMS venne quindi sostituita e divenne HMHS BRITANNIC.
L’ammiragliato prevedeva di alloggiare 3.309 pazienti nei ponti superiori per assicurare trasferimenti rapidi alle scialuppe in caso di emergenza. I medici, gli infermieri superiori, gli ufficiali amministrativi della corporazione medica Reale e i cappellani soggiornavano in cabine di prima classe, mentre gli infermieri inferiori e gli assistenti alloggiavano nelle cabine passeggeri dal ponte B in giù.
Il transatlantico Britannic ebbe una nuova livrea, quella riconosciuta ufficialmente in guerra: striscia verde longitudinale intervallata da 3 croci rosse, una linea di luci verdi longitudinale con croce rossa illuminata per la navigazione notturna, inoltre le fu assegnato il numero nave 9618. Questo permetteva alle navi di navigare indenni durante il conflitto.
La Nave Ospedale Britannic, al comando dell’esperto capitano Charles Bartlett, aveva il seguente programma: partire da Liverpool e Southampton, fare rotta verso il Mediterraneo (Napoli, Sicilia, Mar Egeo, Turchia e altri porti del Mare Nostrum), andare a caccia di feriti, curarli e portarli in salvo.
La partenza dalla Gran Bretagna fu tranquilla. Gli ordini dell’Ammiragliato a Bartlett prevedevano, nel viaggio d’andata, la breve sosta a Napoli per fare bunker (rifornimento di carbone e acqua), per poi raggiungere il porto di Mudros nell’isola greca di Lemnos.
La Nave Ospedale BRITANNIC raggiunse il Mediterraneo e qui restò operativa dal 1914 al 1916. Per l'esattezza fino a martedì 21 novembre 1916, giorno in cui, fu squarciata da una violenta esplosione al largo dell'isola di Kea nel Mar Egeo.
Secondo testimonianze, per la verità mai accertate, l’urto della mina avvenne nelle vicinanze della sala macchine.
Pur rafforzato nelle sue strutture, il Britannic affondò in 55 minuti.
L’affondamento causò la morte di 30 persone, molte delle quali, perirono quando, senza l’ordine preciso del ponte di comando, vennero ammainate le lance poppiere, mentre le eliche erano ancora in movimento.
Questa terribile circostanza accadde perché non fu possibile fermare le macchine, quindi gli assi porta-eliche a causa dei danni riportati a seguito dell'esplosione.
Alcune testimonianze, peraltro mai confermate da fonti ufficiali, riportano che l'esplosione fu terribilmente aumentata a causa del materiale esplosivo esistente a bordo (quasi certamente destinato a uso bellico; armamenti che non dovevano trovarsi a bordo).
Nessuno dei libri inglesi da me consultati e citati nella Bibliografia sotiene tale ipotesi, ma non viene esclusa l'ipotesi che l'eplosione sia stata fortemente incrementata dalla presenza di gas di carbone (coal dust igniting)*.
* - Un'esplosione di polvere è la rapida combustione di particelle fini sospese nell'aria, spesso in un luogo chiuso. Esplosioni di polvere possono verificarsi quando qualsiasi materiale combustibile polverizzato disperso è presente in concentrazioni sufficientemente elevate nell'atmosfera o in altri mezzi gassosi ossidanti, come l'ossigeno.
La Convenzione dell'Aja del 1907 aveva definito il concetto moderno di nave ospedale. In particolare l'articolo 4 definiva le caratteristiche necessarie affinché una nave potesse essere considerata "nave ospedale": La nave doveva avere segni di riconoscimento e illuminazione specifiche; doveva fornire assistenza medica a feriti di tutte le nazionalità; non poteva essere impiegata per alcuno scopo militare; non doveva interferire né ostacolare le navi militari. Inoltre, le forze belligeranti avevano il diritto di ispezionare le navi ospedale per verificare eventuale violazioni delle norme di convenzione.
In caso di violazione anche solo di una delle limitazioni previste, la nave avrebbe perso il suo status di “zona franca” ed anzi protetta (molto spesso erano dipinte di bianco, e recavano in modo evidentissimo la grande Croce rossa, simbolo internazionale di neutralità) e sarebbe tornata ad essere considerata come unità combattente e come tale suscettibile di attacco nemico.
Subito dopo Il capitano Bartlett ordinò al timoniere di accostare verso l’isola di Kea, con l’intento di portare la Britannic verso i bassi fondali, ma la nave non rispondeva ai comandi: si era aperta una falla a dritta di prora da cui entrava mare vivo sui ponti aperti E-F.
La nave, per fortuna, era scortata da altri mezzi navali che riuscirono a salvare 1070 persone. 35 delle 58 scialuppe furono ammainate in mare.
La nave ormai sbandata a dritta, cedette a prua, mentre lo scafo si mantenne integro, come in seguito dimostrarono le riprese subacquee di famosi esploratori, una per tutte: quella compiuta nel 1974 dal comandante Jacques Cousteau.
Così i testimoni descrissero il naufragio:
“Iniziò ad affondare con la prua, quando le eliche emersero dall’acqua, la Britannic sbandò ancora di più a dritta e s’inabissò”.
IL SALVATAGGIO DEI SUPERSTITI
Come si é visto, la nave era scortata da altri mezzi navali che riuscirono a salvare oltre un migliaio di persone. Ma sarebbe ingiusto dimenticare la flottiglia di piccole navi da pesca greche che entrarono in scena quasi nello stesso momento in cui la nave affondò, insieme a navi più grandi chiamate dal Britannic.
La prima di fu la Heroic, che prese con sé 494 naufraghi, poi arrivò la HMS Scourge, che prese 339 sopravvissuti, seguita dalla HMS Foxhound. Arrivarono anche due rimorchiatori francesi: il Goliath e il Polyphemus, chiamate dalla Scourge. Anche le due scialuppe a motore del Britannic giocarono un ruolo chiave, girando per le altre scialuppe e prendendo i feriti più gravi, che vennero portati a Kea. I 150 sopravvissuti arrivarono nel piccolo villaggio di Korissia, dove ricevettero cure mediche.
Molte furono le inchieste effettuate negli anni successivi sulla dinamica dell’incidente. Inizialmente si pensò non ad una mina, bensì ad un siluro, poi si fece strada l’ipotesi che la nave, pur essendo nave ospedale, trasportasse armamenti che avrebbero aumentato il potere esplosivo all’impatto. Restò di fatto un mistero custodito per molto tempo, fin quando durante una spedizione avvenuta nel 2013, diretta da Carl Spencer, vennero fatte 2 scoperte interessanti. La prima riguardava la resistenza delle porte a tenuta stagna.
La seconda scoperta è probabilmente più interessante dal punto di vista storico. Una ricerca guidata da Bill Smith, un esperto di sonar, scoprì i resti di diverse catene di mine in prossimità del relitto e nell’esatta localizzazione identificata nel diario di bordo del sottomarino tedesco U-73.
La spedizione inoltre fece luce sulla tesi secondo cui, i fuochisti che a turno alimentavano le enormi caldaie della nave, utilizzassero le porte stagne come passaggio tra le paratie. Questo si tradusse nell’impossibilità di isolare le paratie e nel conseguente passaggio di acqua tra di esse. La tesi fu confermata dal fatto che molti dei portelli stagni utilizzati dai fuochisti, vennero trovati aperti durante l’esplorazione del relitto.
L’isola di Kea, nota anche con il nome di Tzia, si trova nelle Isole Cicladi ed è situata nell’angolo più remoto e tranquillo dell’arcipelago, lontana dalle affollate mete turistiche della zona come Mykonos e Santorini.
"Dal 2010 i turisti possono imbarcare sul nostro sommergibile e visitare il relitto, il più grande perfettamente conservato esistente al mondo" a 120 metri di profondità nelle acque due miglia a largo dell’isola di Kea, non lontano da Atene”.
C’informa Panayotis Bouras, responsabile della Britannic S.A., sussidiaria della Britannic Foundation inglese che detiene i diritti sul relitto.
“Il progetto è stato finanziato da investitori privati ai quali resta aperto. Il governo greco dapprima non si era mostrato troppo favorevole, per timore che l’affluenza di turisti potesse danneggiare il Britannic, considerato un “monumento sommerso” della storia marittima greca. Ma poi l’atteggiamento è cambiato e attualmente, sottolinea Bouras, non vi sono obiezioni e il Ministero della Marina Mercantile ha concesso l’autorizzazione per l’attività del sottomarino”.
Il Britannic, colato a picco mentre navigava come nave ospedale per la Royal Navy, fu una delle tre ammiraglie della Compagnia White Star che affondarono o subirono gravi collisioni. Oltre al Titanic, infatti, anche l’Olympic fu speronato due volte. Ciò, unito al fatto che un’infermiera, Violet Jessop fece parte degli equipaggi di tutte e tre le navi senza rimetterci mai la vita, ha fatto sorgere leggende sulla maledizione che graverebbe sulle unità della White Star.
"Ma non abbiamo paura delle leggende e delle maledizioni", assicura Bouras. "Quello che vogliamo è dare l’opportunità alla gente di tutti i Paesi di visitare un relitto unico al mondo".
Bibliografia:
CUNARD
By David L.Williams
THE FIRST GREAT OCEAN LINERS
By William H.Miller Jr.
THE WHITE STAR LINE 1870-1934
By Paul Louden-Brown
THE GOLDEN AGE OF OCEAN LINERS
By Lee server
BEKEN OF COWES – OCEAN LINERS
By Philip J. Fricker
IL TRANSATLANTICO NORMANDIE Un costoso gioiello che fu rubato da un impietoso destino
IL TRANSATLANTICO
NORMANDIE
UN COSTOSO GIOIELLO CHE FU RUBATO DA UN DESTINO IMPIETOSO
S.S. Normandie, che con i suoi sfarzi, l'estetica, la modernità, ed ogni singolo dettaglio ha diffuso in tutto il mondo un vero e proprio stile di vita...
Scheda Tecnica
Costruttore: Penhoet, Saint Nazaire
Armatore: Compagnie Gènèrale Transatlantique
Varo: 29 ottobre 1932
Entrata in servizio: 29 maggio 1935
Tonnellaggio: 79.280 tsl; 83.423 GRT
Potenza: Quattro turbo-elettrico, totale 160.000 CV (200.000 hp max).
Fu la prima nave della storia ad avere una propulsione turboelettrica, combinando turbine a vapore e motori elettrici.
Lunghezza: 313,60 metri
Larghezza: 36,4 metri
Velocità: 29 nodi, 32,2 nodi massima registrata
Capacità: 1972 passeggeri, 1345 equipaggio
Ciminiere: due vere – quella poppiera adibita a canali.
Il ventennio tra le due guerre mondiali fu caratterizzato da un’accesa rivalità tra gli Stati con la più prestigiosa tradizione marinara per l’acquisizione del potere marittimo nel trasporto passeggeri tra le sponde dell’Oceano Atlantico, ovvero tra il vecchio continente ed il nuovo New World - USA.
L’Obiettivo “pubblicitario” era la conquista del BLUE RIBAND (Nastro Azzurro) riconosciuto al vincitore quale prestigioso segno di supremazia nel campo navale: VELOCITA’ nella traversata atlantica, ma anche nell’arte costruttiva e tecnologica, artistica e quindi commerciale.
Inghilterra, Italia, Francia e Germania furono i grandi protagonisti di una stagione che toccò l’apice più alto della Storia Marinara di tutti tempi.
Che succede oggi?
Fin dall’inizio del nuovo millennio, si costruiscono in tutto il mondo navi passeggeri che appartengono di fatto al NUOVO GIGANTISMO NAVALE in cui, rispetto al periodo citato, l’architettura navale subisce continue mutazioni estetiche per evidenti motivazioni economiche; alle navi di oggi viene impresso uno sviluppo in altezza (numero di Ponti) che prevede l’imbarco del maggior numero possibile di passeggeri.
Il risultato non é quasi mai un’opera d’Arte e spesso queste navi s’inseriscono, quando sono ormeggiate in porto, nello Sky line delle città portuali che le ospitano, spesso deturpandole!
Oggi ci occuperemo di una nave francese molto speciale: la NORMANDIE della CGT (Compagnie Générale Transatlantique) la quale, a distanza di quasi cento anni dal suo VARO, aveva misure di stazza, lunghezza e larghezza, che, per certi versi, erano simili a quelle attuali nelle dimensioni, ma erano disegnate con gradevolissime linee archittetoniche.
Storicamente possiamo quindi affermare che i nostri padri conobbero già un “Primo Gigantismo Navale” mentre la nostra generazione navale e portuale sta vivendo un "Secondo Gigantismo Navale" di ritorno.
Molti lettori che ci leggono in questo momento hanno fatto crociere sulle navi di Costa, Carnival, Msc ed anche con altre stimatissime Compagnie straniere, ma credo che non siano molti coloro che conoscono la storia della NORMANDIE che oggi abbiamo scelto di raccontare in quanto emblematica di un’epoca molto complessa, ma anche ricca di innovazioni tecniche-tecnologiche le quali crearono le basi per le successive costruzioni navali di cui oggi l’Italia può vantare PRIMATI eccezionali.
Dietro la costruzione della NORMANDIE ci fu evidentemente una componente politica di GRANDEUR alla Francese che fece da cassa di risonanza in tutta Europa, dove orgoglio e rivalità reciproche innescarono risposte e progetti di nuove costruzioni quasi immediate.
Come abbiamo già avuto modo di scrivere in altre occasioni, il “gigantismo navale” affonda le sue radici nel “mondo greco e nella romanità” e ritorna alla ribalta anche in periodi successivi affermandosi anche nell’era moderna.
Al termine dell'articolo riporteremo alcuni LINK su questo argomento.
Opera del Pittore Marco Locci
Perché questa rincorsa al gigantismo continua tuttora?
Perché l’uomo ha sempre sognato di vincere la sfida contro il mito di Nettuno che non subisce gli umori del mare, ma che li determina e li domina. La storia, purtroppo ci insegna che quel tipo di “gigantismo navale” ha sempre fallito contro la forza sovrumana del MARE perché le navi sono opera dell’uomo, quindi fallaci e destinate a perire, in un modo o nell’altro; così fu anche per il NORMANDIE e per tante altre navi che per la fama raggiunta, non hanno bisogno di essere citate.
UN PO’ DI STORIA….
Il legame artistico, architettonico ed anche ideologico che univa New York alla Francia trovò nella Statua della Libertà la sua espressione più concreta.
A rafforzare questo “rapporto sentimentale” ci pensarono il mare, le navi e le lunghe traversate transoceaniche che gli uomini di mare realizzarono.
Il 21 maggio del 1931 un gruppo di cinquantacinque architetti americani, tra cui Kenneth Murchison e William Van Alen, padre del Chrysler Bulding, partì verso la Francia a bordo dell'American Banker con destinazione Parigi, sede della Ecole des Beaux Arts. Durante il viaggio gli architetti avrebbero ridecorato il salone della nave secondo le ultime tendenze del design. Qualche mese prima, a gennaio, nei cantieri francesi di Saint Nazaire erano iniziati i lavori su una nave, la Normandie, che avrebbe consentito alla Francia di risvegliare la vitalità artistica e architettonica di New York City nel modo più romantico e spettacolare possibile, conquistando il NASTRO AZZURRO.
I lavori erano stati commissionati dalla Compagnie Génerale Transatlantique, conosciuta negli States più semplicemente come FRENCH LINE che, grazie alla propulsione turbo-elettrica, aveva messo in cantiere la nave crocieristica più potente mai costruita.
I nuovi motori le consentivano di esprimere una potenza vicina ai 180.000 cavalli vapore, in grado di far navigare i 313 metri della Normandie, per 81.000 tonnellate di stazza, ad oltre 32 nodi. La parte tecnica, per quanto all'avanguardia come nel caso della forma delle eliche, era in qualche modo oscurata dalla raffinatezza delle linee e, soprattutto, dalla ricercatezza degli interni.
Le grandi compagnie come la CUNARD e la WHITE STAR, colpite dalla depressione economica del 1929, ancora non avevano superato la crisi tanto da potersi impegnare nella costruzione di altre navi transoceaniche e per la FRENCH LINE questa fu un'occasione da non perdere.
Fino al 1924, anno in cui furono emanate norme restrittive sull'immigrazione, i transatlantici erano progettati tenendo conto di larghi spazi da destinare a quella terza classe dove far alloggiare gli immigrati provenienti da tutta Europa. Secondo questa impostazione la capienza della nave, nonostante la mole, era di "soli" 1972 passeggeri, consentendo così ai fortunati viaggiatori di godere di ampi spazi durante la traversata.
Questa tendenza a realizzare ampi spazi lussuosi venne dapprima perseguita dai tedeschi sulle navi EUROPA e BREMEN, alle quali la NORMANDIE strappò il primato della bellezza e poi dall'italiana REX costretta a cedere alla francese il primato della velocità (Nastro Azzurro), tre anni dopo averlo conquistato con il Comandante Francesco TARABOTTO.
La realizzazione della NORMANDIE, così come fu presentata al mondo, si deve all'ingegnere russo Vladimir Yourkevitch, emigrato in Francia prima della rivoluzione d'ottobre. Yourkevitch, già progettista navale per lo zar, entusiasmò la French Line con proposte quali il bulbo frontale e lo scafo slanciato e fu invitato ad unirsi ai colleghi francesi. La nave fu allestita in Francia e il varo sul fiume Loira avvenne nell'ottobre del 1932, ma prima di partire per New York passarono tre anni tra prove e sistemazione degli interni. Finalmente, il 29 maggio del 1935, la nave salpò da Le Havre salutata da 50.000 persone e fece rotta verso le banchine di New York per arrivare a destinazione in soli quattro giorni, tre ore e quattordici minuti.
N.B. V. Yurkevich dotò la NORMANDIE di un voluminoso BULBO a prua e una forma della carena ridisegnata in modo innovativo. La nave era in grado di raggiungere velocità superiori a 30 nodi (56 km / h).
Questa immagine del 23 marzo 1940, dà l’idea delle dimensioni della NORMANDIE rispetto ai suoi famosi transatlantici “coevi”: dall’alto a sinistra, Mauretania, Normandie, Queen Mary e Queen Elizabeth.
Mauretania: Stazza L.: 31.938 tsl – Vel. 28,75 nodi - Lunga 240,8 mt – Larg. 26,8 mt – Varo 1906
Normandia: Stazza L.: 79.280 tsl - Vel. 29/32.2 nodi – Lunga 313,6 mt – Larg.36.4 mt. Varo 1932
Queen Mary: Stazza L: 81.237 tsl – Vel. 30 nodi – Lung. 311 mt. – Larg. 36 mt – Varo 1934
Queen Elizabeth: Stazza L. 85.000 tsl – Vel.28.5 Nodi – Lung. 314 mt. – Larg. 36 mt – Varo 1938
“Quando la Normandie entrò nello specchio d'acqua del Pier n.88 con la sua prua slanciata, la città di New York e i suoi abitanti, accorsi in massa alla banchina, non accolsero solo una nave fantastica, un gioiello tecnologico con a bordo 2.000 passeggeri, ma anche un progetto artistico che partito dalla Francia avrebbe fatto scuola. La Normandie festeggiata nella baia dell'Hudson da aerei in carosello a bassa quota e dai getti d'acqua delle navi antincendio, portò in città quell'Art Decò che aveva debuttato nell'Esposizione Des Arts Decoratifs, tenutasi a Parigi nel 1925 dove gli americani, anche se invitati, non parteciparono poiché, a dire di alcuni rappresentanti del Governo, non avevano arte moderna da esporre e promuovere.
La sala da pranzo di prima classe da 700 posti, colma di bassorilievi e finiture esotiche, di lampadari e delle "colonne luminose" di René Lalique, la sala per i bambini con le pareti rivestite da Jean de Brunhoff e il suo elefantino Babar, la piscina interna, erano solo alcune tra le piccole e grandi soluzioni decorative che facevano della Normandie una meraviglia galleggiante, espressione di quella "modernità non funzionale" che avrebbe avuto una fortissima influenza nel design americano”.
La Normandie venne a costare complessivamente 60 milioni di dollari. Tuttavia il colossale Transatlantico s’impose subito e con prepotenza sulla scena mondiale:
strappò il nuovo record del Nastro Azzurro durante il viaggio inaugurale, coprendo la tratta New York-Le Havre. La velocità di crociera media mantenuta dalla nave durante la sua prima uscita ufficiale era straordinaria: 30 nodi!
La Normandie svolse il suo servizio sull’Atlantico per 4 anni e fu messa in disarmo durante il secondo conflitto mondiale rimanendo al sicuro nel porto di New York (vedi foto sotto). Vista la necessità di trasportare le grandi truppe militari in Europa, si pensò di spogliarlo dei suoi lussuosi arredi e trasformarlo in una nave militare. Così fu requisito dal governo Americano, che s’impegnò nell’iniziare i lavori di modifica, così da poter contare su una nave enorme, potente e veloce, fuori dalla portata dei sommergibili nemici.
LA TRISTE FINE DELLA NORMANDIE
Il transatlantico NORMANDIE rimase due anni attraccato al pier n°88 di New York
Il transatlantico Normandie vi rimase per due anni fino a quando, dopo l'attacco ei giapponesi a Pearl Horbor, gli Stati Uniti entrarono in guerra, requisendo la nave per convertirla ed adibirla al trasporto truppe con il nome di U.S. Lafayette. Navi di queste dimensioni potevano trasportare 12.000 soldati a viaggio ad una velocità talmente elevata che non richiedeva la scorta di navi militari.
Ma i lavori andavano avanti troppo lentamente e con poca protezione, tanto che il 9 febbraio del 1942, a causa di un incidente provocato dalle scintille di una saldatrice, divampò un incendio che presto si propagò a gran parte della nave. Il danno iniziò ad essere rilevante e andò rapidamente peggiorando a causa dei battelli antincendio che riempirono d'acqua la nave facendola sbandare ed infine rovesciare su un fianco. La foto (sopra) ancora oggi, a distanza di quasi 80 anni, é in grado di destare infinite emozioni perché era quanto di più immaginabile potesse accadere.
Una colonna di fumo nero e denso si sollevava dalla nave nascondendola, e la sua bellezza e maestosità sembravano un lontano ricordo. Nell’ottobre del 1943 la Normandie ridotta a relitto galleggiante, fu raddrizzato e in seguito fu rimorchiato fino al porto di Newark, dove venduto per soli 161.000 dollari, fu demolito dalla stessa società che lo acquistò.
Il destino della Normandie fu segnato! Con un enorme costo e grandi sovvenzionamenti la nave fu recuperata e stabilizzata, ma gli ingenti danni allo scafo e alle attrezzature, il deterioramento dovuto ai 18 mesi trascorsi semi sommersa resero una futura ristrutturazione impossibile e costosissima.
La nave fu allora rimorchiata nel porto del New Jersey dove iniziò la sua lenta demolizione, terminata infine nel 1948.
FU INCIDENTE O SABOTAGGIO?
Riporto per completezza d’informazione quanto risultato dall’Operazione Underworld:
“Nei primi tre mesi dopo l'attacco a Pearl Harbour del 7 dicembre 1941, gli Stati Uniti persero 120 navi mercantili a causa degli U-Boot e degli incrociatori pesanti tedeschi durante la Battaglia dell’Atlantico; durante il febbraio 1942 la nave da crociera SS NORMANDIE - una nave francese catturata che era in rielaborazione per essere adattata al trasporto truppe nel Porto di New York - fu presumibilmente sabotata e affondata da un incendio doloso nel porto di New York. Il boss mafioso Albert Anastasia reclamò la responsabilità del sabotaggio. Dopo la guerra, i registri nazisti dimostrarono che non esistevano operazioni di sabotaggio e da parte alleata non furono mai prodotte prove per dimostrare un sabotaggio segreto nel porto di New York. L'affondamento della Normandie fu quasi certamente un incidente.
Nondimeno, i timori per possibili sabotaggi o inconvenienti sulla tratta atlantica, indussero il comandante Charles R. Haffenden della marina degli Stati Uniti, Office of Naval Intelligence (ONI) del Terzo Distretto Navale a New York, a costituire un'unità speciale di sicurezza. Sfruttò l'aiuto di Joseph Lanza, che dirigeva il fulton fish market, per essere a conoscenza dell'area navale di New York, controllare i sindacati del lavoro, e identificare possibili operazioni di rifornimento dei sottomarini tedeschi con l'aiuto dell'industria peschiera lungo la costa atlantica. Per coprire l'attività di Lanza, suggerì di contattare Salvatore Lucania (Lucky Luciano) che era un importante boss delle cinque famiglie mafiose di New York. Luciano accettò di cooperare con le autorità nella speranza che venisse considerato un suo rilascio prima dei termini previsti.
Al tempo Luciano era rinchiuso nel carcere di Dannemora, per scontare una pena dai 30 a 50 anni di reclusione per aver condotto un giro di prostituzione. Per la sua collaborazione, nel maggio 1942 fu tradotto nel carcere di Great Meadows, noto negli ambienti della malavita come il country club. Le azioni intraprese da Luciano nel fermare i sabotaggi restano tuttora incerte, ma le autorità notarono come i contatti dell'avvocato di Luciano Moses Polakoff tra le figure del mondo sotterraneo del porto influenzarono i lavoratori e i loro sindacati. Nel 1946 la sentenza di Luciano fu commutata – dopo aver scontato nove anni e mezzo venne mandato nella sua nativa Italia.
L'operazione appena descritta, prese il nome di Underworld ("sotterraneo") e fu il nome in codice della cooperazione del governo degli Stati Uniti d’America con alcune figure del crimine organizzato dal 1942 al 1945 per controllare le spie e i sabotatori nazisti nei porti lungo la costa nord est degli Stati Uniti, al fine di salvaguardare i trasporti con i rifornimenti in partenza per l’Inghilterra”.
ALBUM FOTOGRAFICO
Ad esclusivo scopo divulgativo, prendo in prestito dal sito: Transatlantic Era alcune immagini degli interni della NORMANDIE che danno un’idea più completa della ELEGANZA dei suoi INTERNI.
Come si può ben notare, l'Art-Decò è predominante in ogni centimetro quadrato della nave e sfocia quasi in un’esagerazione sotto certi aspetti...
Gli arredi stravaganti ed eleganti allo stesso tempo attirarono gli occhi dei più grandi artisti americani dell'epoca, i quali ne fecero praticamente una scuola per le loro successive realizzazioni. La Normandie possedeva numerosi saloni e bar tra i più grandi al mondo...ristoranti à la Carte con centinaia di posti, contornati da lussuosi arredi e bassorilievi su ogni parete visibile...opere d'arte e lampadari moderni, divanetti e sedie dalle forme stravaganti e colori vivaci resero gli interni di questa nave inimitabili. Bella dentro e anche fuori direi, ma con un salto nella sua storia capiremo ben presto che la sua non fu una vita molto fortunata.
Carlo GATTI
Rapallo, lunedì 18 Maggio 2020
BIBLIOGRAFIA:
- Picture History of the FRENCHE LINE – William H. Miller Jr
- I Giganti di Linea – Vincenzo Zaccagnino
- Ocean Liners – Philipp J.Fricker
GIGANTISMO NAVALE – LINKS dello stesso autore
SYRAKOSIA Gigantismo Navale nell’antichità
LAGO DI NEMI - LE NAVI DI CALIGOLA
LE NAVI PASSEGGERI DI LINEA ITALIANE - DAL 1900 AL 1970
REX - BREVE STORIA DEL NASTRO AZZURRO
Anni ‘30 - L’EPOPEA DEI LEVRIERI - “REX” - “CONTE DI SAVOIA”
LE NAVI PASSEGGERI DI LINEA ITALIANE - DAL 1900 AL 1970
GIGANTISMO PETROLIFERO
JAHRE VIKING
M/Y DIONEA
M/Y DIONEA
Durante i primi Anni ’60, nell’Alto Adriatico si costruivano Traghetti per i VIP che, al termine della loro carriera, con pochi lavori di refitting entravano nel mercato degli Yacht di classe, con tutto l’onore ed il rispetto per un trascorso passato di alta marineria che meritavano allo stesso modo dei marinai che portano sul cuore la medaglia di Lunga Navigazione, di onorato servizio senza incidenti gravi.
Questi scafi speciali di un tempo ormai lontano, erano molto marinari e potevano sopportare crociere lunghe ed impegnative avendo alle spalle una lunga esperienza di mare. La DIONEA ci sorprende ancora oggi, a distanza di quasi 60 anni di vita, per la purezza delle sue linee e per l’eleganza delle sue sovrastrutture che ci ricordano, in versione ridotta, i grandi ed elegantissimi liners italiani che erano inimitabili nel loro shape per quella inconfondibile ARTE ITALIANA che divenne celebre nel mondo.
Attualmente la DIONEA si trova a Genova e, dobbiamo osservare che, tra tante navi moderne che entrano ed escono dal Porto, essa risalta ancora per la sua bellezza, per quel fascino antico che a dirla tutta era veramente sprecato nel ruolo di traghetto costiero.
Un tempo le navi passeggeri erano considerate “opere d’arte”, erano tutte BELLE nei porti e molto marine in navigazione; purtroppo quei concetti non sono più applicabili alle navi di ultima generazione che devono soddisfare l’aspetto economico, disegnato e calcolato sulla base di parametri che hanno a che fare soltanto con la capienza e la capacità di trasporto merci o passeggeri.
COSA E’ OGGI LA DIONEA?
Costruito dai cantieri navali di Felszegi nel 1962 come un traghetto di alto livello, nel 2003 DIONEA fu convertito e rimesso a nuovo come nave di lusso dal noto cantiere italiano T. Mariotti - Genova.
Il progetto di refitting abbina l’affascinante atmosfera dei vecchi tempi con il lusso atteso da una moderna nave charter con “interni” eleganti di Ivana Porfiri. Gli “esterni” vantano due opzioni per mangiare all’aperto sul ponte di poppa principale, e il wheeldeck a poppa vanta lettini prendisole e un grande bimini.
(Un top Bimini è un top in tela con apertura frontale per l'abitacolo di una barca o jeep, generalmente supportato da un telaio metallico. La maggior parte dei Biminis può essere collassata quando non in uso e sollevata di nuovo se si desidera l'ombra o il riparo dalla pioggia)
Da quella data la Dionea è diventata uno yacht ideale per una crociera romantica o in famiglia nel Mediterraneo e per eventi aziendali (Festival di Cannes, Cannes Lions). Grazie alla sua eccezionale capacità e al suo enorme spazio sul ponte, DIONEA può ospitare per esempio: fino a 120 ospiti per cocktail in banchina dove gli invitati sono accolti da un equipaggio esperto, dinamico e professionale di nove persone.
UN PO’ DI STORIA…
Varo in TANDEM....
Nel 1962, giunge l'ora della sostituzione di anziani traghetti con la messa in linea delle bellissime motonavi AMBRIABELLA e DIONEA, affiancate dalla più grande EDRA.
Le due gemelle per molti anni si alternano sia sulla linea Trieste-Muggia-Capodistria che su quelle per Grado e Grignano-Sistiana ma, per ragioni economiche, nel 1976 la Società è costretta a ridurre i servizi e cedere la motonave AMBRIABELLA ad un armatore straniero, Qualche anno dopo anche la motonave EDRA viene venduta alle Ferrovie dello Stato che la trasferiscono sullo Stretto di Messina. Rimane così solo la motonave DIONEA la quale, nel 1978 abbandona la linea per Muggia e va a sostituire la sorella maggiore EDRA.
LE DUE NAVI SULLO SCALO DI COSTRUZIONE DEI CANTIERI NAVALI FELSZEGI DI TRIESTE
Sullo sfondo della DIONEA in navigazione si scorge il Castello di Miramare (Trieste)
La DIONEA in navigazione veloce
La DIONEA all’ancora
I Favolosi Anni ’60 - Una scialuppa, dice la didascalia nella foto, é evidente il richiamo all’estetica e alla eleganza dei personaggi inquadrati. Da segnalare un particolare tecnico: l’elica é protetta dal mantello KORT é viene manovrata come fosse un timone.
OGGI
INFORMAZIONI STORICHE
Impostata il 30.05.1961 - Varata l'11.01.1962 - Allestita ai Cantieri san Rocco nel 1962 - Consegnata il 20.06.1962 alla Società di Navigazione Alto Adriatico di Trieste.
Dati tecnici originari : stazza lorda: 292,49 tonn - portata lorda: 115 ton - lunghezza ft: 51,82 m - lunghezza pp: 45,60 larghezza ff: 7,40 m - altezza: 3,25 m - immersione: 2,20 m - App. motore: 2 Fiat S.G.M. 2x650 cv - Velocità: 15,06 nodi - Passeggeri: 314
Nel 1979 passò in gestione al Lloyd Triestino e nel 1987 all'Adriatica di Venezia - Dal 1991 in disarmo e poi nel 1993 ceduta ad un armatore greco e ribattezzata KALARA sotto bandiera dell’Isola di Man - Nel 1999 trasferita a Genova al Cantiere T. Mariotti per essere ristrutturata e trasformata in yacht di lusso per charter nuovamente con il nome di DIONEA - Dal 2002 in gestione alla Società Armatrice Mariotti S.p.A. (dati dal sito www.ilcarbonaio.it)
Lapo Elkann, nipote di Giovanni Agnelli, é stato a bordo due volte per tre settimane: “la Dionea ha un fascino e una classe che nessun scafo moderno può vantare e che prima o poi qualcuno la comprerà”.
Carlo GATTI
Rapallo, 13 Maggio 2020
IL VELIERO CRISTOFORO COLOMBO
IL VELIERO CRISTOFORO COLOMBO
era il gemello dell'AMERIGO VESPUCCI
Per non dimenticare...
Le navi della Marina Militare sono inquadrate principalmente nella Squadra Navale, alle dipendenze del Comando in Capo della Squadra Navale, presso cui sono concentrate quasi tutte le funzioni operative e il controllo dei mezzi.
I diversi tipi di navi militari hanno nomi che richiamano la loro funzione (incrociatori, fregate, ausiliarie, idrografiche, anfibie, cacciamine, ecc.).
Tutte le navi della flotta della Marina Militare italiana vengono denominate ufficialmente usando il termine "Nave" seguito dal nome dell'unità (es. "Nave Cavour") oppure in forma abbreviata usando il solo nome dell'unità preceduto dall'articolo maschile (es. “il Cavour”).
Del CRISTOFORO COLOMBO si hanno soltanto le biografie ufficiali della Marina Militare e qualche testimonianza ormai ingiallita… di quel periodo bellico e postbellico.
Al contrario, della nave scuola più bella del mondo, almeno così é stata definita l’AMERIGO VESPUCCI, si sa tutto in quanto ormai divenuto il SIMBOLO consolidato dell’Italia sul Mare.
Il VESPUCCI nel 2025 giungerà al traguardo dei 100 anni d’età e proprio non li dimostra…
Il CRISTOFRO COLOMBO terminò la sua carriera nel 1971 in terra straniera sotto bandiera straniera.
Di questa nave, fuori dell’ambiente militare, se ne sa molto meno.La “NAVE” ebbe uno strano destino, molto triste e oggi ne parliamo affinché non se ne perda del tutto la memoria, almeno tra le Associazioni Marinare che hanno il compito di passare il testimone alle nuove leve.
La nave gemella dell’AMERIGO VESPUCCI, il CRISTOFORO COLOMBO (nella foto), fu ceduto come parte del risarcimento in ottemperanza al trattato di pace firmato a Parigi, all'Unione Sovietica nel 1949.
Un suggestivo dipinto del CRISTOFORO COLOMBO
NAVE SCUOLA C.COLOMBO – VENEZIA 1940
Sandro Feruglio – Mariner Painter
Vespucci e Colombo ormeggiate a Venezia nel 1940
Nel 1925 l’allora ministro della Marina ammiraglio Thaon di Revel, propose per l’Accademia di Livorno un tipo di nave che mantenesse vivo, per l’imponente piano velico e per le eleganti linee dello scafo, il fascino e le funzioni degli antichi vascelli. L’idea del prestigioso Thaon di Revel fu accettata e attuata da suo successore il ministro della Marina ammiraglio genovese Giuseppe Sirianni. Sotto la sua supervisione nacquero così nel cantiere di Castellamare di Stabia le due splendide unità. Ambedue le unità furono progettate dall’allora colonnello del Genio navale Ing. Francesco Rotundi.
La COLOMBO, entrata in servizio nel 1928, alla fine della Seconda guerra mondiale venne ceduta, in base alle clausole del trattato di pace, alla Marina Militare Sovietica.
La VESPUCCI entrata in servizio ne 1931, sopravvisse miracolosamente agli eventi bellici e continua tuttora ad essere una valida palestra di addestramento per i giovani accademisti.
Di questa unità abbiamo già scritto un articolo di cui allegheremo il LINK.
Fra le due guerre mondiali, le fregate “CRISTOFORO COLOMBO” e “AMERIGO VESPUCCI” compirono numerose crociere, una mezza dozzina delle quali fuori del Mediterraneo riscuotendo ovunque ammirazione.
Oggi ci soffermeremo soltanto sulla CRISTOFORO COLOMBO la quale ebbe un destino diverso, direi infelice.
Le due fregate, considerate gemelle, fanno pensare alle fregate a vela costruite tra la fine del settecento e la prima metà dell’ottocento.
Le due navi avevano dimensioni leggermente diverse riprendendo i progetti del veliero Monarca, l’ammiraglia della Real Marina del Regno delle Due Sicilie, poi ribattezzato Re Galantuomo quando fu requisito dalla Marina piemontese dopo l’invasione delle Due Sicilie. I progetti ricopiati erano dell’ingegnere navale napoletano Sabatelli ed erano custoditi a Castellammare di Stabia insieme alle tecnologie necessarie alla costruzione di questa tipologia di imbarcazione; le fasce bianche rappresentano le due linee di cannoni dei vascelli ai quali il progettista si era ispirato.
Lo scafo, la struttura, i ponti e i tronchi portanti degli alberi e del bompresso erano in acciaio, così come i pennoni e le sartie. La nave era divisa in tre ponti principali: ponte di coperta, ponte di batteria e corridoio, con castello a prora e cassero a poppa. La copertura del ponte, del castello, del cassero e le rifiniture erano in legno di teak.
Altra differenza, anche se non visibile era che il Colombo aveva due eliche mentre il Vespucci solamente una.
I due velieri pur apparendo come gemelli, presentavano alcune differenze, fra cui la diversa inclinazione del bompresso, il diverso attacco delle sartie, che nel caso del VESPUCCI erano a filo di murata, mentre sul COLOMBO erano invece cadenti all’esterno. Altra notevole differenza era rappresentata dalle imbarcazioni maggiori che sul COLOMBO erano sistemate a centro nave con il relativo picco per le manovre di messa in mare e di sollevamento delle imbarcazioni. Il COLOMBO, inoltre aveva, per filare le catene delle ancore, due occhi di cubia per mascone, mentre il VESPUCCI, ne aveva uno solo.
La propulsione principale era a vela, costituita da ventisei vele di tela olona, la cui superficie totale misurava 2.824 metri quadrati.
La propulsione secondaria era costituita da due motori diesel elettrici accoppiati più due dinamo. La nave aveva due eliche controrotanti e coassiali (quindi calettate sullo stesso albero).
La costruzione delle due unità avvenne nel Regio Cantiere Navale di Castellammare di Stabia, La prima delle due unità fu la “Cristoforo Colombo”, il suo scafo venne impostato sugli scali il 15 aprile 1926 con il nome di “Patria” subito cambiato con il definitivo CRISTOFORO COLOMBO, in onore del famosissimo navigatore genovese. La nave, varata il 4 aprile 1928, entrò in servizio il 1º luglio 1928 e a partire dal 1931 venne affiancata nella sua attività addestrativa dalla seconda delle unità che erano state ordinate nel 1925, l’Amerigo Vespucci, molto simile, ed ancora oggi in attività.
In primo piano, l’idrovolante F.B.A. (Franco-British Aviation Company), mentre decolla per una missione. Sullo sfondo una affascinante immagine del CRISTOFORO COLOMBO.
Breve storia della nave CRISTOFORO COLOMBO
Il Nome
Il nome Cristoforo Colombo era già stato portato da altre quattro precedenti unità della Regia Marina: la prima era un brigantino a vela proveniente dalla Marina Sarda, varato nel 1843 e radiato nel 1867; seguirono due incrociatori, costruiti entrambi nell’Arsenale di Venezia, il primo dei quali varato nel 1875 e in servizio tra il 1876 e il 1891 e il secondo varato nel 1890 e in servizio tra il 1892 e il 1907 e una corazzata impostata nel 1915 nel cantiere Ansaldo di Genova, ma demolita nel 1921 ancor prima di essere stata varata.
Servizio
Nave scuola Cristoforo Colombo
il varo - scalo di costruzione
La polena raffigurante il navigatore Cristoforo Colombo
la polena del Colombo custodita a La Spezia
(foto dal sito web della Marina Militare)
Nave Cristoforo Colombo in allestimento ultimato
Il Cristoforo Colombo fu impostato il 15 aprile 1926 e venne varato il 4 aprile 1928. Il suo primo nome fu "Patria", venne però cambiato quando era ancora in costruzione. Entrò in servizio il 1° luglio 1928 e svolse la sua attività fino al 1943. Ha il primato di essere stata la 100° costruzione dell'allora Regio Cantiere Navale di Castellammare di Stabia!
Il Vespucci invece venne varato il 22 febbraio 1931 ed entrò in servizio, a fianco del Colombo, nel luglio dello stesso anno.
Effettuarono assieme le Campagne di Istruzione per ben nove volte. Solcarono i mari volgendosi sia nel Mar Mediterraneo, sia nel Nord Europa, che nell'Oceano Atlantico, fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.
La nave, insieme all’unità gemella Vespucci, andò quindi a costituire nel 1931 la Divisione Navi Scuola ed esse effettuarono insieme una serie di Campagne di Istruzione, in Mediterraneo, Nord Europa e Atlantico, fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. In particolare, nella campagna del 1931 il comando della Divisione Navi Scuola era affidato all’ammiraglio di divisione Domenico Cavagnari (poi capo di stato maggiore della Regia Marina allo scoppio del conflitto), con la Vespucci comandata dal capitano di vascello Radicati e la Colombo comandata dal capitano di fregata Bruto Brivonesi, che poi diventerà ammiraglio
Le due unità, salpate da Livorno, fecero scalo nei porti di: Portoferraio, Lisbona, Brest, Amsterdam, Kiel, Gdynia, Danzica, Londra, Ceuta, Portoferraio e Genova.
Ed ecco due originali, e rare, foto nelle quali puoi ammirare le navi scuola Amerigo Vespucci e Cristoforo Colombo ai tempi in cui navigavano assieme.
Nell’estate del 1933 le due navi, con a bordo gli accademisti livornesi, fecero insieme una crociera d’addestramento in Atlantico che va la pena di ricordare. La diresse lo stesso comandante dell’Accademia, ammiraglio Romeo Bernotti, che alzò la sua insegna sul VESPUCCI, comandata dal capitano di vascello Tommaso Panunzio. La COLOMBO era invece comandata dal capitano di fregata Aristotele Bona.
Il viaggio iniziò a Livorno il 22 giugno e si concluse sempre a Livorno, il 22 ottobre.
Durante i dieci giorni di permanenza nel porto di Baltimora le due navi vennero visitate da migliaia di persone e l’equipaggio ricevette calorosi festeggiamenti dalle autorità e dalla popolazione locale.
SAVOIA MARCHETTI S-55 in partenza da Orbetello per Chicago
Delle quattro grandi crociere aeronautiche italiane negli anni Venti e Trenta la più spettacolare è quella del Decennale, da Orbetello a Chicago, New York e ritorno, con la doppia attraversata dell'Atlantico settentrionale. Siamo nel luglio-agosto del 1933 e Italo Balbo, alla testa di cento uomini e 24 idrovolanti, entra nell'Olimpo dei grandi dell'aviazione.
A new York l’arrivo (il 20 agosto 1933) della COLOMBO e della VESPUCCI coincise con la presenza in quel porto dei nostri sommergibili e delle nostre vedette che avevano scortato la Crociera aerea del decennale di Italo Balbo.
Quanto segue é la libera Traduzione dall’Inglese del sito: Sandro FERUGLIO Website (che ringrazio)
Nel 1934 il Colombo al comando del C.F. Brunetti fece la crociera toccando i seguenti porti, partendo da Livorno: Napoli, Palermo, Tripoli, Haifa, Porto Said, Porto Lago, Messina, la Maddalena, Ajaccio, Golfo Jouan, Marina di Campo, Livorno. Un percorso diverso da quello del VESPUCCI.
Nel 1935, la divisione navale, al comando dell’Amm.di Div. Palladini, fece una campagna addestrativa con un percorso unico per le due navi scuola, partendo da Livorno: Gaeta, Reggio Calabria, Candia, Tripoli D’Asia, Beirut di Siria, Lardo, Rodi, Coo, Portolago, Istambul, Messina, Milazzo, Palermo, Marina di Campo, Livorno. Il comandante del Colombo era il C.F.Correale, il C.V. Bona comandava il VESPUCCI.
Nel 1936 la Divisione navale Navi Scuola era comandata dall’Amm.di Div.Romagna Manoia. Le due navi scuola navigarono insieme toccando i seguenti porti, partendo da Livorno: San Remo, Livorno, La Maddalena, Cagliari, Palermo, Tripoli, Bengasi, Rodi, Navarino, Bari, Castellamare di Stabia, Napoli, Gaeta, Livorno. Al comando del Colombo il C.F.Giorgis, al comando del Vespucci, il C.F.Corsi.
Nel 1937, le due navi scuola comandate da C.F. Giorgis (nave COLOMBO) e C.F.Prelli (Nave VESPUCCI) toccarono i seguenti porti, partendo da Livorno: Siracusa , Brindisi, Cattaro, Ragusa, Riccione, Durazzo, Atene, Lero, Coo, Rodi, Alessandria, Lepts Magna, Tripoli, Tunisi, Napoli, Portoferraio ,Livorno. Comandava la Divisione Navi Scuola l’Amm.Sq.Goiran.
Nel 1938, le due navi scuola fecero la crociera in Nord Europa toccando i seguenti porti: Livorno, La Maddalena, Gibilterra, Kingstown, Oslo, Stoccolma, Amburgo, Plymouth, Gaeta, Livorno. Comandava la squadra il Contramm.Brivonesi, Il Cv. Muffone comandava R.Nave Colombo e Il C.F. Prelli comandava R.N. Vespucci.
Nel 1939, la Divisione Navale Navi Scuola è al comando del Amm.Div. Iachino, le due navi fecero una crociera nel Mediterraneo: Livorno, Alicante Palma, Siracusa, Valona, Durazzo, Riccione, Trieste, Pola, Venezia, Lussino, Pola, Venezia, Canale di Fasana, Venezia. Il Colombo era comandato al C.F.Bigi, mentre il C.F. del Minio comandava R.N.Vespucci.
Nel 1940, a causa degli eventi bellici, le due navi scuola sostarono a Venezia.
Nel 1941 il comando della Divisione Navi Scuola venne assunto dal C.V. Morin, che comandava anche il Vespucci, mentre il colombo era comandato dal C.F. Simola. Alle due navi scuola si aggiunse la Palinuro. Si trattava di un Brigantino-goletta (ex Vila Velebita), una nave scuola confiscata alla Yugoslavia, posta al comando del C.C Lantieri. La crociera delle tre navi si svolse nelle acque nazionali: Pola, Fiume, Veglia, Zara, Sebenico, Lussinpiccolo, Pola.
Nel 1942 il gruppo navi scuola era sempre comandato dal CV.Morin, che comandava anche il Vespucci, mentre il C.F. Baslini era al comando del Colombo, al gruppo navi scuola si aggiunse la ” MARCO POLO” , al comando del C.C. Bertelli (ex-yugoslava ”Jadran”, per maggiori informazioni segui il link:https://www.lavocedelmarinaio.com/2014/07/4-7-1942-saluti-dalla-regia-nave-scuola-marco-polo/ ). La crociera delle tre navi si svolse in acque nazionali, toccando i seguenti porti: Pola, Fiume, Veglia, Arbe, Cherso, Arsa, Pago, Zara, Lussinpiccolo, Pola.
Nel 1943, al momento dell’armistizio, le tre navi della Divisione Scuola (Colombo, Vespucci e Palinuro), stazionate nel porto di Trieste, furono subito dislocate dal Comando Marina locale a Pola, poiché si erano verificati dei movimenti notturni di truppe tedesche. Anche a Pola, sede importante di numerose scuole della marina, le forze tedesche presenti si allertarono, cosicché alle navi pronte per navigare fu dato l’ordine di partenza. La mattina del 9 settembre le tre navi scuola lasciarono la base navale con l’ordine di raggiungere Cattaro. Un po’ prima di mezzanotte il comandante del VESPUCCI, capitano di Vascello Sebastiano MORIN decise di prendere a rimorchio nave Palinuro, ferma per un’avaria all’apparato motore principale. Il reparto macchine lavorò intensamente tutta la notte al fine di riparare il guasto. Dopo mezzogiorno del 10 il comandante del Palinuro (C.F. Ugo Giudice) comunicò al Comandante Morin che l’efficienza del motore era stata ripristinata, ma chiese il permesso di lasciare il gruppo navale per proseguire verso il porto di Ortona, a motivo che la nave era rimasta a corto di combustibile e necessitava di un rifornimento. Mentre le navi Colombo e Vespucci dirigevano verso Sud, dopo aver ricevuto un messaggio di Supermarina in cui il porto di Cattaro veniva dato per insicuro. Il Palinuro entrò in tarda serata nel porto di Ortona dove venne reso inutilizzabile dall’equipaggio al sopraggiungere delle forze tedesche. Colombo e Vespucci raggiunsero Brindisi.
Terminata la guerra, il COLOMBO riprese la sua attività e, nel mese di novembre 1946, al comando del Capitano di Fregata Giovanni Adalberto, si trovò impegnata in un pericoloso fortunale al largo di Cagliari, che mise a dura prova le qualità nautiche della nave, del comandante e dell’equipaggio, tanto è vero che furono oggetto di un particolare “Elogio” da parte del Ministero della Marina. Un’altra tempesta, che lacerò le vele e fece rischiare il naufragio al COLOMBO avvenne alla fine del mese di gennaio 1947 nella crociera Napoli-Genova. La nave, però, riuscì anche questa volta a ripararsi nel golfo di Juan per poi ancorarsi nei pressi del faro di La Garoupe nella Costa Azzurra.
La nave ad Augusta nel febbraio 1949 in attesa della consegna ai sovietici
Alla fine della guerra il Colombo, in ottemperanza al trattato di pace, dovette essere ceduta all’Unione Sovietica insieme ad altre navi. il 9 febbraio 1949 lasciò il porto di Taranto alla volta di Augusta dove il 12 febbraio passò formalmente in disarmo, ammainando le bandiere della Marina Militare e issando quella della Marina Mercantile in attesa della consegna. Quest’ultimo rappresenta un fatto simbolico ma di estrema importanza morale: in forza di un trattato di pace, l’Italia paga i suoi debiti di guerra con navi “mercantili”, ma non ammaina la bandiera di guerra di navi militari che non si sono arrese al nemico. La CRISTOFORO COLOMBO salpò da Augusta alla volta di Odessa al comando del Capitano di Fregata Serafino Rittore, ufficiale superiore della Regia Marina Militare al quale è stato affidato l’incarico speciale di trasferire l’unità al porto di consegna in Unione Sovietica insieme ad altre unità del secondo gruppo. La CRISTOFORO COLOMBO batte ora bandiera mercantile e il comando è affidato a un ufficiale della Regia Marina ora formalmente in abiti da marittimo civile. Il CRISTOFORO COLOMBO raggiunge la sua destinazione il 2 marzo e ormeggia nella stessa banchina dove già si trovavano l’incrociatore “Duca d’Aosta” e la torpediniera “Fortunale”. All’arrivo in Unione Sovietica al comando dell’unità venne destinato il Capitano di Corvetta Nikolaj Korzun. Il pomeriggio successivo con la consegna formale ai sovietici il tricolore venne ammainato per l’ultima volta.
Fine ingloriosa
IL COLOMBO AD ODESSA
Ribattezzata con il nome Dunaj (Danubio in russo), la nave dopo essere stata consegnata all’Unione Sovietica venne posta ai lavori nel cantiere di Odessa ed i sovietici, allo scopo di cancellare il ricordo dell’italianità della nave, ridipinsero lo scafo di colore grigiastro al posto della colorazione bianca e nera che riportava ai ponti delle batterie dei cannoni tipica dei vascelli da guerra della fine del settecento. Nella Marina Sovietica, la nave, assegnata alla 78ª Brigata di addestramento, venne utilizzata saltuariamente come nave scuola ad Odessa nelle acque del Mar Nero fino al 1959, quando passò alle dipendenze della Scuola Superiore del Ministero della Marina di Leningrado che nel 1960 la destinò all’Istituto Nautico di Odessa. Nel 1961 avrebbe dovuto essere sottoposta ad importanti lavori di manutenzione, che mai furono iniziati; nel frattempo venne disalberata ed adibita a nave trasporto di legname, finché nel 1963 bruciò insieme al suo carico nelle acque sovietiche e poiché venne ritenuto economicamente sconveniente un suo recupero, venne radiata dall’albo delle navi nello stesso anno, restando abbandonata e semidistrutta per altri otto anni fino al 1971, anno nel quale fu definitivamente demolita.
BIBLIOGRAFIA:
NAVI E MARINAI - VOL.III - COGED
STORIA DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE di Erminio BAGNASCO - ENRICO CERNUSCHI
STORIA DELLA MARINA ITALIANA Nella Seconda Guerra Mondiale di WALTER GHETTI - DVE
STORIA DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE - Rizzoli
LA NAVE SCUOLA - AMERIGO VESPUCCI di Carlo GATTI
ha compiuto 80 anni ed é ancora la nave più bella del mondo
Carlo GATTI
Rapallo, 6 Maggio 2020
LA SAGA DEI FLORIO
LA SAGA DEI FLORIO
“C’era una volta il SUD…” - Non é un film di Sergio Leone! Quella dei FLORIO é una storia vera, tutta italiana e siciliana in particolare, che é degna di essere raccontata alle nuove generazioni che ormai conoscono il Meridione soltanto attraverso la lente della propaganda che i media “regalano” quotidianamente alla mafia e al malaffare.
La storia dei Florio, la più prestigiosa famiglia siciliana del secondo Ottocento e dei primissimi anni del Novecento, ci racconta di collegamenti con i più alti vertici della finanza e dell’industria internazionale e rapporti con regnanti di tutta Europa. Oggi il loro nome in Italia e all’estero è ricordato soltanto da una marca di liquori: il Marsala e da una corsa automobilistica su strada, la Targa Florio, tra le più antiche d’Europa. Ma per l’immaginario collettivo siciliano e meridionale in genere i Florio da tempo sono entrati nella leggenda e nel mito; essi rappresentano gli uomini simbolo delle capacità imprenditoriali quando anche al Sud fiorivano iniziative industriali vincenti.
A quel tempo il nome Florio equivaleva, nel campo della navigazione mercantile, a quello degli Agnelli in quello automobilistico dei decenni successivi, o di Berlusconi nel settore televisivo ai giorni nostri.
Il brand FLORIO era noto in Italia e all’estero, perché i loro cento piroscafi solcavano tutti i mari del mondo e i loro prodotti (vini e tonno in scatola) e molto altro conquistavano i mercati italiani e stranieri.
Ignazio e Paolo Florio iniziano la loro avventura a Bagnara, un paesino della Calabria dove l’unica ricchezza è il mare. Hanno in società con il cognato una barca con la quale fanno il “traffico”, ma dopo l’ennesimo terremoto che distrugge la loro casa decidono di trasferirsi a Palermo, che è già una delle capitali del Mediterraneo.
All’inizio nessuno gli dà credito: sono solo “bagnaroti”, un marchio che gli rimarrà impresso per sempre. Ma i Florio hanno qualcosa in più degli altri, sembrano anticipare le mosse, precorrere i tempi, arrivano per primi, sbaragliano la concorrenza e ci riescono anche quando gli equilibri politici ed economici cambiano durante le sanguinose rivolte libertarie o le repressioni dei Borboni.
Con l’Unità d’Italia il loro avvocato è un tale Giolitti che gli assicurerà prosperità anche dopo l’avvento piemontese. Non gli viene negato nulla, neppure la nobiltà a lungo inseguita per la quale Vincenzo Florio è disposto persino a rinunciare all’amore. Ma loro sono gente autentica; spietati, è vero, ma sanno anche cedere ai sentimenti, così anche l’amore trionferà.
I generazione - Paolo Florio (1772-1807) lasciò Bagnara Calabra a causa del terremoto che colpì la parte della Calabria più vicina allo Stretto di Messina e si trasferì a Palermo.
Il capostipite dimostrò di possedere la vena dell’imprenditore aprendo un negozio di spezie provenienti dalle colonie, tra cui il chinino che serviva a curare la malaria. Quella attività divenne in breve tempo un centro commerciale di primo ordine. Quando morì nel 1807, il fratello Ignazio, dotato anch’egli di grandi capacità imprenditoriali, migliorò l’attività di famiglia decidendo di espandere i propri orizzonti acquistando due tonnare. Prese sotto le proprie ali il nipote Vincenzo, figlio di Paolo, lo fece studiare in Inghilterra ed ebbe l’intuito di avviarlo in quel “mondo particolare” nel quale tutti i Florio dimostreranno il loro valore.
Vincenzo Florio (Bagnara 1799-1868), alla morte dello zio Ignazio, aveva 29 anni e prese in mano il timone dell’azienda di famiglia.
II generazione – Vincenzo Florio approdò a Palermo quando aveva pochi mesi e, crescendo in quell’ambiente famigliare particolarmente ricco di idee, riuscì piano piano a metterne in pratica una buona parte.
La tonnara di Favignana
Nel 1833 intraprese la produzione del celebre vino MARSALA, quella del tabacco e del cotone. Vincenzo acquisì tra le altre tonnare dello zio, anche quella dell’Arenella.
L’unica pecca di Vincenzo fu quella di non intuire le grandi potenzialità economiche che poteva trarre dalle tonnare. Infatti nel 1841 egli prese in affitto dai genovesi Pallavicino la tonnara di Favignana con un contratto di 18 anni. Nonostante l’attività producesse ottimi profitti, nel 1859 Vincenzo rescisse il contratto, facendo subentrare il genovese Giulio Drago nell’affitto di quella tonnara isolana a cui si deve la realizzazione del primo nucleo dello Stabilimento Florio ed importanti innovazioni nel settore della lavorazione del tonno.
C’é da dire che Vincenzo Florio, proprio nel 1841, era impegnato in altre iniziative molto più importanti: come la nascita del Cantiere Navale di Palermo che avrebbe segnato una svolta nella storia industriale della città modificandone la fisionomia e la vita sociale. Fondò a Palermo una fabbrica di macchinari a vapore, l'unica dell'isola e successivamente la fonderia ORETEA, moderna industria metallurgica complementare alle esigenze dell'attività armatoriale. Nella Sicilia preunitaria. Vincenzo Florio fondò in quel periodo anche la Compagnia di navigazione "Società battelli a vapore siciliani" che assicurava il collegamento tra Napoli, Palermo e Marsiglia e, naturalmente, tra i diversi porti della Sicilia.
Dopo l'unità d'Italia costituì la "Società Piroscafi Postali" stabilendo una convenzione con il governo.
I collegamenti locali navali si espansero fino a collegare l’America.
Oltreoceano, col supporto d’imprenditori inglesi, fondò la Anglo Sicilian Sulphur Company.
Nel 1868 fu nominato senatore del regno d’Italia. Morì in quello stesso anno lasciando un enorme patrimonio al figlio Ignazio, passato alla storia come Senior, per non confonderlo con l’altro Ignazio che gli successe dopo.
Ignazio Florio Senior
III generazione – Nel 1868 muore Vincenzo e gli succede il figlio Ignazio Senior (Palermo 1838 – 1891) il quale proseguì nel solco tracciato dal padre espandendo e potenziando ancora il giro d’affari di famiglia. Nel 1874 acquistò le isole di Favignana e Formica sperimentando la produzione e vendita di tonno conservato sott’olio e non più sotto sale. Fu un successo enorme!
Sotto la sua guida la Società “FLOTTE RIUNITE FLORIO” divenne la prima Compagnia di Navigazione Italiana.
Ignazio Senior diventò Senatore del Regno d’Italia come il padre Vincenzo.
Ignazio Florio Junior
IV generazione - Quando Ignazio Senior morì nel 1891, lasciò tre figli. Ignazio Junior, il più grande che si assunse l’onere della gestione del patrimonio familiare e lo fece con grande saggezza. Purtroppo il clima storico e politico in cui si trovò ad operare Ignazio junior non era più favorevole come prima, infatti gli affari dei Florio risentirono della situazione politico-sociale della Sicilia all’alba dell’Unità d’Italia e nei primi del ‘900. Ciononostante, Ignazio intraprese alcune nuove attività come la costruzione dei Cantieri Navali a Palermo (ancora oggi esistenti), acquisì miniere di zolfo di Caltanissetta e fece costruire per i malati di tubercolosi la splendida Villa Egea, che porta il nome della figlia, struttura che poi fu trasformata in albergo di lusso tuttora in auge. Uno dei successi maggiori Ignazio junior lo ebbe nella vita privata, sposando l’affascinate e carismatica donna Franca Notarbartolo di S. Giuliano. Bellissima e colta, Franca seppe creare intorno a sé un salotto internazionale di mondanità, raffinatezza e cultura, che divenne il cuore pulsante della società palermitana più “IN”. Ignazio e donna Franca erano famosi per il lusso, per i ricevimenti fatti in onore di personaggi illustri come Gabriele D’Annunzio, il tenore Caruso, lo Zar di Russia, il re d’Italia. L’Imperatore tedesco Guglielmo II fu ospite varie volte dei Florio.
Oltre ad ingrandire i cantieri navali ed i bacini di carenaggio, diede vita al quotidiano L’Ora, il cui primo numero uscì il 22 aprile 1900.
Nel 1906 il Cantiere Navale di Palermo, insieme ai cantieri di Ancona e Muggiano, legati nella loro attività alla società Navigazione Generale Italiana, confluì nella società Cantieri Navali Riuniti, con sede a Genova e successivamente trasformata in Società per Azioni, il 20% delle quali era controllato dalla Terni, a sua volta controllate dalla Banca Commerciale Italiana. Nel 1913 il Cantiere del Muggiano viene rilevato dall'adiacente Cantiere FGIAT-San Giorgio che era stato impiantato nel 1905, uscendo dalla società Cantieri Navali Riuniti.
Nel 1906 entra in scena anche Vincenzo, fratello d’Ignazio Junior rivelandosi un eccellente uomo d’affari, ma anche sportivo ed organizzatore di eventi celebri come la corsa automobilistica denominata “TARGA FLORIO”.
A lui si devono anche il “Giro Aereo di Sicilia” e il “Corso dei Fiori”.
I Florio furono, tra la fine dell’Ottocento e l'inizio del Novecento tra le famiglie più ricche d’Italia. La famiglia disponeva di una flotta di novantanove navi ed un impero che spaziava dalla chimica al vino, dal turismo all'industria del tonno.
Grazie ai Florio, i rapporti tra le due città di mare GENOVA e PALERMO sono sempre stati costanti e duraturi, felici e produttivi. Il padre del giovane Florio, il senatore Ignazio Florio, figlio di Vincenzo aveva costituito la SOCIETA’ NAVIGAZIONE GENERALE ITALIANA, nata dalla fusione dalle FLOTTE FLORIO E RUBATTINO, che aveva costituito la Società Esercizio Bacini, per la gestione di due bacini di carenaggio in costruzione a Genova.
DONNA FRANCA FLORIO
La Regina senza corona
Fotografia di Franca Florio a venti anni
Franca Florio a circa 30 anni:
Grazie alla sua passione automobilistica, Franca aveva dato vita alla rinomata TARGA FLORIO dando il via alla prima gara automobilistica in Sicilia. Una corsa che si sviluppava intorno al circuito delle Madonie con la partecipazione dei più famosi piloti del mondo.
Due fotografie per giornali europei di Franca Florio in cui viene descritta come “the best looking woman of Italy”:
Nota come la 'Regina di Sicilia' e discendente da una delle più nobili famiglie dell'aristocrazia siciliana, donna Franca era infatti l'indiscussa animatrice degli appuntamenti del bel mondo palermitano. Colta, intelligente, la dama parlava fluentemente quattro lingue e la sua eleganza sembra abbia sedotto centinaia di uomini, tra cui Gabriele d'Annunzio e Guglielmo II di Germania, per i quali era rispettivamente l'"Unica" e la "Stella d'Italia". Donna Franca era anche abile imprenditrice che aiutava il marito Ignazio negli affari di famiglia.
'Ritratto di Donna Franca Florio' realizzato da Giovanni Boldini
Per immortalare la bellezza e la grazia della moglie, nel 1901 Ignazio Florio commissionò al pittore ferrarese Giovanni Boldini un dipinto che ne rappresentasse degnamente l’eleganza.
Apriamo ora un breve capitolo di approfondimento dell’aspetto ARMATORIALE DEI FLORIO
Flotte Riunite Florio
Come abbiamo già accennato, Le Flotte Riunite Florio furono una Compagnia di Navigazione di Palermo, nata nel 1840 come Società dei battelli a vapore, ad opera dell'imprenditore Vincenzo FLORIO. Fu incorporata nel 1936 dallo Stato nella TIRRENIA DI NAVIGAZIONE.
Sotto il Regno delle Due Sicilie
La Società dei battelli a vapore siciliani nacque nel luglio 1840 per iniziativa di Vincenzo Florio, di Beniamino Ingham, di Gabriele Chiaramonte Bordonaro, che già possedevano battelli a vela, e di un gruppo di più di 120 soci minori.
Nel 1847, Vincenzo Florio fece venire a Palermo dalla Francia il piroscafo "Indépendent", in piena rivoluzione, sotto bandiera francese per essere al riparo dalle navi borboniche. Era nata l'Impresa Ignazio e Vincenzo Florio per la navigazione a vapore. Alla nave fu dato il nome di "Diligente" iniziando regolari viaggi intorno alla Sicilia.
Il Corriere siciliano di Vincenzo Florio (1852), 247 t
Nel 1851 fu ordinato ai cantieri Thompson di Glasgow il "Corriere siciliano", dalla potenza di 250 cv, capace di trasportare un centinaio di passeggeri tra prima e seconda classe. Destinato ad alcune linee mediterranee, arrivava sino a Marsiglia. Poi arrivò un terzo vapore, l'"Etna", di 326 tonnellate di stazza, sempre da Glasgow. Gli fu affidata la concessione del servizio postale tra Napoli e la Sicilia. Un nuovo bastimento, l'"Elettrico", raggiungeva l'eccezionale velocità, per quei tempi, di 13 nodi.
Quando Garibaldi sbarcò la Sicilia, il governo borbonico aveva requisito per il trasporto delle truppe quattro piroscafi della compagnia su cinque, ed uno era affondato al largo di Gaeta.
Dopo l'Unità d'Italia
L'Elettrico di Vincenzo Florio, 344 tonnellate (1859)
Nonostante queste perdite, grazie alle altre attività di famiglia, Vincenzo Florio fu in grado di riorganizzare la compagnia di navigazione: abbandonò la struttura familiare e la ricostituì in forma di Società in accomandita per azioni con un capitale di quattro milioni di lire. Così il 25 agosto 1861, venne costituita la Società in accomandita Piroscafi postali di Ignazio e Vincenzo Florio, con sede a Palermo.
Nel 1862 la Florio fu una delle quattro Compagnie che ottennero sovvenzioni dal governo italiano per il servizio postale: le linee esercite dalla Florio erano: la Palermo-Napoli e il cabotaggio intorno alla Sicilia con puntate verso gli arcipelaghi siciliani, Malta e Tunisi. Nel 1863 erano dodici le unità che componevano la flotta e la compagnia, ottimamente diretta, guadagnò ancora in forza economica e prestigio. Fu acquisita la Compagnia di navigazione a vapore La Trinacria, sorta a Palermo nel 1869 e fallita nel 1876 in conseguenza della crisi economica del 1873.
La convenzione postale del 1877 permise un'ulteriore espansione della Florio, che ormai era una delle uniche due grandi Compagnie di navigazione italiane: l'altra era la RUBATTINO. In tale occasione la società palermitana ottenne il cabotaggio del canale d’Otranto e dello Jonio, con i traghetti Ancona-Zara-Brindisi-Corfù, ma soprattutto ebbe le linee per Salonicco, Smirne, Costantinopoli, e Odessa. Fuori dalla convenzione, nel 1877 Florio inaugurò anche la linea per NEW YORK, che due anni dopo divenne Marsiglia-Palermo-New York.
La fusione con Rubattino
Il 4 settembre 1881 vedeva la luce la NAVIGAZIONE GENERALE ITALIANA N.G.I. (Società Riunite Florio e Rubattino). Ignazio Florio e Raffaele Rubattino conferirono le rispettive imprese ricevendo ciascuno il 40% delle azioni mentre il CREDITO MOBILIARE sottoscrisse il restante 20% del capitale. La sede fu fissata a Roma, mentre Genova e Palermo erano i compartimenti operativi. Coi suoi 83 piroscafi (subito passati ad oltre 100).
La Navigazione generale italiana (N.G.I.) si presentava come il più grande complesso armatoriale mai sorto in Italia.
Pochi anni dopo alcuni armatori genovesi presentarono però offerte più convenienti di quelle della Navigazione Generale per l'assunzione dei servizi convenzionati dallo Stato, mentre la compagnia, non era in grado di acquisire una nuova, grande flotta che sostituisse gli oltre cento bastimenti posseduti e iniziò la crisi. Fallita la N.G.I.
Si apre così l’ultimo capitolo…
Il Novecento, tuttavia, non fu prospero per i Florio. La prima guerra mondiale causò ingenti danni a molte delle attività, in particolare industriali e bancarie, della famiglia. Inoltre, né Ignazio né Vincenzo ebbero eredi maschi che potessero occuparsi direttamente del patrimonio. La prestigiosa famiglia fu costretta, dunque, a iniziare a vendere i propri averi e si ridusse in miseria, seppur mantenendo fama e orgoglio.
Nel 1989 si è spenta Giulia Florio, ultima erede della nota stirpe. Con la sua morte, si è conclusa quella dinastia che per quasi un secolo e mezzo ha regalato a Palermo e a tutta la Sicilia grandi fortune.
Echi dei grandi Armamenti FLORIO ci arrivano ancora…
Nel 1925 Ignazio Florio Jr fondò la Società di Navigazione Flotte Riunite Florio, che si fuse nel 1932 con la Compagnia Italiana Transatlantici per creare la:
Tirrenia - Flotte Riunite Florio - CITRA, poi salvata da FINMARE nel 1936 e nella TIRRENIA DI NAVIGAZIONE.
SOPRAVVIVONO I NOMI SUI TRAGHETTI NAZIONALI
VINCENZO FLORIO – RAFFAELE RUBATTINO
nella Soc. TIRRENIA DEL NUOVO MILLENNIO
La classe Vincenzo Florio è composta da due navi traghetto di tipo cruise ferry in servizio per TIRRENIA CIN. La Vincenzo Florio e la Raffaele Rubattino vennero costruite alla fine degli anni '90 nel Cantiere Navale Ferrari di Spezia, ma dopo il fallimento del costruttore, i traghetti vennero terminati in luoghi differenti. La 'Vincenzo Florio' fu ultimata nel Cantiere Navale I.N.M.A. a Spezia, mentre la “Raffaele Rubattino” presso i Nuovi Cantieri Apuania di Marina di Carrara. Le due unità entrarono in servizio nel 1999 e nel 2000 sulla rotta Napoli-Palermo.
VINCENZO FLORIO
RAFFAELE RUBATTINO
Le due navi gemelle hanno le seguenti caratteristiche: RO-PAX – Velocità: 22 nodi. Lunghezza180 mt, Larghezza: 26 mt, Stazza lorda: 31.041. Capacità passeggeri: 1471 passeggeri. Auto: 630
I LIBRI
Per i lettori appassionati dell’argomento, segnalo il LINK di Mare Nostrum Rapallo in cui compaiono i FLORIO in un contesto storico più generale:
LE NAVI PASSEGGERI DI LINEA ITALIANE
DAL 1900 AL 1970 - Visite: 181.650 – Lo studio fu firmato da Carlo Gatti il 20.02.12
Carlo GATTI
Rapallo, 14 Aprile 2020
NAVI MILITARI-SANTA MARGHERITA LIGURE
NAVI MILITARI
SANTA MARGHERITA LIGURE
Avevamo già scritto: Da più di un secolo, la presenza di navi militari nelle acque del Tigullio – è un elemento costante dell’orizzonte marittimo della nostra riviera, da sempre legata al mare nei suoi molteplici aspetti, a partire per l’appunto dalle unità navali e mercantili, da quelle da pesca o da diporto, di Rapallo ce ne siamo già più volte ampiamente perché nel tempo ha ospitato numerosissime navi da guerra appartenenti alle Marine delle nazioni più disparate, a testimonianza non soltanto di un fascino più propriamente turistico, ma anche della conoscenza e della valenza internazionale di una città nota e apprezzata in Italia e all’estero sin dalla fine del secolo XIX. Al tempo stesso, tra il 1890 e i primi anni Cinquanta del secolo XX, veniva pubblicato a Rapallo un periodico settimanale indipendente, il cui titolo – “Il Mare” – ben rappresentava l’intimo legame tra la città, il Mar Ligure e tutto il Mediterraneo. Preciso e puntuale nel citare e commentare gli eventi che vedevano coinvolti Rapallo e i suoi abitanti, “Il Mare” non mancò mai di riportare la presenza di unità militari nelle acque del Tigullio, segnalandone con buon anticipo l’arrivo e informando i lettori sugli incontri di ufficiali ed equipaggi con la popolazione e le autorità locali.
Oggi ci occupiamo delle navi italiane che sono state ospiti di Santa Margherita Ligure il cui fondale ha permesso l’ormeggio di navi importanti prima, durante e dopo le due guerre mondiale.
CAPITANERIA DI PORTO - SANTA MARGHERITA LIGURE
Ufficio Circondariale Marittimo
Il Corpo delle Capitanerie di porto nasce ufficialmente con un Regio Decreto del 20 luglio 1865. La Guardia Costiera, così come noi la intendiamo, tuttavia, appartiene a un’epoca più recente. Un embrione lo possiamo ritrovare già nel 1877 quando venne promulgato il Codice della Marina Mercantile che all’art. 122 affidava il soccorso in mare ai Comandanti di porto.
Sarà solo con un Decreto interministeriale dell’8 giugno 1989 che verrà attribuita ufficialmente la denominazione di “Guardia Costiera” ai reparti tecnico-operativi del Corpo, attribuzione alla quale negli anni successivi farà seguito l’adozione della tradizionale livrea bianca e del logo, ormai noto, raffigurante una fascia tricolore – in omaggio alla bandiera italiana – con un’estensione maggiore della banda rossa per poter accogliere al centro un’àncora nera su campo circolare bianco.
Con la Legge n°147 del 03 aprile 1989 l’Italia ratifica la Convenzione di Amburgo del 1979 sul soccorso marittimo che, trovando attuazione in un Regolamento emanato con il D.P.R. n°662 del 1994, individua nell’attuale Ministero delle infrastrutture e dei trasporti l’Autorità nazionale responsabile dell’esecuzione della Convenzione, affidando al Comando Generale del Corpo delle Capitanerie di porto – Guardia Costiera la responsabilità e il coordinamento dei servizi di ricerca e salvataggio in mare nell’ambito dell’intera regione di interesse, che si estende ben oltre i confini delle acque territoriali, per un’area ampia circa 500 mila km².
COMANDI TERRITORIALI - GUARDIA COSTIERA - RIVIERA DI LEVANTE
GENOVA - Direzione Marittima
Il litorale del territorio italiano è ripartito in 15 Direzioni Marittime (zone) e 54 capitanerie di porto (compartimenti).
· LIGURIA (4 Direzioni Marittime)
· Genova (GE)
· Imperia (IM)
· La Spezia (SP)
· Savona (SV)
SANTA MARGHERITA LIGURE - Ufficio circondariale Marittimo
Circondario marittimo. ... Il Circondario marittimo è retto da un Capo del circondario che è un ufficiale superiore di porto facente parte del corpo delle capitanerie di porto e l'ufficio dove risiede si chiama ufficio circondariale marittimo.
Camogli ………. Ufficio Locale Marittimo (dipende da Compamare Genova)
Chiavari ………. Ufficio Locale Marittimo (dipende da Circomare Santa Margherita Ligure)
Lavagna…………. Ufficio Locale Marittimo (dipende da Circomare Santa Margherita)
Rapallo…………… Ufficio Locale Marittimo (dipende da Circomare Santa Margherita Ligure)
Portofino………….Ufficio Locale Marittimo (dipende da Circomare Santa Margherita Ligure)
Sestri Levante….Ufficio Locale Marittimo (dipende da Circomare Santa Margherita Ligure)
Ufficio locale marittimo. Gli uffici locali marittimi (LOCAMARE) sono uffici locali minori degli organi periferici dell'amministrazione della marina mercantile italiana. Il capo dell'Ufficio locale marittimo ha carica e titolo di comandante del porto o dell'approdo in cui ha sede.
Parlando del golfo Tigullio, non é un caso che Santa Margherita Ligure sia sede di Capitaneria di porto, mentre Rapallo, insieme alle città citate sopra siano sede di “Circomare”. Lo scopriremo da soli cammin facendo...
CASTELFIDARDO (pirofregata corazzata)
Progettata e costruita nei cantieri francesi di Saint Nazaire dietro ordinazione della Regia Marina, la nave, impostata nel 1862, venne varata nel 1863 e completata un anno dopo. Appartenente ad una classe di quattro unità, la Castelfidardo era una pirofregata a corazza completa (che si estendeva due metri al disopra della linea di galleggiamento, sino al ponte di coperta, ed un metro e mezzo al disotto di essa) e ridotta centrale, munita, oltre che di un poderoso armamento di 26 cannoni da 164 e 200 mm, di un massiccio sperone di tre metri di lunghezza. Alla prova dei fatti le navi della classe Regina Maria Pia si rivelarono delle buone unità, le uniche, nella Regia Marina, in grado di misurarsi con le corazzate austroungariche.
Unità più longeva della sua classe, la Castelfidardo negli ultimi anni venne usata come nave scuola torpedinieri. Radiata il 4 dicembre 1910, dopo oltre 46 anni e mezzo di servizio, venne avviata alla demolizione.
1900 – Corazzata SICILIA in rada
Nave Sicilia è stata una nave da battaglia policalibro della Regia Marina italiana della classe Re Umberto. Come per le altre unità della classe, il lungo periodo di costruzione l'ha resa superata al momento dell'entrata in servizio. La nave, della quale inizialmente erano state finanziate solo due unità, andò a risentire dei lunghissimi tempi di allestimento, dieci anni, che la fecero entrare in servizio parzialmente obsoleta.
L'armamento principale, che aveva largo campo di tiro, era costituito da quattro cannoni da 343/30 in due impianti montati in barbetta e situati a circa 10 metri dal galleggiamento e sparava proiettili da 567 kg in grado di perforare 870 mm di ferro dolce. Una caratteristica condivisa con la classe erano i fumaioli anteriori affiancati, invece che uno dietro l'altro.
La sua costruzione avvenne presso l’Arsenale di Venezia dove la sua chiglia venne impostata il 2 dicembre 1886 e varata il 6 luglio 1891 alla presenza di re Umberto e della Regina Margherita.
L'anello rituale realizzato per il varo della nave esposto a Palazzo Marina a Roma
La nave ebbe come madrina del varo la regina Margherita che, dopo la benedizione, appose un anello consacrato sulla poppa della nave secondo la tradizione veneziana dello Sposalizio del mare. L'anello, insieme alla bandiera di guerra e al cofano portabandiera sono oggi conservati a Palazzo Marina a Roma.
Dopo l'entrata in servizio la nave il 15 febbraio 1897, la nave, con l’insegna del viceammiraglio Felice Napoleone Canevaro al comando della 1ª Divisione della 1ª Squadra, che includeva anche le gemelle Sardegna e Re Umberto, l’incrociatore protetto Vesuvio e l’incrociatore torpediniere Euridice, giunse a Creta, durante un periodo di tensione tra la Grecia e l’Impero ottomano in seguito alla rivolta scoppiata nell’isola, che culminò nella guerra greco-turca.
il cofano in cui è conservata la bandiera di guerra a Palazzo Marina a Roma
Al ritorno della spedizione, nel 1899 la nave venne assegnata alla 2ª Divisione, che includeva anche l’ariete corazzato Affondatore la pirofregata corazzata Castelfidardo e gli incrociatori torpedinieri Partenope e Urania.
Nell'ottobre 1911 la nave, all'epoca inquadrata nella Divisione Navi Scuola, prese parte alla guerra italo-turca quale nave insegna del contrammiraglio Raffaele Borea Ricci D’olmo insieme alle gemelle della classe Re Umberto, Sardegna e Re Umberto appoggiando le operazioni di sbarco a Tripoli. Nel dicembre 1911, le tre navi furono sostituite dalle vecchie corazzate Italia e Lepanto. le navi della classe Re Umberto fecero ritorno nelle acque della Libia nel maggio del 1912 prendendo parte a tutto il ciclo di operazioni lungo le coste libiche fino alla resa degli ottomani nell'ottobre 1912.
Il 9 luglio 1914 la nave venne posta in disarmo, ma con lo scoppio della Prima guerra mondiale, venne deciso il suo mantenimento in servizio fino al termine del conflitto e così il 16 agosto 1914 la nave fece il suo rientro in servizio ed utilizzata a Taranto come nave deposito e come nave caserma per la nuova corazzata Giulio Cesare che stava completando il suo allestimento. Inizialmente l’Italia, che faceva parte della Triplice Alleanza, aveva dichiarato la sua neutralità, per poi entrare in guerra nel maggio 1915 a fianco dell’Intesa, contro gli Imperi centrali. Nel corso del conflitto la nave venne poi utilizzata a Taranto come deposito munizioni, successivamente come pontone ed infine come nave officina, prima di essere radiata il 4 marzo 1923 e successivamente demolita.
1917 – Tre sommergibili della classe H
nel Porto di Santa Margherita Ligure
Inprepido-Impavido-Cattaro
Incrociatore ANCONA (ex GAUDENZ) dopo la trasformazione del 1929
Palmaria
Visite a bordo...
Quattro dragamine ormeggiate ...
Con la fine del conflitto, la mutata situazione strategica internazionale fece del Mediterraneo un crocevia dei movimenti navali delle flotte dell’Alleanza Atlantica e, già a marzo del 1947, erano presenti nel Tigullio due unità inglesi, la portaerei Ocean e il cacciatorpediniere Raider, facenti parte di un gruppo operativo al comando dell’amm. Sir Cecil Harcourt.
A partire da questi anni - e clntinuando sino al termine della "guerra fredda" nei primi anni Novanta - la presenza navale più consistente e significativa nel "Mare Nostrum" sarebbe però stata quella delle unità della Sesta Flotta della Marina degli Stati Uniti.
Dalle origini...
allo scoppio della I Guerra Mondiale
L'idea di realizzare un veicolo in grado di muoversi negli abissi marini é antichissima: si hanno notizie di progetti risalenti ai tempi degli Antichi Greci e di Alessandro Magno. Il primo attacco bellico di un mezzo subacqueo documentabile é avvenuto
nel 1776 durante la Guerra di Indipendenza Americana, compiuto da un battellino chiamato American Turtle.
Era solo l'inizio: trascorsero molti anni prima che venisse realizzato un mezzo subacqeotale da poter fornire adeguate prestazioni belliche
I primi sommergibili italiani e la preparazione alla Grande Guerra
In Italia i progetti dei primi sommergibili per la Regia Marina vennero affidati al Maggiore del Genio Navale Cesare Laurenti.
Questi giudico’ importanti le caratteristiche di velocitá, autonomia e qualitá nautiche, mentre ritenne trascurabile l'elevata quota operativa. Reputava sufficiente che l'unitá potesse scomparire dalla superficie del mare e fosse in grado di raggiungere la quota necessaria per non essere speronata da altre navi. Per questo giudico’ non necessario lo scafo resistente a sezioni circolari.
Divenuto affidabile il motore Diesel molto piú del motore a benzina nel 1910 venne impostata la classe Medusa.
Fra inizio secolo e I Guerra Mondiale oltre al Laurenti si misero in luce anche altri due ufficiali del Genio Navale: il Maggiore Bernardis e il Capitano Cavallini.
Progettarono rispettivamente i due sommergibili classe Nautilus e i due della classe Pullino.
Allo scoppio della I Guerra Mondiale era da poco terminata la guerra italo-turca, che era stata per la Regia Marina un' eccellente occasione di addestramento.
L'Italia disponeva perció di equipaggi dotati di elevata capacitá professionale ma con una flotta notevolmente logorata. Inoltre, solo alla vigilia della guerra, l' Italia si era staccata dalla Triplice Alleanza e si era alleata con le potenze dell' Intesa.
Questo creó gravissimi problemi alla Regia Marina che, per molti anni, si era preparata a una guerra contro Francia e Gran Bretagna.
Considerando alleate l'Austria e la Germania, per esempio, tutto il litorale adriatico era rimasto privo di fortificazioni difensive.
OSTRO cacciatorpediniere seconda guerra mondiale in rada a Santa Margherita
Nell'estate 1939 il cacciatorpediniere prese parte alle operazioni per l’occupazione dell’Albania. Nel corso dello stesso anno l'Ostro fu dislocato a Taranto. Oltre che in Albania, poco prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale l'unità operò anche in Africa settentrionale.
Alla data dell'ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, il 10 giugno 1940, l'Ostro aveva base a Taranto ed apparteneva alla II Squadriglia Cacciatorpediniere, di cui facevano parte i gemelli Espero, Borea e Zeffiro.
L'Ostro al traverso.
Nella serata del 27 giugno 1940, alle 22.45, l'Ostro (Capitano di corvetta Luigi Monterisi) partì da Taranto per la sua prima missione di guerra, ovvero il trasporto a Bengasi (secondo altre fonti a Tobruk, o a Tripoli, unitamente all’Espero (Capitano di Vascello Enrico Baroni, caposquadriglia) ed allo Zeffiro (Capitano di Corvetta Giovanni Dessy), di due batterie contraeree (o anticarro) della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale per un totale di 10 bocche da fuoco, 120 tonnellate di munizioni ed i relativi serventi, 162 camicie nere.
Intorno a mezzogiorno del 28 giugno le tre unità della II Squadriglia, che procedevano in linea di fila (Espero in testa, Zeffiro al centro ed Ostro in coda) furono avvistate una cinquantina di miglia ad ovest di Zante da due ricognitori Short Sunderland: ad intercettare il convoglio venne inviato il 7th Cruiser Squadron della Royal Navy, costituito dagli incrociatori leggeri Sydney, australiano, ed Orion, Liverpool, Neptune, e Gloucester, britannici, che avvistarono la formazione italiana intorno alle 18 (o alle 18.30) a sud di Malta ed un centinaio di miglia a nord di Tobruk, nonché 75 miglia ad ovest/sudovest da Capo Matapam. Alle 18.59 gli incrociatori britannici, non ancora notati dalle unità italiane, aprirono il fuoco da distanza compresa tra i 16.000 ed i 18.000 metri. La velocità superiore che in teoria i tre cacciatorpediniere italiani avrebbero dovuto avere era annullata dall'appesantimento rappresentato dal carico imbarcato. Il capitano di vascello Baroni, caposquadriglia, prese dunque la decisione di sacrificare la propria nave, l’Espero, nel tentativo di trattenere gli incrociatori inglesi, ordinando al contempo ad Ostro e Zeffiro di dirigere per Bengasi alla massima velocità, disimpegnandosi verso sudovest mentre l’Espero li avrebbe coperti con cortine fumogene: entrambi i cacciatorpediniere scamparono così alla distruzione e giunsero in porto indenni il giorno seguente, mentre l'Espero fu affondato dopo un impari combattimento.
Dopo aver raggiunto Bengasi, l'Ostro e lo Zeffiro proseguirono alla volta di Tobruk, dove giunsero il 1º luglio, ormeggiandosi quindi in rada. I due cacciatorpediniere avrebbero dovuto rinforzare i quattro gemelli della I Squadriglia (Euro, Turbine, Nembo, Aquilone) nelle operazioni di bombardamento delle installazioni militari britanniche nei pressi di Sollum, intese ad indebolire le difese britanniche in tale zona prima dell'offensiva italiana che si sarebbe dovuta tenere di lì a poco.
Il 5 luglio, durante un'incursione di aerosiluranti Fairey Swordfish, vennero affondati lo Zeffiro ed il piroscafo Manzoni e danneggiati gravemente il cacciatorpediniere Euro ed i piroscafi Liguria e Serenitas (l'Ostro, che si trovava ormeggiato nella medesima posizione alla boa C4, non era invece stato attaccato). Essendosi dissolta, con la perdita di Espero e Zeffiro, la II Squadriglia, l'Ostro venne aggregato alla I.
Il 19 luglio 1940 l'Ostro, al comando del capitano doi fregata Giuseppe Zarpellon, si trovava a Tobruk, ormeggiato alla boa C4, sul lato meridionale della baia, a proravia del gemello Aquilone ed a poppavia del gemello Nembo. A bordo del cacciatorpediniere, così come delle altre unità militari, vigevano i servizi di difesa e di sicurezza: le mitragliere da 40/39 e da 13,2 mm erano armate e pronte al fuoco, i locali presidiati e portelleria e porte stagne chiuse. Si trattava delle procedure regolamentari per gli attacchi aerei all'ormeggio. Il personale non necessario a tali servizi era stato trasferito sui piroscafi Sabbia e Liguria.
Alle 21.54 del 19 luglio la base libica fu messa in allarme in seguito all'arrivo di sei aerosiluranti Fairey Swordfish dell'824th Squadron della Fleet Air, Arm decollati da Sidi el Barrani: i velivoli erano stati inviati sulla base con lo specifico scopo di attaccare le navi ormeggiate in rada e giunsero sui cieli di Tobruk alle 22.30. Dopo aver dovuto compiere diversi passaggi sulla rada per evitare il forte tiro contraereo delle difese di terra, per localizzare i bersagli e per prepararsi ad attaccare, gli aerosiluranti passarono all'attacco verso l'1.30 del 20 luglio, mentre anche le navi all'ormeggio aprivano il fuoco con le rispettive armi contraeree. L’incrociatore corazzato San Giorgio aprì il fuoco verso sud con alzo molto ridotto, spostando celermente il tiro verso ovest, e sull'Ostro ci si rese conto che gli aerei attaccanti erano aerosiluranti. La prima nave ad essere silurata, all'1.32, fu il piroscafo Sereno, che affondò lentamente di poppa.
L'Ostro ed il gemello e sezionario Borea alla fonda nelle acque di Bardia, nella primavera del 1940.
Poco dopo l'Ostro avvistò tre aerei, che volavano a bassa quota ed in formazione serrata, provenienti dalla direzione della caserma per sommergibilisti: mentre i velivoli, arrivati sul porto, si separavano, il cacciatorpediniere aprì il fuoco contro di essi con 2 mitragliere da 40 mm ed una da 13,2 mm (quella di dritta, che sparò una cinquantina di colpi), ma all'1.34 uno degli Swordfish mise a segno il suo siluro: l'arma esplose all'altezza del deposito munizioni poppiero, che deflagrò in maniera devastante e provocò lo sbandamento e l'affondamento dell'Ostro in dieci minuti, all'1.44. Numerose schegge infuocate prodotte dalla deflagrazione furono lanciate anche sul Nembo (che si preparò soccorrere l'unità gemella, ma venne poco dopo a sua volta aerosilurato ed affondato) e sull'Aquilone, e il furioso incendio sviluppatosi a poppa dell'Ostro, un'alta fiammata rossastra, proseguì a lungo, illuminando il porto.
Le ricerche dei dispersi, iniziate prima ancora della conclusione dell'attacco, continuarono sino al mattino successivo. Tra l'equipaggio dell'Ostro si registrarono 42 vittime (due morti accertati e 40 dispersi tra cui due ufficiali) e 20 feriti (tra i quali il comandante Zarpellon). Ad evitare perdite ancora più pesanti contribuì il fatto che parte degli equipaggi dei cacciatorpediniere fossero stati alloggiati non a bordo delle rispettive unità, ma sul Sabbia e sul Liguria.
L’Ostro aveva svolto in tutto 8 missioni di guerra (3 di caccia antisommergibile, 3 di scorta e 2 di trasferimento), percorrendo complessivamente 2723 miglia. Le artiglierie dell'Ostro e del Nembo, rimosse dai relitti dei due cacciatorpediniere, vennero portate in postazioni di terra ed utilizzate nella difesa di Bardia.
LA STORIA DEL CATTARO
IL CATTARO AUTOAFFONDATO L’8 SETTEMBRE A SANTA MARGHERITA NON ERA L’ EX DALMACIJA, MA L’INCROCIATORE AUSILIARIO EX JUGOSLAVIJA
https://www.marenostrumrapallo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=293%3Acattaro&catid=36%3Astoria&Itemid=142
Carlo GATTI
Rapallo, 3 Giugno 2020
SCIOPERO !!!
SCIOPERO !!!
GENOVA - I transatlantici VULCANIA (sn) e SATURNIA (ds), con le insegne della Società ITALIA, sono ormeggiati a Ponte dei Mille.
La M/n VULCANIA in navigazione
Committente: Cosulich Line, Trieste.
Cantiere: Cantiere Navale Triestino (Cantieri Riuniti dell’Adriatico) di Monfalcone, Co. 161
Impostato: 30 gennaio 1926.
Varato: 18 dicembre 1926.
Viaggio inaugurale: 19 dicembre 1928.
Data fine: affondata nella baia di Kaohsiung il 20 luglio 1974.
Dati tecnici.
Lunghezza: 192,05 mt.
Larghezza: 24,31 mt.
Immersione: 7,46 mt.
Stazza lorda: 24.469 tsl.
Propulsione: due Diesel 8 cilindri Burmeister & Wain - CRDA (Fabbrica Macchine Sant'Andrea, Trieste); 24000 hp; due eliche.
Velocità di servizio: 19,25 nodi.
Velocità massima alle prove: 21,07 nodi.
Capacità d’imbarco: 1.665 passeggeri in quattro classi.
Prima classe: 370 passeggeri.
Seconda classe: 412 passeggeri.
Classe Turistica: 319 passeggeri.
Terza classe: 564 passeggeri.
Equipaggio: 510 persone.
LA M/N VULCANIA IN VERSIONE MILITARIZZATA/Nave ospedale
Nel 1942-’43, in accordo con le forze alleate iniziò il servizio di rimpatrio di civili internati (specialmente donne e bambini) e di soldati italiani feriti dall’Africa Orientale Italiana, con la protezione della Croce Rossa Internazionale.
Nel 1941 la guerra ormai rese il normale servizio di linea pericoloso ed inaffidabile e il Vulcania così come il Saturnia fu trasformato in modo da sostenere il nuovo servizio di trasporto truppe ed armi. Fu infatti requisito nel 1941 dallo Stato Italiano per svolgere i suoi nuovi servizi verso il nord Africa. Tra il 1942 e il 1943 l’Italia in accordo con gli alleati adibì il Vulcania al rimpatrio di civili e soldati feriti dall’africa orientale, e anch’esso prese parte allo stesso convoglio della nave gemella Saturnia.
I due transatlantici furono molto fortunati in quanto riuscirono entrambi a scampare al bombardamento di Trieste che come già detto affondò numerose navi nel porto. Ma la frenesia della guerra era ancora nel vivo e il Vulcania fu ancora una volta modificato e requisito dalla US Navy nel 1943 che non solo lo utilizzò per il trasporto di soldati tra l’America e l’Europa ma lo equipaggiò anche di armi di difesa antisommergibili e antiaerei. Fu inoltre noleggiato nel 1946 dalla compagnia America Export Line per il trasporto merci sulla rotta New York - Napoli - Alessandria d'Egitto, per poi tornare in mani italiane.
Alla fine del 1946 il Vulcania giunse a Genova dove la Società Italia lo fece ristrutturare totalmente e riallestire per tornare al servizio di trasporto di passeggeri. Il transatlantico riprese la navigazione nel luglio 1947 e dopo alcuni viaggi verso il sud America con partenza da Genova, il Vulcania tornò a prestare servizio sulla linea verso New York. Dopo numerosi viaggi il 5 aprile 1965 il transatlantico intraprese il suo ultimo viaggio sotto il nome di Vulcania in quanto al suo rientro in Italia fu venduto alla compagnia Siosa Grimaldi Line che lo rinominò Caribia. Il nuovo Caribia navigò fino al 1973 quando ormai vecchio e tecnologicamente obsoleto e superato fu radiato. Lo scafo fu trainato a Barcellona il 18 settembre 1973 da dove ebbe inizio il suo ultimo viaggio. Sempre a rimorchio, infatti, la nave fu portata a Kaoshiung, città dell’isola di Taiwan dove fu demolita definitivamente nel 1974.
Una bella fotografia della Vulcania vista dal ponte Lido di Prima classe dell'Andrea Doria nel 1954.
UNA SOSTA IMPREVISTA
Il 16 gennaio 1963 la nave passeggeri “VULCANIA”, a causa della fitta nebbia, incaglia nel Canale della Giudecca a Venezia. Dopo circa 12 ore viene disincagliata da 4 rimorchiatori; non subisce danni, ormeggia e prosegue il viaggio, con molti scali, diretta a New York.
Arriva la “calda” estate del 1963. Lo scrivente é tuttora imbarcato sulla M/n VULCANIA in placida navigazione da Halifax (Canada) verso New York.
Improvvisamente quell’incanto s’interrompe! Via etere giunge a bordo uno “strano” telegramma: GIOVANNI HA PRESO LA LAUREA.
Il destinatario é un garzone di cucina (noto per essere un rappresentante sindacale).
L’implacabile e velocissima “radio-caruggio di bordo” sparge la notizia:
Quel telegramma é il segnale (convenzionale) che prelude alla dichiarazione di sciopero dell’equipaggio durante la sosta della nave a New York.
Cappella di bordo, é in corso la celebrazione della Messa domenicale. Da sinistra in prima fila: Allievo Ufficiale (A) Carlo Gatti, il 1° Ufficiale Claudio Cosulich, il Commissario Governativo, il Comandante Giovanni Peranovich e il Direttore di macchina.
Di quei giorni ricordo ancora l’incredulità e la profonda delusione dei Comandanti in 1a ed in 2a della VULCANIA, entrambi originari di Lussimpiccolo (l’isola che nel 1947 passò alla Jugoslavia) i quali erano noti per il loro autoritarismo e senso della disciplina. Ero molto giovane e non saprei dire fino a che punto fosse esatta quella valutazione; ricordo che entrambi questi valenti uomini di mare avevano un piglio molto militaresco e, per dovere di cronaca, aggiungo che erano considerati, da tutti gli ufficiali di bordo, dei “veri marinai” con un passato bellico di tutto rispetto.
I due Allievi di coperta De Privitellio e Gatti all’arrivo al pier 84 di New York
MANOVRA DI PARTENZA
DA NEW YORK
Sta per iniziare il viaggio di rientro in Italia
Il Comandante ordina via interfonico: “equipaggio ai posti di manovra”. Quando gli Ufficiali di Coperta giungono a prora e a poppa per iniziare la manovra di disormeggio, i posti sono presidiati non solo dai marinai solitamente addetti a quella mansione, ma anche da camerieri, cuochi, infermieri ecc…
Il Comandante ordina al 1° Ufficiale di prora di rimanere su due cavi alla lunga, un traversino e uno spring. Il 1° ufficiale ripete l’ordine al nostromo che lo trasmette ai marinai; questi rispondono incrociando beffardamente le braccia. Stessa scena a poppa.
Gli ufficiali responsabili della manovra chiamano il Ponte di Comando:
“PONTE DA PRORA” – “PONTE DA POPPA”
“L’equipaggio non risponde agli ordini”
Un silenzio irreale inonda la nave da prora a poppa attraversando tutti i locali e i ponti dall’alto verso il basso. I passeggeri consapevoli dell’anomala situazione, osservano in trepidante attesa lo svolgersi di una manovra che non inizia mai, lo scenario é disegnato da sottili fili in tensione che minacciano lo strappo da un istante all’altro …
Poi tutto prosegue come durante un’esercitazione di routine che termina quando il Comandante comunica: “Esercitazione terminata, tornate ai vostri posti!”
Questa, al contrario, non é una esercitazione, ma una manovra vera che abortisce con il secco RIFIUTO dell’equipaggio di eseguire gli ordini del Comando di bordo. L’insubordinazione é fin troppo evidente e documentata, ma é disciplinata, composta e comunque rispettosa verso gli ufficiali coinvolti nel fallimento della manovra. Nessuno dimostra alcun imbarazzo nel recitare il proprio copione. Anche il Comandante afferra immediatamente l’inutilità di quella sceneggiata e non ripete l’ordine una seconda volta per non esasperare gli animi e volgere in dramma una commedia già andata in scena altre volte…come vedremo!
Dal Ponte di Comando giunge l’ordine perentorio:
"Manovra terminata! I capi servizio si rechino sul Ponte di Comando!”
Ricordo le lamentele coperte da ingiurie da parte dei passeggeri verso l’equipaggio ed anche le discussioni tra gli stessi marinai che non sembravano tutti d’accordo sull’esito di quel viaggio interrotto, senza preavviso, in quel modo anomalo per quei tempi. Ma il fatto che più mi sorprese fu che i marinai CAPI STIVA, pur essendo tutti di Lussimpiccolo e uomini di fiducia del Comandante, furono i più convinti e decisi tra gli scioperanti…
Credo che per il Comandante, vicinissimo ormai alla pensione, quello fu il giorno più triste della sua carriera: la delusione fu MASSIMA, si sentiva tradito… non tanto dai sindacati di terra ma dai suoi uomini che l’avevano sempre fedelmente seguito.
Non ricordo esattamente quanto durò lo sciopero, credo qualche giorno, perché l’America di quegli Anni non era terra di rivolte col “marchio comunista” che era detestato e contrastato aspramente… da tutti gli strati sociali USA.
Le parti trovarono ben presto un accordo provvisorio per cambiare “teatro” e per proseguire le lotte sindacali in Italia dove la sensibilità verso le tematiche sindacali legate ai Lavoratori sul Mare, era senza dubbio molto sentita.
In quei primi Anni ‘60 le navi passeggeri di Linea della FINMARE erano molto “amate” perché erano legate alla nostra emigrazione che si svolgeva ancora nei due flussi di andata e ritorno con le Americhe, e lo erano soprattutto lungo le coste italiane da dove provenivano tradizionalmente gli equipaggi imbarcati, per cui le “agitazioni sindacali” avevano una forte “cassa di risonanza” sia nel mondo marittimo statale che in quello privato.
UN PO’ DI STORIA….
Genova. Lo sciopero del ’59. Tutti fermi al primo approdo!
È una delle pagine memorabili della storia sindacale dei lavoratori del mare. Lo sciopero iniziato l’8 giugno 1959 durò quaranta giorni e coinvolse 118 equipaggi in tutto il mondo. A Genova i pensionati oggi raccontano quella storia nelle scuole ai giovani studenti.
Lo sciopero dei marittimi italiani più lungo e grande della storia durò quaranta giorni e arrivò, al suo culmine, a coinvolgere 118 navi ferme nei porti di mezzo mondo. L’ordine di incrociare le braccia partì da Genova in gran segreto la sera del 18 maggio 1959. I militanti della Film Cgil, l’allora federazione dei marittimi del capoluogo ligure, lo ricevettero in codice, lo stesso che veniva usato nella Resistenza. Il linguaggio cifrato era noto agli uomini degli equipaggi che avevano militato nella lotta armata al nazifascismo, ma sconosciuto agli armatori che non riuscirono a intercettarlo e ad attuare così le contromosse.
Quella primavera del 1959 stava lasciando lentamente il posto a un’estate che si annunciava rovente. A bordo delle navi le condizioni dei marittimi erano durissime, con turni massacranti di quattordici, e a volte anche diciotto ore al giorno, pessimo vitto, alloggi fatiscenti, nessuno straordinario riconosciuto. L’ultimo contratto del settore risaliva al 1931. I grandi armatori di allora – Costa, Lauro, Fassio – in mare erano veri e propri dominus assoluti, e si sentivano ben rappresentati dal governo in carica guidato da Antonio Segni, espressione della destra democristiana e futuro presidente della Repubblica.
Per gli appassionati di storia sindacale, riporto un DOCUMENTO significativo di quel periodo di lotte che modificarono i rapporti tra gli armatori e le varie categorie della “gente di mare” imbarcata, per cui nacquero i contratti di lavoro che avevano il diritto di essere appesi e consultati nelle salette di tutti le categorie: Ufficiali, Sottoufficiali e Comuni delle varie sezioni, Coperta, Macchina e Camera.
Il 1959 vide le navi passeggeri di bandiera italiana impegnate in prima linea nella lotta aspra contro gli Armamenti Statali e Privati che precedette e mise le fondamenta per le ulteriori rivendicazioni sindacali e relativi scioperi di cui é oggetto la mia testimonianza sopra riportata.
Di quell’anno 1959, così raccontavano a bordo della VULCANIA nel 1963:
“… gli equipaggi delle navi italiane furono abbandonati a sé stessi per 40 giorni, sopravvissero trovando ospitalità presso lontani parenti immigrati e amici degli amici… ma soprattutto trovarono cibo, assistenza, solidarietà e conforto spirituale presso i conventi francescani e benedettini delle grandi città dell’Argentina e Brasile…!” Quel fatto memorabile é riportato anche nello scritto che segue.
da Storia. R. Minotauro. Il compagno genovese Giordano Bruschi, racconta di sé, del Compagno Segretario Generale della Film Cgil Renzo CIARDINI e dello sciopero dei Lavoratori del Mare del 1959.
GIORDANO BRUSCHI già Segretario nazionale FILM CGIL
Questa è una storia che mi ha sempre visto a fianco al compagno ricordato in tutti gli interventi di oggi: Ciardini. Chiederei alla Fondazione di Vittorio di fare la ricerca su quello che ha significato, tra gli anni quarantacinque e cinquanta, l’attività dei Consigli di Gestione nel nostro paese. Renzo Ciardini nel 1946 venne a Genova dalla sua Livorno e diventò il coordinatore regionale dei Consigli di Gestione: a Milano c’era l’ingegner Leonardi e a Napoli protagonista dei Consigli di gestione un certo Giorgio Napolitano, diventato poi Presidente della Repubblica. Ci fu un tentativo nel dopoguerra di fare assumere alla classe operaia un ruolo nazionale, un ruolo dirigente come lo fu politicamente nella Resistenza. La resistenza è stata un fatto nuovo perché l’immensa partecipazione popolare ha tolto alle vecchie classi dirigenti l’esclusività delle scelte politiche e nel dopoguerra, il mio incontro con Ciardini fu proprio alla San Giorgio una delle grandi fabbriche genovesi.
Era il 1947 quando egli venne a costituire il Consiglio di gestione di una fabbrica che doveva essere riconvertita da produzione bellica a produzione di pace; la stessa sorte che toccò all’ILVA e all’Ansaldo. Ciardini mi chiese di entrare nel Consiglio di gestione della San Giorgio. Fu la nostra prima collaborazione. Io vi entrai all’età di 24 anni; i nostri ispiratori e maestri furono due personaggi della Cgil Vittorio Foa e Bruno Trentin. C’è sempre stato questo filo di continuità che noi applicammo nella vertenza della San Giorgio a cui ci tocco’ di partecipare. Lui venne a fare una assemblea, era un ironico toscano, quando raccontava di Borgo Cappuccini del filone anarchico. I livornesi sanno di cosa si tratta. Venne in questa assemblea a fare una proposta: frigoriferi e lavatrici al posto dei cannoni. Genova dovrebbe ricordare queste vicende e i personaggi come Franco Antolini, che era il dirigente ispiratore dei consigli di gestione, un grande economista, consigliere comunale e provinciale scomparso purtroppo il 4 luglio 1959 nel pieno della lotta dei marittimi. Genova ha avuto un gruppo dirigente politico di stampo burocratico ma anche una serie di compagni che hanno anticipato i tempi.
Questo discorso serve a capire perché nel 1959 i marittimi ebbero questa capacità di ribellione per le ingiustizie subite, che era contemporaneamente accompagnato da una proposta nuova. Vorrei che si ripubblicasse un libro scritto da Renzo Ciardini: “Un sindacato di classe dei lavoratori del mare italiani”; si tratta della relazione del congresso costitutivo del 3 aprile 1959 con una impostazione di una politica sindacale unitaria della Cgil Porti, flotta e cantieri questa è stata la costante della nostra azione, non la difesa della categoria ma una visione generale di un settore fondamentale, Genova sa quanto patisce oggi la mancanza di una politica economica di questo tipo. L’esperienza dei consigli di gestione è stata determinante per tutta una serie di compagni dell’Ansaldo, dell’Ansaldo San Giorgio perché ci siamo formati con questa idea che noi dovevamo esprimere sia le rivendicazioni immediate dei lavoratori ma anche le prospettive di un’altra società.
C’è insomma un periodo di storia che andrebbe ancora approfondito. Ciardini nel 1958 si ricordava di me, delle lotte della san Giorgio. Quando Di Vittorio, che era il più ostile nella Cgil alla fondazione del sindacato dei marittimi della Cgil (aveva una passione storica per Capitan Giulietti in quanto erano stati insieme nel sindacalismo nazionalista con Corridoni nel 1910 – 1915) Di Vittorio aveva questa ossessione dell’unità e diceva che la Film è l’unica categoria italiana non ancora divisa, potrebbe essere il nucleo di una nuova unità sindacale. Ma poi Rinaldo Scheda, Fernando Santi, Brodolini, che furono gli amici che ci aiutarono moltissimo nel primo congresso, lo convinsero che dopo la morte di Giulietti, nel marasma, il disastro, l’abbandono dei lavoratori, la Cgil doveva innalzare la sua bandiera anche sulle navi. Ciardini mi disse “abbiamo fatto tante cose insieme, vuoi tentate l’avventura dei marittimi?”.
Allora eravamo molto obbedienti, venivamo tutti da militanza di partito, non era facile però per un metalmeccanico come me, ma anche come Ciardini, entrare in una categoria assolutamente nuova, diversa come quella dei marittimi. Le vertenze sindacali possono nascere anche in modo strani. In quel periodo facevamo i viaggi a Roma. Non usava l’aereo per i dirigenti sindacali. Andavamo in macchina; Ciardini era un bravo guidatore e ricordo che mi pose, andando al Direttivo della Cgil, se con la mia esperienza di lotte sindacali potevo affrontare due problemi cruciali: primo, lo sciopero all’estero, io non ci avevo mai pensato; nessuno di noi aveva mai pensato ad una iniziativa del genere. Fermare le navi nei porti stranieri?
Lungo i tornanti del Bracco, in quel famoso viaggio in macchina, arrivammo ad una soluzione: io mi ricordo sempre delle mie esperienze della Resistenza, rammentavo i famosi me
ssaggi in codice. A bordo c’era la censura e l’autoritarismo. Sulle navi c’era la galera perché il comandante poteva mettere in galera il marittimo disubbidiente. Dico questo per ricordare il clima in cui eravamo. Il comandante aveva il diritto di leggere prima tutte le lettere, la Corrispondenza che arrivavano ai lavoratori. Abbiamo così ripetuto la storia dello sbarco in Normandia, cioè ci inventavamo i messaggi, esempio “Giovanni ha vinto il concorso”. Il comandante si complimentava con il marittimo, bravo hai trovato il posto di lavoro per tuo figlio e invece era l’ordine di sciopero; perché il “fermi al primo approdo” era quello.
Oggi anche Antonio Gibelli dalle pagine del Secolo XIX racconta molto bene quei fatti: come è possibile che contemporaneamente in tutti i porti del mondo da New York a Dakar le navi si fermassero? Abbiamo messo sulle spalle di quei lavoratori un peso enorme: hanno dovuto combattere con i consoli, con gli ambasciatori, con la polizia. Pensare ad uno sciopero della Bianca C. di 5 giorni nel Porto di Barcellona con il Presidente Segni che telefonava a Francisco Franco e diceva “tagliate i cavi”, questo sciopero non s’ha da fare, era come un novello Don Rodrigo italiano.
È stata, ed è la cronaca che lo dice, una cronaca eccezionale. La seconda cosa che mi chiese Renzo fu: “se vogliamo vincere la battaglia dobbiamo colpire Costa. Devi trovare il modo di fermare le navi di Costa”. Non ce l’avremmo fatta se non ci avesse aiutato Angelo Costa. L’unica cosa che mi sono sentito di fare è stata la comunicazione. Ho stampato un giornaletto, famoso, era il “lavoratore del mare” fondato da Giuseppe Giulietti. Sul giornale c’era una parte dedicata a una inchiesta: l’inchiesta di una nave di Costa, vecchia senza più ammortamenti la Anna C., e il giornale diceva ai marittimi perché bisognava fare il contratto per avere migliori condizioni di lavoro. Angelo Costa si arrabbiò Moltissimo e fece una cosa che forse oggi non ripeterebbe più: prese il giornale della Film Cgil ne ristampò 6 mila copie e lo inviò non solo sui bordi ma lo mandò anche nelle case tra i famigliari dei marittimi perché c’era il convincimento, c’è ancora oggi in qualche grande imprenditore, io sono il Dio, ti do il lavoro e tu devi fare quello che dico io; allora c’era questa concezione paternalistica dell’aiuto che il padrone dava al lavoratore, il quale doveva ringraziare il proprio datore di lavoro.
Quello che non eravamo riusciti a fare e cioè dare il giornale a tutti i marittimi, lo fece l’armatore. E poi mi domandò una volta: “ma perché hanno scioperato proprio le navi?”. Sulla Federico C. avevamo 10 iscritti su 290 marittimi non avevamo un iscritto sulla Bianca C. e nemmeno sulla Anna C. Ma se lei fa di queste diffusioni straordinarie, probabilmente i lavoratori capiscono da che parte bisogna muoversi. Da allora il binomio Ciardini-Costa ha funzionato. Costa voleva raggiungere un raccordo e i Fassio e i Lauro erano i più oltranzisti. Eravamo a metà di luglio, era una estate torrida. Eravamo al 37esimo giorno di sciopero e Ciardini convocò, il direttivo: bisognava trovare una mediazione, un compromesso. Non potevamo andare ad oltranza.
Convenimmo che non era fondamentale, anche se ci aspiravamo molto, l’aumento salariale. Quello che contava era la prosecuzione della lotta nei nuovi rapporti di forza e allora la cosa che sorprese Costa, sorprese anche i Ministri. Ciardini si rese disponibile a firmare un contratto solo con una clausola che non ci sarebbero state rappresaglie sindacali. Lauro Achille disse subito di no, però Costa alla fine lo convinse. Gli stava più a cuore il livello salariale. Scalfari sull’Espresso disse che la vertenza si era rivelata una catastrofe per i lavoratori: fu ottenuto solo l’1% in più dopo 40 giorni di sciopero.
Però la verità venne subito a galla. All’arrivo a Genova la famiglia Costa prese una posizione dura cancellando, licenziando 115 marittimi della Anna C., la nave che si era fermata in Spagna a Las Palmas, Costa si giustificava con le motivazioni di oggi. Si trattava di contratti a viaggio. È finito il viaggio, non c’è rappresaglia sindacale, tutto va secondo le regole normali. Angelo Costa accettò di ascoltarci. Per noi era una cosa tremenda perché aver fatto uno sciopero di quel genere e trovarsi sulle spalle questi licenziamenti significava la sconfitta vera della vertenza. Il fatto quale era? C’era la precarietà. Nei marittimi come succede oggi in tante categorie di lavoratori, c’era la precarietà: ecco l’attualità della vertenza di allora, dei valori che oggi la Cgil con Epifani sa difendere. Insomma andammo da Costa con la documentazione: questi marittimi infatti da 10/15 anni si imbarcano sempre sulle sue navi. Ci fu un conflitto in famiglia. La domanda che facemmo a Costa era questa: “Peppino Di Vittorio ci ha raccontato che quando lei firma un accordo, lo rispetta sempre perché è un uomo corretto e leale” e lui rispose immediatamente “io sono sempre lo stesso uomo descritto da Giuseppe Di Vittorio”.
Alla vigilia del ferragosto del 1959 c’era Graziella Torrini la segretaria del sindacato che riceve una telefonata “Giordano, c’è Angelo Costa al telefono”. Ci comunicò che aveva deciso di reintegrare i marittimi cancellati dal turno e di riscriverli a turno. Ecco la svolta di quella vertenza, la vittoria del sindacato, il cambiamento dei rapporti che c’erano tra il padrone del vapore, come li descriveva Scalfari, e i disperati dei porti, come li descriveva Vittorio Emiliani. Costa chiese un incontro con Ciardini. E da allora per 17 anni c’è sempre stato un patto di consultazione, ognuno difendendo le proprie posizioni però nel rispetto reciproco e questo è stato il grande cambiamento.
Ci abbiamo messo 17 anni; però il programma del Congresso Cgil del ’59 l’abbiamo realizzato. Abbiamo realizzato la riconversione, non abbiamo avuto timore di mettere ai voti il disarmo della Michelangelo, l’ho fatta io l’assemblea a Gibilterra conclusa con 665 voti a favore, 5 contrari, 6 astenuti. Avevamo trovato una soluzione generale complessiva e cioè la continuità del rapporto di lavoro, la conquista storica con la quale cessava ufficialmente la precarietà e i lavoratori anche durante il periodo di attesa imbarco i lavoratori percepivano il salario. Oggi possono sembrare utopie, sogni.
Abbiamo ottenuto l’ordinazione di 65 navi ai cantieri. Fu la grande operazione di una riconversione mai più verificatasi. Pensate, alle navi container, ai traghetti e all’attività delle crociere. Avevamo indicato una nuova prospettiva nazionale di prosperità per il porto e per le città marinare. Poi le cose sono andate come sono andate, perché le aziende pubbliche, la Finmare l’Iri non sono state in grado di realizzare quello che i marittimi, con quella nostra vertenza, avevano creato. Quella con Ciardini era una grande squadra. A me piace tanto la canzone che parla dei mediani, perché ci sono nelle squadre le punte che fanno goal però se non gli passano i palloni buoni. Noi a Ciardini abbiamo passato tanti palloni buoni.
Ricordo i marittimi Sironi e Carotenuto, che vanno a Karadu davanti all’ambasciatore e ascoltano gli articoli del codice della navigazione che proibisce lo sciopero. Questi operai dal taschino tirano fuori
la Costituzione della Repubblica Italiana e all’ambasciatore leggono l’articolo 39 che garantisce il diritto di sciopero. Questi sono stati alcuni degli straordinari protagonisti di quelle lotte; così a New York i compagni del Vulcania, del Giulio Cesare riuscirono ad arrivare sino ad a Eisenhower Presidente degli Stati Uniti. La Società Italia aveva mandato a New York un vecchio rottame fascista per chiedere dopo 29 giorni, l’applicazione della legge per l’immigrazione che stabiliva che le navi andavano allontanate. I compagni, i fratelli di Brooklyn ottennero un decreto speciale per salvaguardare il diritto di sciopero dei marittimi italiani. Sono cose che ai giovani andrebbero raccontate. A Dakar c’erano due navi. Il Conte Grande e Conte Biancamano. Noi li tenevamo sorretti da continue telefonate, ma erano soli laggiù. Eppure hanno resistito per 40 giorni. Pensate a cosa è stata questa battaglia, il valore che ha ancora oggi. Così come sono ancora attuali le nostre proposte: abbiamo detto nel ’59 di seguire anche per Genova l’esempio di Rotterdam, di Anversa per l’autofinanziamento dei porti attraverso le entrate fiscali che derivano dal traffico marittimo. Purtroppo siamo ancora dopo cinquanta anni ai tentativi di ottenere questo riconoscimento. Ringrazio profondamente la Fondazione Di Vittorio, i relatori che ci hanno reso più meriti di quelli che forse meritiamo. Mi auguro che a questa iniziativa ne seguano altre. Questi valori di lotta di cinquanta anni fa sono attuali. Non è retorica: veramente questi compagni marittimi, questa squadra di mediani, ha realizzato un pezzo di storia del nostro Paese.
Carlo GATTI
Rapallo, 27 Febbraio 2020
AQUILEIA ROMANA - 2a Parte - IL PORTO
LA STORIA DEL PORTO DI AQUILEIA
Emporio Cosmopolita dell'Impero Romano
AQUILEIA Romana rivestiva una posizione geografica assolutamente strategica nella difesa dell’Impero che era già all’epoca della sua fondazione minacciata ad Est da popolazioni barbariche che minacciavano i suoi confini.
Situata nell’attuale Friuli-Venezia Giulia, Aquileia è stata per molti secoli centro nevralgico dell'Impero Romano nel mediterraneo, centro politico-amministrativo e capitale della X Regione augustea, Venetia et Histria, nonché prospero scalo e ricco emporio di merci in transito. Aquileia può essere considerata uno dei più importanti siti archeologici dell’Italia Settentrionale, dal 1998 é patrimonio mondiale UNESCO.
Porto di Aquileia
A partire dal periodo immediatamente successivo alla fondazione della colonia romana nel 181 a. C. Aquileia svolse un ruolo fondamentale nei commerci marittimi dell’area del nord Adriatico.
Tuttavia, per due secoli circa, i rapporti commerciali coinvolsero soltanto la via marittima e una limitata parte dell’entroterra della città, in seguito i romani capirono ed attuarono un sistema viario di cui riportiamo qui sotto una cartina esplicativa di quanto l’Impero fosse strategicamente preparato a dominare vaste zone con la propria presenza e rapida mobilità.
Aquileia divenne quindi il CENTRO del sistema viario della regione per la sua posizione all’incrocio di più strade, tra cui le maggiori erano la via Postumia, la via Iulia Augusta e la via Gemina; era inoltre il punto di partenza delle strade che si diramavano verso il bacino danubiano e la via dell’ambra che giungeva dal mar Baltico.
RACCORDO CON NOME
LA VIA ANNIA
1. 1.PADOVA …………………………………….. La strada da Patavium a Bononia (Bologna).
2. 2.PADOVA …………………………………….. La Padova a Vicenza (Vicetia)
3. 3.PADOVA ………………………………………VIA AURELIA
4. 4.(Tra San Bruson e Marghera)…………………VIA POPOLLIA
5. 5.ALTINO ………………………………………. VIA CLAUDIA AUGUSTA
6. 6.CONCORDIA SAGITTARIA………..Bruson-Marghera nel punto mansio Maio Meduaco ad XII
7. 7.CONCORDIA SAGITTARIA………. Da Iulia Concordia-Aguntum e Vipiteno e Virinum
8. 8.AQUILEIA ………………………………….. Da Aquileia ad Aguntum (Lienz) e Vipitenum
9.AQUILEIA ………………………………….. Da Aquileia a Santico e Virunum (Klangefurt10.AQUILEIA ………………………………… La strada da Aquileia a Iulia Emona (Lubiana)
10.AQUILEIA…………………………………. Da Aquileia a Pola (via Flavia da Trieste a Pola)
Da Aquileia a Tarsatica (Fiume)
IL PORTO DI AQUILEIA: DATI ANTICHI E RITROVAMENTI RECENT!
NORD
SUD
Fig. I. Pianta generale di Aquileia con posizionamento dei siti citati nel testo (da BERTACCHI 1980a): I. banchina portuale (loc. Santo Stefano), 2. ponti; 3. scavo in concessione alla EFR; 4. decumano; 5. circo; 6. foro; 7. saggio 1989 nel Campo sportivo a cura della Soprintendenza; 8. porticato; 9. porto canale (scavo Brusin); 10. muro di controsponda del porto; 11. magazzini; 12. mura post-attilane; I3. teatro; I4. fiume Natissa; 15. terme; I6. anfiteatro; 17. horrea; I 8. mercati tardo-antichi; I 9. banchina del fondo Pasqualis (scavo Soprintendenza); 20. complesso basilicale.
PORTO FLUVIALE
Il bacino del porto era formato dalla confluenza di due corsi d’acqua, che si univano nella zona dell'attuale frazione di Monastero; è stato possibile stabilire ciò grazie al ritrovamento nella zona settentrionale di due ponti che segnalano il passaggio di due distinti corsi d'acqua destinati a confluire più a sud. Uno di questi era un fiume di risorgiva chiamato Roggia della Pila, l’altro aveva una portata maggiore perché riceveva le acque del Natisone e del Torre. Attualmente il Natisone non attraversa più la città, poiché confluisce nell'Isonzo; invece ciò che rimane del vecchio corso d'acqua è il fiume Natissa.
La rete di canali artificiali unita ai corsi fluviali presenti rese facile nell'antichità il collegamento con il mare e probabilmente consentì la circumnavigazione della città. Infatti su quasi tutti i lati sono state ritrovate delle strutture portuali collegate fra di loro; è incerta solamente la presenza di un percorso verso ovest.
Porto Fluviale, area archeologica di Aquileia. Foto di © Gianluca Baronchelli
Oggi il Natissa scorre placido e silenzioso, ma una volta era il ben più imponente fiume Natisone. Fu l’imperatore romano Giuliano a deviarne il corso. Il largo bacino del fiume, ampio circa 50 metri, destò l’interesse degli antichi romani che lo trasformarono in un approdo strategico di notevole rilevanza economica e militare per i loro traffici mercantili nel Mediterraneo e per lo spostamento delle proprie milizie attraverso l’Adriatico, visto il suo vicino sbocco al mare.
L’attuale livello dell’acqua si trova ad un livello più basso, ciò permette passeggiate lunghe e tranquille lungo gli antichi argini della Via Sacra ottenuta sullo sbancamento dell’alveo del fiume stesso.
Lo scenario ereditato dall’antichità permette al visitatore di immergersi in questa atmosfera ed immaginare lo svolgersi del lavoro portuale tra navi, banchine e magazzini: grano, olio, anfore e tessuti provenienti da ogni parte del mondo osservando in particolare le banchine con tutti i loro accessori, (anelli, bitte, scalette, iscrizioni su pietra ancora intatte) elementi che parlano della tecnica di un tempo che ha fatto da maestra alla tecnologia ancora oggi utilizzata nei porti moderni.
La cosiddetta banchina occidentale, in pietra d’Istria, é considerata la più importante perché conduce al Foro della città. Percorrendo questo tratto portuale ci s’imbatte nella zona che fu del mercato pubblico e in quei particolari edifici in mattone che erano utilizzati come magazzini per lo stivaggio delle merci in arrivo, in transito o in partenza. In questa direzione si giunge alla Basilica medievale.
Aquileia - La via Sacra
La VIA SACRA altro non é che un viale alberato lungo il fiume che é percorribile a piedi, una passeggiata archeologica posta nell’alveo del fiume e lunga circa un chilometro, che è stata creata con la terra di risulta degli scavi e lungo la quale sono stati collocati resti architettonici e monumentali provenienti dagli scavi delle mura e del foro.
Il viale ricalca l’andamento dell’antico corso d'acqua formato dalla confluenza del Natiso cum Turro, che in questo tratto aveva un letto largo m. 48. È oggi visibile il lato occidentale delle banchine del porto, con strutture che misurano 380 m di lunghezza.
Il molo è disegnato da due banchine, poste ad altezze diverse per ovviare ai dislivelli delle maree. La banchina superiore conserva la propria architettura d'ormeggio orizzontale e sporgente, quella inferiore evidenzia ormeggi verticali e incassati nei blocchi che rinforzavano la sponda.
Le strutture sono in pietra d'Istria, resistente all'azione corrosiva delle acque salmastre.
Sono ben visibili i magazzini di stoccaggio delle merci e il tratto iniziale delle strade lastricate perpendicolari alla riva che permettevano di trasportare i prodotti dalle banchine al Foro poco distante, dove venivano venduti.
Le strutture portuali mostrano anche tracce di difese militari, si suppone a motivo dell’invasione di Aquileia da parte di Massimino il Trace nel 238 d.C., mentre ulteriori cambiamenti risalgono all’assedio di Giuliano l’Apostata nel 361 d.C.
Inizio modulo
Resti delle mura e dei magazzini sulla Via Sacra
Ecco come ci viene storicamente descritto l’evoluzione costruttiva in due fasi storiche diverse:
“Il porto fluviale fu completamente ristrutturato all’inizio del I secolo d.C., con un nuovo complesso di banchine e un lungo edificio retrostante, che si apriva verso il fiume. Tre rampe, oblique rispetto al prospetto delle banchine, consentivano il collegamento con la viabilità urbana. Ulteriori trasformazioni risalgono all’età di Costantino il Grande, pochi anni prima che alle banchine si sovrapponessero le nuove mura di cinta, decretando, assieme al restringimento dell’alveo, la progressiva defunzionalizzazione del porto”.
PORTO FLUVIALE Descrizione Tecnica
Banchine: erano costituite da un poderoso sistema di lastroni verticali di calcare sormontati da blocchi parallelepipedi a incastro, che costituivano il piano di carico e scarico superiore. A poco meno di due metri dalla sommità della banchina correva un largo marciapiede, che doveva servire alle attività di carico per imbarcazioni di piccola stazza. Dal livello inferiore si staccavano le rampe che si congiungevano alle strade urbane, in corrispondenza delle quali vi erano due ampi piani inclinati che permettevano di accedere ai retrostanti magazzini.
Una curiosità: sulla superficie dei marciapiedi, sono incisi talvolta dei piccoli schemi per il gioco, utilizzati dai marinai e degli addetti alle attività portuali come passatempo.
Anelli di ormeggio: ancora oggi possiamo notare sulle banchine, a distanze regolari, alcuni blocchi parallelepipedi sporgenti, in alcuni casi con l’estremità arrotondata, caratterizzati da un foro passante verticale. Secondo gli studiosi poteva trattarsi di anelli d’ormeggio per le imbarcazioni oppure di fori per l’inserimento di gru lignee per il carico e lo scarico delle merci. Sul piano di carico inferiore, esistevano invece dei blocchi con foro passante orizzontale, più piccoli dei precedenti, utilizzati per fissare le cime d’ormeggio dei navigli.
Resti delle mura: sopra le banchine si possono facilmente riconoscere i resti di una grossa struttura, spessa quasi tre metri sovrappostasi in età tardo-antica (IV secolo) alle strutture portuali. Il fiume, o ciò che rimaneva di esso, forniva così un ulteriore presidio alle difese murate, che erano dotate anche di torri. In una fase ancora successiva (V secolo?) fu costruita un’altra linea di mura di cinta a potenziamento della precedente, ancora più avanzata in ciò che rimaneva dell’alveo fluviale.
Le tre foto sopra mostrano una banchina lunga ed ampia molto ben conservata che ci offre una eloquente descrizione della portualità romana di quel tempo. Al porto fluviale lungo le sponde del Natissa confluivano le acque del fiume Torre e Natisone, con la banchina a doppio livello per essere usata da imbarcazioni di stazza diversa e per contenere il flusso delle maree. Largo 48 metri e lungo circa 350 era costruito con grandi blocchi di pietra d’Istria squadrati, con anelli per l’ormeggio delle navi.
Resti di magazzini: alle spalle della banchina portuale, si sviluppava un lunghissimo edificio, di cui restano i muri perimetrali in laterizio dei lati lunghi. In rapporto alla lunghezza, che superava addirittura i trecento metri, la larghezza era assai limitata, non più di tredici metri. Il complesso, costruito all’inizio del I secolo d.C. demolendo in parte le retrostanti mura di cinta repubblicane, serviva probabilmente come magazzino per lo stoccaggio delle merci, forse con annessi ambienti riservati ad uffici. Vi si accedeva da almeno due ingressi dotati di gradinata. È probabile che le rampe di collegamento con la città passassero sotto l’edificio. In tarda età costantiniana, gli spazi del grande edificio furono ulteriormente ampliati: ne sono testimonianza le fondazioni di pilastri che tuttora si possono riconoscere all’interno e all’esterno del perimetro originario.
Giungeva ad Aquileia ogni tipo di materiale e di viveri: legna, marmi, metalli, vino, olio, lana, spezie, bestiame e addirittura schiavi. Grazie all’edificazione del porto e alla sua posizione strategica, Aquileia si confermò come uno dei più grandi centri nevralgici dell’Impero Romano. Il ferro, che veniva importato dalle miniere del Norico, veniva poi lavorato ulteriormente nelle officine della città; la stessa cosa accadeva per il vetro che era poi esportato fin nelle regioni danubiane. Vi erano inoltre industrie che si occupavano della trasformazione del legname, proveniente dalle più diverse regioni dell’impero.
Un altro importante prodotto era la lana, che giungeva dai grandi pascoli dell’Istria interna e prima di essere esportata veniva lavorata nei vestiarii della città; sempre riguardo all’industria tessile, vi erano anche famose tintorie.
L’archeologo Giovanni Brusin
Grazie a studi recenti gli archeologi sono venuti a conoscenza del fatto che questo primo porto era più a occidente rispetto a quello attualmente visibile: ciò è dovuto allo spostamento del fiume verso est.
Il porto, scoperto nella parte orientale della città, ha un bacino che dista dal mare circa 10 chilometri; sono state ritrovate e scavate entrambe le sponde, ma quella occidentale, la più vicina alla città, ha rivelato di essere quella meglio attrezzata e perciò è quella ancora oggi visibile.
Aquileia - Porto fluviale
Il porto fluviale è stato scavato per la prima volta verso la fine dell’Ottocento da Enrico Maionica, poi l’opera è stata portata avanti da Giovanni Brusin negli anni Trenta.
La sistemazione del porto monumentale risale probabilmente alla fine del I secolo d. C. Giovanni Brusin l'aveva ipotizzato studiando i moduli dei mattoni, riferibili all'età di Claudio per la struttura e anche per la fama di questo imperatore in campo di impianti portuali (Porto di Claudio a Roma). Inoltre si può anche osservare che la parte settentrionale (abitata) fu abbandonata verso la fine del I secolo a. C. con l’inizio della grande impresa edilizia. Ancora non si sa se la costruzione della banchina orientale fu contemporanea a quella occidentale. Sono in corso studi e convegni per dare risposte a questo ed altri importanti quesiti. Ma si sa, l’archeologia non ha premura!
Porto fluviale - Banchina occidentale
La banchina della sponda occidentale del porto è lunga 380 metri ed è costituita da lastre verticali in pietra d’Istria. Vi è un primo piano di carico sovrapposto a questi lastroni e composto da blocchi con grandi anelli di ormeggio a foro passante verticale che abbiamo visto nella foto; il secondo piano di carico, che si trova circa 2 metri più in basso, è costituito da un marciapiede lastricato largo circa 2 metri e fornito anch’esso di anelli di ormeggio a foro passante orizzontale. Il fatto di avere due diversi piani di carico rendeva possibile sia che fossero accolte imbarcazioni di stazza grande o piccola, ma é più probabile che il porto venisse utilizzato anche nei periodi di bassa marea.
“Dalla banchina partono tre vie di accesso alla città che conducono ognuna ad un diverso decumano: l’accesso posto più a sud è costituito da una gradinata, mentre gli altri due sono strade lastricate in pendio (questo perché l'angolazione delle vie con la linea del porto non permettesse la salita dell'acqua in caso di piena del fiume); queste ultime due strade sono dotate di coppie di rampe perpendicolari che conducono ai magazzini”.
Aquileia - La riva orientale del porto
La riva orientale è stata scavata per un breve periodo negli anni Trenta e ne sono stati riportati alla luce poco più di 150 metri, anche perché ad un certo punto la struttura sembra interrompersi brutalmente. La banchina è molto stretta e composta da parallelepipedi di pietra, vi si notano solo quattro scalinate inserite nel muro e alcune pietre di ormeggio; dietro sono situati degli edifici, possibili magazzini o uffici.
Analizzando le diversità di struttura tra le due banchine, Brusin è giunto alla conclusione che quella occidentale sia anteriore; bisogna anche notare che la banchina orientale si trovava in una zona suburbana, mentre quella occidentale era più vicina al foro e al centro della città così da necessitare forse di un aspetto monumentale. Il porto ha subito nel tempo diverse modifiche che dimostrano la vitalità del centro e anche i molti sforzi per adeguarsi agli avvenimenti storici del tempo.
Le prime opere di difesa, che sono state realizzate sulla banchina occidentale, risalgono quasi sicuramente al 238, anno del bellum aquileiese, e riflettono la crisi politica e militare del tempo; in seguito queste strutture hanno anche influito sulla costruzione dei magazzini retrostanti.
Probabilmente nel 361, quando la città si schierò con Costanzo II e fu assediata da Giuliano l’Apostata, il fiume fu deviato per motivi strategici e di conseguenza la portata d’acqua diminuì. Queste opere provocarono poi un’alluvione, che fu la causa dell’abbandono del quartiere orientale. In epoca tardo-antica, verso la fine del IV secolo, furono realizzate altre opere difensive e di queste mura è stato ritrovato il lato orientale sulla banchina; si pensa che queste fortificazioni siano state costruite in grande fretta, anche perché i materiali utilizzati sono stati quelli recuperati da altre strutture (trabeazioni marmoree, iscrizioni votive e onorarie, colonne, ...).
L’intero porto fluviale, anche in seguito alle numerose invasioni barbariche (quella di Alarico nel 410, di Attila nel 452, di Teodorico nel 489 e infine dei Longobardi nel 568) e alle lotte dei pretendenti per il trono di Roma, fu così trasformato in una pura opera difensiva.
Aquileia - Scavi al porto
Analizzando il periodo che va dal IV al VI secolo d. C., si può osservare che Aquileia era il porto principale dell'alto Adriatico all'inizio, mentre sembra essere del tutto scomparso alla fine di quest'epoca.
Sono molte le testimonianze letterarie riguardanti il IV secolo e tutte tendono a sottolineare la grande vitalità di Aquileia, soprattutto per il suo ruolo commerciale: punto di partenza dei grandi itinerari marittimi e centro di esportazione di molti prodotti. Erano molto importanti e frequenti i rapporti con l'oriente, anche perché nella città vi erano comunità orientali molto dinamiche che erano ancora presenti nel V secolo.
Tuttavia già verso la fine del IV secolo il ruolo di Aquileia sembra essere cambiato: alcune grandi importazioni, come quelle di grano, scompaiono dalla città in favore di altri centri; continua invece il commercio di beni di lusso. Altri elementi che testimoniano l'evoluzione funzionale del porto di Aquileia sono episodi militari che caratterizzano la storia della città: infatti questa struttura assume uno scopo difensivo a scapito delle attività portuali poiché viene riempita progressivamente con le mura.
A partire dal VI secolo Aquileia e il suo porto cominciano a non essere più citati nelle opere letterarie, perché Grado, Venezia e Ravenna assunsero probabilmente sempre più importanza come scali marittimi.
A sud della città antica, nel tratto in cui il fiume Natissa scorre da est verso ovest, è stato ritrovato un complesso che è stato riconosciuto come il mercato pubblico; studiando il materiale usato e la sua struttura, si pensa che sia stato attivo per moltissimo tempo, dall’inizio dell’età imperiale fino a quella tardo-antica.
Ecco com'era l'antica Aquileia
FORO
Bibliografia:
Aquileia e il suo territorio agli albori del II Secolo a.C. Maselli Scotti
Studio Archeo Antico - Carre- Maselli - Scotti
Aquileia sulle tracce dell'Impero
Aquileia Porto fluviale.webarchive
Aquileia Romano Impero
Dalla via Annia verso le altre direzioni
Strutture portuali- "Antichità Altoadriatiche" Maselli Scotti, P.Ventura
Carlo GATTI
Rapallo, 18 Febbraio 2020
AQUILEIA ROMANA -1a Parte
AQUILEIA ROMANA – STORIA – FORO ROMANO – BASILICA – MOSAICI - MUSEO
Aquileia può essere considerata uno dei più importanti siti archeologici dell’Italia Settentrionale, dal 1998 patrimonio mondiale UNESCO.
Importante città militare di frontiera fin dall’epoca repubblicana, divenne una delle capitali dell’Impero romano sotto Massimiano. Nel 148 a.C. da Aquileia ebbe inizio la costruzione della via Postumia che congiungeva l'Adriatico con il Tirreno presso Genova. La strada era una via consolare romana fatta costruire dal console romano Postumio Albino nei territori della Gallia Cisalpina, l'odierna Pianura Padana, per scopi prevalentemente militari.
Nel 452 d.C. fu infine distrutta dalle orde degli Unni di Attila, non tornando mai più agli antichi splendori.
IMPERIUM
Aquileia romana, situata nell’attuale Friuli-Venezia Giulia, è stata per molti anni centro nevralgico dell'Impero Romano nel mediterraneo, centro politico-amministrativo e capitale della X Regione augustea, Venetia et Histria. Aquileia fu fondata nel 181 a.C. nei pressi del fiume Natisa, come colonia da parte dei triumviri romani Lucio Acidino, Publio Scipione e Gaio Flaminio che erano incaricati di sbarrare la strada ai barbari confinati, (Carni e Istri) che minacciavano i confini orientali d’Italia. Al seguito dei triumviri si spostarono circa 3.500 fanti come coloni con le loro famiglie.
Provenivano dal Sannio e con le loro famiglie raggiungevano circa 20.000 persone.
CAPITOLIUM
UN PO’ DI STORIA
Nell’89 a. C. la colonia di Aquileia divenne municipio, si espanse notevolmente e si chiuse entro massicce cinte murarie diventando sempre più ricca e sicura.
Per la verità, la sua rilevanza politica va attribuita alla costruzione del porto fluviale, con il quale la città acquistò importanza come emporio commerciale diventando “oggetto del desiderio” da parte dei popoli barbari che si ammassavano alle frontiere (limes) per entrarne in possesso.
Lo stesso imperatore Augusto si recava spesso ad Aquileia con la moglie Livia che amava bere il vino Pucino che aveva la fama di garante di longevità. Secondo Plinio, l’imperatrice ne beveva tutti i giorni e proprio per questo motivo sarebbe vissuta fino ad 87 anni (età straordinaria per l’epoca).
Aquileia conobbe anche anni difficili. Il periodo compreso tra il 165 ed il 189 d. C. fu contrassegnato da una violenta pestilenza che in tutto l’Impero portò alla morte 5 milioni di persone (cifra discordante e mai confermata). Con ogni probabilità la pestilenza venne portata dai legionari romani che per ragioni militari orbitavano intorno a quella regione.
Nella primavera del 168 d.C., nel pieno della pestilenza, Marco Aurelio e suo fratello Lucio Vero decisero di invadere Carnuntum (si trova a circa 40 km da nell’odierna Vienna). Aquileia divenne fondamentale nella vicenda, poiché era tappa intermedia della spedizione romana.
Durante l’inverno successivo, Marco Aurelio, ritiratosi temporaneamente dal fronte di battaglia, decise di ritirarsi ad Aquileia. Qualche settimana dopo fu però costretto ad abbandonare la zona insieme a suo fratello d’adozione Lucio Vero e alla sua scorta personale a causa dell’aumento dell’epidemia di peste. La morte per Vero giunse poco dopo la fine delle ostilità, agli inizi del 169, secondo alcune fonti a seguito di un ictus, a non molta distanza da Aquileia, nei pressi di Altino. Autori moderni sostengono invece che il decesso fu forse causato dalla stessa peste, mentre era impegnato in nuove manovre militari lungo il fronte settentrionale.
Aquileia, come si é visto, fu più volte soggetta a tentativi di conquista. Fu costretta infatti a difendersi dagli attacchi dei Marcomanni e dei Quadi, entrambi respinti con successo.
Aquileia fu anche teatro di una battaglia tra romani…
Massimino il Trace, sceso dalla Pannonia, tentò di assediarla, poiché infuriato per l’elezione del tredicenne Gordiano a imperatore. Nella primavera del 238 d. C., Massimino tentò di sostare ad Aquileia con il suo esercito per riposare e fare approvvigionamenti. La città, però, era fedele a Roma e alle disposizioni del suo Senato, quindi chiuse le porte, negando sostegno a Massimino. L’invasore cercò a quel punto di conquistare la città. Sebbene il numero degli invasori fosse superiore a quello degli aquileiesi, l’assedio risultò difficile e di lunga durata a causa della penuria dei viveri, che causò l’ostilità delle truppe. Protagonista della difesa di Aquileia fu il senatore Rutilio Pudente Crispino che, incaricato dal Senato, arringò la popolazione di Aquileia contro Massimino. La resistenza della città durò fino a quando le truppe di Massimino, stanche dal protrarsi della battaglia, non si ribellarono, uccidendo il loro comandante e suo figlio Massimo.
Con l’imperatore Massimiano, eletto nel 286 d. C. come Augusto d’Occidente, furono edificate imponenti strutture e la città fu dotata di una flotta.
Gli anni immediatamente successivi alle opere di Massimiano furono caratterizzati da una profonda crisi sociale ed economica, che prestò il fianco di Roma ai colpi dei popoli barbari invasori. Ciò nonostante, la città, ancora sede di edifici ed istituzioni importanti, nell’anno 395, che combaciò con la morte di Teodosio I, figurava ancora tra le città più importanti d’Italia e di tutto l’impero.
Aquileia subì un gravissimo colpo nel 452 d. C.. Le truppe di Attila penetrarono nella città in seguito al crollo accidentale di un muro della fortificazione difensiva, devastandola. Alcune fonti sostengono che massacrò buona parte della popolazione, altre sono concordi nell’affermare che ne fece schiava una larga parte. Da questo momento in poi Aquileia smise di essere roccaforte a protezione dell’Italia settentrionale, nella sua parte orientale, venendo così sostituita da Verona sull’Adige. Dopo l’assedio di Attila nel 452, Aquileia tornò a fiorire grazie all’appoggio di Carlo Magno, il quale permise il ritorno del Patriarca Massenzio e restituì la città ai primitivi fasti.
Lasciamo momentaneamente la storia per addentraci nella AQUILEIA sito UNESCO dal 1998 per l’importanza della sua area archeologica e la bellezza dei mosaici pavimentali che custodisce. I primi scavi risalgono a 1934; vennero in seguito ripresi nel 1979 e sono tuttora in corso.
Aquileia - Arte romana
IL FORO ROMANO - ANFITEATRO – LE GRANDI TERME
Anche Aquileia, come la totalità delle importanti città romane, disponeva di un FORO, la piazza principale della città che si trovava all’incrocio tra il decumano massimo e il cardo massimo.
La sua pavimentazione risale al I secolo a. C. (età repubblicana), mentre gli edifici e le decorazioni sono attribuibili all’epoca imperiale. La lunghezza del Foro è di 115 metri ed è largo 57 metri, ornato ai lati lunghi da due file di portico-colonnato. Sotto ai portici c’erano negozi e botteghe (tabernae) e, con ogni probabilità, su uno dei lati del Foro doveva trovarsi la Zecca imperiale (istituita con la tetrarchia di Diocleziano). A sud del Foro vi era la Basilica con gli uffici amministrativi e giuridici del senato cittadino. A nord, invece, c’erano la curia e il macellum (il mercato). Purtroppo del porticato sono rimasti quattro basamenti in mattoni. Sul lastricato si è riusciti a reperire la parte finale di un’iscrizione di cui restano gli incavi per le lettere bronzee.
Aquileia - Foro romano
Aquileia sfruttò moltissimo la pietra proveniente dall’Istria e con essa costruì quasi tutta la città imperiale, ad eccezione di alcuni monumenti, per i quali si avvalse invece del marmo. L’artigianato locale era specializzato nella lavorazione di pietre dure da ornamento, nella scultura figurata e ornamentale in marmo e in pietra, nell’arte del mosaico.
Oltre all’oreficeria, anche l’ambra che giungeva dalle lontane spiagge del mar Baltico veniva lavorata nelle officine locali. Sempre per quanto riguarda l’industria artigianale, vi erano anche fabbriche di vasi, lucerne ed anfore in terracotta.
Area dove alcuni studiosi ipotizzano sia sorto il Palazzo imperiale di Massimiano, a fianco dell'attuale basilica di Santa Maria Assunta.
C’è innanzitutto la Basilica forense, la cui costruzione fu opera di un Aratrius, (esponente della borghesia della città) di cui ci resta un’iscrizione. Una sua parente (forse la figlia) nota col nome di Aratria Galla lastricò a sue spese il primo decumano meridionale. A sud del Foro sorgeva la Basilica civile. Sede del tribunale, luogo di riunione degli organi di governo e punto d’incontro dei più importanti uomini d’affari, questa Basilica aveva due absidi sui lati brevi, ed il suo interno era diviso in tre navate che arrivavano anche sui lati corti. La pavimentazione era in marmo per quanto riguarda la zona centrale, mentre quella del deambulatorio in pietra d’Istria.
Particolarmente suggestive sono anche le domus romane. Negli anni ’70 gli scavi al nord del Foro hanno rivelato l’esistenza di tre livelli di abitazioni romane, con annessi mosaici. Per questi mosaici venivano usate diverse pietre colorate, formando così dei bellissimi mosaici policromi. L’alabastro, l’agata e l’onice sono solo alcune delle pietre utilizzate dai Romani per comporre le loro trame. In particolare erano apprezzati i toni turchini, gialli, rossi e verdi, ottenuti con le paste vitree opache e semitrasparenti. Il mosaico tipico di Aquileia era il vermiculatum, che era caratterizzato da piccole tessere che, disposte in maniera asimmetrica, seguivano il contorno delle immagini. Le tessere impiegate, di forma e colori diversi, potevano avere dimensioni che variano dai 4 mm fino ad un solo millimetro.
Aquileia possedeva anche un anfiteatro. Utilizzato per gli spettacoli venatori e dei gladiatori, l’anfiteatro misurava 148 x 112 metri. Le ricerche e i nuovi scavi del 2015 hanno rivelato l’esistenza di una platea (larga circa 4 metri), che aveva il compito di sorreggere la serie di pilastri all’esterno della facciata. L’anfiteatro di Aquileia, inoltre, possedeva una galleria esterna molto più grande di quanto si credeva in precedenza rispetto ai recenti studi. All’inizio dell’età tardoantica cominciò il processo di spoliazione dei marmi dell’anfiteatro, che proseguì purtroppo nel corso dei secoli successivi. L’anfiteatro, infatti, costituì una comoda cava di marmi per la costruzione di nuovi edifici.
Grazie alle indagini commissionate dalla Fondazione Aquileia all’Università di Padova è stato scoperto recentemente anche il teatro di Aquileia. È stato ritrovato un tratto di muro curvilineo, dal quale si dirama una serie di strutture radiali secondo il caratteristico impianto di molti edifici di spettacolo di età romana. Secondo gli studiosi non ci sono dubbi: è una porzione del teatro della città friulana. Questo ritrovamento ci conferma ancora una volta che Aquileia fosse una città ricca, amante dell’arte e dello spettacolo.
Le Grandi Terme furono scoperte all’inizio del ‘900 e solo una parte di esse è stata riportata alla luce. Ad oggi sono emersi il settore del calidarium (a parte delle terme romane destinata ai bagni in acqua calda e ai bagni di vapore), del frigidarium (dove potevano essere presi bagni in acqua fredda) e le palestre, decorate con magnifici mosaici, in parte conservati nel Museo Archeologico Nazionale. Le terme si estendevano per più di 20.000 metri quadrati ed erano ornate con colonne in marmi policromi, pavimenti in mosaico, capitelli figurati e trabeazioni in marmo con decorazioni floreali. Grazie un’incisione, si è potuto risalire al nome originale delle Grandi Terme: Terme Felici Costantiniane. Furono dedicate quindi all’imperatore Costantino, nel IV sec. d. C., ma probabilmente furono erette in precedenza, intorno alla seconda metà del II sec. d. C..
LA BASILICA PATRIARCALE
Santa Maria Assunta
Di particolare rilevanza artistica e culturale è la Basilica Patriarcale leggermente decentrata rispetto al nucleo principale di Aquileia: sorge a lato della via Sacra, affacciando su piazza del Capitolo, assieme al battistero e all’imponente campanile.
Il nucleo più antico è formato dalla Aule Paleocristiane, fondate nel IV sec d.C. dal vescovo Teodoro con l’appoggio dell'imperatore Costantino e testimonianza indelebile del ruolo decisivo svolto dalla città nella diffusione della religione cristiana del primo Medioevo.
Magnifici i mosaici pavimentali che si ammirano all'interno e all'esterno della basilica, dalla quale si può accedere alla Cripta degli affreschi, decorata con affreschi di gusto bizantino.
I danni causati dal terremoto del 988 costrinsero l’allora patriarca Poppone ad attuare, nel 1031, un radicale restauro in forme romaniche, con influenze carolinge-ottoniane, che culminò con la costruzione del grande Palazzo Patriarcale (oggi distrutto) e dell'imponente campanile alto oltre 70 metri che domina la campagna friulana.
Dopo un ulteriore restauro a seguito del terremoto del 1348, l'ultimo grande intervento nella Basilica venne effettuato nel Cinquecento, quando artigiani e carpentieri veneziani furono chiamati per realizzare l'imponente soffitto ligneo che ancora oggi si può osservare.
L’edificio è rettangolare, di circa 90 metri per 66, ed è costituito da due spazi allungati separati da un cortile centrale. Probabilmente la copertura del magazzino era sorretta da robusti pilastri, disposti in relazione con i rinforzi delle pareti esterne per conseguire un corretto sistema statico.
Questo edificio sottolinea anche le grandi capacità dei costruttori romani verso la fine del III secolo d. C. poiché, oltre alle caratteristiche già riportate, possedeva anche spessi muri perimetrali che raggiungevano i 2 metri e profonde fondamenta, almeno a 5 metri sottoterra.
I MOSAICI
Il buon pastore
Aquileia - Pavimento della basilica - 1a metà del IV secolo
Aquileia - Uno splendido mosaico
Interno della Basilica con vista del pavimento a mosaico
Storie di Giona
SEPOLCRETO ROMANO
Museo archeologico di Aquileia
Colonna Traiana ci racconta…
Colonna Traiana - Classiarii che salpano dal porto di Brindisi, secondo porto della costa italico-adriatica. n.59: secondo porto della costa italico-adriatica.
n.63: quarta tappa, forse Aquileia (?). La marcia continuerà fino al Danubio, percorrendo la vias Gemina fino a Singidunum.
Rilievo scultoreo di Mitra (culto di legionari romani), oggi conservato presso il Museo archeologico nazionale di Aquileia.
Statua di Augusto (che utilizzò Aquileia quale quartier generale per le campagne militari degli anni 13-9 a,C.) (Museo archeologico cittadino).
Busto bronzeo forse di Massimino il Trace, il quale trovò la morte presso la città di Aquileia (Museo archeologico cittadino).
Statua priva di testa appartenente ad ammiraglio romano (presso il Museo archeologico di Aquileia).
Carlo GATTI
Rapallo, giovedì 13 Febbraio 2020