… Quando s’andava per pagelli …
Le estati del dopoguerra erano calde e di notte si cadeva tra le braccia di Morfeo sotto la zanzariera in giardino, cullati dallo swing che saliva in collina dalla Taverna Azzurra. Eravamo cresciuti in fretta sotto le bombe di Pippetto e c’era una gran voglia di allontanare le paure degli sfollamenti, degli umidi rifugi e dei proiettili che piovevano senza preavviso. Il peggio era passato e con gli amici di famiglia, ogni lunedì, si rendeva omaggio alla vita in mare aperto e poi sulla spiaggia. Mio padre e i suoi amici ci mettevano al remo e noi li portavamo a pescare i pagelli al largo di Zoagli. Mio fratello Pino aveva già una bella cascetta mentre io difendevo il mio posto di lavoro gonfiando ‘a muscolatûa d’un peccetto’ (la muscolatura di un pettirosso) improvvisando smorfie da vogatore esperto.
… Il rito che precedeva la partenza …
Il castello negli anni ‘50
L’appuntamento era intorno alle 04 sugli scogli posti di protezione all’antico Castello ‘per fâ a stramüse’ *(stramuggine, chiamata anche tramuise nel ponente genovese). Questi vermi d’acqua di mare, lunghi due o tre centimetri, dimoravano in blocchi di sabbia sommersi e si muovevano in una ragnatela di gallerie sapientemente architettate; oggi, gli amici delle Nagge mi dicono che quelle esche sono in fuga da tempo, ma nessuno sa per quale rotta e perché…
Un bell’esemplare di pagello, era l’obiettivo della spedizione…
Un tempo questo vermicello copriva interamente l’amo del bolentino e diventava invisibile all’ignaro pagello che rimaneva fregato. Questa preda era il principe del medio fondale, un pesce estremamente combattivo e lo ricordo come un grande ‘ribelle’ anche quando era di taglia modesta. Il pagello era un ambito trofeo di cui fregiarsi al rientro sull’imbarcadero di Langano! Sotto il sole cocente il suo dorso abbagliava come una pietra preziosa e la livrea bruno-rosato sfumava elegante sui fianchi.
La focaccia era ancora calda: “attenzion che no se bàgne” . Il vino bianco era appena uscito dalla ghiacciaia: “attenzion che no s’inverse”. Ogni movimento intorno a quel lungo e pesante gozzo ligure assomigliava ad un rito antico, che ogni lunedì veniva celebrato in onore della dea della pesca e della navigazione. *(Artemide era venerata a Creta come Dictunna, inventrice delle reti).
Nessuno parlava. Il buio disegnava ombre che proiettavano sangue dagli occhi e dalle mani: la mattanza di pagelli nel mare nostrum apriva lentamente il suo palcoscenico.
Non era una facile cattura! Ma Leo, il nostromo di bordo, conosceva le armîe, *(punti di riferimento a terra) e non si sbagliava mai. Solo lui intuiva i movimenti del pagello sui fondali misti di fango, sabbia, scoglio, ma che non disdegnava neppure la posidonia. Leo aveva una specie di grande orecchio che avvertiva il grufolare del pesce, indicava un lato e sussurrava in dialetto misto: “danni un anticchia de remmo!” Sembrava che lo stesse pedinando a 200 metri di distanza e, noi ragazzi, ci sentivamo presi per il c…! Ma alla fine aveva sempre ragione lui.
Neppure da ubriaco o sotto tortura avrebbe confidato a qualcuno i suoi segreti, figuriamoci alla bassa forza imbarcata… cioé noi. Al solo parlarne gli si gonfiavano le vene del collo e cominciava a sbuffare come un toro…. Era un tabù e basta! C’era di mezzo l’amicizia, la stima, la tradizione, la cultura di generazioni di pescatori della costa e, soprattutto il lunedì, diventato il giorno più sacro della settimana. L’ armîa era il segreto da non profanare, da non spantegâ in gïo ai ciaetezzozi *(da non confidare ai pettegoli) della domenica, anzi del lunedì perché sarebbe finita la festa!
Già! Ma perché si partiva sempre di lunedì? E’ semplice! Era il giorno di chiusura dei parrucchieri. Leo era uno stimatissimo figaro siciliano di Caroggio Drito, eccellente pescatore con il bolentino, era l’unico rapallese importato che conosceva le armîe dei pagelli nel nostro golfo. Di lui ricordo la carnagione afro-mediterranea ed il profumo dolciastro di quei capelli neri, lisci e lucidi, una simpatica moglie rapallina e una parlata ligure-siciliana che mi risuona ancora oggi nelle orecchie. Che tempi?!
Non so per quale ancestrale prurito…?! Ma si doveva arrivare all’alba sulla fossa dei pagelli. Si diceva che dovevamo essere puntuali con la prima colazione. Nel dopoguerra, tanti erano rimasti rintronati dalle bombe e parlavano con le anime dei defunti, Leo parlava con i pagelli e tutti si fidavano della sua magia.
Il gozzo ligure
Si vogava alla gran puta con quei remi pesanti del gozzo ligure di Leo, fino a quando un gesto scaramantico segnalava l’arrivo nella la zona P. Leo prendeva i remi in mano e cominciava a fare strane serpentine. A volte la sceneggiata durava anche 15 minuti e alla fine partiva l’ordine: “cala trinchetto”! Noi ragazzi ci eccitavamo a scrutare il viso in tensione degli anziani che mugivano ad ogni metro di lenza salpata, inveivano e poi esultavano quando sentivano il peso del pagello che saliva lottando da quella prodondità. “Belin! U saiâ tre chilli!” Ne ipotizzavano le misure e noi staccavamo lo sguardo dai loro volti solo quando il pagello arrivava sottobordo.
Il momento tanto atteso
A noi ragazzi, con meno astuzia dei pagelli, succedeva di perderli proprio nell’ultimo strappo contro la falchetta della barca. Era come prendere un colpo basso nel momento che le stavi dando…
Ognuno si scegli i propri amici…
Erano pagelli rosati che odoravano di mare nostrano, pulito, inconfondibile e poco prima di mezzogiorno, si rientrava alla base. Dove? C’é una baia che oggi pochi giovani conoscono, si chiama Marina di Bardi (Zoagli). A 20 metri dal bagnasciuga c’era un massiccio muraglione costruito dalla Todt germanica come difesa antisbarco. A ridosso di quel muro le ‘nostre’ madri, mogli, amiche e qualche invalido rimasto a terra… preparavano il fuoco con la legna che il mare aveva ammucchiato d’inverno. Noi ragazzi remavamo verso terra mentre i vecchi pulivano il pesce con l’acqua di mare. Ho ancora quei profumi salmastri nel naso e la nostalgia di quei tempi nel cuore. Si mangiava, beveva e si scherzava fino al tramonto. I vecchi parlavano ‘grasso’, noi facevamo finta di non capire… era un film di felliniana memoria.
Fascisti, partigiani, bombardamenti e racconti di scontri in collina. Tutto finiva nel vino, nella farinata, nei polpettoni, nell’amicizia, nella ritrovata libertà e nella speranza di un futuro migliore.
Dalla fossa dei pagelli, Rapallo sembrava scolpita ai piedi di verdi colline che ondeggiavano pulite tra le Crêuze de mä.
Carlo Gatti
Rapallo, 20 settembre 2013