Manuela Maria Campanelli, biologa e giornalista per diverse testate tra cui il Corriere della sera, si occupa di divulgazione scientifica dal 1992.
I SUONI DEL MARE
Anche le aragoste emettono suoni che nel loro complesso si uniscono in una singolare sinfonia. O meglio producono segnali acustici sonici e ultrasonici in particolari condizioni di stress. Questa scoperta, fatta dal Gruppo di Bioacustica dell’Istituto per l’ambiente marino costiero (Iamc) del Cnr di Capo Granitola, conferma che, se l’orecchio umano potesse captare anche lunghezze d’onda superiori ai 15-20 Kherz, percepiremmo il mare in modo del tutto diverso. Da muta distesa d’acqua diventerebbe un mezzo capace di diffondere un chiacchierio di note usate dagli animali marini per comunicare tra loro. Immaginare dunque il mare come un insieme di ecosistemi caratterizzati da una propria firma acustica è possibile, tanto più che attraverso di esso i suoni si propagano con una velocità di circa 1.500 metri al secondo e possono coprire distanze di migliaia di chilometri. Senza neppure vederlo, ma solo sentendolo, potremmo riconoscere per esempio un posidonieto proprio là in prossimità di una spiaggia o un mare più profondo o una barriera corallina. Suoni dai toni e frequenze diversi si alternerebbero a seconda dei paesaggi marini che incontreremmo. Potrebbero essere anche così rumorosi da farci tappare le orecchie.
Legittima difesa
Ma ritorniamo alla ricerca. <<Dalla letteratura si sapeva che le aragoste, come del resto altre specie di crostacei, generavano suoni che tuttavia per la prima volta sono stati caratterizzati e associati a precisi comportamenti>>, spiega Giuseppa Buscaino, ricercatore dell’Iamc. Venti esemplari della specie Palinurus elephas, vivi e mantenuti in vasca salata, sono stati monitorati per mezzo di due telecamere, una subacquea e l’altra posta al di sopra di essa, quando erano attaccate singolarmente o in gruppo da due loro acerrimi nemici: il grongo e il polpo. Il risultato? Emettevano suoni brevi, quasi metallici, uniti tra loro, come si può ascoltare dall’audio allegato. Registrati con un idro microfono reso impermeabile, collegato a un pre-amplificatore e acquisito con una scheda di conversione analogica-digitale, sono stati attentamente studiati.
Comportamenti a “rischio”
I ricercatori hanno così notato che correlavano con alcune posizioni di questi animali marini, per esempio con il cosidetto “tail flip (rapida flessione dell’addome che fa spostare l’aragosta a reazione da un punto all’altro) o con lo stato di ”alert” (animale sta dritto sulle zampe posteriori). <<Si è pertanto capito che i suoni emessi erano veri e propri segnali prodotti per avvertire gli altri di un imminente pericolo e per attuare una strategia collettiva di difesa>>, dice Giuseppa Buscaino. <<Al loro suono le aragoste si avvicinavano le une alle altre e puntavano all’esterno le loro antenne ricche di spine capaci di formare una barriera fisica molto efficace contro i predatori>>.
Il canto dei cetacei
Molti animali acquatici hanno evoluto sistemi complessi per ricevere ed emettere suoni. <<I delfini sono alcuni di questi. Emettono fischi udibili ma anche i cosidetti click, impulsi ad ampia banda di frequenza, udibili e non udibili, per avvicinarsi alle barche dei pescatori, sfruttare i loro attrezzi di pesca e ridurre gli sforzi della pesca>>, ci dice Giuseppa Buscaino, riferendosi ai risultati di una ricerca in corso nel Mar Ionio. In realtà questi click sono parte di un sonar: generati da sacche aeree in comunicazione con lo sfiatatoio, incontrano l’oggetto (in questo caso l’attrezzo luminoso a intermittenza che attira i pesci) e parte della loro energia tornando indietro viene captata dalla mandibola (hanno perso il padiglione esterno!) dotata di un grasso a bassa impedenza acustica che la trasferisce direttamente all’orecchio medio. Analizzando il ritardo, calcolano la dimensione e la distanza dalla preda. I furbetti pare abbiano imparato a immergersi solo quando quest’ultima si avvicina molto alla superficie.
Manuela Campanelli
Rapallo, 28 luglio 2018